Giuffré Editore

Affidamento fiduciario testamentario

Vincenzo Barba

Ordinario di Diritto privato Università di Roma “La Sapienza”


Introduzione 

L’atto di ultima volontà e, tra essi, il testamento è senza dubbio l’area della autonomia privata in cui il profilo della fiducia e dei rapporti fiduciari ha storicamente rivestito un ruolo determinante. La ragione è molto semplice quando si consideri che l’atto di ultima volontà è, per sua natura, destinato a produrre effetti quando il suo autore sia mancato ai vivi e, dunque, in un momento in cui egli non soltanto non potrà curare la esecuzione di quelle volontà, ma non potrà neppure assumerne di nuove, continuare a curare interessi di persone care, o attuare un eventuale programma o scopo che si sia già prefisso.

Il nostro ordinamento giuridico, non diversamente da altri ordinamenti contemporanei, ha offerto alcune risposte a queste aspirazioni della persona attraverso istituti giuridici che trovano il loro fondamento proprio nel rapporto di fiducia. Si direbbe, anzi, che quest’ultimo ha trovato una emersione positiva almeno in tutti i casi in cui non svilisce la decisione dell’autore dell’atto di ultima volontà, ma anzi, la rafforza e ne garantisce l’attuazione. In questa direzione si spiega il ruolo e l’importanza dell’esecutore testamentario, le norme che consentono al testatore di rimettere all’arbitrio del terzo la individuazione del beneficiario tra piú persone o categorie di persone determinate dal testatore stesso, le norme che consentono al testatore di dare al giudice indicazioni circa la persona che debba ricoprire l’incarico di tutore, curatore o amministratore di sostegno del figlio per il tempo successivo alla sua morte, le norme che consentono la costituzione di una fondazione o di una fondazione di famiglia, le norme che consentono la costituzione di un fondo patrimoniale. Si spiega, anche, la singolare disciplina dettata per il caso di disposizione a favore di persona interposta, la quale esclude l’azione volta a far accertare che la disposizione è a beneficio di persona diversa da quella indicata nel testamento, senza, però, porne la nullità e, dunque, senza escludere la sua possibile esecuzione volontaria da parte della persona incaricata[[1]].

Mettendo queste norme a sistema è plausibile affermare che l’ordinamento giuridico guarda con favore agli istituti che, nel rispetto della autonomia della decisione dell’autore dell’atto di ultima volontà e dei diritti riservati ai legittimari, consentono l’attuazione della volontà e la realizzazione di programmi e progetti che la persona intende che siano perseguiti anche nel tempo in cui avrà cessato di vivere.

Strumenti di attuazione di rapporti fiduciari, che nella prassi acquistano importanza sempre crescente, dovrebbero essere, dunque, analizzati con spirito positivo, assumendo consapevolezza che le diffidenze che la giurisprudenza italiana, spesso, ha manifestato nei loro confronti dipende non tanto dallo strumento in sé considerato, quanto dalla esigenza di garantire la piena tutela dei diritti dei legittimari e dal sospetto, non sempre infondato, che taluni di questi istituti siano stati utilizzati non per il perseguimento delle finalità loro proprie, ma allo scopo di eludere discipline imperative, come quelle fiscali o di tutela dei legittimari o di parità di trattamento.

In questa prospettiva si possono spiegare e credo che debbano essere spiegate, anche al di là dell’ambito proprio degli atti di ultima volontà, la difficile storia del trust, l’insuccesso delle fondazioni di famiglia, le iniziali e non del tutto superate diffidenze verso i vincoli di destinazione, l’idea che al patto di famiglia debbano partecipare, sotto pena di nullità, tutti i legittimari, la disciplina dell’art. 2929-bis c.c., sulla espropriazione dei beni oggetto di vincoli di indisponibilità o di alienazioni a titolo gratuito[[2]]. In altre parole, occorre considerare che istituti giuridici capaci di generare un rapporto fiduciario non soltanto non debbono destare sospetto, ma devono essere valutati con rinnovata attenzione, nella consapevolezza che si prestano, specie quando siano connessi ad atti di ultima volontà, a dare attuazione alla volontà del suo autore e ad attuare scopi e programmi che, in molti casi, hanno una importanza assai significativa, in guisa che risultano attuativi di quello stesso principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost. Si tratta, cioè, di strumenti che potrebbero risultare perfettamente coerenti con i princípi e i valori costituzionali e che potrebbero, perfino, risultare indispensabili.


Il negozio di affidamento fiduciario: cenni ricostruttivi 

L’importanza sempre crescente dei rapporti fiduciari non è testimoniata soltanto dal successo del trust[[3]] c.d. interno, sulla cui storia e sulla cui ammissibilità nel nostro ordinamento giuridico non avrebbe senso insistere, non soltanto dalla rinnovata attenzione del legislatore nazionale al tema dei vincoli di destinazione, che hanno ricevuto importanti riconoscimenti legislativi (cfr. artt. 2645-ter[[4]] c.c., 2447-bis c.c.), ma, anche e soprattutto, dal recente fiorire del negozio di affidamento fiduciario, il quale è stato recentemente nominato nella legge 22 giugno 2016, n. 112[[5]] (nota come legge sul dopo di noi)[[6]].

Al di là di questo richiamo, nel nostro ordinamento giuridico non esiste una specifica disciplina del negozio di affidamento fiduciario e la sua elaborazione è frutto, prevalentemente, della indagine di dottrina[[7]], alla quale è indispensabile aggiungere, anche per le importanti conseguenze in termini di diritto privato internazionale, la ricca disciplina dell’istituto offerta dalla legge di San Marino 1° marzo 2010, n. 43.

La circostanza che il negozio fiduciario non sia espressamente regolato dal nostro legislatore, non esclude, ovviamente, la possibilità che esso trovi cittadinanza nel nostro ordinamento, specie se si accerti la sua idoneità a dare assetto a interessi meritevoli di tutela e la sua idoneità a offrire risposte concrete e adeguate a interessi propri della nostra contemporaneità.

Ovviamente, in assenza di una disciplina specifica, occorre non soltanto cogliere il senso di questo istituto, ovverosia l’interesse che esso intende realizzare, marcando la sua differenza dal trust e dai vincoli di destinazione[[8]], ma anche verificare attraverso quali strumenti tecnici questo risultato possa essere, concretamente, realizzato nel nostro ordinamento giuridico e quale sia la resistenza di questi strumenti rispetto a interessi contrari.

In primo luogo, proprio perché intendo porre attenzione prevalente all’atto di ultima volontà, preferisco discorrere di negozio di affidamento fiduciario, piuttosto che di contratto di affidamento fiduciario. L’esaltazione del profilo contrattuale, che pure sembra costituire la prospettiva dominante, finirebbe per relegare questo istituto dentro le maglie del negozio tra vivi, sottraendolo sostanzialmente all’atto di ultima volontà. Occorre, dunque, prescindere dalla struttura dell’istituto e fermare l’attenzione sulla sua funzione, nella piena consapevolezza che ciò che nella contemporaneità domina è sempre la seconda e che la struttura varia in base alla funzione[[9]].

A questo proposito, movendo dalla disciplina positiva della legge di San Marino, che credo possa essere utilizzata per individuare il paradigma funzionale di questo istituto e, dunque, i connotati capaci di segnarne l’identità, ritengo sia possibile affermare che l’affidamento fiduciario è quel negozio con il quale un soggetto determina un programma in vista della cui realizzazione destina un bene o un complesso di beni a favore di uno o piú beneficiari[[10]]. Non si tratta di un bene o complesso di beni destinato a realizzare uno scopo, ma, all’esatto inverso, un programma per la realizzazione del quale è costituito un patrimonio affidato, che ha rispetto al programma non soltanto carattere strumentale, ma anche carattere fungibile.

Ne viene, dunque, che gli elementi essenziali del negozio di affidamento fiduciario sono: la determinazione di un programma[[11]]; un bene o un complesso di beni destinati alla realizzazione del programma, che possiamo chiamare patrimonio affidato; i beneficiari[[12]] o le modalità di determinazione dei beneficiari del patrimonio affidato e dei suoi eventuali frutti; l’affidatario[[13]], ossia la persona alla quale viene affidato il compito di realizzare il programma e, dunque, il compito di amministrare il patrimonio affidato con piena autonomia, ma nel rigoroso rispetto dell’attuazione del programma.

Significativa, per la duttilità degli interessi che concorre a realizzare[[14]], potrebbe essere anche la posizione di un garante, ossia la posizione di una persona che abbia la funzione di controllare l’operato dell’affidatario e alla quale potrebbe essere chiesto di esprimere, in caso di compimento di atti di disposizione del patrimonio affidato particolarmente importanti, pareri, facoltativi, obbligatori o vincolati[[15]].

Al di là di elementi essenziali e protagonisti del negozio fiduciario, perché questo istituto possa svolgere la sua funzione, occorre una disciplina che, per un verso, consenta di sostituire il precedente affidatario con uno successivo nell’ipotesi in cui il primo non possa o non voglia proseguire nell’incarico e, per altro verso, attribuisca al garante o ai beneficiari o a un terzo il potere di sostituire l’affidatario, qualora questi compia atti che siano in contrasto con il programma o che pregiudichino l’attuazione di esso. Questi interessi possono realizzarsi attraverso la combinazione di clausole condizionali che, al verificarsi del fatto dedotto (compimento di atto contrastante al programma), determinino la cessazione dall’incarico del precedente affidatario e il sorgere in capo ad altri del potere di nomina di un nuovo affidatario. Dimostrando che la centralità del programma è capace di superare anche il ruolo dell’affidatario, il quale conserva questo nome non per il rapporto di intima fiducia che lo lega o legava all’affidante, ma per la piú semplice ragione che è la persona alla quale è affidato il patrimonio, strumentale alla realizzazione del programma. Non è da escludere che la sostituzione dell’affidatario possa realizzarsi anche attraverso lo strumento della cessione del contratto. In tale caso, però, dovrebbe ipotizzarsi quale sia la parte cedente e, soprattutto, diventerebbe piú difficile da immaginare nel caso di affidamento fiduciario testamentario.

Da ultimo, occorre che il negozio sia assistito da una clausola di unico rimedio[[16]], ovvero da una clausola per effetto della quale si stabilisca che l’inadempimento dell’affidatario o di altri protagonisti della vicenda negoziale e le eventuali sopravvenienze ed eventi esterni non possano determinare la risoluzione del negozio, ma, il solo (per questo motivo nella prassi prende il nome di clausola di unico rimedio) risarcimento del danno o indennizzo[[17]]. Si direbbe, anzi, che questa clausola debba considerarsi connaturata alla logica stessa del negozio di affidamento fiduciario, considerando che l’attuazione del programma, che costituisce il profilo saliente del negozio, sarebbe incompatibile con ogni disciplina risolutoria e coerente soltanto con rimedi di natura puramente risarcitoria o indennitaria. Dovrebbe, dunque, potersi concludere che la clausola di unico rimedio costituisca una sorta di contenuto essenziale e necessario, in guisa che, anche in assenza di una espressa regola in questo senso, questa regolamentazione deve considerarsi necessaria per garantire l’attuazione del programma. Dovrebbe, dunque, concludersi che la esclusione di rimedi risolutori o demolitori costituisce un effetto naturale del negozio di affidamento fiduciario.


Segue: il patrimonio affidato 

Svolte queste iniziali considerazioni non può dubitarsi che il vero punto nevralgico dell’affidamento fiduciario è il patrimonio affidato. Perché si possa concepire questa figura occorre, infatti, che il patrimonio affidato rimanga sostanzialmente immune rispetto alle vicende che possono occorrere all’affidatario e che esso costituisca garanzia generica soltanto di quei soggetti il cui diritto sia sorto in funzione e in attuazione del programma[[18]].

Se il patrimonio affidato non fosse immune rispetto a vicende che possono occorrere all’affidante o all’affidatario, la realizzazione dello stesso programma potrebbe essere seriamente compromessa. Occorre, dunque, che il patrimonio affidato rimanga insensibile sia rispetto a vicende relative al regime patrimoniale familiare dell’affidante e/o dell’affidatario, sia alla loro successione sia, infine, ai loro creditori personali[[19]]. Occorre, cioè, che questo patrimonio sia segregato, di guisa che costituisca una garanzia generica non di tutti i creditori dell’affidante e/o dell’affidatario, ma soltanto dei creditori del programma[[20]].

In altri termini, si pone il medesimo problema che aveva posto il trust. Non credo, ancorché questo discorso possa apparire di retroguardia, che si possa sfuggire da esso e credo che, ancora una volta, occorra avvertire la radicale distinzione che c’è nel nostro ordinamento giuridico tra destinazione e segregazione[[21]].

La destinazione[[22]] implica soltanto la assegnazione di un bene alla realizzazione di uno scopo, la quale può realizzarsi con un semplice negozio unilaterale, con il quale il soggetto, titolare del bene, decide di vincolare il bene stesso alla realizzazione di quello scopo. La destinazione di un bene[[23]] si risolve, sostanzialmente, nell’assunzione dell’impegno a non mutare la destinazione del bene e nell’impegno a gestirlo in conformità al vincolo medesimo, ossia nell’assunzione di un obbligo di non facere e in uno di facere. Ciò significa che la destinazione ha, tendenzialmente, carattere obbligatorio e vincola soltanto il soggetto o i soggetti che hanno costituito il vincolo.

Ciascuno di noi può decidere di vincolare un certo bene a uno scopo, dacché questo non significa altro che assumere l’impegno a utilizzare quel certo bene conformemente a quello scopo e a non distrarlo da quello scopo, almeno fino a quando non cambi la regola. Se soltanto si pensi a un professionista che sia proprietario di un immobile, nel quale decide di fissare il proprio studio, non si può dubitare che ciò implichi una destinazione di quel bene. Non diversamente esiste una destinazione quando una famiglia (recte: i componenti della famiglia) decidono di mettere da parte una somma di danaro per un viaggio. Quel danaro è destinato al viaggio e tutti i componenti si impegnano a non usare quel danaro per altri scopi e a non distrarlo da quello. Ovviamente questa destinazione vale fin quando dura l’impegno, ossia fino a quando non si cambi la regola, o piú esattamente, fin quando tutti i soggetti che si erano impegnati a quella destinazione non decidano un’altra e diversa destinazione, o la cessazione stessa del vincolo.

Non può, dunque, dubitarsi che la destinazione, nella sua configurazione piú semplice, si risolve in puro vincolo di natura obbligatoria, che incide soltanto sul soggetto o sui soggetti che hanno posto il vincolo e che la sua violazione può determinare, soltanto conseguenze, di tipo risarcitorio e mai l’inefficacia dell’atto contrario.

Perché la destinazione possa essere opposta a terzi, ossia perché i terzi non possano compiere atti in pregiudizio della destinazione, è necessario che l’atto sia loro opponibile, ossia che si possa dare uno strumento pubblicitario che consenta di opporre il titolo (l’atto dal quale la destinazione è sorta) ai terzi. Nel nostro ordinamento giuridico, occorre differenziare a seconda che si tratti di beni immobili o mobili iscritti in pubblici registri, oppure di beni mobili. Nel primo caso la opponibilità è realizzata attraverso la trascrizione dell’atto nei registri immobiliari, mentre nel secondo è necessario e sufficiente che l’atto abbia data certa.

La opponibilità, tuttavia, non basta affinché il bene vincolato sia estraneo alle vicende che riguardano il titolare del patrimonio e sottratto alla garanzia generica dei suoi creditori, dacché serve, soltanto, a impedire che terzi possano compiere atti in pregiudizio della destinazione medesima.

Perché si possa ottenere un risultato segregativo, ossia perché il bene o il complesso di beni rimanga insensibile rispetto alle vicende del titolare, in guisa che costituisca una sorta di patrimonio idealmente separato (estraneo anche alla sua successione), occorre una precisa norma di legge che stabilisca questo effetto[[24]].

Tutto ciò significa che il negozio di affidamento fiduciario perché possa realmente funzionare deve potersi giovare di un meccanismo segregativo, in difetto del quale non riuscirebbe a garantire la sua piena utilità.

Prima ancora di verificarne la sua realizzabilità per testamento e la sua differenza dal trust, occorre, allora, verificare se esista nel nostro ordinamento giuridico uno strumento generale segregativo, capace di rendere il patrimonio affidato separato dal patrimonio personale dell’affidatario.

Al riguardo non dubito che si possa dare una risposta di segno positivo[[25]].

Si possono dare due diverse modalità di segregazione che potremmo definire l’una come l’affidamento fiduciario interno e l’altra come affidamento fiduciario di diritto interno.

Nel primo caso sarebbe possibile valersi direttamente della disciplina di San Marino, per il tramite della Convenzione dell’Aja 1° luglio 1985, ratificata in Italia con la L. 16 ottobre 1989, n. 364[[26]]; nel secondo, invece, della disciplina posta dall’art. 2645-ter c.c., la quale è, a mio giudizio, una norma di portata generale[[27]], che ha legittimato nel nostro ordinamento giuridico il principio della articolazione del patrimonio della persona[[28]].

Muoviamo dalla prima ipotesi che ho definito affidamento fiduciario interno. Considerando che la Convenzione dell’Aja stabilisce, all’art. 2, che per trust si intendono tutti i rapporti giuridici nei quali un patrimonio viene posto sotto il controllo di un soggetto nell’interesse di un beneficiario o di uno scopo, credo possibile ricomprendere anche la disciplina dell’affidamento fiduciario di cui alla legge di San Marino. Ciò starebbe a significare che, combinando queste due discipline, sarebbe ben possibile concludere un negozio di affidamento fiduciario tutto interno (ossia affidante, fiduciario e destinatari italiani e patrimonio affidato ubicato nel territorio italiano), il cui unico elemento di estraneità sarebbe, per l’appunto, la legge regolatrice. Il negozio di affidamento fiduciario sarebbe, dunque, regolato dalla legge straniera e, in particolare, dalla legge di San Marino. La quale ammette come effetto fondamentale la segregazione del patrimonio affidato (cfr. art. 3).

Molto piú interessante la seconda ipotesi, che ho definito affidamento fiduciario di diritto interno, proprio per rimarcare che il negozio sarebbe interamente retto dalla disciplina italiana. Per conseguire questo risultato occorrerebbe valersi della disciplina portata dall’art. 2645-ter c.c., ossia della disciplina sul vincolo di destinazione[[29]]. Movendo dalla prospettiva che considera la norma in parola di carattere generale e capace di regolare ogni forma di destinazione meritevole[[30]], non credo si possa dubitare della sua utilizzabilità ai fini della segregazione del patrimonio[[31]]. Con intesa che, in questo caso, il vincolo di destinazione sarebbe retto proprio dal negozio di affidamento fiduciario, il quale fisserebbe il programma, rispetto al quale il patrimonio affidato risulterebbe strumentale.

Questa soluzione sembra presentare due soli limiti, rispetto ai quali s’impone qualche considerazione ulteriore.

In primo luogo, in ipotesi di immobili dislocati in diverse Province, sarebbe necessaria la costituzione del vincolo su ciascuno dei beni che costituiscono il patrimonio affidato, sicché non basterebbe una sola trascrizione, ma occorrerebbero tante trascrizioni quante sono le diverse conservatorie competenti per territorio in relazione ai beni affidati. Con intesa che in ipotesi di acquisto di nuovi beni, o di conferimento di nuovi beni occorrerebbe, pur sempre, provvedere alla trascrizione del vincolo. Ove pure volessimo considerare, e ciò mi sembrerebbe possibile, che il patrimonio affidato costituisca una universalità[[32]], non sarebbe possibile superare il problema. Considerare i beni che costituiscono un patrimonio affidato in termini di universalità aiuta, soltanto, per intendere che i beni hanno una destinazione unitaria e che i singoli beni componenti la universalità possono formare oggetto di separati atti e rapporti giuridici, ma non aiuta, né risolve il problema della trascrizione. Non esistendo, a oggi, la possibilità di una unica trascrizione che riguardi tutti i singoli beni facenti parte della universalità, occorre, sebbene ciò possa tradursi in un aggravio economico, che nella nota di trascrizione siano menzionati tutti i beni facenti parte del patrimonio affidato.

In secondo luogo, si porrebbe un problema per i beni mobili, rispetto ai quali non è possibile la trascrizione e, dunque, l’applicazione della norma di cui all’art. 2645-ter c.c. L’impossibilità di trascrivere un atto che riguarda un bene mobile impone di domandarsi se si possa, comunque, realizzare un effetto segregativo, analogo a quello previsto per i beni immobili e mobili registrati dall’art. 2645-ter c.c., oppure se questa possibilità deve considerarsi preclusa.

A voler ragionare in termini formalistici, la soluzione sembrerebbe dover essere di segno negativo, con la conseguenza che il patrimonio affidato potrebbe comprendere soltanto beni immobili e mobili registrati, mentre non potrebbe riguardare beni mobili.

Credo tuttavia che una soluzione di segno contrario debba essere ipotizzata e che la stessa non si possa neanche considerare, aprioristicamente, asistematica se solo si consideri che l’ipotesi risulta espressamente prevista per i frutti, eventualmente, prodotti dai beni oggetto del vincolo di destinazione di cui all’art. 2645-ter c.c.[[33]], e che, in difetto, i frutti stessi potrebbero essere aggrediti da un creditore personale dell’affidatario, oppure potrebbero considerarsi rientranti nella sua eventuale comunione legale, o, ancora peggio, potrebbero considerarsi relictum della sua eredità in ipotesi di decesso. Questa semplice constatazione, la cui portata ha una rilevanza che travalica il problema del negozio fiduciario e investe, piú in generale, qualunque ipotesi di destinazione, credo che ponga con chiarezza i termini del problema e giustifichi l’opportunità di sperimentare una soluzione in grado di garantire che anche i beni mobili possano costituire un patrimonio separato.

Una soluzione a questo problema non può che prendere le mosse dalla disciplina di cui agli artt. 2914, n. 4 e 2915 c.c., nella parte in cui affermano che sono opponibili al creditore pignorante gli atti che importano un vincolo di indisponibilità del bene quando abbiano una data certa[[34]].

Sulla base di queste norme e movendo dal presupposto che la norma di cui all’art. 2645-ter c.c. è espressione di un principio piú generale, che consente l’articolazione del patrimonio della persona, dovrebbe potersi affermare che un atto costituivo di un vincolo di destinazione avente data certa non soltanto è opponibile a terzi, ma diventa, altresí capace, proprio in ragione della sua opponibilità di determinare una segregazione[[35]]. A escludere questa possibilità, si giungerebbe al paradossale risultato che non sarebbe possibile una segregazione di un bene mobile, secondo la disciplina del diritto interno, mentre sarebbe ben possibile attraverso l’applicazione della legge straniera. Se si costituisse un trust dichiarando applicabile la disciplina del Jersey, non si dubita che si potrebbe avere la segregazione del bene mobile, dal momento che essa è specificamente prevista da quella legge.

Anche allo scopo di evitare una tale distonia e nel presupposto che sarebbe opportuna l’introduzione di una norma che, al pari di quanto ha fatto l’art. 2645-ter c.c., per i beni immobili, ammetta una destinazione generale anche per i beni mobili, non credo che questa soluzione debba essere esclusa. Viepiù quando consideriamo che l’art. 2645-ter c.c. è importante non soltanto per la sua disciplina specifica, ma anche per aver chiarito, come anticipato, che nel nostro ordinamento è esistente un principio generale che consente l’articolazione del patrimonio della persona, quando ciò risponda a interessi meritevoli di tutela[[36]]. A ragionare cosí, dovrebbe, quindi, ammettersi che si possa realizzare un fenomeno di segregazione anche del bene mobile e che tale segregazione dipende dalla esistenza di un atto con efficacia segregativa, avente data certa e, dunque, opponibile a tutti i controinteressati.


Affidamento fiduciario versus trust

Valutata la possibilità di porre in essere un negozio di affidamento fiduciario, occorre insistere sulla sua funzione, anche al fine di chiarire la sua differenza rispetto al trust[[37]] e al vincolo di destinazione[[38]].

La differenza rispetto all’ultimo mi pare che sia facile da intendere, quando si consideri, per un verso, che il vincolo di destinazione nella prospettiva dell’affidamento fiduciario è soltanto lo strumento tecnico per la segregazione e, per altro verso, che una destinazione senza affidamento fiduciario si risolve nella mera segregazione del bene.

Benché nella prospettiva nella quale mi sono posto la norma di cui all’art. 2645-ter c.c., lungi dall’essere una norma speciale o, ancor peggio, una norma eccezionale, è piuttosto espressione di un nuovo principio generale del nostro ordinamento giuridico[[39]], che consente e legittima le destinazioni patrimoniali, ossia l’articolazione del patrimonio della persona, consentendo di affermare, in via di interpretazione, che vi è possibilità di realizzare la destinazione del bene mobile, non possiamo certamente negare che il vincolo di destinazione è, per sua natura, di carattere statico.

Il valore aggiunto del contratto di affidamento fiduciario sarebbe offerto non soltanto dal dinamismo della gestione, ma soprattutto dal programma, ossia dall’insieme delle norme negoziali, che dovrebbero costituire l’essenza dello stesso affidamento fiduciario, e che, insieme, non soltanto fissano lo scopo e la funzione dell’affidamento, ma pongono anche le regole di funzionamento della gestione, prevedendo limiti e poteri dell’affidatario, ipotesi di sua sostituzione, individuazione del beneficiario, sistemi di controllo e clausola di unico rimedio[[40]].

La circostanza che il vincolo di destinazione per interessi meritevoli possa essere anche dinamico non consente di sovrapporre il vincolo di destinazione all’affidamento fiduciario, dal momento che il solo dinamismo della gestione costituisce un minus rispetto al programma. A tutto ciò si aggiunga che in un ordinamento giuridico nel quale l’affidamento fiduciario non è una figura positiva risulta molto difficile affermare o dire in cosa esso si differenzi da altre figure positive. Questa differenziazione presupporrebbe, infatti, una tipizzazione legale del negozio, che nel nostro ordinamento giuridico manca, rendendo un discorso per somiglianze e differenze di limitata utilità.

Ciò che davvero conta non è né la tipizzazione, né la qualificazione, ma la individuazione della disciplina applicabile al caso concreto. Il problema del giurista non è tanto quello di classificare e qualificare, ma di individuare la disciplina da applicare al caso concreto, avendo riguardo agli interessi in gioco e considerando i princípi in concorso. In un ordinamento costituzionale contemporaneo, la qualificazione non può e non deve trasformarsi in una prigione di disciplina, né deve costringere l’interprete a fare necessaria applicazione di tutte quelle norme dettate per quel tipo e la esclusione di tutte le altre norme dettate per tipi e figure differenti. All’esatto opposto, il giurista deve sempre ponderare gli interessi sottesi nel singolo caso concreto, esaltando ogni profilo del fatto, bilanciare i princípi in concorso e individuare una disciplina che sia ragionevole e proporzionale[[41]].

Non minori sono differenze tra affidamento fiduciario e trust. Nuovamente torna con carattere dirimente il ruolo del programma che costituisce l’essenza dell’affidamento fiduciario, mentre assume una rilevanza molto minore nel trust, nel quale ciò che rileva è la sola segregazione del bene per la realizzazione dello scopo o per la realizzazione dell’interesse del beneficiario.

Non può certo affermarsi che trust e affidamento fiduciario costituiscano universi distinti tra loro, dal momento che si tratta di istituti aventi per effetto, tra l’altro, di segregare un bene o un complesso di beni. Non può, però, trascurarsi quanto possa essere diversa una segregazione che abbia il suo punto di rilevanza nella mera realizzazione dello scopo o nella mera realizzazione dell’interesse del beneficiario, rispetto a una segregazione in cui questo medesimo risultato è mediato dal programma[[42]].

Potrebbe dirsi, mutuando le parole della Convenzione dell’Aja sul trust e quelle della legge di San Marino sull’affidamento fiduciario, che nel trust l’elemento caratterizzante è la mera sottoposizione del bene o del complesso dei beni sotto il controllo di un’altra persona nell’interesse di un beneficiario o di uno scopo specifico[[43]], mentre nell’affidamento fiduciario l’elemento caratterizzante è il programma che destina taluni beni e i loro frutti a favore di uno o piú beneficiari[[44]].

Sotto questo profilo mi pare anche molto diversa la posizione giuridica del trustee rispetto a quella dell’affidatario. Nel primo caso il rapporto di fiducia, nel senso piú tradizionale del termine, ha certamente carattere piú marcato e spiccato, dal momento che il trustee è la persona che il titolare sceglie perché il bene o il complesso dei beni venga posto sotto il suo controllo e il trustee assume una posizione di significativa rilevanza. Diversamente, nell’affidamento fiduciario ciò che rileva con carattere determinante è il programma, in guisa che il rapporto di fiducia, nel senso piú tradizionale del termine, assume un carattere se non secondario, almeno accessorio o sussidiario rispetto al programma.

Mentre la sostituzione del trustee costituisce un evento particolarmente significativo nell’economia complessiva del fenomeno, perché si tratta di un negozio nel quale rilevano, senza meno, le sue qualità personali il suo rapporto personale con il disponente, la sostituzione dell’affidatario non costituisce un evento di straordinaria importanza, proprio perché la sua attività è sempre mediata dal programma. Sotto questo profilo, oltre che su un piano strutturale, può forse spiegarsi perché può dubitarsi dell’applicabilità dell’istituto della cessione del contratto al trust, mentre essa appare plausibile nel contratto di affidamento fiduciario. Potrebbe dirsi che mentre la figura del trustee è tendenzialmente infungibile, al di fuori di quelli che sono i meccanismi di individuazione fissati nell’atto istitutivo, proprio per il rapporto di fiducia con il disponente che lo ha posto in quel ruolo, la figura dell’affidatario gode di una maggiore fungibilità, dal momento che la sua attività rimane pur sempre circoscritta e mediata dal programma.

In breve, mentre nel trust l’elemento caratterizzate è la sottoposizione del bene sotto il controllo del trustee, nell’affidamento fiduciario l’elemento caratterizzante è la predisposizione del programma alla cui realizzazione sono destinati taluni beni. Ciò non ha un valore puramente descrittivo, ma un rilievo significativo in termini di disciplina. Se è vero, infatti, che la disciplina dipende dalla funzione dell’istituto, allora non può negarsi che essa si riflette in modo importante proprio sulla disciplina applicabile al caso.


Negozio di affidamento fiduciario e successione a causa di morte 

La interrelazione del negozio di affidamento fiduciario con il diritto delle successioni a causa di morte si volge a due distinti livelli, che profilano differenti ordini di problemi. Considerando, infatti, che il diritto delle successioni non può considerarsi un mero settore o area del diritto civile, ma, piuttosto, un orizzonte attraverso il quale possono e debbono analizzarsi interessi, patrimoniali e no, della persona e problemi di circolazione giuridica, occorre distinguere a seconda che il negozio di affidamento fiduciario rilevi come atto che influisce sulla regolamentazione della successione, ovvero come atto che trova la sua genesi nel fenomeno successorio. In altri termini, occorre distinguere il caso in cui il negozio fiduciario è stato già posto quando si apre una successione, dal caso in cui il negozio fiduciario è sostanzialmente posto dall’atto di ultima volontà, ossia da un atto capace di regolare la successione della persona.

Nel primo caso l’orizzonte dei problemi che si possono porre ruota intorno alla stabilità del negozio di affidamento fiduciario. Indagando sulla natura di questo atto e, in particolare, sulla sua possibile qualificazione in termini di atto avente natura liberale, occorre verificare se e in che misura esso sia in grado di resistere alla aggressione di eventuali legittimari lesi, dalla aggressione di eventuali creditori della massa o creditori degli eredi e in che misura esso rimane insensibile a vicende relative alla divisione ereditaria e all’eventuale collazione. Si pone, dunque, dapprima una questione che attiene alla sua natura giuridica e, in seguito, nel presupposto che si consideri una liberalità indiretta, tutti i consueti problemi connessi alla regolamentazione di una successione.

Nel secondo caso l’orizzonte delle questioni piú rilevanti attiene al contenuto dell’atto di ultima volontà, ossia alla individuazione degli elementi minimi necessari perché si possa porre in essere un negozio di affidamento fiduciario con un atto di ultima volontà. Questo tipo di problema si scinde in una pluralità di sotto questioni, dacché occorre verificare quale sia la struttura dell’atto, quale debba essere il suo contenuto essenziale e quale sia la sua stabilità. Nella prospettiva, nella quale mi colloco, la quale considera che il testamento non è l’unico atto di ultima volontà del nostro ordinamento[[45]], occorre verificare se il negozio di affidamento fiduciario reclama, di necessità, una disposizione testamentaria o possa realizzarsi anche con un atto di ultima volontà diverso dal testamento. Una volta stabilito se il negozio di affidamento fiduciario reclami una disposizione testamentaria o un mero atto di ultima volontà diverso dal testamento, occorre stabilire quali siano gli elementi minimi essenziali, ossia quale debba essere il contenuto minimo essenziale, in difetto del quale il negozio di affidamento fiduciario non è valido. Infine, occorre verificare quale sia la stabilità della disposizione testamentaria, ossia se l’atto regolativo della successione con il quale si pone un negozio di affidamento fiduciario sia suscettibile di essere aggredito da eventuali legittimari lesi, che possono chiederne la riduzione.


Natura liberale del negozio di affidamento fiduciario 

La prima questione sulla quale occorre una riflessione, assumendo un carattere assorbente e preliminare rispetto a tutte le altre, attiene alla natura del negozio di affidamento fiduciario. Nell’ipotesi in cui si negasse in radice la sua riconducibilità entro l’area delle liberalità[[46]], la maggior parte dei problemi che ruotano attorno al diritto successorio dovrebbe considerarsi definitivamente superata. È noto, infatti, che le questioni attinenti alla determinazione della massa fittizia (art. 556 c.c.) e, dunque, delle quote di patrimonio riservate ai legittimari (art. 536 ss. c.c.), alla imputazione (art. 564, comma 2, c.c.), alla collazione (art. 737 c.c.), alle azione di riduzione (artt. 554 e 555 c.c.) e alle azioni di restituzione (561 ss. c.c.), alla divisione ereditaria e alla collazione (artt. 724, 725 ss. c.c.) si pongono soltanto con riguardo alle liberalità compiute dal de cuius, mentre sono estranee rispetto agli atti non liberali.

Sebbene sia innegabile che in alcuni casi il negozio di affidamento fiduciario possa non avere natura liberale, ben potendo svolgere altre funzioni (es. solutoria, compensatoria o liquidatoria), prendo in considerazione nelle pagine che seguono, le ipotesi in cui esista una intenzione liberale[[47]] del disponente a favore dei beneficiari.

In tale ipotesi, mi sento, certamente di escludere che il negozio di affidamento fiduciario possa considerarsi una donazione in senso proprio, dal momento che nel nostro ordinamento giuridico, perché un contratto sia qualificato tale non basta che una parte intenda arricchire l’altra per spirito di liberalità, ma occorre che l’arricchimento avvenga o attraverso la disposizione di un proprio diritto, o attraverso l’assunzione di una obbligazione verso quella[[48]].

Nel caso del negozio di affidamento fiduciario deve escludersi che questo arricchimento avvenga in una di queste due forme, dacché avviene proprio attraverso l’attuazione del programma e per la mediazione dell’attività giuridica dell’affidatario, il quale amministra, nel rispetto del programma, il bene o il complesso dei beni affidati, impegnandosi ad attribuire quei beni ai beneficiari quando il programma sia completamente realizzato o divenuto impossibile da realizzare.

Ove pure il disponente avesse previsto che l’affidatario possa o debba erogare ai beneficiari, durante l’attuazione del programma, alcune somme o le rendite di alcuni beni, non si dubita che l’arricchimento dei beneficiari sarebbe, comunque, realizzato attraverso la mediazione dell’attività giuridica dell’affidatario.

Escludere che il negozio di affidamento fiduciario possa essere considerato una donazione, consente di affermare che per la sua validità non occorre il rispetto delle forme e formalità specificamente previste per il contratto di donazione.

Scartata la sua riconducibilità alla donazione, è evidente che si tratta di una liberalità indiretta, realizzata dal disponente a favore dei beneficiari[[49]]. L’affidatario non può, infatti, essere considerato beneficiario, ancorché sia titolare del patrimonio affidato. A essere rigorosi l’affidatario non soltanto non è affatto beneficiario, ma è, addirittura parte onerata del contratto, dal momento che lo svolgimento di questa attività[[50]] è certamente impegnativa. Ove pure l’affidatario avesse diritto a un compenso non si tratterebbe, comunque, di un arricchimento, dacché varrebbe come mera prestazione economica per l’attività di amministrazione del patrimonio affidato che al medesimo è demandata.

Nell’ipotesi in cui si tratti di liberalità, occorre anche stabilire quale sia il valore esatto della medesima, dal momento che questo dato è straordinariamente significativo ai fini della materia successoria.

Sebbene si possa essere immediatamente indotti a pensare che il valore della liberalità sia esattamente corrispondente all’arricchimento che ricevono i beneficiari, al termine dell’affidamento, credo che questa ipotesi debba sottoporsi a critica.

Il negozio di affidamento fiduciario presuppone che il bene o il complesso di beni fuoriescano dal patrimonio del disponente e, da quel momento, vengono amministrati dall’affidatario, che ha il compito di attuare il programma, per il quale questi beni sono destinati. A prescindere dal rilievo che nel tempo di durata del rapporto nascente dal negozio di affidamento fiduciario è ben possibile che il patrimonio affidato si incrementi per eventi fortuiti, perché la gestione dei beni ha consentito la produzione di ulteriori frutti, o, addirittura, per eventuali liberalità di altri soggetti che intendano, a loro volta, destinare propri beni per la attuazione di quel programma, non può sottacersi che il valore dei beni potrebbe cambiare nel tempo anche in ragione della gestione dell’affidatario.

Se si movesse dal presupposto, apparentemente ovvio e scontato, che il valore della liberalità deve considerarsi pari a ciò che ricevono o riceveranno i beneficiari per effetto del negozio di affidamento fiduciario, si rischia di considerare un valore che non soltanto potrebbe essere molto diverso dal valore del bene o del complesso dei beni del disponente al tempo di compimento del negozio, ma addirittura che potrebbe risultare assai difficile da stimare, specie se tra la morte del disponente e il tempo di fine del negozio di affidamento fiduciario debba occorrere un lungo lasso di tempo. A ciò deve aggiungersi che la mole dei problemi potrebbe aumentare considerevolmente se durante il tempo di gestione fiduciaria l’affidatario, in attuazione del programma o, per meglio attuare il programma, decida di vendere uno o piú beni del complesso e comprarne di nuovi, in guisa che la composizione stessa del patrimonio affidato risulti radicalmente diversa da quella originaria[[51]].

Alla luce di tutte queste considerazioni, credo che il valore della liberalità debba essere stimato al tempo di costituzione del negozio fiduciario e avendo esclusivo riguardo al valore dei beni che il disponente vincola alla attuazione del programma, prescindendo, dunque, dalla consistenza del fondo affidato al tempo di apertura della successione e, ancor di piú, dalla consistenza del fondo affidato al tempo di cessazione dell’affidamento fiduciario e della attribuzione dei beni ai beneficiari.

Ai fini di stimare la liberalità si considera il valore dei beni che il disponente destina per l’attuazione del programma, attualizzando, ovviamente quel valore al tempo della apertura della successione, escludendo il valore dei frutti prodotti dai beni (arg. ex art. 745 c.c.), ed escludendo i beni che fossero periti per causa non imputabile all’affidatario (arg. ex art. 744 c.c.).

Se la liberalità del disponente a favore dei beneficiari deve considerarsi avere questo valore, non deve neppure trascurarsi che i beneficiari, che certamente sono titolari di un diritto, riceveranno questi beni soltanto nel termine convenzionalmente stabilito, o quando il programma diventi impossibile.

Il diritto dei beneficiari, ben lungi dall’essere un diritto reale sul patrimonio affidato è, piuttosto, un diritto di credito, ossia il diritto di pretendere da parte dell’affidatario, secondo quanto previsto nel programma del negozio fiduciario, i beni o una certa quota di essi.

Ma vi è pure di piú, perché il diritto del beneficiario del negozio di affidamento fiduciario non soltanto è un diritto di credito, ma è anche un diritto a termine (dal momento che esso diventa attuale e concreto soltanto nel tempo in cui viene a scadenza il rapporto o si verifica un fatto che importa la cessazione del rapporto), e potrebbe essere anche un diritto condizionato, dal momento che il disponente potrebbe aver individuato talune circostanze al verificarsi delle quali il beneficiario potrebbe perdere i suoi diritti.

La circostanza che il beneficiario sia titolare di un mero diritto di credito o addirittura di un diritto condizionato spiega e giustifica perché non è indispensabile che il beneficiario sia immediatamente individuato da parte del disponente e che quest’ultimo possa anche limitarsi a indicare i criteri per sua individuazione.

Ne viene quindi: a) che il negozio di affidamento fiduciario, quando è retto da intenzione munifica, deve considerarsi una liberalità indiretta del disponente a favore dei beneficiari, la cui stima, ai fini successori, è pari al valore dei beni che il disponente destina all’attuazione del programma, attualizzato al tempo della apertura della successione; b) che il beneficiario è sempre titolare di un mero diritto di credito a termine, talvolta, anche sottoposto a condizione; c) che l’affidatario, ancorché sia proprietario del bene, proprio in ragione della funzionalizzazione della proprietà alla realizzazione dell’interesse del beneficiario, non può essere considerato beneficiario.


Negozio di affidamento fiduciario e azione di riduzione 

Le tre considerazioni da ultimo affermate consentono di impostare e risolvere alcuni problemi che si pongono in materia successoria.

Nel caso in cui l’affidamento fiduciario sia considerabile come liberalità, occorre tener conto di questo atto al momento di determinare il valore della massa ereditaria fittizia. In particolare, occorre aggiungere il valore dei beni che il disponente ha destinato all’attuazione del programma, con intesa che si deve considerare il valore che quei beni avevano al momento dell’affidamento, attualizzandolo al tempo di apertura della successione.

Non credo si possa dubitare che i beneficiari, qualora siano legittimari, debbano imputare quanto ricevuto a titolo liberale alla propria quota (art. 564, comma 2, c.c.). Il problema della imputazione dipende, però, dal fatto che i beneficiari sono titolari non di un diritto reale, bensì di un diritto di credito a termine. Ciò significa, che costoro debbono procedere a una imputazione del solo valore del diritto di credito.

Nel caso in cui l’affidamento fiduciario determini una liberalità, il beneficiario, qualora ne ricorrano le condizioni, è tenuto all’obbligo della collazione. Ovviamente la collazione riguarda il diritto di credito, dunque, si tratta di una collazione che deve tendenzialmente farsi per imputazione.

Aver affermato, infine, che il negozio di affidamento fiduciario è una liberalità indiretta, compiuta dal disponente, che avvantaggia il beneficiario per la mediazione dell’attività giuridica dell’affidatario, ha importanti conseguenze anche in termini di azione di riduzione e di restituzione da parte di legittimarî lesi.

Se si muove dal presupposto che il titolo in forza del quale il legittimario acquista il bene non è la sentenza di riduzione, bensì la sua qualità di erede, in quanto la sentenza ha il solo effetto di accertare la lesione e rendere inefficace l’atto, con la conseguenza di far ri-tornare il bene, oggetto di liberalità, nel patrimonio ereditario e, di lì, consentirne l’acquisto al legittimario, in forza della sua accertata qualità di erede, ne viene che questo meccanismo è destinato all’inoperatività quando l’azione abbia a oggetto una liberalità indiretta, ossia una liberalità in cui il beneficiario non riceve un vantaggio immediatamente dal de cuius, ma attraverso la mediazione dell’attività giuridica di altro e diverso soggetto. La tutela del legittimario contro una liberalità indiretta non può realizzarsi in natura, ma sempre per equivalente[[52]], anche fuori dal caso indicato dal secondo comma dell’art. 560 c.c.

Ciò che impedisce la tutela reale del legittimario, surrogandovi, di necessità, quella puramente obbligatoria, non è, come, spesso, è stato affermato, la scissione tra impoverimento del disponente e arricchimento del beneficiario[[53]], bensì l’assenza di un atto tra disponente e beneficato. La non coincidenza tra impoverimento (bene di cui si è spogliato il disponente) e arricchimento (bene che accresce o accrescerà il patrimonio del beneficato) è tema che attiene, prevalentemente, all’individuazione dell’oggetto della liberalità indiretta, ossia alla determinazione di quale sia il bene oggetto della liberalità. Tale tema, tuttavia ha, a mio credere, scarsa o, addirittura, nessuna rilevanza rispetto al problema dell’azione di riduzione, in ordine al quale occorre porsi un mero problema di titoli. L’azione di riduzione serve per accertare la lesione del legittimario e per rendere inefficace l’atto compiuto dal disponente, che lede il diritto del legittimario. È stato chiarito, infatti, che il legittimario acquista il (diritto sul) bene oggetto della disposizione testamentaria o della donazione, non già in forza della sentenza, bensì in forza della propria vocazione ereditaria. 

Alla luce di queste considerazioni, non credo si possa dubitare che in caso di negozio di affidamento fiduciario, il legittimario, eventualmente leso, deve agire in riduzione contro il beneficiario dell’atto lesivo. Tale beneficiario non è e non può essere l’affidatario, il quale non trae alcun vantaggio dall’affidamento, che, all’esatto opposto, costituisce per lui un onere significativo, dal momento che deve attuare il programma, senza trarre un vantaggio personale. Il vero beneficiario non può che essere il beneficiario finale, ossia il soggetto che, al termine del programma, o quando il programma non possa piú essere conseguito, acquista il patrimonio affidato. 

Ipotizzare che il legittimario leso possa o debba agire con l’azione di riduzione contro l’affidatario, sol perché costui è il titolare del patrimonio affidato, non mi convince affatto. Non soltanto perché l’azione di riduzione deve essere rivolta contro il beneficiario della disposizione lesiva, ossia contro la persona che, direttamente o indirettamente, ha ricevuto il beneficio da parte del de cuius, ma anche perché al momento dell’apertura della successione, specie se sia intercorso un considerevole lasso di tempo dal momento di costituzione del negozio di affidamento, il patrimonio affidato potrebbe essere integralmente diverso da quello originario, dal momento che l’affidatario potrebbe aver venduto i beni originari e acquistati, con il ricavato, altri. 

Se è vero che la persona realmente avvantaggiata dall’affidamento fiduciario è il beneficiario e se è vero che l’affidatario è, piuttosto, titolare di un vero e proprio ufficio di diritto privato, dovendo egli attuare il programma al quale sono destinati i beni, allora, ne viene anche che la persona contro la quale occorre agire in riduzione è il beneficiario finale. 

Nel momento in cui il legittimario agisse in riduzione contro il beneficiario, chiederebbe, nei limiti necessari ai fini della soddisfazione della propria quota di legittima, l’inefficacia totale o parziale dell’atto lesivo, ossia dell’atto che attribuisce al beneficiario il diritto di credito. All’esito dell’azione di riduzione, l’acquisto del diritto di credito da parte del beneficiario diventerebbe inefficace, in tutto o in parte, e il diritto di credito che ne costituiva l’oggetto tornerebbe nel patrimonio del de cuius o, piú esattamente, nella massa ereditaria. Di lì, stante l’accertamento della qualità di erede del legittimario leso, costui, in forza dell’accertamento, acquisterebbe il diritto. 

Ne deriverebbe, pertanto, che il legittimario leso acquisterebbe, in tutto o in parte, il diritto di credito spettante al beneficiario. Tale diritto sarebbe, però, un diritto a termine, dacché attribuisce al legittimario il diritto a pretendere la prestazione da parte dell’affidatario al tempo di cessazione del programma, o al momento in cui il programma diventa inattuabile. 

Sul punto non credo, sebbene ciò non possa escludersi con sicurezza, che il legittimario leso possa chiedere all’affidatario la immediata soddisfazione del proprio diritto di credito. Si pone un conflitto tra l’interesse del legittimario leso a conseguire immediatamente beni per un valore corrispondente al diritto di credito acquistato in esito all’azione di riduzione e l’interesse del de cuius a che il suo programma possa essere attuato in modo completo. Tutto senza tralasciare di considerare che la immediata valorizzazione, in tutto o in parte, del patrimonio affidato potrebbe determinare un danno, dacché l’affidatario, proprio in esecuzione del programma, potrebbe avere compiuto atti di gestione e amministrazione del patrimonio tali da rendere del tutto pregiudizievole una preventiva liquidazione. 

Considerando i due interessi contrapposti, e considerando che il legittimario non ha diritto a un bene, bensí a un valore, non credo che il legittimario leso, salvo che non si trovi in uno stato di bisogno, possa chiedere la immediata liquidazione del proprio diritto di credito e debba conseguire la liquidazione quando il programma giunge a compimento. Questa soluzione finisce, sostanzialmente, per contemperare entrambi gli interessi: non pregiudica l’interesse del legittimario, il quale acquista, sin da subito, il diritto di credito, ancorché si tratti di un diritto sottoposto a termine; tutela l’interesse del de cuius alla realizzazione del programma disegnato con il negozio di affidamento fiduciario. Non mi pare che l’eventuale interesse del legittimario a una immediata liquidazione del diritto di credito debba considerarsi, anche in una prospettiva attenta agli interessi protetti dal nostro legislatore, prevalente rispetto all’interesse del de cuius alla attuazione del programma. Ciò che il legislatore garantisce al legittimario è una quota astratta del patrimonio ereditario, ossia una tutela di carattere prevalentemente quantitativo. Tale interesse deve considerarsi soddisfatto nel momento in cui il legittimario leso acquista il diritto di credito, ancorché questo credito si risolva nel diritto a pretendere una quota del patrimonio affidato, quando il programma risulti attuato. Inoltre, si consideri che il legittimario acquisterebbe sin da subito il diritto di credito, ancorché esso non sia esigibile e che la non esigibilità non esclude il suo valore e la sua stessa negoziabilità. 

Tutto ciò, ovviamente, non esclude che l’affidatario possa provvedere alla liquidazione immediata della quota spettante al legittimario che abbia agito in riduzione, viepiù se questa previsione sia stata espressamente inserita nel negozio di affidamento fiduciario. 

Sotto questo profilo, a voler ipotizzare un negozio di affidamento fiduciario, che sollevi il minor numero possibile di problemi, potrebbe consigliarsi l’inserimento di una disposizione che, ponga a carico dell’affidatario l’obbligo di liquidare la quota corrispondente al legittimario, prevedendo, se del caso, anche alcune cautele per consentire la liquidazione migliore possibile. Ovviamente non dovrebbe essere un obbligo puro, bensí un obbligo nascente a seguito di richiesta di liquidazione espressamente formulata dal legittimario, che abbia vittoriosamente agito in riduzione. Non è, infatti, da escludere che lo stesso legittimario possa aver interesse a che l’affidatario porti a termine il programma, specie se dall’attuazione di questo programma, il patrimonio affidato possa incrementarsi in modo significativo. Una tale previsione avrebbe il vantaggio di rimettere alle mani dell’affidatario di determinare, secondo le modalità che egli reputa piú appropriate, le modalità con le quali operare la liquidazione o di impiegare, direttamente, eventuali liquidità che siano state prodotte dall’amministrazione del patrimonio affidato. 

Un’ultima considerazione deve farsi con riguardo ai soggetti legittimati passivi all’azione di riduzione. 

Il legittimario leso deve agire in riduzione contro i beneficiari del negozio di affidamento fiduciario. Nell’ipotesi in cui i beneficiari siano già determinati dal de cuius nel negozio di affidamento fiduciario o, successivamente, nel testamento, non credo che si possa dubitare del fatto che costoro saranno i legittimati passivi. 

Il problema potrebbe, però, porsi nel caso in cui i beneficiari non siano individuati, o perché il de cuius ha stabilito nel negozio di affidamento fiduciario che i beneficiari dovranno essere individuati da un terzo, o perché, riservatosi il potere di designarli per testamento, ha disposto, nel rispetto di quanto stabilito dall’art. 631 c.c., che la designazione debba essere fatta da un terzo. 

In queste ipotesi occorre stabilire contro chi debba essere intentata l’azione di riduzione, ossia chi siano i legittimati passivi. Deve, ovviamente, prescindersi dal caso che la mancata designazione dei beneficiari, o il differimento della loro designazione sia fatta al solo scopo di eludere una norma imperativa, o al solo scopo di arrecare un pregiudizio a un eventuale legittimario leso. Ove si desse una tale prova, l’atto dovrebbe considerarsi invalido, perché abusivo. 

Prescindendo da questa ipotesi e, dunque, nei casi in cui il differimento della designazione sia sorretto da un ragionevole e giustificato interesse del disponente, che merita di essere tutelato, è ovvio che occorre individuare un soggetto legittimato passivo, di modo che questa situazione non si traduca in un pregiudizio per l’eventuale legittimario leso. 

Il caso, per quanto possa apparire stravagante, reclama una soluzione analoga a quella che deve proporsi quando il legittimario debba agire contro un legato il cui beneficiario deve essere determinato da un terzo (art. 631 c.c.), o contro una istituzione di erede sottoposta a condizione sospensiva (art. 641 c.c.), o contro una disposizione a favore di un concepito o di un concepturus (643 c.c.). 

La somiglianza tra queste ipotesi e quella che a noi interessa è palese, dacché si danno ipotesi in cui manca, in concreto, un beneficiario, perché ancora non è stato individuato, o perché non è venuto ad esistenza, o perché è incerto chi possa essere. In queste ipotesi, il legislatore, pur con diversità di sfumature e toni, finisce sostanzialmente per il prevedere che l’azione di riduzione, che rimane un’azione volta a far accertare l’inefficacia relativa della disposizione testamentaria lesiva, viene sostanzialmente rivolta all’indirizzo del soggetto che amministra, nell’interesse del beneficiario, il bene o il complesso dei beni. Sicché sembrerebbe ragionevole ipotizzare che nei casi, pur rari, in cui il beneficiario della disposizione lesiva non sia determinato o non sia venuto a esistenza, l’eventuale azione di riduzione debba essere esercitata contro la persona alla quale è affidata l’amministrazione del patrimonio oggetto, diretto o indiretto, della disposizione lesiva. La scelta legislativa è, peraltro, assai ragionevole, dacché la persona alla quale è affidato l’ufficio di amministrare i beni oggetto della disposizione lesiva è l’unica che, in assenza del beneficiario, ha interesse alla conservazione della disposizione medesima. 

Ragionando in questo modo e considerando che le regole richiamate finiscono, sostanzialmente, per esprimere un principio, ancorché tecnico, del nostro ordinamento giuridico, mi pare che questa soluzione debba essere percorsa nel caso prospettato. 

Ciò significa che in assenza di beneficiari già determinati e nelle more della loro determinazione, sempre che questo differimento risponda a un interesse meritevole del testatore, l’azione di riduzione da parte del legittimario leso deve essere esperita contro l’amministratore del patrimonio, ossia contro l’affidatario. Non perché costui sia il beneficiario della disposizione, ma soltanto perché costui è il soggetto che rappresenta i controinteressati, nei confronti dei quali una sentenza di riduzione può essere opposta. 

Questa soluzione è in grado di contemperare sia l’interesse del testatore, sia quello dei legittimari. Da una parte, soddisfa l’interesse dell’autore del negozio di affidamento fiduciario a che i beneficiari vengano individuati in un momento successivo, dall’altra soddisfa l’interesse del legittimario leso che è in condizione di poter agire in riduzione contro la disposizione lesiva, quantunque non sia ancora determinato il suo beneficiario. Trova tutela anche l’interesse del potenziale beneficiario, il quale vedrà ridotto il suo diritto, in tutto o in parte, a seconda di quanto sia necessario per reintegrare la quota di legittima, senza che la riduzione si risolva in un pregiudizio per la sua potenziale nomina. 

A ragionare in questo modo, mi pare che anche questo caso non presenti problemi particolari. Se esiste un interesse meritevole di tutela, che giustifica il differimento della determinazione dei beneficiari a un tempo anche di molto posteriore a quello di apertura della successione, la posizione del legittimario, potenzialmente leso, non è pregiudicata. Il legittimario potrà agire con l’azione di riduzione per far accertare la sua lesione e chiedere la riduzione delle disposizioni lesive. Nel caso in cui i beneficiari del negozio di affidamento fiduciario non siano ancora determinati, l’azione potrà essere intentata contro l’affidatario, con intesa che: a) l’affidatario non è beneficiario della disposizione; b) la riduzione non tocca l’attribuzione del bene o del complesso dei beni all’affidatario, ma soltanto il diritto di credito a favore dei beneficiari; c) il diritto dei crediti spettante ai beneficiari divenuto, in tutto o in parte (a seconda della lesione) inefficace nei confronti del legittimario, si considera rientrato nella massa; d) il legittimario acquista quel diritto di credito; e) la liquidazione del diritto avverrà alla scadenza del termine, salvo che non sia prevista una regola diversa nel negozio di affidamento fiduciario. 


Negozio di affidamento fiduciario per testamento 

Le straordinarie potenzialità dell’atto di ultima volontà consentono di affermare che il negozio di affidamento fiduciario possa trovare fonte nel testamento. La costituzione può avvenire sia indirettamente, obbligando un erede o un legatario a porre in essere il negozio di affidamento fiduciario, sia direttamente e senza la necessaria mediazione dell’attività giuridica dell’erede o del legatario che, potrebbe, al piú, avere funzione meramente esecutiva. 

Delle due ipotesi quella di maggiore interesse è sicuramente la seconda, alla quale sono prevalentemente dedicate le considerazioni che seguono. 

Muovendo dal presupposto che il negozio di affidamento fiduciario determina una attribuzione patrimoniale a favore dei beneficiari e che tale attribuzione si risolve in un vero e proprio diritto di credito, credo che l’unico atto di ultima volontà idoneo a questo risultato sia il testamento o, piú esattamente, la disposizione testamentaria. 

Pur movendo dall’idea che il testamento non è l’unico atto di ultima volontà del nostro ordinamento giuridico e dall’idea che tutti gli interessi post mortem della persona che non incidono, immediatamente e direttamente, sulla delazione possono essere realizzati con atti di ultima volontà diversi dal testamento[[54]], non credo che possa revocarsi in dubbio che il negozio di affidamento fiduciario post mortem reclami una disposizione testamentaria. Dal momento che importa l’attribuzione di un diritto patrimoniale a favore di soggetti determinati o determinabili, non si dubita che incide sulla delazione. 

Ciò posto occorre stabilire quale siano gli elementi minimi necessari di contenuto della disposizione testamentaria, affinché si possa, validamente ed efficacemente, costituire un affidamento fiduciario per testamento. 

Occorre che siano determinati e/o determinabili, indicando in questo secondo caso le modalità precise della determinazione, gli elementi essenziali del negozio di affidamento fiduciario. 

In primo luogo, occorre che la disposizione testamentaria provveda alla determinazione del programma, in modo tale che risulti chiaramente sia lo scopo dell’affidamento, sia i poteri e gli obblighi dell’affidatario e dell’eventuale garante, sia le modalità per la nomina di altro affidatario o per la sostituzione di questo. Non occorre, sebbene sia certamente utile, che il testatore specifichi che il contratto di affidamento fiduciario è retto da una clausola di unico rimedio, dal momento che tale disciplina deve considerarsi coessenziale al negozio di affidamento fiduciario. 

La disposizione testamentaria deve indicare la persona che assume l’incarico di affidatario fiduciario, o le modalità per la prima nomina, nonché, ove sia utile rispetto alle esigenze del singolo caso concreto, la persona che assume la posizione di garante. Ovviamente, in caso di nomina del garante, dovrebbero essere indicati i suoi poteri, le modalità per la sua eventuale sostituzione e i casi in cui sia richiesto un suo eventuale parere per il compimento di un certo atto, indicando, altresí, se il parere sia facoltativo, obbligatorio o vincolante. 

Da ultimo debbono essere indicati i beneficiari, oppure debbono essere chiaramente indicate le modalità di determinazione dei beneficiari. Considerando che i beneficiari debbono considerarsi legatari di un diritto di credito, è possibile che i beneficiari siano, immediatamente e direttamente, designati dal testatore, oppure che il testatore incarichi un terzo di compiere questa scelta. Questa scelta non può essere rimessa alla libera valutazione della persona incaricata e si considera valida qualora vi sia il rispetto delle condizioni previste all’art. 631 c.c. Poiché i beneficiari debbono considerarsi legatari di un diritto di credito, la determinazione affidata al terzo è valida se questi è tenuto a compiere la scelta tra piú persone determinate dal testatore o appartenenti a famiglie o categorie di persone espressamente determinate dal legislatore. 

Occorre, infine, che il testatore destini uno o più beni al programma, in modo tale che esso possa essere realizzato e che l’affidatario abbia la possibilità di darvi attuazione. Questi beni dovranno essere destinati alla realizzazione del programma, e, dunque destinati, ex art. 2643-bis, qualora di tratti di beni immobili. I beni verranno acquistati dall’affidatario, con intesa che l’attribuzione patrimoniale a suo favore non dovrà considerarsi una attribuzione di natura liberale, né una attribuzione che importi l’acquisto della qualità di erede o di legatario.

Mi sentirei di affermare, offrendo una ulteriore dimostrazione delle straordinarie potenzialità dell’atto di ultima volontà, che l’affidatario, pur acquistando la proprietà del bene o del complesso dei beni, che il testatore destina per l’attuazione del programma, non deve considerarsi né erede, né legatario. 

Non sarà erede, perché non c’è alcuna volontà del testatore in tal senso; perché l’attribuzione avrebbe, comunque, a oggetto un bene o un complesso di beni determinato; perché il testatore non vuole che costui succeda nell’universalità del patrimonio o in una sua quota, ma soltanto che risulti affidatario. L’attribuzione della qualità di erede deriva, infatti, o dalla legge o dal testamento, con intesa che in questo secondo caso occorre una precisa volontà istitutiva del testatore, ossia una precisa volontà del testatore a che l’erede sia il “continuatore ideale” di sé medesimo. Peraltro, a ipotizzare che l’affidatario sia un erede o, ancor peggio, a istituirlo espressamente quale erede, la stessa costruzione del negozio di affidamento fiduciario potrebbe essere posta in serio pericolo ed esposta a un rischio di nullità. Se l’affidatario fosse un erede, costui, all’esito dell’amministrazione del patrimonio per un certo periodo di tempo, pur se l’amministrazione fosse pienamente dinamica, di modo che l’affidatario abbia potere di vendere uno o piú beni e di comprarne nuovi con il ricavato, sarebbe tenuto a trasferire il patrimonio ai beneficiari. La disposizione testamentaria finirebbe per contrastare con il divieto di sostituzione fedecommissaria, perché, fuori del caso consentito all’art. 692 c.c., imporrebbe a un erede di amministrare, conservare e restituire ai beneficiari. 

Mi parrebbe da escludere, altresí, che l’affidatario debba considerarsi un vero e proprio legatario, ancorché costui sembri essere beneficiario di una specifica attribuzione, ossia della attribuzione patrimoniale avente a oggetto i beni che il testatore destina alla realizzazione del programma. Affinché un soggetto possa essere considerato legatario, occorre che costui riceva un vantaggio, immediato e diretto, dalla attribuzione a titolo particolare, dal momento che deve escludersi che possa essere considerato legatario colui che consegue vantaggi mediati e indiretti o condicionis implendae causa capiens[[55]]. Occorre precisare che la esclusione della qualità di legatario deve essere affermata non perché manca il tratto dell’arricchimento, ma perché l’affidatario non consegue un vantaggio immediato e diretto. Il nostro ordinamento ben conosce e ammette ipotesi in cui il legatario possa, in concreto, non essere arricchito dalla attribuzione patrimoniale ricevuta (es. il legato gravato da un modo che assorbe integralmente il valore della attribuzione), mentre non ammette che possa considerarsi legatario un soggetto che non riceva un vantaggio immediato e diretto dalla attribuzione[[56]]. 

A valutare con attenzione e rigore l’ipotesi in parola, dovrebbe dirsi che l’affidatario non soltanto non riceve un vantaggio immediato e diretto dalla attribuzione patrimoniale, ma non riceve, neppure, un vantaggio, mediato e indiretto, se soltanto si considera che costui viene sostanzialmente investito di un vero e proprio ufficio di diritto privato, avendo la delicata funzione di attuare il programma al quale i beni sono destinati, con l’obbligo di trasferire i beni, al termine del programma, ai soggetti che risultano essere beneficiari. Se vogliamo, possiamo anche dire che siamo in presenza di una vera e propria disposizione testamentaria di organizzazione. 

Sotto questo profilo ne viene, quindi, che l’affidatario fiduciario non potrà essere considerato, ancorché sia il soggetto che, per effetto della disposizione testamentaria, acquista il patrimonio destinato, né erede, né legatario, con la conseguenza che risulterebbe ulteriormente dimostrata la possibilità che una attribuzione patrimoniale non determini, di necessità, l’acquisto della qualità di erede o di legatario e che le disposizioni testamentarie, ancorché di natura patrimoniale, non possono ridursi esclusivamente, alle istituzioni di erede o di legato. 

Gli unici soggetti che ricevono un vantaggio, immediato e diretto, da parte del testatore sono i beneficiari del negozio di affidamento fiduciario, ossia i soggetti a favore del quale l’affidatario deve trasferire, al termine del programma, il patrimonio affidato, ancorché esso risulti, proprio in ragione del dinamismo che caratterizza l’affidamento fiduciario, totalmente differente rispetto al patrimonio che, inizialmente, il testatore aveva destinato al programma. 

Proprio per questa ragione, i beneficiari debbono considerarsi legatari, in quanto risultano destinatari di una attribuzione patrimoniale specifica e, dunque, soggetti che ricevono un beneficio immediato e diretto dalla attribuzione patrimoniale. Il diritto che essi vantano non è, però, un diritto reale, ossia un diritto dominicale sopra i beni che il testatore destina al programma, bensí un diritto di credito, dacché hanno diritto a vedersi attribuito, al termine del programma, da parte dell’affidatario, la universalità o una quota del patrimonio affidato. 

La circostanza che il patrimonio affidato al termine del programma possa essere in tutto o in parte diverso rispetto a quello iniziale, e che l’affidatario, nell’attuazione del programma, abbia il potere-dovere di amministrare i beni, di alienarli ed acquistarne di nuovi, ossia che abbia i piú ampi poteri dispositivi, sempre nel rispetto dell’attuazione del programma, impone di considerare i beneficiari titolari di un diritto di credito. Il diritto di credito a vedersi attribuita la universalità o una quota del patrimonio affidato, quale esso sarà al termine del programma. La circostanza che l’affidatario abbia l’obbligo di traferire i beni ai beneficiari al termine del programma importa che costoro debbono considerarsi non soltanto titolari di un diritto di credito, ma altresí titolari di un credito a termine, ossia di un credito che possono esigere solo al termine del programma. Prima di quel momento costoro non hanno una pretesa nei confronti dell’affidatario e non possono esigere alcuna liquidazione o attribuzione. Ciò non esclude, ovviamente, che il testatore possa prevedere che l’affidatario debba, durante l’attuazione del programma erogare delle somme mensili o annuali a favore dei beneficiari o a favore di alcuni soltanto, o che l’affidatario debba dare una somma di danaro o un bene una tantum, in conto o in aggiunta a quanto spetti al beneficiario, in occasione di particolari circostanze (es. matrimonio, laurea, inizio di attività professionale, iscrizione a un albo professionale). In questi casi i beneficiari saranno titolari di ulteriori diritti di credito, che potranno essere considerati, a seconda della volontà del testatore, o in conto o in aggiunta rispetto a quanto spetta a ciascun beneficiario al termine del programma. 

Poiché i beneficiari debbono considerarsi dei legatari, nulla esclude che, come anticipato, il testatore possa, nei limiti di quanto stabilito dall’art. 631 c.c., far dipendere dall’arbitrio di un terzo l’indicazione del o dei beneficiari, purché si tratti di una scelta da compiersi tra piú persone determinate dal testatore o appartenenti a famiglie o categorie di persone da lui determinate. Nulla esclude che il testatore, considerando che l’attuazione del programma può protrarsi per un periodo significativo oltre la sua morte, disponga che la scelta del beneficiario o dei beneficiari venga rimessa al terzo e che costui venga chiesto di compiere la scelta, non già al momento dell’apertura della successione, ma in un tempo successivo, che potrebbe essere anche prossimo al termine del programma. 


Segue. Il problema della tutela dei legittimari

Fin quando il negozio di affidamento fiduciario comporti la destinazione al programma di beni il cui valore è compreso nella quota disponibile del testatore, non v’ha dubbio che non si può porre alcun problema di lesione dei diritti dei legittimari. Diversamente, nell’ipotesi in cui il negozio di affidamento fiduciario comporti la destinazione di beni per un valore superiore rispetto alla quota disponibile, si potrebbe porre un problema di lesione della quota riservata ai legittimari, sicché occorre verificare quali azioni in concreto costoro possano esercitare e quali conseguenze esse determinino rispetto al negozio di affidamento fiduciario disposto con il testamento. 

Bisogna distinguere a seconda che i legittimari siano, o no, beneficiari del negozio di affidamento fiduciario. 

Se i legittimari non fossero beneficiari, non v’ha dubbio che costoro potrebbero considerarsi lesi e avrebbero, pertanto, diritto di agire in riduzione. Considerando la ricostruzione proposta, la quale mi pare la più plausibile se si vogliono evitare ipotesi di nullità o difficoltà concrete di attuazione del negozio di affidamento fiduciario, ne viene che l’azione di riduzione dovrà indirizzarsi contro le disposizioni testamentarie lesive. 

Nel caso di negozio di affidamento fiduciario testamentario, la disposizione lesiva non è l’attribuzione patrimoniale fatta al fiduciario, che non è né erede, né legatario, ma le sole disposizioni (legati) fatte a favore dei beneficiari. In conseguenza, l’azione di riduzione non potrebbe minare la stabilità del negozio di affidamento fiduciario, ma soltanto attribuire al legittimario leso il diritto di credito spettante ai beneficiari, nei limiti di quanto sia necessario per integrare la quota di riserva. In altri termini, all’esito dell’azione di riduzione, il legittimario conseguirebbe, in tutto o in parte, il diritto di credito, sicché si trasformerebbe, in un potenziale beneficiario del negozio di affidamento fiduciario. 

Al riguardo valgono, ovviamente, tutte le considerazioni che ho già fatto per il caso di azione di riduzione contro un negozio di affidamento fiduciario disposto per atto tra vivi. 

Il legittimario leso, che acquista, in tutto o in parte, il diritto di credito spettante al beneficiario, acquista un diritto a termine, che gli attribuisce il diritto a pretendere la prestazione da parte dell’affidatario al termine del programma. Tale soluzione mi pare che realizzi un adeguato bilanciamento tra gli interessi coinvolti e, dunque, tra l’interesse del testatore alla realizzazione del programma e l’interesse dei legittimari a conseguire beni per un valore corrispondente alla quota di legittima. Deve confermarsi l’idea che potrebbe risultare utile una disposizione che ponga a carico dell’affidatario l’obbligo di liquidare la quota corrispondente al legittimario, prevedendo che tale obbligo diventi attuale a seguito di espressa richiesta del legittimario, con intesa che potrebbero anche prevedersi alcune cautele per consentire la liquidazione migliore possibile da parte dell’affidatario. 

Nell’ipotesi in cui la determinazione dei beneficiari sia ragionevolmente rimessa alla decisione del terzo, l’azione di riduzione dovrà essere esercitata contro la persona alla quale è affidata l’amministrazione del patrimonio oggetto, diretto o indiretto, della disposizione lesiva, con intesa che costui non è beneficiario della disposizione; che la riduzione non tocca l’attribuzione del bene o del complesso dei beni all’affidatario, ma soltanto il diritto di credito a favore dei beneficiari; che il legittimario acquista quel diritto di credito; che la liquidazione del diritto avverrà alla scadenza del termine, salvo che non sia prevista una regola diversa nel negozio di affidamento fiduciario. 

La questione è piú complessa nell’ipotesi in cui uno o piú legittimari siano anche i beneficiari del negozio di affidamento fiduciario. 

La disposizione testamentaria con la quale il legittimario è designato beneficiario del negozio di affidamento fiduciario è, secondo la ricostruzione proposta, un vero e proprio legato. Ciò significa che questo legato può essere disposto o in sostituzione di legittima, nel caso in cui tale volontà risulti in modo espresso, oppure, in difetto di una diversa volontà del testatore, un legato non in sostituzione di legittima[[57]]. 

Qualora fosse un legato in sostituzione di legittima, il legittimario, ha, una alternativa: accettare il legato senza possibilità di pretendere altro, oppure rifiutare il legato e pretendere la legittima. Nel caso in cui accetti il legato, egli deve considerarsi tacitato nei suoi diritti di legittimario, sicché non potrà agire in riduzione. Non si pone, neppure un problema di imputazione, proprio perché questa attribuzione patrimoniale vale a tacitare ogni pretesa che al soggetto competerebbe in quanto legittimario. Nel caso in cui rifiuti il legato, egli si considera come legittimario pretermesso, sicché potrà conseguire la riduzione di tutte le disposizioni testamentarie lesive, e conseguire, dunque, la legittima. Va da sé che conseguirà, anche, una parte del diritto di credito oggetto del legato. 

Nell’ipotesi in cui si tratti di legato che non sia disposto in sostituzione di legittima, il legittimario potrà decidere se rifiutare il legato o acquistare il diritto. 

Nell’ipotesi in cui decidesse di rifiutare il legato, egli si considera come legittimario pretermesso (qualora non sia istituito erede), o come erede leso, nel caso in cui sia anche istituito erede, ma in quota che non gli consente di soddisfare i diritti che gli spettano come legittimario. Qualora risulti che sia stato leso, ossia che abbia ricevuto beni per un valore inferiore rispetto alla quota di legittima riservata, egli potrà agire con l’azione di riduzione. 

Nell’ipotesi in cui decida di acquistare il legato, occorre stabilire se esso sia stato ordinato con dispensa dall’imputazione o no. Nell’ipotesi in cui fosse ordinato con dispensa dalla imputazione (occorre che ciò risulti in modo inequivoco dalla disposizione), questo significa che quanto il legittimario abbia conseguito per effetto del legato non si deve imputare al fine di determinare la quota di riserva che gli spetta, con la conseguenza che avrà diritto di conseguire beni per un valore corrispondente alla quota di riserva. Diversamente, nel caso in cui il legato fosse ordinato senza dispensa da imputazione (tale è il legato in assenza di una espressa dichiarazione del testatore), ossia come legato in conto di legittima, allora il legittimario dovrà imputare quanto ricevuto con il legato alla sua quota di legittima, con la conseguenza che potrà agire in riduzione solo se, pur considerando quanto già conseguito, permanga una lesione. 

In definitiva, il legittimario che sia anche beneficiario del negozio di affidamento fiduciario è un legatario, sicché valgono le regole ordinarie. Deve, soltanto, precisarsi che nel caso di negozio di affidamento fiduciario disposto per testamento, la unica disposizione lesiva, contro la quale è configurabile l’azione di riduzione è il legato a favore del beneficiario, dovendosi escludere la possibilità di agire contro la disposizione di nomina dell’affidatario o di destinazione dei beni al programma. 

Svolti questi chiarimenti resta da verificare l’eventuale connessione tra il negozio di affidamento fiduciario disposto per testamento e la norma di cui all’art. 549 c.c., che pone il divieto di porre pesi o condizioni sulla quota di legittima[[58]]. 

Al riguardo, mi pare che si possa escludere una interferenza e, dunque, la violazione della norma di cui all’art. 549 c.c. della disposizione testamentaria che attribuisse al legittimario il solo diritto di credito. 

La ragione della esclusione mi pare semplice, quando si rifletta sulla circostanza che la disposizione a favore del legittimario, proprio perché gli attribuisce un diritto a titolo particolare, è un legato e non una istituzione di erede. 

Sotto un diverso profilo, dovrebbe escludersi l’applicazione della norma in parola anche nel caso opposto, ossia nel caso in cui il beneficiario sia istituto erede, e la sua lesione dipenda dal fatto che il testatore abbia disposto di beni per un valore superiore alla quota disponibile mediante un negozio di affidamento fiduciario testamentario. 

Deve escludersi che la istituzione di erede violi l’art. 549 c.c., proprio perché in questo caso, anche a voler considerare il legato un peso, esso non graverebbe sull’erede-legittimario. Perché possa trovare applicazione la norma di cui all’art. 549 c.c. debbono ricorrere, infatti, due distinte condizioni: a) che il legittimario sia istituto erede almeno nella quota di legittima; b) che il legato sia posto a carico esclusivamente del legittimario[59]. Se il legato non fosse posto a carico del solo legittimario, anche se il legittimario fosse istituto nella sola quota di legittima, il legato non potrebbe considerarsi un peso che grava sulla legittima, trattandosi, piuttosto, di un peso che grava sull’intera eredità[[60]]. In tale caso, il legittimario leso dovrebbe agire con l’azione di riduzione[[61]]. 

Deve, pertanto, escludersi che il negozio di affidamento fiduciario costituisca un peso gravante sulla legittima, ove pure il testatore si fosse limitato a istituire i legittimari eredi nella sola quota di legittima, nominando beneficiari (legatari) del negozio di affidamento fiduciario soggetti non legittimari[[62]]. Ove pure ricorresse questa ipotesi, non potrebbe affermarsi che il legato (nomina del beneficiario del negozio di affidamento fiduciario) è un peso che grava sulla legittima, perché mancherebbe il rispetto delle condizioni di applicazione della norma. Ciò, ovviamente, non significa che il legittimario che consegua beni per un valore inferiore rispetto alla quota che l’ordinamento gli riserva non possa fare alcunché. Egli potrà sempre agire con l’azione di riduzione, non potrà però invocare la norma di cui all’art. 549 c.c. Ciò dovrebbe valer ad escludere che la costituzione testamentaria di affidamento fiduciario possa essere considerata in violazione dell’art. 549 c.c., ove pure i legittimari siano istituti nella sola quota di legittima e ove pure il relictum, al netto dei beni destinati al programma di affidamento fiduciario, sia insufficiente a soddisfare la quota di legittima del legittimario. Anche in questo caso, il legittimario che volesse conseguire quanto necessario per integrare la sua lesione, dovrà, necessariamente agire con l’azione di riduzione. 

Sotto un diverso profilo, ove pure si desse una interferenza non è detto che la disposizione testamentaria debba essere nulla[[63]]. Mi parrebbe, tendenzialmente, piú coerente rispetto agli interessi coinvolti nel caso concreto, ipotizzare che si tratti di una inefficacia e che essa, per quanto ipso iure, richieda, comunque, la eccezione della parte nel cui interesse essa è posta[[64]]. Sicché il rimedio della nullità credo che debba essere escluso, con tutte le conseguenze che ciò importa nel caso di testamento pubblico e, dunque, ai fini di una esclusione di qualsivoglia responsabilità. 

Mi sembra, dunque, che la ricostruzione proposta, non soltanto consente di predisporre una disposizione testamentaria plausibilmente valida, ma che consente, anche, di preservare e conservare l’attuazione del programma, anche nell’ipotesi in cui il legittimario leso agisse in riduzione contro le disposizioni testamentarie di affidamento fiduciario.



[1] Sulla rilevanza delle disposizioni fiduciarie in materia testamentaria e per interessantissime applicazioni, che potrebbero rivitalizzare il tema, si veda, pur se ha tratto al diritto civile spagnolo, il lungo saggio di J.P. Pérez Velázquez, Sobre la exigua utilización del artículo 831 del Código civil. Aporías de su actual redacción, en Anuario de Derecho civil, 2019, 1133 ss.

[2] A. Ciatti Càimi, Vincoli di destinazione, tutela del ceto creditorio e il nuovo art. 2929-bis c.c., in Aa. Vv., Il negozio di destinazione fiduciaria. Contributi di studio, Milano, 2016, 12 ss.

[3] Il trust, che in Italia ha avuto un significativo successo, non ha avuto la stessa fortuna in altri paesi. Per la situazione nel diritto spagnolo, v., per tutti, S.C. Lapuente, Operaciones fiduciarias o "trusts" en Derecho español, en Revista Crítica de Derecho Inmobiliario, 1999, 1757-1865; Id., Trusts y patrimonios fiduciarios como vías de protección de la persona, la familia y la sucesión, en L. d. Consejo General del Notariado, L. Prats, La autonomía de la voluntad en el Derecho privado (Estudios en conmemoración del 150 aniversario de la Ley del Notariado). Tomo I. Derecho de la persona, familia y sucesiones, Madrid, 202, 691-939. Per una ricostruzione del dibattito relativo al trust c.d. interno in Italia M. Lupoi, Istituzioni del diritto dei trust negli ordinamenti di origine e in Italia, 3 ed., Padova, 2016; L. Gatt, Dal trust al trust. Storia di una chimera, 2 ed., Napoli, 2010. 

[4] Impossibile riferire sulla bibliografia relativa all’atto di destinazione. V., almeno, i principali lavori con carattere monografico, M. Ceolin, Destinazioni e vincoli di destinazione nel diritto privato, Padova, 2010, p. 1 ss. R. Calvo, Vincoli di destinazione, Bologna, 2012, 1 ss.; AA.VV., Bianca – Donato (a cura di), Dal trust all’atto di destinazione patrimoniale. Il lungo cammino di un’idea, Milano, 2013, p. 1 ss.; R. Bonini, Destinazione di beni ad uno scopo, Napoli, 2015, 11 ss. Si v., anche, V. Barba, Disposizione testamentaria di destinazione, in Foro nap., 2016, 325-351, e ivi ulteriori riferimenti di dottrina e giurisprudenza. 

[5] Una disciplina non dissimile è prevista nell’ordinamento spagnolo, la cui l. n. 41/2003 de 18 de noviembre, su la protección patrimoniales de las personas con discapacidad, prevede la possibilità di costituire el patrimonio especialmente protegido. Secondo l’art. 5, comma 4, «todos los bienes y derechos que integren el patrimonio protegido, así como sus frutos, rendimientos o productos, deberán destinarse a la satisfacción de las necesidades vitales de su beneficiario, o al mantenimiento de la productividad del patrimonio protegido». E si legge nelle exposición de motivos, párrafo II: «los bienes y derechos que forman este patrimonio, que no tiene personalidad jurídica propia, se aíslan del resto del patrimonio personal de su titular-beneficiario, sometiéndolos a un régimen de administración y supervisión específico. Se trata de un patrimonio de destino, en cuanto que las distintas aportaciones tienen como finalidad la satisfacción de las necesidades vitales de sus titulares». Precisa C. Lapuente, Operaciones fiduciarias o "trusts" en Derecho español, cit., 696, che el patrimonio protegido «constituye un instrumento inacabado al no garantizarse legalmente la separación patrimonial». 

[6] V. M. Tatarano, La c.d. legge «dopo di noi»: profili giusprivatisici, in Rass. dir. civ., 2017, 1565 ss. 

[7] La elaborazione del contratto di affidamento fiduciario in Italia si deve a M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, Milano, 2014, 1 ss.; Id., L'affidamento fiduciario nella vita professionale, Milano, 2018, 1 ss.; Id., Il contratto di affidamento fiduciario, in Riv. del not., 2012, 513-523. Dopo l’indagine svolta dall’A. e in esito alla approvazione della l. n. 112 del 2016, parte della dottrina ha manifestato interesse per la figura, con un atteggiamento tendenzialmente interessato. Va segnalata la posizione di chi da tempo propone una analisi trasversale della destinazione patrimoniale, tale da ricomprendere qualunque strumento di articolazione del patrimonio, superando la prospettiva conflittuale, che tende a far prevalere uno strumento sull’altro, e adottando una prospettiva disciplinare unitaria, secondo la quale le discipline non sono antitetiche, ma idonee a complemetarsi. Cosí da ultimo, M. Bianca, La fiducia rimediale e la teorica della destinazione patrimoniale, in Aa. Vv., Il negozio di destinazione fiduciaria, cit., 29.

[8] Precisa G. Amadio, Negozio fiduciario e destinazione patrimoniale, in Aa. Vv., Il negozio di destinazione fiduciaria, cit., 4, che il negozio fiduciario utilizzato congiuntamente alla destinazione, quale schema regolativo dell’attività strumentale di attuazione, è in grado di «rilanciare […] uno strumento dalle potenzialità vastissime». 

[9] P. Perlingieri, Remissione del debito e rinunzia al credito, Napoli, 1968, 138 ss.; Id., Dei modi di estinzione dell’obbligazione diversi dall’adempimento, Bologna-Roma, 1975, 21 ss. 

[10] Precisa, opportunamente, M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 396 ss., che il concetto di beneficiario non necessariamente implica che costoro acquisteranno i beni costituenti il patrimonio affidato. «Il fondo può essere interamente o quasi interamente realizzato per l’attuazione del programma, per esempio per l’assistenza e il mantenimento di una persona disabile oppure il programma può consistere nell’attribuzione del fondo o di sue singole componenti a enti che vengano individuati via via nel corso di esecuzione del contratto in relazione alle finalità di pubblico interesse che essi perseguono». 

[11] V. F. Alcaro, Il programma contrattuale: l’attività dell’affidatario fiduciario e i rapporti fra le parti, in Aa.Vv., Contratti di convivenza e contratti di affidamento fiduciario quali espressioni di un diritto civile postmoderno. Atti dei Convegni Bologna il 26 novembre 2016 Roma il 3 marzo 2017, Milano, 2017, 162 ss. 

[12] Nell’ambito dei beneficiari occorre distinguere tra i beneficiari, che possiamo chiamare finali, ossia coloro che dovranno ricevere da parte dell’affidatario fiduciario i beni del fondo al tempo di estinzione del rapporto e i beneficiari del reddito, ossia i beneficiari delle utilità derivanti dai beni affidati. Resta inteso che non è necessario prevedere i c.d. beneficiari di reddito e che costoro potrebbero anche coincidere con i beneficiari finali. È, però, importante distinguere, nella piena consapevolezza che tanto gli uni, quanto gli altri sono meri titolari di un diritto di credito. 

[13] È tema molto complesso e delicato quello che attiene ai poteri di amministrazione dell’affidatario. In questa sede, nella quale ci stiamo limitando a tracciare la ipotesi per linee d’assieme, allo scopo di verificare la ammissibilità di un affidamento fiduciario per testamento e la eventuale tenuta del negozio rispetto all’azione di riduzione dei legittimari, il tema non può essere svolto. 

[14] Per un esempio della duttilità dello strumento, oltre alla giurisprudenza e alle ipotesi proposte da M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., p. 166 s. Si v., anche, P. Piana, Un’esperienza di contratto di affidamento fiduciario, in Aa.Vv., Contratti di convivenza e contratti di affidamento fiduciario, cit., 167 ss.; M. Cattaneo – L. Frascarelli, Le istanze per un “nuovo” contratto fudicario, in Aa. Vv., Il negozio di destinazione fiduciaria, cit., 40 ss.

[15] Si parla, in questo senso di autotutela M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 324 ss., proprio per indicare che tutta la gestione del patrimonio affidata è svolta in attuazione del programma. Precisa G. Baralis, Autotutela e autorizzazioni nell’ambito del contratto di affidamento fiduciario, in Aa.Vv., Contratti di convivenza e contratti di affidamento fiduciario, cit., 148. che questo controllo si attua attraverso: «[…] una serie di pesi e contrappesi che si sostanziano in autorizzazioni, approvazioni, pareri, linee di indirizzo, dispense; […] una pluralità di soggetti con unico compito che, però, graduano fra di loro lo stesso potere (gestione di più affidatari); […] una figura specifica (il garante)». 

[16] V.E. Gabrielli, Autonomia privata ed esclusione dei rimedi contrattuali. (Brevi spunti di riflessione sulla clausola di exlusive remedy), in Riv. dir. comm., 2018, 209 ss.; V. Di Gravio, Clausola di unico rimedio, in Aa. Vv., Clausole negoziali, Torino, 2017, 1603 ss. 

[17] Precisa F. Alcaro, Il programma contrattuale, cit., 163 che per garantire che il negozio di affidamento fiduciario esplichi la sua funzione è indispensabile che «il programma [debba] essere preservato, reso stabile, contrassegnato da autosufficienza, insensibilità verso eventi esterni sopravvenuti, dovendosene assicurare la permanenza, per la missione da compiere, contro ogni ipotesi di anticipata sua decadenza o sopravvenuta inefficacia, salva l’opportunità di eventuali adeguamenti imposti da eventi sopravvenuti». 

[18] Non si dubita che la segregazione la destinazione hanno implicazioni molto rilevanti rispetto al concetto di proprietà, al pari di come non vi è dubbio che la proprietà destinata sembra assolutamente distante rispetto al modello originario disegnato dal legislatore italiano nel codice civile del 1942. In quel modello la proprietà non soltanto era epicentro del sistema, ma era una proprietà esclusivamente egoistica. Il concetto muta significativamente con la Costituzione repubblicana e la c.d. funzionalizzazione. Rispetto al tema in parola, le efficaci considerazioni di A. Gambaro, La posizione soggettiva dell’affidatario fiduciario e la segregazione patrimoniale, in Aa.Vv., Contratti di convivenza e contratti di affidamento fiduciario, cit., 158, il quale osserva «per dissipare la spessa coltre di equivoci che si sono addensati in materia sarebbe necessario svolgere un discorso molto più lungo ed analitico, e perciò mi limito ad osservare che impostata l’analisi sul piano della proprietà costituzionale, risulta di primo acchito piuttosto bizzarro considerare ammissibile solo la proprietà “egoista” a scapito della proprietà̀ “altruista”, con la conseguenza ultima di rovesciare il senso del dettato costituzionale attribuendo una funzione sociale unicamente alle posizioni di appartenenza non proprietarie». Aderisce a questa ricostruzione, F. Piaia, Il contratto di affidamento fiduciario: esigenze concrete e profili teorici, in Vita not., 2018, 597-617. 

[19] Secondo M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 366 ss. varrebbe a escludere che il fondo affidato sia esposto al rischio della aggressione dei creditori dell’affidatario, il rilievo che l’art. 2740 c.c. stabilisce che il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i “suoi” beni presenti e futuri. «quei beni gli [all’affidatario fiduciario] provengono precisamente per non essere confusi con i “suoi” beni in quanto essi non sono “suoi” secondo il significato che questo aggettivo possessivo riveste nell’art. 2740 e quindi, non sono soggetti al regime della responsabilità patrimoniale generica». Rispetto a questa ricostruzione deve, però, segnalarsi che il creditore dell’affidatario se non è in grado di sapere che il bene fa parte del patrimonio affidato è legittimamente autorizzato a ipotizzare che quel bene faccia parte del patrimonio dell’affidatario e dunque che si tratti di un bene “suo”. È, dunque, indispensabile uno strumento che consenta a tutti i terzi di conoscere la destinazione di quel bene, ossia che quel bene è destinato alla realizzazione del programma, in modo che nessun creditore del fiduciario possa fare affidamento. Il tema si sposta, dunque, sullo strumento attraverso il quale è possibile opporre il titolo. Potrebbe anche ipotizzarsi che sia necessario è sufficiente trascrivere il contratto, ma occorre, comunque, che si dia un regime pubblicitario. In via precauzionale rimane preferibile la trascrizione del vincolo di destinazione, ancorché può beneficiari affermarsi che sia sufficiente la sola trascrizione del contratto, purché risulti la chiara annotazione circa la natura della titolarità del diritto in capo al fiduciario. Occorre, cioè, uno strumento pubblicitario dal quale risulti evidente ai terzi che l’affidatario è titolare fiduciario del bene. 

[20] Secondo V. Roppo, Contratto di affidamento fiduciario e valore di garanzia dei beni, in Riv. not., 2012, 1244, la tesi di Lupoi sarebbe eccentrica nella misura in cui postula che il patrimonio affidato sia sottratto alla aggressione dei creditori sia dell’affidante, sia dell’affidatario. «Nella costruzione di Maurizio Lupoi il dato eccentrico mi sembra questo: che si disegna una regione, unica al mondo, nella quale ci sono dei beni che non garantiscono nessun creditore; e quindi dei beni per cosí dire sterilizzati nel loro valore di garanzia del credito, che a me sembra una componente importante del valore sociale di un bene». Scrive, però, M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 314, che «il fondo affidato, in quanto patrimonio risponde delle sole obbligazioni, contrattuali o meno, inerenti la realizzazione del programma: il fondo affidato non si confonde nel patrimonio dell’affidatario fiduciario». In questo senso, mi pare che costituisca un dato indispensabile di ogni costruzione giuridica relativa a un patrimonio destinato e segregato che esso risulti sottratto alla garanzia dei creditori “personali” dell’affidante e dell’affidatario. Ciò non significa, però, che quel patrimonio non garantisce alcun creditore, dal momento che quei beni costituiscono garanzia dei creditori della destinazione, ossia di tutti i creditori il cui titolo sia fondato sulla amministrazione del patrimonio. In altri termini, un patrimonio destinato è sottratto alla garanzia dei creditori personali dell’affidante e dell’affidatario, ma esposto alla garanzia dei creditori del patrimonio, ossia alla garanzia di tutti i debiti contratti in funzione dell’affidamento. 

[21] In senso parzialmente diverso, con convincente motivazione, A. Gambaro, La posizione soggettiva dell’affidatario fiduciario e la segregazione patrimoniale, cit., 159, il quale scrive: «se si segue, invece, l’impostazione più recente (ma anche più antica) che vede nella proprietà del fiduciario la creazione di una particolare forma di proprietà strutturalmente conformata in modo da essere funzionale al raggiungimento di scopi altruistici, il problema dell’effetto segregativo si imposta in termini di conseguenze logiche della ammissibilità di una forma di proprietà in cui la determinazione dello scopo esercita la sua influenza conformatrice non per la via obbligatoria, ma direttamente nella sfera del potere giuridico attribuito al fiduciario. A ben vedere infatti tutti i profili che sono stati sottolineati nel corso della discussione attorno al cosiddetto effetto segregativo, da quello della unicità del patrimonio a quello della causa del trasferimento della titolarità proprietaria in capo al fiduciario, non sono altro che corollari della scelta iniziale di non ammettere, salvo espressa disposizione di legge, alcuna forma di proprietà che non sia perfettamente conforme al paradigma dell’art. 832 c.c.». Ovviamente l’A. ha cura di precisare che una tale soluzione potrebbe ammettersi con maggiore semplicità nel caso in cui la conformazione della proprietà serva per tutelare soggetti deboli, mentre diventa difficile in altri casi, specie quando il negozio di affidamento abbia finalità “neutre”. La tesi dell’A., che pure è molto convincente, non esclude che, al fine di rendere nota a tutti la esistenza di una proprietà conformata (essendovi sempre la esigenza di rendere opponibile questo titolo) la via della trascrizione per i beni immobili e mobili registrati e l’atti di data certa per i beni mobili permanga come una soluzione pratico-applicativa quanto meno utile e consigliabile. 

[22] V. M. Bianca, Atto negoziale di destinazione e separazione, in Riv. dir. civ., 2007, 197-227

[23] V. G. D'Amico, La proprietà «destinata», in Riv. dir. civ., 2014, 525-546.

[24] In senso contrario, M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 364, secondo cui la trascrizione non è affatto necessaria, essendo sufficiente il mero compimento del negozio di affidamento fiduciario, in quanto strumento capace di conformare la titolarità del fondo. La tesi risulta maggiormente chiara, quando si pensi che secondo l’A. «il bene oggetto del contratto di affidamento fiduciario non è il bene o non sono i beni inclusi nel fondo affidato, ma è il valore di scambio di tali beni». 

[25] Vale la pena osservare che secondo Lupoi non sarebbe affatto necessaria la trascrizione dell’atto per realizzare l’effetto segregativo. Tale segregazione risulterebbe, infatti, dalla specifica funzionalizzazione della proprietà agli interessi divisati nel programma, in guisa che non occorrerebbe altro perché i beni non risulti aggredibili dai creditori personali dell’affidatario. M. Lupoi, Le ragioni della proposta dottrinale del contratto di affidamento fiduciario; la comparazione con il trust, in Aa.Vv., Contratti di convivenza e contratti di affidamento fiduciario, cit., 742, afferma: «la segregazione dei beni affidati è ora sancita dalla l. 22 giugno 2016, n. 112 […] si tratta di una conferma legislativa, certo importante e per alcuni essenziale, ma a mio parere non necessaria: infatti, la non confusione fra i beni affidati e gli altri beni dei quali l’affidatario fiduciario sia titolare deriva dal riconosci- mento della conformazione del titolo dell’affidatario fiduciario, come sopra illustrata». L’A. precisa che la segregazione sarebbe effetto naturale del contratto, rispetto al quale sarebbe necessario e sufficiente che il titolo fosse posto a conoscenza dei terzi. Scrive M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 351, che il titolo dell’affidamento fiduciario è insieme la ragione giustificativa del diritto e la misura stessa del diritto. «Il titolo dell’affidatario fiduciario è, al tempo stesso, pieno e instabile nel tempo; inoltre, è ambulatorio». Vale la pena segnalare che l’A. (M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 424 ss.) non esclude che possa essere utile la trascrizione ai sensi dell’art. 2645-ter, sebbene non sia l’ipotesi preferibile. «Ragionare in termini di vincolo di destinazione rassicura il notaio: tuttavia cosí si tradisce non solo la norma, nei limiti accettabili sopra indicati, ma anche la funzionalità dei contratti di affidamento fiduciario. Su questo occorre non scendere a compromessi perché deve restare fermo l’assunto principale: è necessario pubblicizzare la specificità del titolo dell’affidatario fiduciario, sia egli l’affidante auto-investitosi, sia egli l’affidatario fiduciario al quale il diritto reale immobiliare è stato trasferito dall’affidante o da terzi. Questa specificità consiste nella inerente temporaneità della posizione, conseguente alla sua conformazione come a suo tempo chiarito». 

[26] Questa è l’unica ipotesi che sembra ammissibile a A. Vicari, L'affidamento fiduciario quale contratto nominato: un'analisi realistica, in I contratti, 2018, 363 ss.

[27] V., A. Gentili, Le destinazioni patrimoniali atipiche. Esegesi dell'art. 2645-ter c.c., in Rass. dir. civ., 2007, 1 ss.

[28] Scrive A.A. Carrabba, Testamento e destinazione patrimoniale (Una "lettura" per incrementare l'utilizzazione degli atti di cui all'art. 2645-ter c.c., in Giustizia civile (online), 2015, 191, «non ci si può non rendere conto che con riferimento al considerato ultimo profilo è necessario superare una valutazione in termini di regola ed eccezioni delle diverse articolazioni del regime di responsabilità pure in rapporto a uno stesso soggetto e tanto soprattutto se si dovessero apprezzare efficienza dei beni e dinamicità del patrimonio in ragione delle attività per le quali essi sono impiegati, come sembra aver fatto il legislatore, sempre a voler esemplificare, con la previsione dei patrimoni destinati ad uno specifico affare di cui all’art. 2447-bis c.c., ed ancóra se si dovesse considerare l’evoluzione dei criteri di concessione del credito, i quali risultano basati non più o, quanto meno, non solo sulla capacità del soggetto debitore di produrre ricchezza ma sulla disponibilità in garanzia di specifiche entità, essendo stata peraltro depotenziata la portata delle garanzie personali». Efficacemente, R. Lenzi, Le destinazioni atipiche e l’art. 2645-ter c.c., in Contr. impr., 2007, 249, precisa che la norma consente di «finalmente di prendere atto dell’equivalenza funzionale tra personalità giuridica e organizzazione di un patrimonio in compendi separati, come tecniche alternative e sostanzialmente equivalenti, attraverso le quali si possono manifestare i regimi giuridici della garanzia patrimoniale». 

[29] In questa direzione, M. Tatarano, La c.d. legge «dopo di noi, cit., 1477 ss., G. Baralis, Autotutela e autorizzazioni nell’ambito del contratto di affidamento fiduciario, cit., 145 ss. A. Gambaro, La posizione soggettiva dell’affidatario fiduciario e la segregazione patrimoniale, cit., 155 ss., il quale scrive: «esprimo la mia ferma convinzione che l’ “ibridazione” fra il contratto di affidamento fiduciario e la fattispecie di cui all’art. 2645-ter sia il mezzo tecnico per elezione che permette quella stabilità di cui si è scritto. Del resto, seppur in maniera meno convinta, questo utilizzo è anche prefigurato da Lupoi, naturalmente nella versione attiva e dinamica della fattispecie di cui all’art. 2645-ter». In questa direzione, anche P. Piana, Un’esperienza di contratto di affidamento fiduciario, in in Aa.Vv., Contratti di convivenza e contratti di affidamento fiduciario, cit., 187, il quale nell’esempio proposto prevede, espressamente, la trascrizione del vincolo ex art. 2645-ter sull’immobile costituente il patrimonio affidato. In particolare, l’A. costruisce l’art. 32 del contratto di affidamento, rubricato pubblicità immobiliare, nel modo che segue: «A. L’Affidante e l’Affidatario fiduciario, ai fini della più opportuna pubblicità dell’avvenuto mutamento del titolo dell’Affidante rispetto all’Immobile, e conseguentemente dell’inerenza dell’Immobile al Fondo Affidato, richiedono al Conservatore dei Registri immobiliari competente con riferimento all’Immobile, la trascrizione: 1. del vincolo ex art. 2645-ter c.c., contro l’Affidante; 2. del trasferimento della proprietà, contro l’Affidante ed a favore dell’Affidatario Fiduciario, sottoposto a condizione (descritta nel Quadro “D” della nota di trascrizione quale “risolutiva” quanto all’Affidante e “sospensiva” e “risolutiva” quanto all’Affidatario Fiduciario). B. L’Affidatario Fiduciario manleva espressamente il Conservatore dei Registri Immobiliari competente da ogni responsabilità in ordine alla trascrizione richiesta». G. Rojas Elgueta, Il “contratto fiduciario di destinazione e la protezione patrimoniale del fiduciante, in Aa. Vv., Il negozio di destinazione fiduciaria, cit., 80 ss.

[30] Sul significato della “meritevolezza”, nell’ambito dei vincoli di destinazione, per tutti, G. Perlingieri, Il controllo di "meritevolezza" degli atti di destinazione ex art. 2645-ter c.c., in Foro nap., 2014, 63 ss., il quale precisa che tale controllo riguarda non tanto la funzione concreta del singolo atto di autonomia (che è imposta al giurista sempre e comunque), bensì il rapporto di destinazione, che diventa un controllo “esterno” e “dinamico”. Il legislatore impone di valutare non soltanto il rapporto tra bene e scopo e, dunque, il rapporto di congruità e adeguatezza tra il bene destinato e lo scopo perseguito, ma anche di comparare l’interesse del beneficiario e l’interesse tutelato dalla singola situazione creditoria, avendo mente che tale bilanciamento deve svolgersi, tenendo conto della gerarchia d’interessi protetti nel nostro sistema ordinamentale. In questo senso, non potrebbe essere meritevole la destinazione di un bene sproporzionato, o incongruo rispetto allo scopo, o una destinazione capace di svuotare, sostanzialmente, il patrimonio del disponente. Tale valutazione non è limitata alla sola fase genetica del rapporto, ma si estende anche alla fase dinamica, sicché la congruità tra bene destinato e scopo perseguito attende di essere verificata anche nel corso di svolgimento del rapporto, perché non può escludersi che un rapporto originariamente congruo e proporzionato diventi, nel tempo, sproporzionato e incongruo. In questo senso, si tratta di un controllo dinamico, perché attende di essere verificato nel tempo, legittimando, nell’ipotesi di squilibrio successivo, l’azione di meritevolezza, ossia l’azione volta a rendere inopponibile il vincolo.

[31] Osserva, efficacemente, R. Lenzi, R. (2012). Atto di destinazione, in Enc. dir., Annali V, 2012, 71 che l’ordinamento non consente di destinare per proteggere, ma di proteggere per destinare. 

[32] In tema le osservazioni di A. Gambaro, La posizione soggettiva dell’affidatario fiduciario e la segregazione patrimoniale, cit., 155 ss., il quale osserva che «se ci si attiene a questa conclusione ne deriva che la titolarità del diritto di proprietà su una universitas comporta il permanere della stessa identica titolarità anche se muta la composizione dell’insieme, dando quindi luogo ad un fenomeno di surrogazione reale». 

[33] La norma in parola prevede, infatti, che la segregazione riguarda non soltanto i beni conferiti, ma anche i «loro frutti». Non può, dunque, dubitarsi, che nell’ipotesi in cui sia costituito un vincolo sopra un immobile che sia locato, gli eventuali frutti prodotti, ossia i canoni di locazione, a mano a mano, percepiti non possono essere aggrediti da creditori personali dell’affidatario fiduciario o dell’affidante. 

[34] In questo senso, M. Tatarano, La c.d. legge «dopo di noi, cit., 1477. Si v., per una analisi puntuale e argomentazioni in tema, i lavori di M. Ceolin, Destinazioni e vincoli di destinazione nel diritto privato, cit., 197; F. Mezzanotte, La conformazione negoziale delle situazioni di appartenenza, Napoli, 2015, 96 ss.

[35] In questo senso si esprime anche M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 369 ss. L’A., a conferma della ricostruzione, adduce, tra gli altri, questo esempio. Immagina che due persone tra le quali esiste una lite sulla proprietà di un bene, affidato a un terzo, perché lo custodisca fino alla fine della lite. L’A. dice che in questo caso un creditore della persona a cui il bene è affidato non potrebbe pignorarlo o, piú precisamente, il pignoramento sarebbe inefficace se si prova l’affidamento. Gli è però, che in questo caso è certo che il custode non abbia la proprietà del bene, sicché è facile per il vero proprietario fare opposizione. Diverso sarebbe il caso di affidamento fiduciario, dacché l’affidatario non sarebbe un mero custode, bensí il proprietario, ancorché il bene sia destinato alla realizzazione del programma. 

[36] Vale la pena ribadire che la espressione meritevolezza può essere intesa nel diritto italiano con significati distinti, in guisa che in assenza di un preciso chiarimento è possibile dar luogo a fraintendimenti, che hanno sapore piú nominalistico che sostanziale. In primo luogo, serve per indicare la verifica di conformità all’ordine pubblico costituzionale. Si tratta di un controllo di meritevolezza, il quale trova fondamento, non già e non soltanto nella sola norma di cui all’art. 1322, comma 2, c.c., bensí nel sistema ordinamentale nel suo complesso e, in particolare, nelle norme di cui agli artt. 2, 3, 41, 118, Cost.; con intesa che tale controllo riguarda la concreta funzione dell’atto. Tale giudizio, che deve esprimersi alla luce dei princípî fondamentali dell’ordinamento, consente di verificare che l’esercizio dell’autonomia privata sia conforme alle norme del nostro sistema, garantendo che l’atto di autonomia privata risponda a una funzione giuridicamente e socialmente utile e sia, cioè, idoneo all’attuazione dei valori fondamentali Riguarda, allora, qualunque atto di autonomia privata, indipendentemente dal suo essere riducibile al contratto tipico o atipico, all’atto tra vivi o all’atto di ultima volontà, a una disposizione testamentaria, avente un contenuto espressamente regolato o no. Altro e diverso problema è se, di là del controllo di meritevolezza civil-costituzionale, che deve investire qualunque atto di autonomia privata, l’art. 1322, comma 2, c.c. non preveda uno specifico controllo preventivo, per i soli contratti non aventi una disciplina particolare. Ipotesi che mi sentirei di affermare. L’ordinamento subordina l’ammissibilità di contratti non aventi una disciplina particolare a un giudizio di meritevolezza, da intendere, in questo specifico e limitato senso, come controllo sull’idoneità del modello a comporre, astrattamente, interessi meritevoli di tutela. Benché questo controllo abbia una rilevanza limitata, non credo che sia inutile. Al riguardo, alla stregua di questa valutazione potrebbe, infatti, affermarsi che contratto oneroso di maternità surrogata, indipendentemente dal concreto assetto d’interessi, indipendentemente dalle parti che lo abbiano concluso, indipendentemente dalla sintesi dei suoi effetti essenziali, costituisce un’ipotesi in cui l’ordinamento dovrebbe rifiutarne l’ammissibilità astratta. Diverso, infine, sembra essere il controllo di meritevolezza del vincolo di destinazione, il quale sembra riguardare non l’atto, ma l’interesse destinato, e che per semplicità possiamo chiamare “meritevolezza di destinazione”. tale controllo è chiesto non ai fini della validità dell’atto, bensì ai soli fini della separazione e, in conseguenza, che esso non riguarda la funzione concreta dell’atto, bensì il rapporto di destinazione, ossia il rapporto che l’atto intende realizzare. Un atto di destinazione che, pur essendo valido ed efficace, perché abbia superato il vaglio di liceità e di meritevolezza civil-costituzionale, non per questo è anche capace di realizzare una separazione patrimoniale. Per la realizzazione della quale serve, anche, il superamento del vaglio di meritevolezza di destinazione. Tale meritevolezza, come ha chiarito G. Perlingieri, Il controllo di "meritevolezza" degli atti di destinazione ex art. 2645-ter c.c., cit., 54 ss. è esterno e dinamico (v. nota n. 26). In senso differente, rispetto al tema specifico, G. Rojas Elgueta, Il “contratto fiduciario di destinazione e la protezione patrimoniale del fiduciante, cit., 86 ss., secondo cui la meritevolezza dell’art. 1322 c.c. deve svolgersi “ai sensi dell’art. 1343 c.c.”. Afferma che sarebbe astrattamente lecito un contratto fiduciario di destinazione che abbia quale sua causa concreta la protezione patrimoniale del fiduciante. In senso contrario, abbiamo cercato di chiarire che il controllo sull’atto riguarda non solo la liceità, ma anche la meritevolezza e che questa generalizzazione aiuta poco nella soluzione del problema concreto. 

[37] Sul punto v. M. Lupoi, Le ragioni della proposta dottrinale del contratto di affidamento fiduciario; la comparazione con il trust, cit., 128 ss.

[38] V. A. Gentili, Atti di destinazione e negozio fiduciario comparati con l’affidamento fiduciario, in Aa.Vv., Contratti di convivenza e contratti di affidamento fiduciario, cit., 134 ss.

[39] Sulla potenzialità del testamento come fonte della destinazione patrimoniale, per tutti, A.A. Carrabba, Testamento e destinazione patrimoniale (Una "lettura" per incrementare l'utilizzazione degli atti di cui all'art. 2645-ter c.c.), cit., 177-207; E. Moscati, Il testamento quale fonte di vincoli di destinazione, in Riv. dir. civ., 2015, 253-274; V. Barba, Disposizione testamentaria di destinazione, cit., 325 ss.

[40] Molto chiaramente, F. Alcaro, Il programma contrattuale, cit., 162, il quale scrive: «tradotto in clausole e previsioni giuridicamente rilevanti ed efficienti, il programma contiene perciò, nella sua intrinseca carica normativa, la rappresentazione dei comportamenti futuri e degli itinerari operativi, da perseguire, con modalità peculiari e non identificantesi nella tipologia e logica proprie della pura attività gestoria: l’affidatario non è – come si vedrà – un semplice mandatario-gestore, ma diretto interprete ed attuatore delle finalità, oggetto dell’affidamento». Sinteticamente, il suo ideatore M. Lupoi, Le ragioni della proposta dottrinale del contratto di affidamento fiduciario; la comparazione con il trust, cit., 128, scrive: «Il programma stabilisce quali siano gli interessi preminenti e se necessario li gradua, cosí apprestando il metro di giudizio di qualsiasi comportamento che potranno tenere le parti del rapporto». 

[41] V., per tutti, G. Perlingieri, Profili applicativi della ragionevolezza nel diritto civile, Napoli, 2015, 3 ss.

[42] Scrive, a conclusione del suo lavoro, A. Gentili, Atti di destinazione e negozio fiduciario comparati con l’affidamento fiduciario, cit., 144, «un vincolo forte del ruolo o ufficio, sostenuto da pieni poteri sui beni, a prescindere dalla persona o dal bene è – se intendo bene – proprio il novum cui tende il modello dell’affidamento fiduciario. Possiamo e dobbiamo verificare se esso soddisfi tutte le condizioni. Ma – mi pare – orientati finché possibile a favorirne il successo. Sarebbe un modo di colmare una lacuna del nostro ordinamento rispetto agli altri dell’area occidentale. E sarebbe la logica conclusione di un percorso storico. Un percorso iniziato quando la fiducia ha tentato di forgiare lo strumento per lo scopo che fosse buono per il diritto, e che si concluderà quando il diritto forgerà lo strumento per lo scopo che sia buono per la fiducia». 

[43] L’art. 1, comma 1, della Convenzione 1° luglio 1985, ratificata in Italia con la l. 16 ottobre 1989, n. 354, dispone: «Ai fini della presente Convenzione, per trust s’intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il costituente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell'interesse di un beneficiario o per un fine specifico». 

[44] L’art. 1 comma 1, della l. san Marino 1° marzo 2010, n. 43 dispone: «L’affidamento fiduciario è il contratto col quale l’affidante e l’affidatario convengono il programma che destina taluni beni e i loro frutti a favore di uno o più beneficiari, parti o meno del contratto, entro un termine non eccedente novanta anni». 

[45] Per lo sviluppo di questa tesi, v. V. Barba, Contenuto del testamento e atti di ultima volontà, Napoli, 2018, 141 ss., il quale afferma che il testamento è l’atto di ultima volontà al quale l’ordinamento giuridico italiano demanda la funzione di disporre della delazione, con l’ovvio corollario che tutti gli interessi post mortem che non incidono immediatamente e direttamente sulla delazione possono essere regolati da un atto di ultima volontà, diverso dal testamento. 

[46] Movendo dal presupposto che la onerosità e la gratuità attengono al titolo e, in particolare, all’individuazione del soggetto che sopporta i sacrifici economici, in guisa che deve considerarsi gratuito l’atto nel quale una parte non sopporta alcun sacrificio economico (E. Tilocca, Onerosità e gratuità, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1953, 63) o sopporta sacrifici economici di scarsa importa avuto riguardo all’interesse dell’altra parte, è chiaro che il concetto di liberalità, che non può essere una mera replica di questo, non può collegarsi a una mera valutazione economica del titolo. La liberalità attiene all’effetto economico che discende, direttamente o indirettamente, dall’atto, ossia alla spontanea e disinteressata attribuzione giuridica che venga compiuta da taluno a vantaggio di altri. Può dirsi che il concetto di liberalità descrive non soltanto l’assenza di un qualunque vincolo che induce al compimento dell’atto, ma anche la generosità e la munificenza, con la conseguenza che una liberalità presuppone una attribuzione giuridica disinteressata, che determini un arricchimento a vantaggio dell’altra parte dell’atto o del rapporto.

[47] Sulla rilevanza dell’interesse liberale, per tutti, A. Checchini, L'interesse a donare, Riv. dir. civ., 1976, 234-317. Alla pagina 299 s., scrive: «lo spirito di liberalità è quindi, sostanzialmente, un intento obiettivato nella dichiarazione negoziale, o comunque socialmente percepibile, interpretando il comportamento del soggetto in relazione alle circostanze, di soddisfare direttamente – attraverso lo spostamento patrimoniale anzidetto – un proprio interesse di natura non patrimoniale». 

[48] V., anche per maggiori riferimenti di dottrina e giurisprudenza, V. Barba, Art. 769 – Definizione, in G. Bonilini, Delle donazioni (3-85). Torino, 2014, 36 ss.

[49] In questo senso aiuta, ancorché riferita al trust, la recente decisione di Cass., sez. un., 12 luglio 2019, n. 18831, in Leggi d’Italia

[50] Si consideri che la legge San Marino, 1° marzo 2010, n. 43, all’art. 1, comma 3, stabilisce che l’affidamento fiduciario si presume gratuito. 

[51] Mutatis mutandis e con qualche ovvia e chiara differenziazione, mi pare che si pongono problemi non molto dissimili da quelli che si profilano nel caso di donazione di partecipazioni sociali che debbono essere valutate al tempo della apertura della successione. Sul tema, di recente, V. Barba, Collazione di partecipazioni sociali e criteri di determinazione del loro valore, in Dir. succ. fam., 2018, 723 ss. Si v. anche G. Perlingieri, La collazione per imputazione e il criterio di stima «al tempo dell’aperta successione». La collazione d’azienda, in Riv. dir. civ., 2011, 85 ss.; I. Martone, Collazione e attività di impresa, Napoli, 2019, 233 ss.

[52] Così, Cass., 12 maggio 2010, n. 11496, in Notariato, 2010, 508, con nota di G. Iaccarino, Circolazione dei beni: la Cassazione conferma che gli acquisti provenienti da donazioni sono sicuri; in Nuova giur. civ., 2010, 1238, con nota di A. Todeschini Premuda, Liberalità atipiche e azione di riduzione: dalla legittima in natura alla legittima come diritto di credito; in Fam. e dir., 2011, 348, con nota di A. Mari – G. Ridella, Gli effetti dell’azione di riduzione e restituzione nei confronti delle liberalità non donative, secondo la Corte di Cassazione; in Trust, 2011, 128, con nota di M. Di Paolo, La riduzione delle liberalità indirette; in Imm. e prop., 2012, 105, con nota di R. Scuccimarra, L’azione di riduzione nelle donazioni indirette; secondo la quale «alla riduzione delle liberalità indirette non si può applicare il principio della quota legittima in natura, connaturale invece all'azione nell'ipotesi di donazione ordinaria d'immobile (art. 560 c.c.); con la conseguenza che l'acquisizione riguarda il controvalore, mediante il metodo dell'imputazione, come nella collazione (art. 724 c.c.). La riduzione delle donazioni indirette non mette, infatti, in discussione la titolarità dei beni donati, né incide sul piano dalla circolazione dei beni. Viene quindi a mancare il meccanismo di recupero reale della titolarità del bene; ed il valore dell'investimento finanziato con la donazione indiretta, dev'essere ottenuto dal legittimario sacrificato con le modalità tipiche del diritto di credito». Ha aderito a questa soluzione, Trib. Roma, 30 maggio 2011, n. 11645, in Giur. mer., 2012, 381, con nota di R. Cimmino, Il commento, nella cui motivazione si legge: «Tuttavia, alla riduzione di siffatta liberalità indiretta non si applica il principio della quota legittima in natura (connaturata all’azione nell’ipotesi di donazione ordinaria di immobile ex art. 560 c.c.), poiché l’azione non mette in discussione la titolarità dei beni donati e l’acquisizione riguarda il loro controvalore, mediante il metodo dell’imputazione; pertanto mancando il meccanismo di recupero reale della titolarità del bene, il valore dell’investimento finanziato con la donazione indiretta dev’essere ottenuto dal legittimario leso con le modalità tipiche del diritto di credito». 

[53] Così, U. Carnevali, Sull’azione di riduzione delle donazioni indirette che hanno leso la quota di legittima, in Scritti in onore di Luigi Mengoni, I, Milano, 1995, 133 ss. spec. 136, «poiché tale coincidenza non si verifica nella riduzione delle donazioni indirette – in cui l’oggetto della riduzione è ora il depauperamento del donante, ora l’arricchimento del donatario –, risulta difficile  estendere anche alle liberalità indirette l’affermazione che l’azione di riduzione elimina il titolo di acquisto del donatario: titolo di acquisto che nei casi qui esaminati normalmente consiste in un negozio a titolo oneroso stipulato dal gratificato con un terzo (contratto di assicurazione sulla vita a favore altrui, contratto di compravendita e via dicendo), non escludendosi peraltro anche un acquisto a titolo originario (ad es. nel caso di costruzione con materiali propri sul fondo altrui)». S. Delle Monache, Successione necessaria e sistema di tutele del legitimario, Milano, 2008, 108 s. 

[54] Per questa ricostruzione v., per tutti V. Barba, Contenuto del testamento e atti di ultima volontà, cit., 3 ss. 

[55] Per tutti, v. G. Bonilini, Legato, in Dig. civ., vol. X, Torino, 1993, 433 s.; Id., I legati. Artt. 649-673, Milano, 2001, 63. 

[56] In questa direzione, può essere utile, sebbene abbia tratto a un tema differente, il recente orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di trust volto ad affermare che il presupposto impositivo implica un effettivo incremento patrimoniale, in guisa che deve escludersi in presenza di un atto “neutro”, ossia di un atto che pur attribuendo al soggetto la titolarità del diritto, non importa, altresì arricchimento. In questo senso, di recente, Cass., 30 aprile 2019, n. 1401, in Leggi d’Italia, nella cui massima si legge: «in tema di trust, relativamente alla variegata tipologia dei trasferimenti a titolo gratuito disposti dal settlor in favore del trustee, è da privilegiare l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2, commi 47 ss. del d.l. 3 ottobre 2006, n. 262, la quale, con confacente richiamo dell’art. 53, comma 1, Cost., circoscrive l’applicazione della suddetta norma tributaria, correlandola, in senso restrittivo, al rilievo della capacità contributiva comportata dal trasferimento del bene; sicché, quando il conferimento costituisce un atto sostanzialmente "neutro", che non arreca un reale ed "effettivo incremento patrimoniale al beneficiario", meramente formale dell'attribuzione, resta esclusa la ricorrenza di alcun trapasso di ricchezza suscettibile di imposizione indiretta». In questo senso, la Cassazione, manifestando anche una importante sensibilità ai princípi costituzionali, precisa che la mera attribuzione di un diritto a un soggetto non determina, per ciò solo e prescindendo dal profilo causale che sorregge e giustifica l’attribuzione patrimoniale, un vantaggio di carattere economico, ben essendo possibile che quella attribuzione non determini alcun incremento patrimoniale. In questa prospettiva si afferma che la tassazione non deve riguardare l’attribuzione fatta dal disponente al trustee, quando abbia una natura puramente strumentale al successivo trasferimento, ma l’attribuzione fatta da quest’ultimo al beneficiario, dacché soltanto in quel momento si realizza un reale e concreto arricchimento del soggetto. Si legge nella motivazione di Cass., 15 gennaio 2019, n. 734, in Leggi d’Italia «coerentemente con la natura e l’oggetto del tributo, sono rilevanti i vincoli di destinazione in grado di determinare effetti traslativi collegati al trasferimento di beni e diritti, che realizzano un incremento stabile, misurabile in moneta, di un dato patrimonio con correlato decremento di un altro». 

[57] Per maggiori approfondimenti, si rinvia a V. Barba, Il legato in conto di legittima, in Riv. dir. civ., 2019, 444 ss., e ivi riferimenti di dottrina e giurisprudenza. 

[58] Sul tema v. V. Barba, Pesi e condizioni sulla quota di legittima tra divieto e rimedi, in Annali della Sisdic, 2019, 193 ss. e ivi riferimenti di dottrina e giurisprudenza. 

[59] Cosí, L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione necessaria, in Tratt. dir. civ. e comm. Cicu e Messineo, XLIII, 2, 4 ed., Milano, 2000, 91. In senso adesivo, G. Schiavone, G. (2012). Le disposizioni testamentarie dirette ai legittimari, Milano, 2012, 67 s.

[60] A. Tullio, L’intangibilità dei diritti di riserva. Il divieto di pesi e condizioni, in G. Bonilini, Trattato di diritto delle successioni e donazioni, III, La successione legittima, Milano, 2009, 461. 

[61] L. Cariota Ferrara, Un caso in tema di legato a carico dei legittimari lesi, in Riv. dir. civ., 1959, 510. L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione necessaria, cit., 92 s., «sono esclusi dal dominio di questa norma i legati ordinati a carico dell’eredità o a carico di un legittimario istituito erede in una quota superiore alla sua legittima, siamo legati con efficacia reale o allegati obbligatori. Nella misura in cui il loro valore eccede la porzione disponibile o la frazione di questa inclusa nella quota attribuita al legittimario onerato, essi sono riducibili a norma dell’art. 554, con l’avvertenza che nel secondo caso, ove la successione sia gravata da altre liberalità, non è applicabile il criterio di riduzione proporzionale, il legato essendo stato posto dal testatore a carico non genericamente della disponibile, ma specificamente della parte di essa compresa nella quota attribuita all’onerato». 

[62] Unico rischio sarebbe voler considerare un peso sulla legittima la destinazione del bene destinato all’attuazione del programma, mercé la costituzione del vincolo. Tale ipotesi, che pure non può scartarsi con sicurezza, mi parrebbe di difficile verificazione nel caso concreto, nel quale il vincolo di destinazione è strumentale alla realizzazione del programma e non fine a sé stesso. In ogni caso, sarebbe, comunque, necessario che ricorressero tutte le condizioni poste dalla norma e la conseguenza non sarebbe, dal mio punto di vista, la nullità, bensì la sola inefficacia, relativamente ai beni eccedenti la disponibile. 

[63] Come è noto, la norma di cui all’art. 549 c.c., si limita ad affermare che il testatore non possa imporre pesi o condizioni sulla quota di legittima, senza specificare quale debba essere la conseguenza per il caso di violazione della regola. In tema sono state avanzate una pluralità di ricostruzioni che si estendono dalla nullità, all’annullabilità, fino all’inefficacia. 

[64] Per un approfondimento su questa ricostruzione si rinvia a V. Barba, Pesi e condizioni sulla quota di legittima tra divieto e rimedi, cit., 210 ss.