L’alienazione della quota millesimale
Com’è noto, rispetto alla comunione ordinaria, nel condominio delle parti comuni degli edifici l’autonomia dei privati è soggetta ad una serie di restrizioni che, solo per citarne alcune, vanno dalla previsione di quorum assembleari rafforzati per deliberarne la «modificazione della destinazione d’uso»[[1]], sempre che ciò avvenga «per soddisfare esigenze di carattere condominiale» (art. 1117-ter c.c.)[[2]], fino alla loro tendenziale indivisibilità salve le eccezioni di cui all’art. 1119 c.c.[[3]], passando per la loro irrinunziabilità (art. 1118, comma 2, c.c.)[[4]].
Nell’attuale versione della norma da ultimo citata[[5]], il divieto di rinuncia da parte del condomino al proprio diritto sulle parti comuni non risulta più correlato allo scopo di «sottrarsi al contributo nelle spese per la loro conservazione»[[6]], circostanza che ha indotto taluno[[7]] a ritenere ormai superato in via legislativa quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui, invece, occorre a tale riguardo distinguere a seconda che:
- sussista tra parti comuni e singole unità immobiliari di proprietà esclusiva «un legame materiale di incorporazione che renda le prime indissolubilmente legate alle seconde ed essenziali […] per l’esistenza ed il godimento [di queste ultime]»[[8]], nel qual caso il «vincolo di destinazione [sarebbe] caratterizzato dalla indivisibilità»[[9]],
- le parti comuni siano piuttosto «semplicemente funzionali all’uso ed al godimento delle [singole unità immobiliari], nel qual caso la cessione in proprietà esclusiva [potrebbe avvenire separatamente] dal diritto di condominio su(i) ben(i) comun(i) sicché la presunzione di cui all’art. 1117 cc [sarebbe] superata dal titolo»[[10]].
Sul piano del contenuto, deve ad ogni modo rilevarsi che l’art. 1118 c.c. ha innanzi tutto la funzione di definire la misura del diritto di ciascun condomino sulle cose comuni in via proporzionale rispetto «al valore dell’unità immobiliare che gli appartiene» (comma 1), «salvo che il titolo non disponga altrimenti»[[11]], così come l’art. 1123 c.c., salve le eccezioni ivi contemplate (tra cui la «diversa convenzione»), definisce la misura di partecipazione del singolo condomino alle spese condominiali in via proporzionale «rispetto al valore della proprietà di ciascuno» (comma 1)[[12]].
Dal comb. disp. delle norme da ultimo citate emerge pertanto un rapporto di tendenziale proporzionalità tra quota millesimale di proprietà sulle cose comuni e responsabilità per le spese condominiali, che altro non è se non una proiezione applicativa in subiecta materia del principio generale di cui all’art. 1101, comma 2, c.c.[[13]]
Insomma, il fondamento del divieto di rinuncia, per quanto attualmente codificato senza alcuna particolare connotazione teleologica, è tuttora da rinvenirsi nell’esigenza di proteggere i condòmini diversi dal rinunciante dalle conseguenze pregiudizievoli della rinuncia altrui, prima tra tutte la concentrazione in loro capo delle spese condominiali, senza poter poi di fatto beneficiare, al di là dell’accrescimento della loro quota di titolarità[[14]], di conseguenze favorevoli sul piano fattuale, poiché, se non altro qualora si tratti di parti comuni «necessarie per l’esistenza o per l’uso delle unità immobiliari in proprietà esclusiva […], nonostante la rinunzia al diritto, il condomino continuerebbe a valersi delle cose, dei servizi e degli impianti»[[15]].
Ma da tale ultimo argomento potrebbe non doversi dedurre automaticamente[[16]] l’inammissibilità di un’alienazione della quota millesimale perfezionata col consenso (non solo del condomino disponente ma) anche del soggetto nella cui sfera giuridica si produrranno i conseguenti effetti negoziali, favorevoli (acquisto della quota millesimale) e sfavorevoli (sopportazione delle correlate spese condominiali)[[17]].
Insomma, se il cessionario della quota millesimale è d’accordo a sostenere le correlate spese condominiali sia pure senza la contemporanea esclusione del condomino cedente dalla fruizione della cosa comune, in mancanza di una specifica lesione degli interessi degli altri condòmini presidiati dall’art. 1118, comma 1, c.c. per effetto della conseguente alterazione del principio di proporzionalità ivi contemplato[[18]], il generale divieto di dismissione unilaterale (rinuncia) potrebbe non significare inevitabilmente divieto pure di alienazione contrattuale[[19]] né, come ritiene la giurisprudenza[[20]], della quota millesimale sulle sole parti comuni c.dd. “necessariamente” condominiali, né su quelle c.dd. “funzionalmente” tali[[21]].
Né pare possa aprioristicamente predicarsi l’immeritevolezza di una convenzione di tal fatta, se è vero che la quota millesimale determina indirettamente pure uno dei parametri di riferimento dei quorum assembleari, com’è noto basati non solo sul numero dei partecipanti al condominio, ma anche, appunto, sulla quota che i condòmini partecipanti rappresentano del «valore dell’intero edificio» (cfr. art. 1136 c.c.).
Tale ultima locuzione, infatti, in ipotesi di avvenuta alterazione del rapporto di proporzionalità di regola intercorrente tra valore della singola unità immobiliare e valore della quota millesimale per effetto dell’ipotizzata alienazione di quest’ultima, dovrebbe ora essere ragionevolmente riferita al valore della quota millesimale sulla parte comune oggetto della delibera di cui trattasi, essendo ormai l’alienante, sul piano della titolarità, in una condizione proprietaria analoga a quella del condomino estraneo al «gruppo di condomini che […] trae utilità» dalle parti comuni oggetto del c.d. «condominio parziale ex lege»[[22]], cui la giurisprudenza[[23]] da tempo non riconosce alcun «diritto di partecipare all’assemblea, [né alcuna] obbligazione di contribuire alle spese»[[24]].
Con l’unica differenza che qui il diverso assetto proprietario[[25]] sulla cosa comune non sarebbe la conseguenza di un fatto (la destinazione della parte comune a servizio solo di alcuni dei condòmini), bensì sarebbe l’effetto giuridico scaturente da un atto di autonomia privata (contratto).
Potrebbe invero obiettarsi che è proprio la lettera dell’art. 1118, comma 1, c.c. a non consentire deroghe al rapporto di proporzionalità tra quota di comproprietà sulle parti comuni e valore dell’unità immobiliare in proprietà esclusiva senza il consenso individuale di tutti condòmini[[26]], la cui mancanza impedirebbe pertanto, come peraltro ritiene la giurisprudenza[[27]], di raggiungere tale risultato mediante contratto successivo (tra cedente e cessionario)[[28]], analogamente a quanto avviene con riferimento all’individuazione delle parti comuni ex art. 1117 c.c.[[29]]
Ma non bisogna dimenticare che nella fattispecie contemplata dalla norma da ultimo citata, una volta determinate (dalla legge o dal titolo che abbia disposto diversamente) le parti comuni del complesso edilizio, occorre il consenso di tutti i condòmini per modificarne la individuazione perché altrimenti si perpetrerebbe un’inaccettabile intrusione nella sfera giuridica dei non consenzienti, che resta invece intatta nel caso qui di diretto interesse.
Con ciò, si badi, non s’intende azzardare un’interpretazione diversa per la medesima espressione («titolo») contenuta in due norme peraltro pressoché susseguenti l’una all’altra, e quindi ipotizzare che nell’art. 1117 c.c. il riferimento sarebbe al solo atto costitutivo del condominio od alle sue modificazioni successive con consenso individuale di tutti i condòmini[[30]], mentre nell’art. 1118 c.c. il riferimento sarebbe pure ai successivi atti di alienazione da parte dei singoli condòmini col consenso del rispettivo cessionario e senza quello degli altri condòmini.
Qui s’intende soltanto evidenziare che la modificazione della misura di partecipazione millesimale alle parti comuni che deriverebbe da un’eventuale atto dispositivo della stessa senza il consenso di tutti i condòmini, ove lo si ritenga ammissibile, non determinerebbe alcuna modificazione dell’oggetto del diritto dei non consenzienti, né in positivo (la quota millesimale alienata verrebbe acquistata solo da chi vi ha consentito), né in negativo (le relative spese graverebbero solo su costui), né tanto meno avrebbe ad oggetto diritti altrui[[31]].
Il che spiegherebbe peraltro l’espressa previsione del divieto di rinuncia ex art. 1118, comma 2, c.c., poiché se davvero si fosse voluta precludere ogni modifica delle quote millesimali senza il consenso di tutti i condòmini, allora sarebbe potuta a questo punto bastare la previsione del precedente comma 1 così come è bastata la previsione di cui all’art. 1117, comma 1, c.c. a precludere ogni modifica dell’oggetto della proprietà comune dei condòmini senza il loro unanime consenso.
Né può infine ritenersi che l’unica forma di disposizione dei diritti del condomino sulla quota millesimale sia quella oggi prevista nell’art. 1118, comma 3, c.c., che contempla una rinuncia non alla quota di comproprietà dell’impianto centralizzato (fattispecie vietata dall’art. 1118, comma 2, c.c.), bensì al solo suo «utilizzo», da cui deriva una concentrazione del relativo godimento in capo agli altri condòmini, con conseguente limitazione della partecipazione del rinunciante alle relative spese, senza tuttavia venirne esonerato, e ciò proprio perché resta comproprietario di tale «accessorio di proprietà comune, al quale […] potrà comunque, in caso di ripensamento, riallacciare la propria unità immobiliare»[[32]].
Tant’è che se poi «il mancato allaccio di un singolo condomino [è] conseguenza della impossibilità tecnica di fruizione del nuovo impianto condominiale a vantaggio di una unità immobiliare, restando impedito altresì un eventuale futuro riallaccio, deve ritenersi che tale condomino non sia più titolare di alcun diritto di comproprietà sull’impianto, e non debba perciò nemmeno più partecipare ad alcuna spesa ad esso relativa, essendo nulla la [delibera] assembleare che addebiti le spese di riscaldamento ai condòmini proprietari di locali cui non sia comune l’impianto centralizzato, né siano serviti da esso»[[33]].
NOTE:
[1] Che, in materia di comunione ordinaria, si tende a ricondurre alle «innovazioni» che «si possono disporre», ai sensi e per gli effetti dell’art. 1108 c.c., «con deliberazione della maggioranza dei partecipanti che rappresenti almeno due terzi del valore complessivo della cosa comune» (Cass., 26 maggio 2006, n. 12654, in De jure).
[2] Sul rapporto tra «modificazioni necessarie per il migliore godimento della cosa» di cui all’art. 1102, comma 2, c.c., «innovazioni» di cui agli artt. 1120 s., c.c., e «modificazione della destinazione d’uso» di cui all’art. 1117-ter c.c., v., in particolare, R. PEZZULLO, Le novità in materia di parti comuni, in S. SICA – P. PACILEO – R. PEZZULLO – A. SCARPA – T. TOMEO, La nuova disciplina del condominio, Bologna, 2013, 63 ss.
[3] Si tratta di una deroga al generale favor divisionis di cui all’art. 1111 c.c. che si giustifica con la strumentalità delle parti comuni rispetto al godimento delle unità di proprietà esclusiva dei condòmini: in argomento v., tra i tanti, M. DOGLIOTTI, I diritti reali, VII, La comunione. Il condominio, in Tratt. dir. civ. Sacco, Torino, 2006, 217. Ma il rilievo non va oltremodo enfatizzato, se è vero che «l’unanimità dei consensi espressi dai condomini – che sono arbitri di valutarne l’opportunità e la coerenza con i propri bisogni – preclude […] qualsiasi sindacato, da parte del giudice, quanto alla comodità risultante a ciascuno di loro dall’intervento divisorio» (così, da ultimo, A. CIATTI CÀIMI, Condominio negli edifici, in Comm. cod. civ. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 2022, 89).
[4] Oltre ad evidenziare la specialità della norma de qua rispetto a quella generale in tema di comunione (art. 1104 c.c.), pone l’accento sulla sua «analogia con il divieto di rinunzia previsto dal comma 2 dell’art. 882 c.c., imposto al comproprietario del muro comune che sostenga un immobile di sua proprietà esclusiva», discorrendo anche lì di «contitolarità necessaria o, meglio, [di] un concorso necessario di diritti omogenei sulle parti comuni», F.G. VITERBO, La rinunzia del comproprietario al suo diritto, in Riv. dir. civ., 2016, 2, 398.
[5] Entrata in vigore il 18 giugno 2013 (art. 32, l. 11 dicembre 2012, n. 220).
[6] Come avveniva nella precedente versione della norma, in vigenza della quale M.E. LA TORRE, Abbandono e rinunzia liberatoria, Milano 1993, 176 ss., ipotizzava un parallelo della fattispecie di cui si discute con quella di cui all’art. 1104, comma 2, c.c.; meno chiaro F. GIRINO, Il condominio negli edifici, in Tratt. dir. priv. Rescigno, 8, Torino, 1982, 378, che, da una parte, considerava in astratto tale «rinuncia […] ammissibile, [sia pure con] efficacia […] parziale», in quanto inidonea a determinare il venir meno dell’obbligo «di contribuire alle spese per la conservazione delle cose comuni», dall’altra, però, riteneva inammissibile la «rinunzia alla sola comproprietà […] in base al rapporto che corre fra proprietà esclusiva e cose comuni».
[7] V., ad esempio, M.V. MACCARI, Indisponibilità pro quota dei beni condominiali (artt. 1117 e 1118 cod. civ.), in L. MAMBELLI – J. BALOTTIN (a cura di), Glossario notarile, Milano, 2012, 194; in argomento cfr. pure M. Monegat, La riforma del condominio, Milano, 2013, 54 ss.; L. Bellanova, L’uso delle parti comuni, in R. Triola (a cura di), Il nuovo condominio, Torino, 2017, 192. Per una diversa ricostruzione, in dottrina, v., in particolare, A. Musto, Vendita di quote di un bene condominiale: il controverso concetto di “modifica di destinazione d’uso” cui all’art. 1117-ter. Quesito n. 372-2014/C, 2014, in webrun.notariato.it; P. Guggioli e M. Giorgetti, Il nuovo condominio. Commento alla legge di riforma n. 220/2012, Milano, 2013, 94.
[8] Cass., 18 gennaio 2005, n. 962, in Imm. propr., 2005, 5, 286. La distinzione tra parti comuni necessariamente tali e solo funzionalmente tali si ritrova già in Cass., 2 luglio 2004, n. 12128, in Mass. Giust. civ., 2004.
[9] Ma v., nella giurisprudenza di merito, Trib. Reggio Emilia, 25 marzo 2016, n. 496, in One Legale. Nella giurisprudenza di legittimità si è comunque da tempo evidenziato che tale divieto di rinuncia non deve tradursi in un irragionevole strumento di abuso ai danni del singolo condomino e che pertanto «esulano dalla previsione dell’art. 1118 c.c. impianti superflui [(es., autoclave)] o vietati [(es., pozzo nero)], sicché [in tali ipotesi] il condomino [ben] può rinunciare al diritto sugli impianti medesimi e non è tenuto a sostenere le relative spese di conservazione, quando l’altro condomino intenda persistere nella utilizzazione di detti impianti, pur in presenza di nuove tecniche o servizi predisposti dalla Pubblica Amministrazione, poiché, in tal caso, la esistenza di detti impianti trova ragione nella esclusiva determinazione del condomino che intende ancora utilizzarli».
[10] Cass., 18 gennaio 2005, n. 962, cit. Sulla qualificazione dell’individuazione delle parti comuni operata dall’art. 1117 c.c. in termini di «presunzione relativa sui generis […] perché intaccabile solo da un esclusivo mezzo probatorio documentale, il titolo», v. F. GIRINO – G. BAROLI, Condominio negli edifici, in Dig. civ., III, Torino, 1988, 406 ss. Sul reale significato del ricorrente riferimento giurisprudenziale al concetto di presunzione v., però, Cass., sez. un., 7 luglio 1993, n. 7449, in Foro it., 1993, c. 2811.
[11] Sempre che ciò risponda ad un interesse meritevole di tutela, come correttamente osserva C.M. bianca, Diritto civile, 6, La proprietà, 2ª ed., Milano, 2017, 368.
[12] Trovando l’«obbligo del condomino di contribuire alle spese necessarie alla conservazione ed al godimento delle parti comuni dell'edificio, alla prestazione dei servizi nell'interesse comune e alle innovazioni deliberate dalla maggioranza […] la sua fonte nella comproprietà o nell'utilità delle parti comuni dell'edificio, con la conseguenza che, ai sensi dell'art. 1118 c.c., il partecipante non può sottrarsi a detto obbligo neppure rinunziando al diritto sui beni in comune o modificando la destinazione della propria unità immobiliare» (così, da ultimo, Cass., 13 maggio 2022, n. 15317, in De jure).
[13] Se è vero che «il diritto di ciascuno investe l’immobile nella sua totalità, la quota di proprietà di cui all’art. 1118 c.c., quale misura del diritto di ogni condomino, rileva relativamente ai pesi ed ai vantaggi della comunione; ma non in ordine al godimento che si presume uguale per tutti, come ribadisce l’art. 1102 c.c., con il porre il limite del “pari uso”» (Cass., 7 dicembre 2006, n. 26226, in Riv. not., 2007, 3, 653).
[14] Che, in ipotesi di rinuncia alla quota sul bene in comunione ordinaria ex art. 1104 c.c., rappresenta in generale una conseguenza sistematica sicura del «principio di elasticità della proprietà, [da cui deriva, appunto] l’accrescimento della quota rinunciata a favore de[gli altri comproprietari]» (Cass., 9 novembre 2009, n. 23691, in Dir. giust. on line, 2009, 166, con nota di D. PAPAGNI, La “rinunzia abdicativa” della quota del bene in comunione).
[15] Cass., 29 maggio 1995, n. 6036, in Vita not., 1996, 215, che reputa pertanto invalida la rinuncia al diritto su parti comuni «necessarie per l’esistenza o per l’uso dei piani o delle porzioni di piano, ovvero [destinate] al loro uso o servizio».
[16] In tale direzione invece, tra i tanti e da ultimo, G. TERZAGO, Il condominio, 9a ed. a cura di A. Celeste e P. Terzago, Milano, 2022, 40, che, con specifico riferimento alla riserva di proprietà sulle cose comuni da parte del singolo condomino che alieni a terzi l’unità immobiliare di proprietà esclusiva, parla di «inefficacia degli atti di disposizione della cosa comune singolarmente considerata» nel rapporto tra il cedente ed il condominio, «e, quindi, [di] inopponiblità nei confronti del condominio della riserva di proprietà da parte del cedente sulle cose comuni».
[17] Se è vero che «l’estensione della quota [regola] la vita della comunione a norma dell’art. 1101, implicitamente richiamato, in fatto di condominio, dal successivo art. 1139», sicché, «in base ad essa verranno ad essere acquisiti a ciascuno dei condomini gli incrementi materiali o immateriali di valore delle cose e delle opere comuni, così come graveranno gli oneri e le spese relative (tolti i casi preveduti dall’art. 1123 2° e 3° comma); e nelle deliberazioni dell’assemblea condominiale ognuno conterà in ragione della quota» (G. BRANCA, Comunione. Condominio negli edifici, in Comm. cod. civ. Scialoja e Branca, 6a ed., Bologna-Roma, 1982, 408).
[18] Essendo peraltro vero, in generale, che la difesa di un interesse specifico non pregiudicato da atti di terzi che indirettamente lo investono non può costituire un ostacolo all’attività giuridica: in questa prospettiva v., in particolare, P. PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, 4a ed., III, Napoli, 2020, 289, nonché già ID., Introduzione alla problematica della proprietà, rist. 1971, Napoli, 2011, 202 ss., che, con riferimento alla proprietà, pone l’attenzione sulla ragione di tutela del diritto reale.
[19] Così, invece, da ultimo, Cass., 22 giugno 2022, n. 20111, in Guida dir., 2022, 34.
[20] Che, pure in vigenza del nuovo art. 1118, comma 2, c.c., ai fini dell’ammissibilità o meno della «cessione delle singole unità immobiliari separatamente dal diritto sulle cose comuni», distingue tuttora tra «condominialità “necessaria” o “strutturale”, [ove sussista la sua] incorporazione fisica [con le] porzioni esclusive ovvero […] l’indivi[s]ibilità del legame attesa l’essenzialità dei beni condominiali per l’esistenza delle proprietà esclusive [e] condominialità solo “funzionale” all’uso e al godimento delle singole unità» (così, da ultimo, Cass., 26 gennaio 2021, n. 1610, in Ced on line).
[21] Le quali ultime, secondo una pronuncia della Suprema Corte (sia pure riguardante una controversia sorta nella vigenza della precedente versione dell’art. 1118, comma 2, c.c.), potrebbero addirittura formare anche oggetto di rinuncia unilaterale: Cass., 18 settembre 2015, n. 18344, in Ced on line, 2015.
[22] Ovverosia quello che si viene a configurare «tutte le volte […] in cui un bene […] risulti, per le sue obbiettive caratteristiche strutturali e funzionali, destinato al servizio e/o al godimento, in modo esclusivo, di una parte soltanto dell’edificio in condominio, […] venendo in tal caso meno il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria di tutti i condòmini su quel bene» (così, da ultimo, Cass., 16 gennaio 2020, n. 791, in Studium iuris, 2020, 9, 1082). In dottrina v., di recente, G.A. CHIESI, Condominio parziale: questo (semi)sconosciuto..., in Imm. propr., 2016, 627.
[23] Contra, in dottrina, G. BRANCA, Comunione, cit., 638, secondo cui poiché «anche nel caso di parti comuni […] che servono solo ad alcuni, tutti ne [sono] condomini, […] tutti devono essere convocati benché le spese siano a carico solo di quelli». L’a. distingue ad ogni modo dal caso di beni comuni a tutti i condòmini benché destinati a servirne soltanto alcuni, la diversa ipotesi in cui, invece, si tratti «di cose che appartengono in comunione solo ad alcuni condomini, [nel quale ultimo caso] soltanto costoro saranno convocati e delibereranno» (638).
[24] Cass., 27 settembre 1994, n. 7885, in Mass. Giur. it., 1994; più di recente v., nella stessa direzione, Cass., 2 marzo 2016, n. 4127, in Riv. giur. edil., 2016, I, 1043. Sul punto v., in dottrina, A. SCARPA, Le spese, in R. TRIOLA (a cura di), Il nuovo condominio, Torino, 2017, 779.
[25] E delle tabelle millesimali: M. DOGLIOTTI – A. FIGONE, Il condominio, in Giur. sist. civ. comm. Bigiavi, Torino, 2001. Osserva correttamente A. CIATTI CÀIMI, Condominio negli edifici, cit., 98 s., che nelle ipotesi di cui all’art. 1123, comma 3, c.c., «ove il regolamento predisposto dal costruttore e accettato dagli acquirenti, ovvero la convenzione unanime stipulata dai partecipanti, non stabiliscano diversamente, va esclusa la stessa contitolarità della cosa tra tutti i partecipanti al condominio, dovendosi viceversa [la medesima] riconoscere soltanto a quei soggetti che, proprio in quanto unici condomini, siano chiamati a sopportarne le spese. Per una diversa ricostruzione v. F.G. VITERBO, Variabilità e relatività dei rapporti condominiali. Proprietà, persone, “gruppo”, Napoli, 2021, 91 ss.
[26] Anche mediante regolamento di condominio c.d. “esterno”, ossia predisposto dal costruttore e poi accettato dai singoli acquirenti delle unità immobiliari, così acquisendo natura contrattuale: cfr., in particolare, Cass., 11 novembre 2002, n. 15794, in Arch. civ., 2003, 955; in tale direzione, d’altronde, già Cass., sez. un., 7 luglio 1993, n. 7449, cit.
[27] Cfr. Cass., 29 gennaio 2015, n. 1680, in Ced on line. Nello stesso senso sembrano orientarsi, da ultimo, Cass., 26 gennaio 2021, n. 1610, in One Legale; Cass., 21 agosto 2017, n. 20216, in Imm. propr., 2017, 10, 598.
[28] In questa direzione, ad esempio, sembra orientato A. GALLUCCI, Il condominio negli edifici. La nuova disciplina dopo la riforma, Padova, 2013, 65.
[29] Fermo restando che «la comproprietà di una o più cose, non incluse tra quelle elencate nell’art. 1117 c.c. […], può essere attribuita a tutti i condòmini quale effetto dell’acquisto individuale operato con i rispettivi atti di una quota di tale bene, oppure in forza di un contratto costitutivo di comunione, ai sensi dell’art. 1350 c.c., n. 3 e art. 2643 c.c., n. 3 recante l’inequivoca manifestazione del consenso unanime dei condòmini, espressa nella forma scritta essenziale, alla nuova situazione di contitolarità degli immobili individuati nella loro consistenza e localizzazione»: Cass., 20 aprile 2021, n. 10370, in Imm. propr., 2021, 399.
[30] Ed infatti «se, in occasione del primo atto di frazionamento della proprietà di un edificio, la destinazione obiettiva di un bene potenzialmente comune non è contrastata dal titolo, nasce la comunione di tale bene e tale comunione non potrà certo venire meno in seguito a mezzo di un negozio proveniente da uno solo dei condòmini ed inteso ad attribuire la proprietà ad un terzo; se invece, in occasione del primo atto di frazionamento, la proprietà di un bene potenzialmente rientrante nell’ambito dei beni comuni risulta riservata ad uno dei contraenti, sarà tale atto a costituire la regola fondamentale relativa alla proprietà del bene, ad escludere cioè che il bene possa farsi rientrare nel novero dei beni comuni: in conseguenza, ove in occasione di successive vendite di appartamenti dell’edificio, nulla si stabilisca in punto, non potrà scattare la presunzione di comunione in quanto già esclusa dal titolo contrario di cui all’atto di nascita del condominio» (Cass., 11 giugno 1986, n. 3867, in Foro it., 1986, I, c. 2451). Nello stesso senso, da ultimo, Cass., 6 luglio 2022, n. 21440, con nota anepigrafa di R. Triola, in Imm. propr., 2022, 8-9, 528.
[31] Come invece ovviamente avverrebbe qualora, successivamente alla prima alienazione da cui è derivata la costituzione del condominio in assenza di diversa previsione da parte del titolo ex art. 1117 c.c., il soggetto originariamente proprietario dell’intero stabile (ed ormai condomino) trasferisca all’acquirente di una singola unità immobiliare dei beni che devono invece ritenersi ormai oggetto di condominio: cfr., ad esempio, il caso posto all’attenzione di Cass., 12 febbraio 1998, n. 1498, in Giust. civ., 1999, I, 570.
[32] Così, già prima dell’entrata in vigore della norma in commento, Cass., 29 marzo 2007, n. 7708, in Arch. locazioni, 2007, 5, 516. Nello stesso senso v., da ultimo, Cass., 31 agosto 2020, n. 18131, in Ced on line, 2020.
[33] Cass., 31 agosto 2020, n. 18131, cit.