Giuffré Editore

L’articolo 20 del Testo unico dell’imposta di registro: dalla giurisprudenza di legittimità alla legge di bilancio 2018


di Annarita Lomonaco

Ufficio Studi Consiglio Nazionale del Notariato


Vi chiederete: perché ancora una relazione sull’art. 20 del Testo unico dell’imposta di registro, che reca una norma cardine del relativo sistema, oggetto di ampie e numerose trattazioni fin dalla legge di registro del 1923?

Perché dopo aver assistito da oltre quindici anni ad un utilizzo della disposizione da parte degli uffici finanziari e della giurisprudenza, soprattutto di legittimità, per fondare recuperi di imposta motivati da una valorizzazione dell’operazione economica complessivamente realizzata, anche attraverso una sequenza di atti distinti ed anche con parti diverse, a prescindere dagli effetti giuridici derivanti dallo schema negoziale adottato dalle parti – utilizzo fortemente criticato dalla dottrina assolutamente maggioritaria, e da diversi studi del Consiglio Nazionale del Notariato – è stata avvertita l’esigenza di intervenire legislativamente per ricondurre l’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986 nei suoi “ranghi” di norma sull’interpretazione del contenuto giuridico dell’atto presentato alla registrazione, coerente con il sistema dell’imposta di registro.

Vorrei pertanto articolare il mio intervento di oggi esaminando le modifiche apportate dalla legge di bilancio 2018, dopo aver ricordato in sintesi i tratti salienti del dibattito che ha preceduto e determinato le suddette modifiche, dedicando particolare attenzione, da un lato, alla casistica negoziale, e, da un altro lato, al ruolo del notaio nel sistema di “Adempimento unico”.


Il dibattito sull’art. 20 del Testo unico

Quanto alla controversa portata applicativa dell’art. 20 del d.p.r. n. 131/1986 – che, nella sua formulazione anteriore all’entrata in vigore delle legge di bilancio 2018, disponeva «l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente» – si sono andati sempre più consolidando prassi amministrative ed indirizzi della giurisprudenza di legittimità che – dapprima riconoscendo, e poi, successivamente, negando all’art. 20 una funzione antielusiva – hanno ritenuto che l’art. 20 suddetto imponesse «ai fini della determinazione dell’imposta di registro, di qualificare l’atto, o il collegamento di più atti, in ragione della loro intrinseca portata, cioè in ragione degli effetti oggettivamente raggiunti dal negozio o dal collegamento negoziale» (Cass. n. 11666/2017).

L’art. 20 fisserebbe pertanto, secondo la Cassazione, un chiaro criterio secondo il quale «nell’imposizione del negozio, deve attribuirsi rilievo preminente alla sua causa reale ed all’effettiva regolamentazione degli interessi realmente perseguiti dai contraenti». In altri termini l’imposta di registro andrebbe configurata come «”imposta sul negozio” correlata alla causa concreta dell’operazione» in conformità con il principio costituzionale di capacità contributiva. Si ritiene quindi che «l’interpretazione atomistica dell’operazione negoziale non (sia) in grado di misurare il reale movimento di ricchezza, che si rivela soltanto nella dimensione complessiva dell’affare» (Cass. n. 6758/2017).

E va notato come l’abbandono, da parte della Cassazione, del ricorso all’art. 20 quale norma antielusiva ha comportato, ai fini della qualificazione del contratto, o meglio, dell’operazione negoziale complessiva secondo i principi ora menzionati, l’irrilevanza della valutazione in ordine all’esistenza o meno di valide ragioni economiche idonee a giustificare l’operazione stessa, così ampliando – rispetto all’indirizzo precedente - la portata stessa della norma. 

Va ricordato, peraltro, come anche l’Agenzia delle entrate abbia affermato, più di recente, in alcune risoluzioni, la prevalenza dell’art. 20 rispetto all’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente, proprio richiamando l’orientamento della giurisprudenza di legittimità ed attribuendo rilievo, dunque, ai sensi del suddetto art. 20, alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguiti dai contraenti, anche se mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali, avendo valore preminente l'unitarietà dell'operazione economica (ris. n. 98/E del 2017).

Ma, più nel dettaglio, a quali risultati ha condotto l’attività interpretativa così configurata dagli uffici e dalla giurisprudenza? Cioè quali fattispecie sono state in concreto oggetto di qualificazione secondo questi criteri?

Direi che in via esemplificativa e non esaustiva, tra quelle più ricorrenti devono essere menzionate:

– il conferimento di immobili (talvolta gravati da mutui ipotecari) o di aziende, seguito dalla cessione (non necessariamente totalitaria) delle partecipazioni, ottenute dal conferente, ai soci della conferitaria o a terzi; atti unitariamente qualificati – sulla base delle circostanze del caso concreto – e quindi tassati con imposta proporzionale di registro come cessione diretta dell’azienda (o dell’immobile) al cessionario delle partecipazioni (ex multis, Cass. n. 6758/2017);

– la cessione totalitaria delle partecipazioni sociali, ritenuta qualificabile (e tassabile) come cessione di azienda, attesa «l’identità della funzione economica dei due contratti, consistente nel trasferimento del potere di godimento e di disposizione dell’azienda» (Cass. n. 8542/2016);

– la cd. cessione spezzatino, ossia la qualificazione come cessione di azienda di una pluralità di atti di cessione al medesimo acquirente, di beni, attività e passività aziendali, atomisticamente considerati, che «se funzionalmente e cronologicamente collegati possono esser idonei a realizzare “oggettivamente” gli effetti della vendita» dell’azienda (ex multis, Cass. n. 8793/2017);

– la vendita di un fabbricato da demolire, qualificata come cessione di area edificabile sulla base di elementi interpretativi esterni e (eventualmente) successivi all’atto, in questa ipotesi consistenti in atti giuridici non negoziali o semplici comportamenti delle parti (ad es. pareri tecnici di edificabilità, presentazione di istanza alla P.A. per la demolizione/ricostruzione, la realizzazione di attività edilizia, ecc.) (Cass. n. 10113/2017).

Come accennato, la reazione della dottrina è stata fortemente critica, in quanto l’art. 20 – come rilevato anche in precedenti studi del Consiglio Nazionale del Notariato – non solo non consente di superare il limite del contenuto giuridico dell’atto presentato alla registrazione, anche per coerenza con il procedimento di applicazione e di riscossione dell’imposta di registro, indubbiamente strutturato – salvo espresse eccezioni – sul singolo atto (in dottrina si parla infatti di “imposta istantanea”, che fotografa cioè l’atto al momento della registrazione ), ma soprattutto non consente di applicare l’imposta ad un negozio differente ed alternativo (ad es. la cessione di azienda) rispetto a quello emergente dall’atto stipulato (ad es. il conferimento dell’azienda e la cessione delle partecipazioni, cui il legislatore riconduce uno specifico regime fiscale), operando così dal punto di vista logico-giuridico una sostituzione della fattispecie negoziale scelta con una diversa fattispecie individuata in considerazione della medesima sostanza economica. Valorizzazione della sostanza economica che, al più, ma se in presenza dei relativi presupposti, potrebbe trovare spazio in un accertamento anti abuso.


L’intervento del legislatore: la riformulazione dell’art. 20

A fronte di questi orientamenti, indubbiamente forieri di incertezze – specie per le imprese – in ordine al peso fiscale della programmazione negoziale, è intervenuta la legge di bilancio 2018[[1]], proprio – come si legge nella relazione illustrativa al disegno di legge – per dirimere alcuni dubbi interpretativi relativi alla portata applicativa dell’art. 20 del Testo unico, resi evidenti dall’esame delle posizioni assunte dalla giurisprudenza di legittimità.

E nella relazione illustrativa è evidenziata la finalità dell’intervento normativo, ossia «stabilire che detta disposizione deve essere applicata per individuare la tassazione da riservare al singolo atto presentato per la registrazione, prescindendo da elementi interpretativi esterni all'atto stesso (ad esempio, i comportamenti assunti dalle parti), nonché dalle disposizioni contenute in altri negozi giuridici "collegati" con quello da registrare». 

Non rilevano, inoltre, sempre secondo la relazione, per la corretta tassazione dell’atto, «gli interessi oggettivamente e concretamente perseguiti dalle parti nei casi in cui gli stessi potranno condurre ad una assimilazione di fattispecie contrattuali giuridicamente distinte (non potrà, ad esempio, essere assimilata ad una cessione di azienda la cessione totalitaria di quote)».

La relazione manifesta pertanto, direi, una chiara volontà di escludere quel tipo di utilizzo dell’art. 20 di cui abbiamo parlato, effettuato dagli uffici finanziari e dalla giurisprudenza, riferendosi anche espressamente ed in via esemplificativa proprio ad una delle fattispecie più ricorrenti, cogliendone esattamente la criticità, evidenziata anche dalla dottrina: la giurisprudenza procedeva nei suoi arresti ad un’assimilazione, ad una sostituzione di fattispecie negoziali aventi diversi effetti giuridici, assimilazione non consentita ai sensi dell’art. 20, secondo la relazione illustrativa.

Attualmente il testo vigente dell’art. 20, risultante all’esito delle modifiche, dispone:

«L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparentesulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi».

Il testo esplicita, dunque, quanto tradizionalmente sostenuto in dottrina con riguardo alla precedente formulazione dell’art. 20, che non consentirebbe nell’interpretazione dell’atto presentato alla registrazione, ai fini della sua corretta tassazione, il ricorso ad elementi extratestuali e ad atti collegati (salvo specifiche disposizioni), in quanto l’imposta di registro deve essere applicata sulla base degli effetti giuridici, riconducibili allo schema negoziale adottato dalle parti ed emergente dall’atto stesso.

Questa considerazione porta ad interrogarsi sull’efficacia delle modifiche apportate dalla legge di bilancio.

La relazione tecnica al disegno di legge si esprime genericamente in termini di “norma chiarificatrice”, ma il servizio del bilancio del Senato, nella nota di lettura n. 195 del disegno di legge, pur rilevando che la precisazione normativa è finalizzata ad assicurare la certezza del diritto, potendo svolgere anche per il futuro una funzione deflattiva del contenzioso con l’Amministrazione finanziaria, osserva come la stessa non sembrerebbe avere natura di norma di interpretazione autentica in senso tecnico, con la conseguenza che «gli effetti della stessa dovrebbero valere per il futuro e non retroagirebbero quindi con riguardo alle fattispecie in essere ed ai contenziosi non ancora definiti».

Ma su questo aspetto servirà un chiarimento da parte dell’Agenzia delle entrate[2].


(Segue) le modifiche all’art. 53-bis del Testo unico

La legge di bilancio interviene anche sul testo dell’art. 53-bis del d.P.R. n. 131 del 1986, relativo alle attribuzioni e poteri degli uffici, premettendo all’attuale formulazione l’inciso «fermo restando quanto previsto dall’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212», disposizione, come a tutti noto, recante la disciplina sul contrasto all’abuso del diritto.

Ciò conferma semplicemente – e qui davvero non c’è alcun elemento di novità – l’applicabilità della disciplina (sostanziale e procedimentale) dell’art. 10-bis cit., dalla sua introduzione nell’ordinamento, all’imposta di registro, come sostenuto anche negli studi del Consiglio Nazionale del Notariato.

Ed al riguardo, sempre nella relazione illustrativa al disegno di legge di bilancio 2018 si legge che «è evidente che ove si configuri un vantaggio fiscale che non può essere rilevato mediante l’attività interpretativa di cui all’articolo 20 del T.U.R., tale vantaggio potrà essere valutato sulla base della sussistenza dei presupposti costitutivi dell’abuso del diritto di cui all’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente). In tale sede andrà quindi valutata, anche in materia di imposta di registro, la complessiva operazione posta in essere dal contribuente, considerando, dunque, anche gli elementi estranei al singolo atto prodotto per la registrazione, quali i fatti, gli atti e i contratti ad esso collegati. Con le modalità previste dall’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, potrà essere, quindi, ad esempio, contestato l’abusivo ricorso ad una pluralità di contratti di trasferimento di singoli assets al fine di realizzare una cessione d’azienda».

Questo esempio a mio avviso suggerisce una riflessione: i casi rispetto ai quali la giurisprudenza ha operato quella che abbiamo definito una sostituzione, assimilazione di fattispecie negoziali ai sensi dell’art. 20 (non consentita), possono essere accertati alla luce della normativa antiabuso?

Prima di tutto direi che non può porsi un problema di abusività nel caso di scelta tra tipi negoziali ai quali il legislatore attribuisce differenti regimi fiscali, trattandosi di una scelta legittima alla luce del principio del legittimo risparmio di imposta, codificato anche dall’art. 10-bis.

Penso sicuramente alla cessione totalitaria delle quote, ma credo che lo stesso possa dirsi anche per la cessione delle quote preceduta dal conferimento di azienda, che andrebbe considerato quale atto propedeutico ad una scelta, come detto, legittima. In altri termini, se la legge prevede un trattamento tributario più vantaggioso al ricorrere di determinate condizioni, il contribuente dovrebbe avere il diritto di porre in essere queste condizioni per potere usufruire del trattamento. E così, se – come detto – per l’ordinamento è indifferente la cessione delle partecipazioni invece della cessione di azienda, deve ritenersi legittimo il conferimento di azienda che consenta poi la cessione delle partecipazioni.

Si aggiunga anche che l’operazione complessiva realizzata mediante conferimento di azienda e cessione delle partecipazioni è considerata legittima dal legislatore ai fini delle imposte dirette nell’art. 176 T.U.I.R., per cui sarebbe quantomeno anomalo che la stessa operazione risultasse illegittima ai fini delle imposte indirette, considerato che la disciplina dell’abuso del diritto, ed i relativi presupposti, trovano applicazione sia per le imposte dirette che per quelle indirette. 

Quanto poi al conferimento dell’immobile gravato da mutuo ipotecario e seguito dalla cessione delle quote, è bene avere presente che – a prescindere da un’eventuale valutazione in termini di abusività – il recupero di una maggiore imposta proporzionale di registro potrebbe essere fondato più semplicemente sul disconoscimento dell’inerenza della passività agli effetti della determinazione della base imponibile ai sensi dell’art. 50 del Testo unico dell’imposta di registro. Anzi, apro una parentesi, proprio qualche giorno fa è stata depositata un’ordinanza della Cassazione (n. 475/2018), la quale ribadisce come ai fini della determinazione della base imponibile del conferimento di immobile si può tener conto solo delle passività inerenti all’oggetto, e non ad esempio di una passività personale del conferente non collegata con l’immobile conferito.

Inoltre va ricordato che affinché «un’operazione possa essere considerata abusiva, l’Amministrazione finanziaria deve identificare e provare il congiunto verificarsi di tre presupposti costitutivi:

  1. la realizzazione di un vantaggio fiscale “indebito” costituito da “benefici anche non immediati, realizzati, cioè formalmente conforme a disposizioni fiscali ma oggettivamente in contrasto con la ratio di norme fiscali o con i principi dell'ordinamento tributario;
  2. l'assenza di “sostanza economica” dell'operazione o delle operazioni poste in essere consistenti in “fatti, atti e contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali”;
  3. l'essenzialità del conseguimento di un “vantaggio fiscale”.

L'assenza di uno dei tre presupposti costitutivi dell'abuso determina un giudizio di assenza di abusività». Laddove invece le operazioni presentino i tre elementi indicati, ai sensi del comma 3 dell’art. 10-bis, la ricorrenza di valide ragioni extrafiscali non marginali a giustificazione dell’operazione ne esclude l’abusività (così, ex multis, ris. n. 97/E del 2017).

Allora, per riepilogare, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, secondo la disciplina antiabuso, se in presenza di tutti i suoi presupposti può essere accertata la contrarietà di determinati atti negoziali alle norme fiscali, per procedere ad una diversa tassazione anche nella prospettiva di una valutazione unitaria degli atti stessi in combinazione con altri atti, fatti o comportamenti (a prescindere dalla loro presentazione alla registrazione), mentre l’art. 20 del Testo unico consente all’amministrazione finanziaria solo di individuare gli effetti giuridici del singolo atto presentato alla registrazione, sulla base della volontà espressa nelle varie clausole del negozio, anche se non coincidente con il nomen iuris, ma senza poter travalicare lo schema contrattuale nel quale l’atto risulta inquadrabile.


La portata applicativa dell’art. 20

Questo vuol dire, quindi, che non tutta la casistica di atti rispetto ai quali gli uffici finanziari e la giurisprudenza hanno in passato ritenuto di procedere ad una qualificazione sulla base dell’art. 20, debba ritenersi superata.

Pensiamo, ad esempio, alla qualificazione, attraverso la ricostruzione della volontà espressa nelle clausole, come definitivi di contratti intestati come preliminari, oppure alla divisione di cosa futura che gli uffici qualifichino come reciproca concessione di diritti di superficie, sempre sulla base di un’interpretazione fondata sulle clausole del contratto, o ancora ad un contratto denominato di rettifica, oppure di ripetizione, le cui clausole determinino invece nuove obbligazioni o novazione di quelle originarie, alla locazione di un lastrico solare destinato alla realizzazione di un impianto fotovoltaico, qualificato dall’amministrazione finanziaria come concessione di diritto di superficie, e così via.

Casistica, in altre parole, correttamente rientrante nell’ambito dell’art. 20 se diretta ad individuare gli effetti giuridici riconducibili allo schema negoziale adottato dalle parti ed emergenti dalla volontà espressa nelle clausole, con esclusione del ricorso ad elementi interpretativi esterni e ad atti collegati (mentre, diversamente, non si tratterebbe di qualificazione ma di quell’assimilazione di differenti fattispecie negoziali, non consentita ai sensi dell’art. 20 e non sindacabile come abuso del diritto se rispondente al principio del legittimo risparmio di imposta). 

L’espresso disconoscimento, in via generale, ai sensi dell’art. 20, di una rilevanza del collegamento fra più atti (sia o meno esso da intendere in senso civilistico), potrebbe trovare, tuttavia, eccezione in altre disposizioni.

Lo stesso art. 20 fa infatti salve le successive disposizioni. Si pensi, ad esempio, all’art. 24 relativo alla presunzione di trasferimento delle pertinenze, o alle ipotesi di tassazione coordinata, nel senso che espresse previsioni del Testo unico stabiliscono le modalità di coordinamento e di tassazione di una seconda vicenda negoziale che si sovrappone ad una precedente, come nei casi di conferma, ratifica e convalida, di risoluzione, dichiarazione di nomina, ecc. 

Oltre queste ipotesi, a mio avviso ricorre la necessità di qualche ulteriore riflessione rispetto ad altre fattispecie particolari.

Ad esempio, quando agli effetti di un altro tributo, in regime di alternatività con l’imposta di registro, rileva una nozione di “operazione” più che di singolo atto.

Pensiamo all’Iva. Agli effetti di tale tributo si ritiene possa assumere rilevanza una nozione di operazione che non si ferma al solo atto di cessione di beni (o di prestazione di servizi) ma comprende anche tutti gli atti che servono a sostanziare il rapporto giuridico espresso dalle parti, e, pertanto, in virtù del principio di alternatività tra i due tributi, di cui all’art. 40 del Testo unico, l’imposta di registro troverebbe applicazione all’operazione così definita in ambito Iva. Così, ad esempio, l’art. 20 non dovrebbe a mio avviso portare ad escludere l’applicazione dell’imposta fissa di registro, ai sensi dell’art. 40, alla quietanza contenuta in un atto separato e riferita ad una cessione soggetta ad iva.

L’art. 20 non esclude, parimenti, la rilevanza di un legame funzionale dell’atto presentato alla registrazione con atti e provvedimenti ad esso esterni, laddove essa sia prevista in disposizioni speciali al di fuori del Testo unico.

Penso all’art. 19 della l. n. 74 del 1987, che esenta dall’imposizione gli atti “relativi” al procedimento di separazione o divorzio, o all’art. 20 della l. Bucalossi, il cui ambito agevolativo si estende, a maggior ragione oggi, dopo le integrazioni apportate dalla legge di bilancio 2018, a tutti gli atti attuativi degli accordi o convenzioni con gli enti pubblici, preordinati alla trasformazione del territorio.

Inoltre la formulazione dell’art. 20 non credo impedisca di determinare la tassazione di un primo atto sulla base di un successivo atto integrativo, ad esempio, recante dichiarazioni fiscali, laddove ammesso, perché evidentemente lo stesso non incide sull’individuazione degli effetti giuridici del primo, ma ne integra il contenuto sotto altri profili. 


Riflessi nel “sistema” di adempimento unico

Infine, per chiudere, c’è un ultimo aspetto sul quale vorrei soffermarmi.

La riformulazione dell’art. 20 nulla cambia rispetto all’autoliquidazione dell’imposta da parte del notaio ed al controllo della stessa da parte dell’amministrazione finanziaria, dovendosi richiamare al riguardo le riflessioni già svolte in precedenti lavori del Consiglio Nazionale del Notariato in riferimento al sistema di “Adempimento unico”. 

L’Amministrazione finanziaria può qualificare l’atto presentato alla registrazione ai sensi dell’art. 20 ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, ma nel sistema di Adempimento unico, dove è il notaio ad autoliquidare l’imposta, l’amministrazione procederà, dopo la registrazione, laddove la qualificazione comporti la debenza di una maggiore imposta rispetto a quella già applicata. 

L’art. 20 opera così in sostanza quale disposizione atta a colpire l’evasione, ossia il mancato pagamento di imposta.

Quanto alla natura dell’imposta oggetto di recupero da parte dell’ufficio ai sensi dell’art. 20 (se si tratti, cioè, di imposta complementare oppure, eventualmente e a determinate condizioni, di una cd. principale postuma e, oltre, i 60 giorni, di imposta suppletiva) va ricordato che secondo dell’art. 42, comma 1, del d.P.R. n. 131 del 1986 «è principale l’imposta applicata al momento della registrazione e quella richiesta dall’ufficio se diretta a correggere errori od omissioni effettuati in sede di autoliquidazione nei casi di presentazione della richiesta di registrazione per via telematica; è suppletiva l’imposta applicata successivamente se diretta a correggere errori od omissioni dell’ufficio; è complementare l’imposta applicata in ogni altro caso». E l’art. 3-ter del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 463 stabilisce che «gli uffici controllano la regolarità dell'autoliquidazione e del versamento delle imposte e qualora, sulla base degli elementi desumibili dall'atto, risulti dovuta una maggiore imposta, notificano, anche per via telematica, entro il termine di sessanta giorni dalla presentazione del modello unico informatico, apposito avviso di liquidazione per l'integrazione dell'imposta versata. … Per i notai è ammessa la compensazione di tutte le somme versate in eccesso in sede di autoliquidazione con le imposte dovute per atti di data posteriore, con conseguente esclusione della possibilità di richiedere il rimborso all'Amministrazione finanziaria».

Con riguardo a tale norma la circ. n. 6/E del 5 febbraio 2003 (richiamata dalla circ. n. 18/E del 29 maggio 2013) ritiene che l’attività di controllo non sia limitata a una verifica di eventuali errori materiali o di incoerenza rispetto ai dati contenuti nel modello unico informatico, ma che comunque la stessa debba attenersi al contenuto dell’atto, raccomandando agli uffici di rilevare esclusivamente errori ed omissioni sulla base di elementi oggettivi, univoci e chiaramente desumibili dall'atto, «senza sconfinare, in questa fase riservata al controllo dell'imposta principale, in delicate valutazioni o apprezzamenti sulla reale portata degli atti registrati o, comunque, pervenire a conclusioni sorrette da interpretazioni non univoche o che necessitino di qualsiasi attività istruttoria». 

Ed allora, può sostenersi che la qualificazione giuridica, effettuata dagli uffici, comporta un apprezzamento sulla portata dell’atto, potendo essere il risultato di un percorso argomentativo complesso che, pur se fondato sul contenuto dell’atto, non può dirsi meramente correttivo di un errore (sia pure di diritto) emergente in modo chiaro, oggettivo ed univoco, per tabulas, dall'atto stesso. Conseguentemente, dovrebbe escludersi – quantomeno in questi casi – la possibilità che l'amministrazione finanziaria contesti al notaio, in sede di cd. principale postuma, la debenza di una maggiore imposta ai sensi dell’art. 20. 

Quanto fin qui osservato rileva se la qualificazione operata dall'amministrazione finanziaria giustifica la debenza di una maggiore imposta.

Ma io mi chiedo, per chiudere questo mio intervento: l'articolo 20 è diretto solo contrastare l'evasione o è norma più generale per individuare la corretta tassazione dell'atto?

A mio avviso, anche per la sua formulazione e collocazione sistematica, l’art. 20 rappresenta un criterio generale, anzi secondo parte della giurisprudenza e della dottrina concorre – unitamente all'articolo 1 del Testo unico – a definire l'oggetto dell'imposta attribuendo rilevanza agli effetti giuridici dell'atto. 

E, pertanto, la corretta tassazione dell'atto sulla base dei suoi effetti giuridici potrebbe anche portare ad una tassazione inferiore a quella già applicata. Pensiamo all’esempio, prima fatto, del preliminare qualificato come definitivo la cui tassazione potrebbe anche essere inferiore a quella applicata al preliminare.

Se così è allora il contribuente dovrebbe poter assumere a fondamento di un’istanza di rimborso una diversa qualificazione dell'atto rispetto al nomen iuris originariamente attribuito (così anche sollecitando l'attività interpretativa dell'amministrazione finanziaria ed eventualmente del giudice). 

E, aggiungo, ci si potrebbe anche interrogare in ordine all’ammissibilità di un recupero da parte del notaio dell'eventuale maggiore imposta pagata per un errore, emergente per tabulas, in modo oggettivo ed univoco dall’atto, sul titolo o sulla forma apparente mediante la compensazione di cui all’art. 3-ter già citato. 

A me pare che ragioni di coerenza dovrebbero portare ad ammettere questa possibilità. Tuttavia, la tendenza dell'amministrazione finanziaria ad ammettere la compensazione solo per eccedenze di pagamento evidenziate in modo automatico dal sistema e legate a meri errori in sede di autoliquidazione riscontrati dall'ufficio – tendenza, peraltro, non chiara visto che gli uffici non comunicano al notaio le eccedenze di pagamento – e soprattutto la stessa procedura della compensazione rendono allo stato non semplice l'adozione di questa soluzione. E ciò si ricollega più in generale ad alcuni problemi già da tempo rilevati in Adempimento unico, quale appunto l'impossibilità per il notaio di correggere l'autoliquidazione, ma questa sarebbe un'altra storia!


[1] Ai sensi dell'art. 1, comma 87, l. 27 dicembre 2017, n. 205;Al Testo unico delle disposizioni concernenti;imposta di registro, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) all'articolo 20, comma 1: 

1) le parole: “degli atti presentati” sono sostituite dalle seguenti: “dell'atto presentato”; 

2) dopo la parola: “apparente” sono aggiunte le seguenti: “, sulla base degli elementi desumibili dall'atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”; 

b) all'articolo 53-bis, comma 1, le parole: “Le attribuzioni e i poteri” sono sostituite dalle seguenti: “Fermo restando quanto previsto dall'articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, le attribuzioni e i poteri”». 


[2] Nelle more della pubblicazione del presente volume la Cassazione è intervenuta affermando la natura innovativa delle modifiche, ritenute prive di effetti retroattivi (ex multis, Cass. n. 4589/2018). Anche l’Agenzia delle entrate, in una risposta a Telefisco del 1° febbraio 2018, ha escluso la natura interpretativa delle modifiche, ritenendo che le stesse trovino applicazione «con riferimento all’attività di liquidazione dell’imposta effettuata dagli uffici dell’Agenzia a decorrere dal 1° gennaio 2018». E, quindi, «a partire dal 1° gennaio 2018, ove si configuri un vantaggio fiscale che non può essere rilevato mediante l’attività interpretativa di cui al novellato art. 20 del T.U.R., tale vantaggio potrà essere valutato dal competente ufficio dell’Agenzia, in sede di controllo degli atti registrati anche in data antecedente al 1° gennaio 2018, sulla base della sussistenza dei presupposti costitutivi dell’abuso del diritto, di cui all’art. 10-bis della legge n. 212 del 2000». Le nuove disposizioni non trovano, invece, applicazione, ad avviso dell’Agenzia delle entrate, con riguardo ad avvisi di accertamento già notificati prima del 1 ° gennaio 2018, anche se non definitivi (nello stesso senso anche la risposta all’interrogazione parlamentare 5-00644 del 28 novembre 2018 in Commissione finanze alla Camera). Su questi aspetti cfr. studio n.17-2018/T, A. LOMONACO, Considerazioni sull’articolo 20 del Testo unico dell’imposta di registro dopo la legge di bilancio 2018, in Cnn Notizie del 10 luglio 2018.