Giuffré Editore

Attuali modelli familiari e rinnovate istanze sociali: la centralità del ruolo del notaio


di Carmine Romano

Notaio in Napoli


Considerazioni introduttive. L'atteggiamento del giurista dinanzi alla prepotente emersione di nuove relazioni familiari 

A far tempo dalla metà degli anni Settanta, nel tessuto sociale si è assistito alla prepotente diffusione di nuove forme di relazioni familiari, profondamente diverse e più complesse rispetto al modello fondato sul matrimonio.

Se al momento dell’emanazione della legge n. 151 del 1975, in attuazione dei principi sanciti dall’art. 29 della Costituzione, la cellula sociale di riferimento era ancora costituita dalla famiglia nucleare fondata sul matrimonio, progressivamente trovano diffusione nuove tipologie di convivenza, il cui dato ontologico è costituito non più da un titolo formale, bensì dalla sostanziale serietà, riconoscibilità sociale e tendenziale stabilità del vincolo affettivo tra due persone. A fronte di un modello istituzionale e rigido di famiglia, si è assistito, così, alla diffusione di “forme liquide e dinamiche” di convivenza, sì da imporre una declinazione al plurale delle relazioni familiari. Il pensiero va alle convivenze di fatto; alle famiglie ricomposte, "di secondo grado", formate a seguito della cessazione del primo vincolo matrimoniale per vedovanza o divorzio; alle unioni omoaffettive.

Se in passato la convivenza fuori del matrimonio veniva percepita, sul piano etico-sociale, come il principale attacco all’istituzione familiare (all’epoca fondata ancora su rapporti di tipo gerarchico), successivamente cambia la considerazione verso le diverse scelte di relazioni interpersonali. Sul finire degli anni Sessanta, un decisivo contributo a simile processo culturale, prima ancora che giuridico, viene offerto dalle pronunzie della Corte Costituzionale (n. 126 e 128 del 1968) che dichiarano illegittime le norme che prevedevano i reati di adulterio e concubinato. La dottrina coglie una valenza ideologica nel passaggio dal termine “convivente more uxorio” a quello di “famiglia di fatto”, quale riconoscimento di un fenomeno ormai diffuso a livello sociale tanto da diventare realtà ontologicamente autonoma sul piano dei rapporti. Si fa strada, allora, l’idea di due modelli alternativi di famiglia che si distinguono in base alle modalità di formazione. Sia consentito sottolineare come in un primo momento, la morale comune, tendenzialmente ancorata alla concezione eterosessuale delle relazioni, riconosceva meritevole di tutela soltanto le unioni tra persone di diverso genere; successivamente, l’affermazione e piena consacrazione dei principi di eguaglianza, pari dignità umana e diritto di ciascun individuo alla vita privata, intesa quale possibilità di sviluppo della personalità mediante la costituzione di un nucleo a tutti gli effetti familiare,  ha portato all’emersione del tema delle convivenze anche tra persone dello stesso sesso. 

A fronte di ciò, l’atteggiamento del giurista è stato ed è ancora oggi duplice: da un lato, vi sono quanti, dinanzi alla diffusione di nuove forme di relazioni affettive, invocano esigenze di regolamentazione, auspicando l’applicazione in via analogica delle disposizioni dettate per la famiglia legittima. Dall’altro, invece, si pongono quanti sottolineano come una scelta di libertà, autonoma e responsabile, di quanti decidano di vivere una vita in comune al di fuori del matrimonio, possa venire sostanzialmente tradita da interventi legislativi tesi ad inquadrare tale scelta entro schemi giuridici. Il differente approccio ideologico porta a diverse posizioni nel dibattito su taluni temi sensibili, quali il diritto all’abitazione e la materia previdenziale.

Col passare degli anni, nei diversi formanti dell'elaborazione giuridica (giurisprudenziale, dottrinale e legislativo) le nuove tematiche diventano, doverosamente, oggetto di analisi e soluzioni.   

Le problematiche sollevate dalle nuove forme di convivenza sono apparse, sin dalla prima diffusione di questi fenomeni, profondamente diverse da quelle tradizionali: si pensi al caso delle famiglie ricomposte, alle quali partecipano i figli nati dal precedente matrimonio e figli nati dalla nuova unione; si pensi, ancora, all'ipotesi in cui coniugi separati instaurino nuove relazioni affettive, che si realizzano quando ancora il primo matrimonio non può dirsi cessato nei suoi effetti civili.

Copiosa è l’elaborazione giurisprudenziale che qualifica le elargizioni tra conviventi, dirette a contribuire al normale svolgimento del menage familiare, in termini di adempimento di obbligazione naturale, con il conseguente effetto della soluti retentio. Esse trovano fondamento nella solidarietà familiare, e dunque nel dovere di contribuzione ai bisogni dell’altro convivente e della comunità domestica. Si afferma, in particolare, che dall’instaurazione del rapporto di convivenza discende che «eventuali contribuzioni di un convivente all’altro vanno intese come adempimenti che la coscienza sociale ritiene doverosi nell’ambito di un consolidato rapporto affettivo che non può non implicare, pur senza la cogenza giuridica di cui all’art. 143, comma 2 c.c., forme di collaborazione e … di assistenza morale e materiale».

Il preciso fondamento della famiglia di fatto, individuato dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità prevalenti nell’articolo 2 della Costituzione, ha favorito l’inquadramento della relativa tutela in termini di finalità meritevole di tutela, suscettibile di costituire causa atipica della manifestazione dell’autonomia negoziale, ai sensi dell’art. 1322, comma 2 c.c.

Il richiamo degli interpreti alla tutela offerta dall’ordinamento a tutte le formazioni sociali ove è in grado di realizzarsi la personalità dell’individuo, ha, infatti, contribuito alla progressiva giuridicizzazione degli effetti degli accordi tra conviventi, miranti alla disciplina dei relativi rapporti, personali e patrimoniali, tema questo sul quale l'analisi tornerà nelle successive pagine.

Sul fronte legislativo, la stessa riforma del 1975 ha introdotto nel codice civile la disposizione dell’art. 317-bis che riconosce la potestà sui figli naturali ad entrambi i genitori “se conviventi”: sotto il profilo dell’educazione della prole, si assimila la famiglia di fatto a quella legittima. In materia di amministrazione di sostegno, l’art. 408 c.c. prevede che, nella scelta, il giudice tutelare preferisce, ove possibile, il coniuge che non sia separato legalmente, la persona “stabilmente convivente”; l’art. 417 c.c., relativo all’istanza di interdizione e inabilitazione, ammette che possa essere promossa dalla persona stabilmente convivente; in materia di semplificazione delle norme in materia di immobili di proprietà degli Istituti autonomi per le case popolari, l’art. 1 comma 598 della legge n. 266 del 2005,  prevede che «in caso di rinunzia da parte dell’assegnatario, subentrano, con facoltà di rinunzia, nel diritto all’acquisto nell’ordine: il coniuge in regime di separazione dei beni; il convivente morte uxorio purché la convivenza duri da almeno cinque anni, i figli conviventi, i figli non conviventi». Proseguendo, in materia di procreazione assistita l’art. 5 della legge n. 40 del 2004 prevede che possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita «coppie maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi».

Negli ultimi anni, il legislatore ha dedicato alla materia alcuni provvedimenti di più ampio respiro, che possono essere individuati nella legge n. 291 del 2012 in materia di filiazione; nella legge n. 55 del 2015 sul divorzio breve; nella legge n. 76 del 2016 in materia di unioni civili e convivenze di fatto. Si assiste, con detti provvedimenti, ad un diverso approccio normativo dedicato al tema delle nuove famiglie, non più finalizzato ad introdurre misure "chirurgiche" relative a temi specifici, ma con un più ampio respiro sistematico. Pur nei rispettivi, differenti, ambiti applicativi, i citati provvedimenti normativi consegnano ad interpreti ed operatori pratici un quadro giuridico delle relazioni familiari fortemente innovativo, sul quale sia consentito soffermarsi, quanto meno nei passaggi salienti, di più immediato impatto sull'attività notarile.


Dalla legge n. 219 del 2012 sulla filiazione naturale alla legge n. 76 del 2016 su unioni civili e conviventi di fatto

Il primo intervento normativo in materia è rappresentato dalla legge n. 219 del 2012 in materia di unicità di stato di filiazione. Con riferimento ai diritti dei figli, viene per la prima volta fortemente depotenziata la centralità del vincolo coniugale, essendo irrilevante l’esistenza del matrimonio rispetto allo stato giuridico. Lo status filiationis consegue, dunque, una «valenza primaria, autonoma e indipendente dal rapporto che lega gli autori del concepimento». 

Principio cardine del nuovo quadro normativo è quello in forza del quale «tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico»; con la previsione del comma 11 dell’art. 1 della legge n. 219 del 2012, si determina il definitivo abbandono, nel nostro ordinamento, dei riferimenti a “figli legittimi” e “figli naturali”, che, ovunque ricorrano, vengono sostituiti dalla parola “figli”, eliminando in tal modo, anche sul piano lessicale, ogni rischio di discriminazione. In conseguenza, in tutta la legislazione, primaria e regolamentare, la parola figlio non tollera più specificazioni, qualificazioni, attributi di sorta.

Il principio della "filiazione senza aggettivi" viene da legislatore attuato con una trama normativa quanto mai netta, basata su quattro disposizioni, che costituiscono “spina dorsale” della riforma: l’art. 315 c.c. (unicità di stato), l’art. 315-bis c.c. (diritti dei figli), art. 258 c.c. (effetti del riconoscimento), art. 74 c.c.(parentela). La modifica di queste norme produce una rivoluzione copernicana nel trattamento dei figli naturali, la cui presenza non è più semplicemente “tollerata” dall’ordinamento.

L’ art. 315 c.c. (definito “norma manifesto” della riforma ed introdotto dall’art. 1 comma 7 della legge n. 219 del 2012) nella sua rinnovata formulazione sancisce, come detto, l’unificazione dello status filiationis, sganciato dall’appartenenza ad una comunità familiare (status familiae) o comunque a comportamenti che possano riguardare i genitori. L’eguaglianza dei figli realizza la piena attuazione dell’art. 30 comma 3 della Costituzione, assicurando ai figli nati fuori dal matrimonio ogni tutela giuridica e sociale.

L’art. 315-bis enuncia, per la prima volta, lo statuto dei diritti fondamentali del figlio come persona, il che implica un deciso ribaltamento di prospettiva rispetto al passato, in cui la condizione del figlio veniva identificata con esclusivo riferimento ai doveri dei genitori ed agli obblighi alle prestazioni alimentari. Il figlio diventa soggetto titolare di diritti e doveri a far tempo dalla nascita, a prescindere dalla condizione della famiglia o dei propri genitori.

Il nuovo testo dell’art. 254 c.c. implica il superamento del principio di relatività: il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio produce i suoi effetti non più soltanto nei riguardi del genitore che lo ha compiuto, ma altresì rispetto ai suoi parenti. Benché non ve ne fosse bisogno, attesa la portata generale della norma, viene modificata anche la disposizione dell’art. 74 c.c., che definisce la parentela come vincolo tra persone che discendono dallo stesso stipite, con l’aggiunta «sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui il figlio è adottivo»Una volta conseguito lo stato di figlio (a seguito della nascita da genitori coniugati, del riconoscimento, della dichiarazione giudiziale), il soggetto diventa parente delle persone che discendono dallo stesso stipite dei suoi genitori ed entra a far parte della loro famiglia (estesa). In questo modo, tutti i figli conseguono un’unica identità familiare, con eguali rapporti di parentela cui fanno riscontro i medesimi diritti, patrimoniali e successori.

Netto è il superamento rispetto al principio di relatività del riconoscimento, in forza del quale il rapporto tra parenti naturali veniva riguardato quale mera relazione fattuale di consanguineità, inidoneo a determinare vincoli giuridicamente rilevanti. Il riconoscimento, a seguito del radicale mutamento di principi, esplica effetti non solo rispetto al genitore, ma altresì ai parenti di questo, i quali divengono anche, immediatamente, parenti del figlio riconosciuto

Qualche anno più tardi, il tema della famiglia viene fortemente interessato da un altro provvedimento legislativo, la legge 06 maggio 2015 n. 55 in materia di "divorzio breve". La rinnovata disciplina riguarda, in questo caso, la patologia del rapporto matrimoniale e sembra assecondare il dinamismo delle relazioni familiari, mediante la riduzione significativa del termine per la proponibilità della domanda di scioglimento del matrimonio (portandolo da tre ad un anno, per chi si separa con rito giudiziale, ed a sei mesi per le separazioni consensuali).  Il matrimonio civile viene sottratto al rigidismo delle logiche istituzionali del “patto vitalizio”, che poteva essere sciolto solo in caso di colpa o morte di uno dei coniugi, per essere attratto nell’elasticità dell’autonomia negoziale privata, potendo oggi le parti, ferma la proponibilità della relativa domanda giudiziale, risolvere il vinculum iuris del proprio rapporto coniugale anche solo mediante accordo, ove sia venuta meno l’affectio coniugalis, per l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza. Le famiglie divengono in tal modo "autopoietiche", potendosi scomporre e ricomporre in una sensibile mobilità sociale.

Il processo di riconoscimento legislativo delle nuove forme di relazioni familiari prosegue, come detto, e trova momento di significativa importanza con la legge n. 76 del 2016 (cosiddetta legge Cirinnà) strutturata in due parti: la prima, dedicata alle unioni civili tra persone dello stesso sesso; la seconda finalizzata al riconoscimento di taluni effetti giuridici alla stabile convivenza “di fatto” tra coppie etero od omosessuali. 

Trattasi di una legge che interviene all’esito di un ampio dibattito, culturale e politico prima ancora che giuridico, che anche nel lessico “tradisce” un atteggiamento cauto nel regolare la materia: il legislatore disciplina le unioni civili sul modello coniugale, tuttavia, senza mai adoperare il termine “matrimonio” in riferimento alle stesse; riconosce ai conviventi, eterosessuali e non, taluni diritti, pur senza mai evocare la nozione di famiglia di fatto.

La disciplina delle unioni civili tra persone dello stesso sesso è contenuta nei commi 1-35 della legge, articolati su un triplice piano regolamentare: la costituzione dell’unione civile (commi 2-10);   gli effetti, personali e patrimoniali (commi 11-21); lo scioglimento dell’unione (commi 22-27).

Sia consentito soffermare l'attenzione sulla disciplina della vicenda effettuale dell'unione, in larga parte "disegnata" sul modello del matrimonio in alcuni casi in forza al diretto rinvio alle disposizioni codicistiche, in altre ipotesi parafrasando i corrispondenti articoli del codice civile. L’unione civile è equiparata al matrimonio tanto nei rapporti patrimoniali (regime patrimoniale, vicenda successoria, diritto al mantenimento) quanto nei rapporti con la pubblica amministrazione (graduatorie per alloggi e accesso a servizi, welfare, assegni familiari, etc.), mediante la clausola di salvaguardia, di cui al comma 20. Trattasi, come notato in dottrina, di disposizione rivolta in primo luogo al giudice ed alla Pubblica Amministrazione, che reca una regola sull’interpretazione e sull’applicazione di altre disposizioni normative. 

Sul piano dei rapporti tra partners, vengono in considerazione, i commi 11 e 12 della legge. A norma del comma 11, «Con la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale ed alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni». Il comma 12 prevede che «le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato».   Quale corollario del mutuo dovere di solidarietà, vengono richiamate le disposizioni in materia di alimenti (artt. 433 – 448-bis c.c.). 

Sul piano patrimoniale, all’unione civile si applicano pienamente le disposizioni sul regime patrimoniale della famiglia. A norma del comma 13, il regime patrimoniale dell’unione civile, in mancanza di diversa convenzione matrimoniale, è quello della comunione dei beni, ben potendo le parti pattuire diversamente, adottando il regime della separazione dei beni, comunione convenzionale o costituire un fondo patrimoniale, con una convenzione matrimoniale soggetta alle stesse regole formali operanti per le convenzioni matrimoniali tra coniugi. Sul versante successorio, in virtù dell'ampio rinvio legislativo, l'unito civilmente ha i diritti del coniuge nella successione ab intestato e nella successione dei legittimari (ivi incluso il diritto d'uso e abitazione sulla casa adibita a residenza familiare); può essere, inoltre, parte di un patto di famiglia per la devoluzione dei beni produttivi.

La seconda parte della legge, a partire dal comma 36, è dedicata al riconoscimento di diritti ai conviventi di fatto, eterosessuali o dello stesso sesso. Il legislatore si limita a prevedere solo taluni effetti della convivenza, al fine di salvaguardare la scelta di libertà compiuta dai conviventi, indirizzandosi verso la positiva attribuzione di taluni diritti, pur preoccupandosi di disciplinare i possibili riflessi delle scelte in merito al regime patrimoniale prescelto nei rapporti con i terzi.

In particolare, è predisposto un quadro minimo di tutele delle parti di unioni affettive non matrimoniali (etero o omosessuali), essendo offerto ai conviventi la possibilità di ampliare, su base convenzionale, queste forme di tutela attraverso la stipula di un contratto di convivenza. Ciò che colpisce, invero, è che il legislatore non detti una trama, sia pure essenziale, di diritti e doveri tra conviventi durante la vita del rapporto e dunque non riconosca agli stessi un autonomo status; la scelta è, invece, quella di soffermarsi su temi particolari, quali i diritti derivanti dallo scioglimento dell’unione, basandosi sulla copiosa giurisprudenza in materia.

Il comma 36 dell’art. 1 della legge 76/2016 prevede che «Ai fini delle disposizioni di cui ai comma da 37 a 67 si intendono per “conviventi di fatto” due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile»; il successivo comma 37 dispone che «Ferma restando la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, per l’accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’articolo 4 e alla lettera b) comma 1 dell’art. 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223». 

La norma pone, dunque, una serie di requisiti sostanziali e formali al fine di individuare il fenomeno in parola, affiancando, secondo un’interpretazione secundum legem, all’esperienza della convivenza di fatto come genericamente intesa e giuridicamente rilevante fino all’entrata in vigore della riforma in parola, una convivenza “di diritto” speciale, idonea, al ricorrere degli elementi normativi richiesti, a produrre effetti ulteriori, soprattutto in termini di opponibilità ai terzi dello status e dei rapporti patrimoniali.

In dottrina si è cominciato a parlare di forme eterogenee di convivenza di fatto, ossia le convivenze “Cirinnà”, contraddistinte dai requisiti soggettivi e dalla imprescindibile coabitazione, e le altre, ancora fedeli all’originaria vocazione di libertà, scevre di qualsivoglia regolamentazione del momento genetico del rapporto affettivo. 

La disposizione del comma 36 individua, dunque, quali conviventi di fatto soggetti maggiori di età tra i quali deve sussistere, quale elemento positivo, un vincolo affettivo costante e la reciproca assistenza morale e, in negativo, l’assenza di legami familiari e di rapporti di natura coniugale o derivante da unione civile con terzi. Dalla lettura del testo normativo emerge che il legislatore non prende in considerazione l'intero fenomeno delle convivenze more uxorio, escludendo dal novero delle convivenze formalizzabili ai sensi della legge le persone vincolate da un precedente matrimonio (o unione civile), il che può accadere nell'ipotesi di separazione tra coniugi.  Emerge, poi, il macroscopico problema della natura costitutiva o meno della dichiarazione anagrafica, che la dottrina prevalente, quanto meno per salvaguardare la certezza dei rapporti giuridici, sembra intendere quale condizione per il sorgere del regime giuridico dettato dalla legge n. 76 del 2016. 

Resta da definire cosa si intenda per convivenza “stabile”, in assenza di una definizione legislativa. Invero, è il vivere insieme come “famiglia” che distingue la stabile convivenza da rapporti episodici, assurgendo a rilevanza sociale e giuridica. Il rapporto si fonda, allora, sulla spontaneità dei comportamenti dei conviventi, i quali formano un nucleo affettivo di comunione di vita ed interessi. Essi danno vita ad un’unione che realizza, pur nella costante revocabilità dell’impegno, una comunione spirituale e materiale, un progetto di vita comune che presuppone assistenza e protezione reciproca, in attuazione di un dovere di solidarietà posto a fondamento di qualsiasi comunità di tipo familiare.

Individuato, pur senza definirlo, il fenomeno sociale di riferimento, il legislatore detta alcune disposizioni attinenti sia alla sfera personale sia al profilo prettamente patrimoniale dei rapporti tra conviventi.

Le prime disposizioni attengono alla sfera prettamente personale, equiparando i commi 38-39 i diritti dei conviventi a quelli dei coniugi ai fini dell’applicazione delle norme contenute nell’ordinamento penitenziario e sanitario, in termini di «diritto reciproco di visita, di assistenza, nonché di accesso alle informazioni personali, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere o di assistenza pubbliche, private o convenzionate previste per i coniugi e i familiari».

l piano dei diritti patrimoniali, il legislatore rivolge l’attenzione in primo luogo al tema dell’abitazione, risentendo in tal modo dell’elaborazione giurisprudenziale registratasi sull’argomento. Assurgono a rilievo centrale, nell’impianto normativo, tre disposizioni, tali da costituire un microsistema normativo sul diritto all’abitazione.

Il comma 42 della legge, riecheggiando i diritti riconosciuti dall’art. 540 comma 2 al coniuge superstite, prevede un legato ex lege di abitazione, con la precisazione che quest’ultimo diritto non è, nel caso di specie, vitalizio ma necessariamente temporaneo. Al tema abitativo si richiamano i commi 44 e 45 della legge; il primo (comma 44), in questo saldandosi con la previsione dell’art. 6 della legge n. 392 del 1978 prevede, che «nei casi di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto di locazione della casa di comune residenza, il convivente di fatto ha facoltà di succedergli nel contratto».  Le disposizioni in oggetto Il comma 45 invece prevede che, «nel caso in cui l’appartenenza ad un nucleo familiare costituisca titolo o causa di preferenza nelle graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare, di tale titolo o causa di preferenza possono godere, a parità di condizioni, i conviventi di fatto». Il comma in parola riproduce, dunque, la norma dell’art. 6 della legge n. 392 del 1978 come risultante dall’intervento della Consulta con la sentenza n. 404 del 07 aprile 1988. 

Al riconoscimento ed alla tutela dell’attività lavorativa prestata nell’ambito del “consorzio familiare” dal convivente è dedicato il comma 46, che, aggiungendo un nuovo articolo al codice civile, riconosce i diritti del convivente alla partecipazione agli utili ed alla gestione dell’impresa familiare. Per il nuovo articolo 230-ter c.c., «Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato».  Infine, la disciplina degli alimenti, che riconosce al convivente meno abbiente una tutela patrimoniale proporzionata alla durata del rapporto, costituisce il corollario, sul piano patologico, del dovere di solidarietà tra conviventi durante il corso del rapporto. A norma del comma 65, «in caso di cessazione della convivenza di fatto, il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento».


I nuovi ambiti del ministero notarile 

Il quadro normativo testé esposto offre ad interpreti ed operati pratici una molteplicità di relazioni familiari con cui confrontarsi. I modelli sociali di riferimento possono essere così individuati, pur consapevoli dell'estrema variabilità delle forme di convivenza:

  1. famiglie fondate sul matrimonio o sull'unione civile;
  2. famiglie ricomposte, conseguenti a scioglimento del precedente vincolo matrimoniale per morte di uno dei coniugi (ricomposizione post vedovanza) o per separazione o divorzio, con la ulteriore precisazione che le famiglie ricomposte possono identificare unioni di fatto o famiglie fondate su un nuovo matrimonio (o unione civile);
  3. famiglie di fatto registrate a norma della legge n. 76 del 2016;
  4. famiglie di fatto non registrate, o per volontà dei partners, o per mancanza delle condizioni necessarie alla registrazione.

Ciascuno dei modelli familiari testé delineati pone interessanti e stimolanti prospettive al notaio. 

Per le unioni civili, il pressoché pieno rinvio alla disciplina operante per i coniugi impone di applicare istituti già noti in ambiti inediti, quali quelli delle unioni omoaffettive. Così, il notaio potrà suggerire agli uniti civilmente la stipula di convenzioni matrimoniali quali la separazione dei beni o il fondo patrimoniale; la devoluzione dei beni produttivi potrà essere realizzata attraverso un patto di famiglia che veda l'unito civilmente tra i legittimari non assegnatari; nel delineare il programma successorio (come si avrà modo di sottolineare nel prosieguo dell'analisi), dovrà essere prospettata l'esistenza di nuove posizioni riservate, in termini di quota di legittima in capo all'unito civilmente nonché di diritti di uso e abitazione sulla casa adibita a residenza familiare.

Quanto alle convivenze registrate, il legislatore, una volta tracciato un quadro minimo di tutele, offre lo strumento del contratto di convivenza per implementare, su base convenzionale, la regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra i partners. Il contenuto di più immediato impatto è quello relativo alla scelta del regime patrimoniale tra i conviventi. Il legislatore, in omaggio ai canoni di solidarietà e reciprocità, offre la innovativa possibilità di adottare il regime di comunione dei beni, con efficacia opponibile ai terzi, che dunque assume in tal caso una inusuale genesi pattizia. A norma del comma 54, «il regime patrimoniale scelto nel contratto di convivenza può essere modificato in qualunque momento nel corso della convivenza, con le modalità di cui al comma 51». Il legislatore non definisce né tipizza contenuto e direzione dell’accordo modificativo del regime patrimoniale: l’unica scelta che sembra ipotizzabile, è quella del ritorno al regime individuale di titolarità dei beni acquistati durante la convivenza, con passaggio di quelli acquistati in vigenza dell’accordo originario dal regime di comunione legale al regime di comunione ordinaria. Non appare possibile, invece, la scelta di altri regimi, quali il fondo patrimoniale o le comunioni convenzionali.

Pur nel silenzio del legislatore, il contratto di convivenza può, altresì, regolamentare ulteriori aspetti delle relazioni familiari di fatto: il pensiero va, ancora una volta, al tema abitativo, con la previsione, ampiamente riconosciuta in dottrina della costituzione di un vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c., opponibile come tale a terzi. Il riconoscimento delle relazioni familiari non fondate sul matrimonio, saldamente ancorato ai principi costituzionali espressi nel corso dell'analisi, consente di ritenere che gli interessi sottesi a simili forme di relazioni possano assurgere a meritevolezza di tutela, secondo i valori fondanti dell'ordinamento, in presenza della quale il legislatore ammette la destinazione vincolata e la conseguente separazione patrimoniale.

Per quanto si tratti di possibili contenuti non ancora diffusi, sul piano culturale prima ancora che giuridico,  il contratto di convivenza può in vario modo disciplinare le forme di partecipazione dei partners alle necessità della famiglia, spingendosi a regolamentare la contribuzione di ciascuno alle spese familiari, una eventuale esenzione per i periodi in cui uno dei partners non abbia lavoro, potendosi estendere anche alla non semplice predisposizione di assetti patrimoniali in previsione della crisi di un menage diverso da quello legale, in senso pur sempre migliorativo per il partner economicamente svantaggiato

Un ultimo riferimento va alle convivenze non registrate, dovendosi ammettere, pur dopo la entrata in vigore della legge n. 76 del 2016, la possibilità per i partners di disciplinare in vario modo i reciproci rapporti patrimoniali, con patti di convivenza "atipici" ad effetti obbligatori.


(Segue) i profili successori

La diffusione di nuovi modelli familiari di riferimento pone, altresì, interessanti questioni di diritto successorio. Il "microsistema disciplinare" del libero II del codice civile appare, infatti, basato sul sottile equilibrio tra autonomia del testatore e tutela dei più stretti congiunti; sotto quest'ultimo profilo, appare evidente che il riconoscimento di nuove forme familiari imponga di considerare, tra i titolari di posizioni riservate, anche quanti facciano parte di modelli familiari giuridicamente riconsciuti, quali i componenti delle famiglie fondate su unione civile ed i componenti delle famiglie ricomposte fondate su matrimonio o unione civile.

Il tema appare, invero, fecondo di spunti applicativi.

In primo luogo, giova riepilogare in questa sede le scelte operate dal legislatore.

A seguito delle leggi n. 219 del 2012 e n. 76 del 2016, nell'attuale sistema vi è un pieno riconoscimento di diritti successori in capo all'unito civilmente ed in capo ai figli nati fuori dal matrimonio. Trattasi di legittimari a pieno titolo, di talché, nella pianificazione del programma successorio, occorre tener conto di queste nuove posizioni riservate.

Di contro, con riferimento ai partners nelle famiglie di fatto, più timide sono state le scelte operate dal legislatore. Pur in caso di registrazione della convivenza, non è prevista alcuna tutela di ordine sistematico, limitandosi il legislatore a talune specifiche previsioni, tra le quali quella di maggiore rilevanza è rappresentata dal riconoscimento di un diritto d'uso e abitazione, temporalmente limitato, sulla casa adibita a residenza della famiglia di fatto. La mancanza di ulteriori previsioni offre al testatore un'unica strada di attribuzione di diritti successori al convivente, lo strumento testamentario, con l'ulteriore precisazione che detta attribuzione potrà avvenire entro i limiti della quota disponibile del patrimonio. 

Alla disposizione testamentaria è, a maggior ragione, deputata in via esclusiva l'attribuzione di diritti successori al partner nel caso di convivenze non registrate.

Così delineato, in estrema sintesi, il quadro disciplinare, appare interessante notare come la prepotente emersione di modelli familiari giuridicamente riconosciuti costituisca elemento di profondo interesse, sul piano successorio, anche sotto un diverso angolo prospettico.

Il sistema codicistico, a seguito della riforma del 1975, assume quale termine di riferimento dei diritti successori la famiglia fondata sul matrimonio "staticamente intesa"; rispetto a tale famiglia, viene riservata una quota (mobile) delle sostanze del de cuius al coniuge ed ai figli, fissandosi il principio della legittima in natura che permette ad ogni componente della famiglia di conseguire parte del patrimonio relitto. Ebbene, un siffatto sistema disciplinare deve fare i conti oggi con la più volte sottolineata eterogeneità dei modelli familiari, di talché le posizioni riservate possono oggi investire soggetti che non appartengano ad un unico nucleo familiare. Il riferimento va ai figli nati fuori dal matrimonio o, ancora, a quanto può accadere nel caso di famiglie ricomposte: si faccia il caso di un soggetto che abbia figli di primo letto, contragga nuovo matrimonio e generi altri figli. In tal caso, il trattamento successorio dei legittimari risente della diversa situazione di fatto, potendo tra i legittimari stessi non sussistere vincoli di consuetudine e affetto. Ebbene, pur in presenza di un principio di unicità della successione, il sistema offre strumenti per dare un trattamento diversificato a simili fattispecie. Si pensi alla composizione di legittima a mezzo di legati, a tacitazione o in conto, che possono rappresentare un valido strumento per soddisfare i diritti del legittimario senza far sorgere una comunione ereditaria che potrebbe costituire potenziale fonte di conflittualità.

Il mutamento dei modelli di relazioni familiari di riferimento induce, altresì, a rimeditare l'attualità del principio della legittima in natura, che offre oggi a ciascun legittimario il diritto ad ottenere parte del patrimonio del de cuius indipendentemente da considerazioni relative al tempo in cui questo patrimonio si è formato. Così, a titolo esemplificativo, nel caso di secondo matrimonio contratto dal de cuius, il coniuge – in concorso con i figli di primo letto – avrà diritto ad una quota del patrimonio quand'anche questo sia stato accumulato precedentemente alla nuova unione matrimoniale. Altro esempio può essere quello di un figlio nato fuori dal matrimonio, che potrà condividere, secondo il sistema disciplinare vigente, con i membri della famiglia il diritto a conseguire parte del patrimonio del defunto. Ebbene, in casi quali quello descritto, l'indubbia sussistenza di un diritto quantitativo alla legittima non esclude una riflessione della possibilità, de jure condendo, di conversione di un diritto reale in diritto di credito, ammettendo la tacitazione dei diritti riservati con denaro non esistente nell'asse. Ciò consentirebbe, da un lato, di attribuire al legittimario quanto gli spetta per legge, dall'altro, di evitare pericolose forme di contitolarità del patrimonio relitto tra soggetti espressione di relazioni affettive diverse.

Un' ultima considerazione va alla possibilità che il notaio si trovi a fronteggiare fattispecie del tutto inusuali. Così, come più volte sottolineato nelle considerazioni che precedono, a seguito dell'entrata in vigore della disciplina sul "divorzio breve" possono porsi all'attenzione del notaio fattispecie di sovrapposizione di vincoli matrimoniali. Il pensiero va all'istituto del patto di famiglia, che, determinando una devoluzione anticipata di sostanze produttive, si fonda su una "fotografia" delle relazioni familiari che potrebbe non coincidere con quella esistente al momento dell'apertura della successione. In particolare, potrebbe accadere che il coniuge, che abbia partecipato al patto ed in qualità di legittimario non assegnatario sia stato liquidato (con il pagamento di una somma di denaro o con beni in natura) a seguito della cessazione degli effetti civili del matrimonio perda tale qualità alla morte del disponente. Si faccia il caso in cui Tizio, coniugato con Sempronia e padre di due figli, stipuli un patto di famiglia con assegnazione dell'azienda ad uno dei figli e liquidazione dei legittimari non assegnatari, tra cui Sempronia. All'apertura della successione, a seguito del divorzio tra Tizio e Sempronia, il primo ha sposato Mevia. L'esempio testé prospettato pone un problema, non considerato dal legislatore, di definizione dei rapporti tra il soggetto che rivestiva la qualità di legittimario al momento della stipula del patto (prima moglie) e soggetto che abbia assunto tale qualità successivamente, e sia coniuge al momento del decesso dell'imprenditore disponente. Pur consapevoli delle diverse opinioni espresse sul punto, appare congruo ritenere che, fermo il diritto legittimamente conseguito dal "primo coniuge" al momento della stipulazione del patto, il "nuovo coniuge" debba essere considerato alla stregua di un legittimario sopravvenuto, trovando applicazione la "norma di chiusura" dell'art. 768-sexies c.c., con conseguente diritto (da far valere nei confronti di tutti i partecipanti al patto) ad ottenere il pagamento della somma prevista a titolo di liquidazione dall'art. 768-quater aumentata degli interessi legali.