Giuffré Editore

Certificato Successorio europeo e successioni transfrontaliere: ruolo del notaio e problematiche operative.

Valentina Pappa Monteforte

Notaio in Soliera


Il mutato contesto socio-economico nel quale (anche) il Notariato è chiamato a muoversi rende doverose alcune riflessioni, dalle quali scaturiscono rinnovati “volti” dell’attività notarile.

Se, da un lato, sempre maggior peso è da attribuire alla normativa comunitaria ed alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, dall’altro non mancano le questioni di carattere internazionale – in senso stretto – nelle quali il notaio è direttamente coinvolto nell’esercizio dell’attività professionale.

La presente analisi comincia dalla disamina di una delle più note figure di (relativamente) recente introduzione di fonte comunitaria – il Certificato successorio europeo – sino ad affrontare le possibili conseguenze applicative in materia di successioni transnazionali, sulla base delle conclusioni fatte proprie dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la pronuncia del 5 febbraio 2021, n. 2867.

Iniziando, dunque, dal Certificato successorio europeo, disciplinato dagli articoli 62 al 73 del regolamento UE n. 650/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio del 4 luglio 2012, è necessario ricordare che – in forza dell’articolo 32 della legge 30 ottobre 2014, n. 161 – il notaio viene designato quale unica autorità competente al rilascio.

Da qui, se è innegabile l’apertura verso una nuova frontiera per il Notariato, è – parimenti – vero che l’assenza nel complesso corpus normativo di qualsivoglia presa di posizione circa la qualificazione ontologica della figura in esame rende particolarmente difficile orientarsi.

Il tema della “natura giuridica” non si pone quale mero esercizio di carattere teorico, ma rappresenta un passaggio necessario per adempiere, in termini puntuali, a quanto demandato al notaio dal legislatore.

La semplicistica equiparazione tra il CSE e l’atto notarile/pubblico motivata esclusivamente dalla qualifica rivestita dalla autorità emittente (il notaio) sembra essere tradita, non solo dalle “peculiarità” proprie dell’attività prodromica al rilascio della certificazione de qua (attività d’indagine e raccolta di informazioni, a seguito della presentazione della domanda di rilascio, funzionali all’emissione del documento – richiamata nell’articolo 66 della normativa comunitaria – che potrebbe manifestare tratti analoghi all’istruttoria “deformalizzata” propria dei procedimenti in camera di consiglio, ex articoli 737 – 742 c.p.c.), ma anche dalle stesse parole del legislatore nazionale, il quale al comma 2 dell’articolo 32 della l. n. 161 del 2014, afferma che «avverso le decisioni adottate dall’autorità di rilascio ai sensi dell’articolo 67 del regolamento UE n. 650/2012 è ammesso reclamo davanti al tribunale, in composizione collegiale, del luogo in cui è residente il notaio che ha adottato la decisione impugnata. Si applicano le disposizioni di cui all’articolo 739 del codice di procedura civile». Così recita il secondo alinea della suindicata norma ed è impossibile non ravvisare una similitudine fra il ruolo notarile nell’emissione del certificato successorio europeo ed i provvedimenti conclusivi dei procedimenti di volontaria giurisdizione. Fra l’altro, l’uso del termine “decisione” sembra avvicinare l’autorità ad un organo giurisdizionale ed il modello scelto per l’impugnazione è un chiaro elemento di similitudine (in tal senso già D. DAMASCELLI, in Diritto internazionale privato delle successioni a causa di morte, L’Italia e la vita giuridica internazionale, Collana diretta da Fausto Pocar, Milano, 2013, 141). 

Una siffatta lettura non significa “sconvolgere” l’attuale sistema normativo di riferimento, ma – sicuramente – invita il Notariato all’esplorazione di campi differenti rispetto a quelli entro i quali è abituato a muoversi.

La peculiarità della funzione alla luce del nuovo ambito operativo non esime, tuttavia, dall’applicazione di talune disposizioni della legge notarile (l. 16 febbraio 1913, n. 89), tenuto conto di quanto imposto dalla legislazione europea.

In tale scenario, nel quale si registra una continua “tensione verso” un ignoto normativo, è proprio dalla legge n. 89 del 1913 che bisogna muovere i primi passi, riscoprendo talune norme, i cui dicta sono talmente connaturati all'attività lavorativa da tradursi in meri automatismi applicativi. Eppure, proprio nel caso del Certificato successorio, quegli stessi tradizionali principi forniscono la risposta più agevole ed immediata per l’attuazione degli obblighi imposti all'autorità di rilascio. 

Si pensi all’articolo 1, comma 3, legge n. 89 del 1913, a tenore del quale: «i notai esercitano, inoltre, le altre attribuzioni loro deferite dalle leggi». Tra le quali competenze – stante la legge n. 32 del 2014 e il regolamento n. 650/2012 – dal 17 agosto 2015 (data di entrata di ingresso del CSE nell’ordinamento) rientra anche la predisposizione del documento in esame. 

Meritano, parimenti, attenzione gli articoli 61 e 62 della legge notarile – in tema di obbligo di custodia e conservazione degli atti – i quali mostrano assonanza funzionale con quanto disposto dagli articoli 68 lettera b, e 70 del regolamento, per i quali:

– il certificato deve recare il numero di riferimento del fascicolo (articolo 68, lettera b);

– l’autorità di rilascio è tenuta all’obbligo di conservazione dell’originale del documento, anche al fine di procedere al relativo rilascio copie autentiche al richiedente ed a chiunque dimostri di avervi interesse (articolo 70, comma 1).

Pertanto, non deve sorprendere la considerazione per la quale trovano applicazione tali disposizioni normative, senza – tuttavia – tradire lo “spirito” del regolamento N. 650/2012, equiparando erroneamente il CSE ad un atto notarile in senso stretto.  

Giungere alla conclusione per la quale il Certificato successorio europeo debba essere inserito nel repertorio e nella raccolta del notaio (quale autorità emittente) comporta la trattazione di due ulteriori questioni: pagamento della tassa archivio ed obbligo di registrazione.

Argomenti la cui trattazione non può essere incardinata su binari paralleli. Riecheggia, invero, sul punto quanto disposto dall’articolo 2, comma 1, del decreto 27 novembre 201,2 n. 265 (“Regolamento recante la determinazione dei parametri per oneri e contribuzioni dovuti alle Casse Professionali e agli Archivi Notarili”) secondo il quale: «le parti, a mezzo del notaio, devono corrispondere all’Archivio notarile del distretto una tassa per l’originale di ogni atto fra vivi soggetto a registrazione e per ogni atto di ultima volontà. La tassa è dovuta anche per gli atti ricevuti dal capo dell’Archivio». 

Scindere nettamente le due tematiche, dunque, risulta difficile. 

Quanto alla registrazione, l’Amministrazione finanziaria in una recente risposta ad interpello del 27 novembre 2020 n. 563 afferma l’assoggettabilità ad imposta fissa – ai sensi dell’articolo 11 del d.P.R. n. 131 del 1986 – del suddetto certificato, definendolo atto pubblico, citando tra le fonti legislative di riferimento l’articolo 3 del regolamento n. 650/2012, che – in tema di “Definizioni” – alla lettera i, qualifica l’atto pubblico alla stregua di “qualsiasi documento in materia di successioni che sia stato formalmente redatto o registrato come atto pubblico in uno Stato membro e la cui autenticità riguardi: i) la firma e il contenuto dell’atto pubblico; nonché ii) sia stata attestata da un’autorità pubblica o da altra autorità a tal fine autorizzata dallo stato membro di origine”,  operando – anche –  una equiparazione  a quanto disciplinato dagli articoli 2699 e 2700 del codice civile. 

Il Fisco conclude sostenendo che «l'analisi delle citate disposizioni che evidenziano, tra l'altro, l'efficacia probatoria di tale documento in tutti gli Stati membri senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento, conducono a qualificare il certificato successorio europeo, redatto da un notaio su domanda delle parti interessate come un atto pubblico, nel quale la firma ed il contenuto sono attestati come autentici da un notaio, che è una autorità pubblica».

Detta ricostruzione non appare condivisibile, oltre che per ragioni di ordine sistematico, come sopra esposte circa la natura giuridica da riconoscere al CSE – che rappresenta sicuramente un aliud rispetto a quanto già noto nell'ordinamento – anche per argomentazioni di carattere letterale.

Al fine di comprendere le motivazioni atte a respingere le conclusioni dell’Amministrazione finanziaria, bisogna muovere un passo indietro e guardare alla stessa struttura del regolamento n. 650/2012.

Esso, come tutti i regolamenti comunitari, si articola in parti, alcune delle quali “standardizzate” per consentirne una più agevole e diretta comprensione da parte degli Stati membri. Il capo I è quasi sempre dedicato alla delimitazione dell’ambito di applicazione dei medesimi ed alla definizione dei termini che troveranno spazio nelle successive disposizioni normative. 

Pertanto, quando l’Agenzia delle entrate conclude a favore della registrazione (ad imposta fissa) del certificato successorio, richiamando l’articolo 3 del regolamento, sembra non tener conto della stessa articolazione del corpo legislativo. 

Ed infatti, se è vero che il sopra citato articolo 3 – alla lettera i – tratta dell’atto pubblico, è altrettanto vero che esso è inserito nel capo I (dedicato alle definizioni). 

In realtà, il regolamento successioni riguarda anche gli atti pubblici, ai quali – tuttavia – è stato dedicato un autonomo capo – il V – assolutamente indipendente dalla disciplina prevista in tema di Certificato Successorio Europeo, la quale è confinata nel capo VI della norma. Ad adiuvandum si segnala anche che in nessuno degli articoli in materia al CSE si registra l’utilizzo del termine “atto pubblico” ai sensi dell'articolo 3 del capo I.

Avvicinare, senza sovrapporre, (ricordando che il paragrafo 3 dell’articolo 63 della normativa comunitaria sottolinea la sopravvivenza dei documenti interni aventi scopi analoghi negli Stati membri) il certificato successorio europeo ad un documento inquadrabile nel novero delle “decisioni” conclusive di procedimenti assimilabili a quelli di volontaria giurisdizione, rende verosimile sostenere che il rilascio del documento possa avvenire in esenzione da registrazione, ai sensi dell’articolo 2 della tabella allegata dal d.P.R. n. 131 del 1986.  

L’articolo 2 della tabella allegata al d.P.R. n. 131 del 1986 che dispone, testualmente, l’esenzione dall’obbligo di chiedere la registrazione per «atti, diversi da quelli contemplati nella parte prima della tariffa, dell’autorità giudiziaria in sede civile e penale e della Corte costituzionale, del Consiglio di Stato, della Corte dei conti, dei Tribunali amministrativi regionali, delle Commissioni tributarie e degli organi di giurisdizione speciale e dei relativi procedimenti; atti del contenzioso in materia elettorale e dei procedimenti disciplinari; procure alle liti», meriterebbe – dunque – una lettura orientata dalle fonti di diritto europeo (nel caso di specie del regolamento comunitario in oggetto) e dalle norme di diritto interno, che in tema di CSE hanno individuato nel notaio l’autorità competente in via esclusiva al suo rilascio, arricchendone i profili operativi di una competenza para-giurisdizionale, almeno nei limiti di tale contesto legislativo comunitario. Con ciò aderendo alla quella opinione interpretativa (G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario – Parte generale, Padova, 2008, 201) per la quale non sempre le disposizioni esentative o agevolative possono essere ritenute norme eccezionali, ben potendo le stesse rappresentare espressione di un principio o di un’esigenza di carattere generale, nel caso specifico motivata da un novellato panorama europeo, ammettendosene – dunque – una interpretazione analogica, ancorché osteggiata dalla giurisprudenza, secondo la quale le disposizioni che sanciscono esenzioni ed agevolazioni in favore di determinate situazioni oggettive o di determinati soggetti hanno carattere eccezionale e – ai sensi dell’articolo 14 delle Preleggi – non consentono il ricorso all’analogia, vigendone il canone di stretta interpretazione (ex multis Cass., sez. trib., 25 marzo 2011, n. 6925, in www.italgiure.giustizia.it).

Analoghe conclusioni, benché fondate su argomentazioni diverse, sono state sostenute da più parti. Nel Vademecum predisposto dalla Commissione affari europei ed internazionali del CNN, (www.webrun.notariato.it), si conclude per la esenzione dalla registrazione alla luce dell’articolo 2 del d.P.R. n. 131 del 1986, considerato che il documento in esame non rientra tra gli atti di cui all’articolo 11 della Tariffa, parte prima, del medesimo d.P.R.

Si registra, altresì, la posizione sostenuta da chi (A. BUSANI, in Il Sole24ore, Nt+Fisco, 27 novembre 2020) equiparando il certificato successorio europeo ad una «certificazione della devoluzione di eredità» ne sostiene la esenzione dalla registrazione ai sensi degli articoli 1 e 21 del d.P.R. n. 131 del 1986, sottolineando come l’obbligo di registrazione si giustifica per gli “atti” (articolo 1) aventi efficacia giuridica in quanto “disposizioni” (articolo 21), ossia quali espressione di volontà, essa stessa mancante nell’ambito del CSE.

Corollario della esenzione dalla registrazione, indipendentemente dalle diverse argomentazioni a sostegno di una siffatta conclusione, è che per il Certificato successorio europeo non è dovuto il pagamento della tassa archivio, alla luce del sopra ricordato articolo 2, comma 1, del decreto 27 novembre 2012, n. 265.

Se il panorama europeo appare, talvolta, di difficile lettura, anche il tema delle successioni internazionali presenta delle criticità di non poco conto, memori soprattutto del principio della “certezza del diritto” garantito dall’esercizio della funzione notarile, postulato che talvolta sembra trasformarsi in ossimoro.

È in questo scenario che merita di essere segnalata la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 5 febbraio 2021, n. 2867 (in www.italgiure.giustizia.it), in materia di individuazione della lex successionis nell’ipotesi di “coesistenza” fra ordinamenti che non conoscono il principio di “unicità” della successione.

La vicenda riguardava un cittadino inglese, ivi domiciliato, deceduto in Italia, il quale aveva disposto con testamento dei propri beni in favore dei figli (istituendoli eredi) e dell’allora compagna (che aveva beneficiato con un legato di somme), con la quale successivamente aveva contratto matrimonio. L’asse ereditario ricomprendeva anche beni immobili siti in Italia. Si precisa che la vicenda in esame è sottratta all'applicazione del regolamento n. 650/2012, da un lato poiché trattasi di successione apertasi prima dell'entrata in vigore della norma comunitaria, dall'altro poiché l'Inghiterra non ha mai eseguito l'opt-in quanto al regolamento in esame.

La coniuge (beneficiaria a titolo particolare) proponeva azione di petizione dell’eredità, chiedendo la revoca del testamento, sostenendo che – attesa la nazionalità del defunto – la successione dovesse essere regolata dalla legge inglese, sicché l’atto di ultima volontà si sarebbe dovuto intendere revocato per effetto del successivo matrimonio (in base a quanto disposto dal Will Act del 1837). 

La medesima, pertanto, affermava che la successione del marito fosse da qualificarsi “ab intestato” con applicazione della normativa italiana nei limiti dei soli beni immobili – atteso il cd. “rinvio indietro” voluto dalla legge inglese ed accolto dall'articolo 13 della legge n. 218 del 1995 – e di quella inglese, per il solo “relictum” mobiliare.

Il Tribunale di Milano con sentenza del 20 aprile 2009 accoglieva la domanda, dichiarava la revoca del testamento, riconosceva la qualità di erede alla coniuge ed anche la titolarità della quota di un terzo dei beni immobili in Italia (ai sensi dell’articolo 581 c.c.). La Corte di Appello confermava la decisione di primo grado, concludendo per la revoca del testamento (quale effetto del successivo matrimonio del testatore), per l’apertura della successione legittima e per l’applicazione della legge italiana per gli immobili e di quella del domicilio del testatore – e dunque della legislazione inglese – per i beni mobili.

Giunto dinnanzi alla seconda sezione civile della Cassazione, il giudizio è stato rimesso al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite, chiamate a pronunciarsi ai sensi dell’articolo 374, comma 2, c.p.c. e, dunque, per risolvere una questione di massima importanza, con particolare riferimento al peso specifico da attribuire al principio di unitarietà ed universalità della successione ed agli effetti del rinvio secondo il principio della lex rei sitae.

Il tema delle successioni degli ordinamenti cd. “scissionisti” (con particolare riferimento ai sistemi di common law, come quello inglese), nei quali si assiste alla regolamentazione della successione sulla base discipline diverse, in considerazione della natura e della situazione dei beni compresi nell’eredità, in contrapposizione a quegli ordinamenti (come quello italiano), che rivendicano la unicità del fenomeno successorio, merita ben altra trattazione alla luce della legge 31 maggio 1995, n. 218, considerando le annose questioni poste dalla disciplina del cd. “rinvio indietro” (di cui all’articolo 13 della legge n. 218 del 1995) e dalla esatta interpretazione del principio di “universalità” del fenomeno successorio (implicitamente richiamato dall’articolo 46 della legge n. 218 del 1995) che, dall’operatività del rinvio, può essere attenuato.

Il dato che in questa sede preme rimarcare è che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ammessa la possibilità di operare il rinvio indietro ad ordinamenti “scissionisti” ed esclusa la configurabilità della “unicità” della successione quale principio di ordine pubblico, affermano che: «allorché la legge nazionale che regola la successione transnazionale, ai sensi della l. 31 maggio 1995, n. 218, art. 46 sottopone i beni mobili alla legge del domicilio del de cuius e rinvia indietro alla legge italiana, come consentito dalla l. 31 maggio 1995, n. 218, art. 13, comma 1, lett. b, per la disciplina dei beni immobili compresi nell’eredità, si verifica l’apertura di due successioni e la formazione di due distinte masse, ognuna assoggettata a differenti regole di vocazione e di delazione, ovvero a diverse leggi che verificano la validità e l’efficacia del titolo successorio (anche, nella specie, con riguardo ai presupposti, alle cause, ai modi ed agli effetti della revoca del testamento), individuano gli eredi, determinano l’entità delle quote e le modalità di accettazione e di pubblicità ed apprestano l’eventuale tutela dei legittimari».

Secondo i Supremi Giudici laddove il meccanismo del rinvio indietro (accettato nel nostro ordinamento, con ogni possibile conseguenza da ciò derivante) comporti una “dualità” della regolamentazione della successione non si assiste ad alcun contrasto con l’ordine pubblico internazionale, ai sensi dell’articolo 16 della l. n. 218 del 1995.

Se – da una parte – operando il tal senso si evita che i giudici di uno Stato terzo adottino decisioni inerenti a beni siti in Stati diversi, è altrettanto innegabile che, dal punto di vista sostanziale, la possibile frammentazione del fenomeno successorio potrebbe comportare l'implicita caducazione di istituti – come quello della legittima – che rappresentano dei “capisaldi” per l’ordinamento interno, ma che dal punto di vista del diritto internazionale hanno già subito una prima limitazione applicativa. Si pensi all’articolo 46 comma 2 della legge n. 218 del 1995, che rende possibile per il testatore operare la scelta della legge applicabile alla propria successione e fa salvi esclusivamente i diritti dei legittimari residenti in Italia al momento dell’apertura della stessa, solo nel caso in cui il de cuius sia cittadino italiano.

Il panorama normativo e giurisprudenziale di riferimento sta cambiando e muterà ancora. Solo un osservatore distratto potrebbe non notare le conseguenze (talvolta silenziose) sul svolgimento concreto dell’attività professionale, sempre più orientata verso contesti transnazionali.