La nullità del contratto contrario a norme imperative.
Il codice civile a confronto con la riforma francese del diritto dei contratti e delle obbligazioni
Ordinario di Diritto civile, Università Cattolica di Milano
Nel nostro codice la fattispecie del contratto contrario a norme imperative è disciplinata espressamente dall’art. 1418 c.c., che riprende con qualche piccola, ma significativa, differenza lessicale il § 134 BGB.
Questo a sua volta è il frutto di una elaborazione dogmatica compiuta dalla Pandettistica tedesca a partire dalle fonti romane e in particolare dalla Costituzione lex non dubium, con la quale l’imperatore Teodosio II aveva cercato di superare la distinzione del diritto romano classico tra leges imperfectae e leges perfectae, offrendo una soluzione alle incertezze interpretative circa la sorte del contratto vietato da una norma di legge, che nulla disponesse al riguardo. Nonostante tale intenzione, la norma continua ancora oggi a suscitare dubbi e incertezze.
L’art. 1418, comma 1, c.c. detta infatti una regola solo apparentemente chiara quando stabilisce che «il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente».
Pertanto, anche quando la norma imperativa violata non lo stabilisca espressamente, la conseguenza normale della violazione è la nullità del contratto. Occorre invece una diversa disposizione di legge per escludere la nullità.
Diventa quindi decisivo per la sorte del contratto accertare se la norma con la quale esso si pone in contrasto sia imperativa oppure no.
In assenza di una definizione legale spetta perciò all’interprete individuare innanzitutto i criteri che consentono di ritenere imperativa la norma violata.
In primo luogo la mancanza di una definizione legislativa di norma imperativa riflette una carenza dell’elaborazione dottrinale che precedette l’introduzione del codice civile del 1942. Si dava per scontata la nozione di norma imperativa quasi che si trattasse di recepire concetti perfettamente noti alla cultura giuridica del tempo, ma sostanzialmente si eludeva il problema.
Formalmente giurisprudenza e dottrina concordavano nel desumere il carattere imperativo di una norma dalla natura pubblica dell’interesse tutelato, ma tale criterio risultava evanescente e di difficile accertamento in concreto, rivelandosi di fatto incapace di condurre a soluzioni univoche.
Questa impostazione fu comunque seguita anche dalla giurisprudenza formatasi successivamente all’entrata in vigore del codice civile e fu condivisa da una buona parte della dottrina.
Nel codice del 1942 appare quindi chiaramente dominante la preoccupazione che il contratto possa produrre effetti in contrasto con gli interessi generali dell’ordinamento giuridico, come dimostra la sovrabbondanza delle fattispecie di nullità elencate dall’art. 1418 c.c.
La nullità ha principalmente la funzione di impedire che possano produrre effetti giuridici vincolanti e quindi possano ottenere protezione da parte dell’ordinamento contratti privi di determinati requisiti ovvero che realizzano un assetto di interessi disapprovato dall’ordinamento stesso.
A fondamento della nullità vi è quindi una valutazione negativa del contratto, che viene preso in considerazione a seconda dei casi come atto o come regolamento, ma comunque da una prospettiva che nella maggior parte dei casi si può definire «neutrale», nel senso che non differenzia i contraenti in relazione alle disparità di potere contrattuale che possono derivare dalla loro situazione soggettiva o dal contesto di mercato nel quale operano.
Scarsa attenzione è infatti prestata alle circostanze in cui il contratto è concluso, che limitano l’autonomia del contraente debole, traducendosi in un regolamento squilibrato dal punto di vista economico o giuridico.
È rimesso ad altre figure d’invalidità – l’annullabilità e la rescindibilità – il compito di porre rimedio a situazioni nelle quali una delle parti non abbia potuto in concreto esercitare un’effettiva libertà negoziale, per incapacità di agire, vizi della volontà o per altre situazioni soggettive.
In tale contesto normativo l’elaborazione dottrinale individua il criterio discretivo tra nullità e dall’annullabilità nella differente natura, pubblica o privata, degli interessi rispettivamente tutelati.
Il medesimo criterio è stato peraltro codificato nella riforma del diritto francese dei contratti per distinguere la nullità assoluta dalla nullità relativa.
Questa scelta del legislatore è stata però immediatamente criticata dalla dottrina, la quale ha rilevato la difficoltà di una rigida demarcazione tra interesse pubblico e interesse privato.
A sua volta la giurisprudenza francese distingue situazioni diverse, in relazione alle quali la tutela dell’interesse privato richiede un trattamento differenziato della nullità.
Su tale dicotomia si basano invece alcune sentenze della Cassazione italiana, nelle quali i giudici dal carattere generale dell’interesse tutelato desumono la natura imperativa della norma, la cui violazione genera quella che viene detta nullità “virtuale” del contratto. Così ad esempio, anche recentemente, la Cassazione ha ritenuto imperativa la norma penale che punisce il reato di circonvenzione d’incapace, ravvisandone la ratio nella tutela di un interesse generale della collettività, che trascende quello alla protezione di uno dei contraenti.
Si tratta però di una soluzione palesemente insoddisfacente, ove solo si consideri che fine della proibizione è chiaramente la tutela del patrimonio dell’incapace raggirato.
Per converso non mancano autori che già nell’impianto originario del codice civile, riconoscono l’esistenza di norme bensì imperative, che hanno però la funzione di proteggere un interesse individuale, proprio sottraendolo al potere di disposizione del soggetto che ne è il titolare. Si tratta in ogni caso d’ipotesi circoscritte a specifici contratti tipici, con riguardo alle quali si può parlare di nullità di protezione sotto il profilo degli interessi tutelati, ma non certo di nullità speciali dal punto di vista della disciplina applicabile, che è sempre quella prevista dal codice civile per il contratto in generale.
Il binomio nullità di protezione/nullità speciale può dirsi infatti compiutamente realizzato soltanto con la legislazione speciale successiva al codice, che introduce rilevanti e significative novità, conformando la disciplina della nullità alla natura degli interessi protetti.
Si tratta peraltro di norme che, indipendentemente dal riferimento a un determinato tipo contrattuale, regolano rapporti connotati da una disparità di forza contrattuale, secondo una valutazione che riguarda la situazione soggettiva delle parti.
Ai fini del perfezionamento della fattispecie assumono infatti rilevanza talvolta l’appartenenza di una parte ad una determinata categoria professionale (così ad esempio la disciplina dei contratti bancari o finanziari), in altri casi la situazione di effettiva dipendenza economica che l’ha indotta a concludere il contratto (cfr. art. 9, della l. 18 giugno 1998, n. 192) e altre volte ancora persino il suo concreto operare per «scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta» (in questi termini la definizione di consumatore ora contenuta nell’art. 3, comma 1, lett. a), d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206).
Tale nuova impostazione esprime un’esigenza di protezione di uno dei contraenti rispetto a situazioni concrete di disparità di potere contrattuale. Questa peraltro trae origine, a seconda dei casi, dalla posizione dominante di una parte sul mercato, da asimmetrie informative o dal diverso bisogno dello scambio che rende una parte economicamente dipendente dall’altra.
Ai fini della nullità assume quindi rilevanza non solo il testo negoziale, ma anche il “contesto” in cui questo si è formato.
La tutela del contraente debole nell’ambito di tali fattispecie costituisce attuazione anche nel diritto dei contratti l’art. 3, comma 2, Cost., che impegna il legislatore volto a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
Da questa prospettiva si legittima una disciplina della nullità che non è uguale per tutti i contraenti, in quanto, proprio in considerazione delle significative differenze esistenti tra di essi, mira a correggere le asimmetrie di potere contrattuale.
In questo senso assume valore emblematico la previsione legislativa della nullità relativa, che implica il netto superamento di una concezione puramente formale della parità tra i contraenti.
In questi casi la nullità di protezione opera come strumento di riequilibrio, in quanto consente di eliminare dal regolamento contrattuale quei contenuti iniqui che riflettono la disparità di forza dei contraenti.
Opportunamente la dottrina ha escluso il carattere eccezionale di queste disposizioni riconducendole a un più ampio disegno di politica legislativa che si traduce in un nuovo tipo di intervento dello Stato nei rapporti privati, attraverso norme imperative che non si sostituiscono al mercato nel determinare il contenuto dello scambio, ma ne regolano il funzionamento, correggendone le imperfezioni e le inefficienze.
L’ordinamento non vieta o impone ex ante clausole predeterminate, ma rimette al giudice il compito di accertare ex post specifiche fattispecie di abuso di potere contrattuale. La nullità quindi non nega l’autonomia contrattuale, ma ne garantisce l’esercizio paritario anche da parte del c.d. contraente debole.
In quest’ottica, accanto a disposizioni che prevedono la nullità a protezione d’interessi generali della collettività, contrapposti a quelli individuali dei contraenti, vanno considerate altre norme che invece tutelano un interesse che fa capo a uno dei contraenti, proprio privandolo del potere di disporne validamente.
Da questa prospettiva l’elemento che accomuna tutte le norme che determinano la nullità del contratto, ivi comprese quelle imperative, non sta nel carattere generale dell’interesse protetto, ma nelle modalità con le quali tale tutela è attuata dall’ordinamento. L’imperatività non dipende quindi da elementi estrinseci, quale la natura pubblica o privata dell’interesse tutelato, che preesistono alla norma stessa, ma è una qualificazione che questa riceve proprio in considerazione delle conseguenze previste in caso di violazione.
La medesima indisponibilità dell’interesse protetto deve peraltro connotare anche le norme imperative che non prevedono specificamente la nullità del contratto, derivando questa dalla regola generale dell’art. 1418, comma 1, c.c.
Questo è ad esempio quanto si verifica allorché l’osservanza di un precetto sia garantita mediante rimedi e sanzioni, applicabili a prescindere dalla volontà manifestata dal soggetto tutelato.
In questo senso sono ad esempio imperative le norme che riservano la stipula di certi contratti ai soggetti in possesso di determinati requisiti o abilitazioni. La previsione di sanzioni aministrative o penali, in caso di violazione del divieto soggettivo di contrarre, ne denotano il carattere indisponibile.
Una volta individuato nell’indisponibilità il tratto distintivo delle norme imperative, occorre verificare se questo si possa ravvisare anche in quelle ipotesi in cui la legge, riconoscendo al solo contraente protetto la legittimazione ad agire per la nullità, sembra rimettere a quest’ultimo la decisione circa la sorte del contratto. In particolare si tratta di stabilire se la nullità relativa sia compatibile con la disciplina generale che per un verso riconosce al giudice il potere di rilevarla d’ufficio e per altro verso non ammette la convalida del contratto nullo.
Al riguardo non sembra però condivisibile l’opinione che esclude la rilevabilità d’ufficio della nullità relativa, ritenendola incompatibile con l’intento del legislatore di riservare al soggetto legittimato la scelta relativa alla pronuncia di nullità.
In realtà sembra più corretta una diversa ricostruzione che assegna alla regola della nullità relativa un diverso significato – puramente negativo – di esclusione della legittimazione ad agire di soggetti diversi dal contraente protetto, senza però vincolare all’iniziativa di quest’ultimo il potere decisorio del giudice.
Questa ricostruzione sembra del resto trovare riscontro nella regola dell’art. 134, comma 1 del codice di consumo, secondo la quale la nullità di patti diretti a limitare o escludere diritti riconosciuti all’acquirente può essere fatta valere solo dal consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice.
Analogamente l’art. 36, comma 3, cod. cons. stabilisce che la nullità della clausola vessatoria opera solo a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice. Vengono quindi a cadere le obiezioni che sostenevano l’incompatibilità tra nullità relativa e rilevabilità d’ufficio.
La Corte europea di giustizia ha del resto più volte affermato che la non vincolatività della clausola vessatoria può essere invocata solo dal consumatore e in mancanza può essere rilevata d’ufficio dal giudice (cfr. tra le più recenti Corte giust. UE, 4 giugno 2003, n. 243)
Allo stesso modo la nostra giurisprudenza ha riconosciuto che, anche al di fuori dei casi espressamente previsti, la nullità relativa può essere rilevata d’ufficio dal giudice secondo la disciplina generale (Cass., sez. un., n. 26243/2014).
È d’altra parte evidente che, ove si ritenga che il contraente legittimato abbia il potere di disporre della nullità relativa, impedendone il rilievo da parte del giudice, questa perderebbe la propria autonomia concettuale come species del genus nullità, confondendosi con l’annullabilità.
Il contratto che ne è affetto, in mancanza della domanda o eccezione della parte legittimata, potrebbe essere posto a base di una condanna all’adempimento e quindi potrebbe produrre per via giudiziale tutti i suoi effetti, come il contratto di cui non sia chiesta o eccepita l’annullabilità.
È invece fondato, il convincimento che il contratto affetto da nullità relativa non sia pienamente efficace e che funzione della rilevabilità d’ufficio sia proprio quella di impedire che trovino riconoscimento giudiziale effetti che esso non può avere.
Diversamente, in base alla recente riforma francese del diritto dei contratti, la nullità relativa, diversamente da quella assoluta, può essere fatta valere solo dal contraente protetto e non può essere rilevata su istanza del pubblico ministero. In questo modo il contratto, in mancanza della domanda o eccezione della parte legittimata, produce tutti i suoi effetti.
Del resto la nuova disciplina ha espressamente stabilito che la nullità, in entrambe le sue forme, non opera ipso iure ma deve essere accertata dal giudice o dalle parti di comune accordo. Questa regola trova poi conferma nella terminologia del code civil, che si esprime in termini di “annullamento” del contratto.
È chiaro allora che la nullità relativa, potendo essere fatta valere solo dal contraente protetto e non essendo rilevabile d’ufficio, finisca per essere assoggettata a un regime che corrisponde a quello dell’annullabilità nel diritto italiano.
Viceversa, nel nostro ordinamento la nullità relativa è una figura distinta dall’annullabilità, in quanto il contratto che ne è affetto, diversamente da quello annullabile, non è in grado di produrre tutti gli effetti voluti dalle parti. In mancanza di un’espressa deroga che escluda la rilevabilità d’ufficio della nullità relativa, non sembra pertanto ammissibile il superamento di tale regola.
Allo stesso modo, la regola che esclude la convalida del contratto nullo, pur dettata nella logica tradizionale del codice civile per evitare che la tutela d’interessi che trascendono quelli delle parti possa essere da queste ultime vanificata, per eterogenesi dei fini si rileva adeguata a disciplinare anche le nuove fattispecie, impedendo che si attribuisca ex post efficacia vincolante a un regolamento negoziale che è frutto di un abuso del contraente forte ai danni di quello debole.
D’altro canto, operando la nullità a vantaggio del contraente protetto (art. 127 TUB e art. 36, comma 3, cod. cons.), la convalida del contratto non potrà ammettersi, in quanto risulterebbe in contraddizione con l’idea stessa di nullità di protezione. Infatti, ove pure si verifichi un quanto mai improbabile riequilibrio nei rapporti di forza tra i contraenti, in mancanza di una effettiva rinegoziazione delle condizioni contrattuali, la mera convalida unilaterale della parte debole finirebbe comunque per rendere vincolante un patto che sul piano oggettivo deve ritenersi disapprovato dall’ordinamento in ragione del suo contenuto oltre che delle circostanze e modalità con le quali si è formato.
Alla luce di queste considerazioni si rivela condizionata da una inesatta comprensione dell’evoluzione dell’ordinamento la riforma francese del diritto dei contratti nella parte in cui ammette la confirmation del contratto affetto da nullité relative (art. 1182). Una siffatta regola ha infatti senso con riferimento alle ipotesi di invalidità per vizi della volontà o per incapacità di agire, là dove il contraente tutelato, riacquistata la possibilità di autodeterminarsi in modo libero e consapevole, voglia confermare espressamente o tacitamente gli effetti del contratto (art. 1115 e art. 1338 vecchio code civil).
Il problema sorge però nel momento in cui a seguito della riforma, la nullità relativa trova applicazione anche nei casi di violazione di norme che vietano l’abuso di una parte ai danni dell’altra, anche in ragione del contenuto squilibrato del regolamento negoziale. In questi casi infatti convalidare il contratto significherebbe consentire la produzione di effetti che la norma violata intendeva impedire.
La stessa dottrina francese ha del resto criticato la riforma nella parte in cui ha ammesso in termini generali la confirmation senza differenziare le diverse ipotesi di nullità relativa, rilevando ad esempio che l’applicazione di tale regola non è adeguata alla protezione del consumatore.
Ma la convalida si rivela inaccettabile anche quando la nullità derivi non dalla presenza di uno squilibrio contrattuale, bensì dal difetto di requisiti di sostanza e di forma prescritti dalla legge per ridurre le asimmetrie informative e garantire una corretta formazione dell’accordo attraverso un consenso consapevole del contraente debole. Anche in questi casi, infatti, la semplice dichiarazione della parte legittimata che, avvedutasi delle omissioni, voglia convalidarla, non è sufficiente a sanare l’inosservanza della norma, in mancanza dei requisiti prescritti dalla legge.
In questo senso l’art. 1423 c.c., che riserva al legislatore il compito di stabilire le ipotesi in cui il contratto nullo possa essere convalidato, non è inutile, ma assolve a una precisa funzione escludendo che a tale risultato possa giungersi in via interpretativa.
La finalità di protezione della nullità relativa, peraltro, se non consente la convalida del contratto che ne è affetto, costituisce comunque un limite al suo rilievo d’ufficio da parte del giudice, che va coerentemente escluso là dove l’esercizio di tale potere finirebbe per frustrare lo scopo perseguito dalla legge.
La norma violata mira infatti a impedire gli effetti del contratto in ragione del pregiudizio che ne deriverebbe al contraente protetto e pertanto l’invalidità in essa prevista non può ritorcersi contro di esso. Così, ad esempio, solo il consumatore sarà legittimato far valere l’inefficacia del recesso operato dal professionista in forza di una clausola vessatoria, ma ove l’estinzione del rapporto contrattuale corrisponda a un suo preciso interesse, il giudice non potrà negare effetti al recesso, rilevando d’ufficio la nullità della clausola.
In questo modo il contratto colpito da nullità relativa, a differenza da quello inesistente, è in grado di produrre effetti compatibili con l’interesse protetto, rimanendo preclusi, anche attraverso l’esercizio dei poteri del giudice, soltanto gli effetti incompatibili con la finalità di tutela della norma.
Una diversa soluzione è stata invece adottata, in seguito alla riforma dal codice civile francese, all’art. 1178, comma 2, secondo cui il contratto, una volta annullato, ossia dichiarato nullo in giudizio, è da considerarsi come mai esistito.
Questa regola è stata tuttavia criticata dalla dottrina, che ha evidenziato il rischio che essa impedisca certi effetti giuridici opportuni, come ad esempio la conversione per riduzione.
La possibilità che il contratto nullo produca effetti compatibili con l’interesse protetto, tuttavia, non è adeguatamente considerata dalla dottrina italiana che, riconoscendo senza limiti la rilevabilità d’ufficio della nullità relativa, è poi costretta ad ammettere la convalida del contratto nullo.
Ma in questo modo si confonde l’interesse del contraente protetto con la sua volontà, contraddicendo la ragione stessa che giustifica il potere officioso del giudice come regola che sottrae il rimedio alla disponibilità dei contraenti.
Alle medesime critiche si espongono peraltro anche le sezioni unite della Cassazione del 2014, che aderendo all’orientamento della Corte europea di giustizia, hanno affermato che il giudice, rilevata d’ufficio la nullità (relativa) e informatene le parti, non può applicarla, ove il contraente protetto dichiari che intende avvalersi del contratto senza eccepirne la non vincolatività.
Tutte queste ricostruzioni si fondano in realtà sul falso presupposto che la nullità possa in ipotesi pregiudicare il contraente protetto, il quale potrebbe pertanto impedirne il rilievo giudiziale o addirittura convalidare il contratto nullo. In realtà, una volta appurato che la nullità di protezione può (e deve) essere rilevata solo a vantaggio del contraente protetto, non si può negare che tale tutela possa operare anche contro la volontà da questi manifestata e che sia quindi sottratta al suo potere di disposizione.
Si rivela invece riduttiva la spiegazione della rilevabilità d’ufficio della nullità relativa semplicemente in funzione di rimedio a un eventuale difetto di difesa in giudizio del contraente debole.
Da questa prospettiva la nullità relativa si presenta non già come figura ibrida a metà strada tra nullità e annullabilità, ma come specie del genere della nullità, al quale appartiene proprio in ragione dell’indisponibilità che la caratterizza.
Conseguentemente ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c. non è sufficiente la violazione di un qualsiasi divieto legale, ma occorre dimostrare che questo, pur quando tuteli l’interesse di uno dei contraenti, sia imperativo, in quanto realizza una protezione sottratta alla disponibilità delle parti.
Non può invece condividersi l’impostazione secondo cui la violazione di qualsiasi norma può dare luogo alla c.d. nullità virtuale del contratto, allorché questa conseguenza rappresenti un’idonea tutela dell’interesse leso alla stregua di una valutazione di opportunità fondata su criteri extralegali.
Questa conclusione sarebbe in contrasto con la regola dell’art. 1418, comma 1, c.c., che invece richiede il positivo accertamento del carattere imperativo della norma violata.
Da questa prospettiva la c.d. “nullità virtuale”, lungi dal descrivere una fattispecie in qualche modo connotata da elementi di atipicità, trova comunque il suo fondamento nella scelta compiuta dal legislatore di tutelare un determinato interesse in modo indisponibile e non in una valutazione da parte dell’interprete circa la congruità della stessa rispetto alla ratio della norma violata.
L’art. 1418, comma 1, non introduce una particolare figura d’invalidità, sostanzialmente diversa dalle altre che pure conseguono alla violazione di norme imperative, dal punto di vista del fondamento, che in ogni caso va ravvisato nella volontà della legge, ma più semplicemente si avvale di una differente tecnica legislativa, che attraverso una previsione a carattere generale “sanziona” con la nullità il contratto che contravviene a divieti privi di una specifica comminatoria in tal senso.
Ciò si verifica soprattutto, ma non necessariamente, quando il divieto appartiene ad un settore dell’ordinamento che è normalmente estraneo alla disciplina dei rapporti privati (ad es. norme penali) oppure quando la fattispecie vietata si può realizzare anche attraverso atti che non sono espressione di autonomia contrattuale (ad es. abuso di posizione dominante).
Differente è soltanto il criterio di accertamento del carattere imperativo della disposizione, che deve comunque desumersi, in base ad un’indagine di stretto diritto positivo, da altri elementi d’indisponibilità presenti nella fattispecie vietata o nella disciplina ad essa applicabile.
L’art. 1418, comma 1, c.c. non può essere quindi letto come regola che ammette figure atipiche di nullità, ma al contrario configura una norma di chiusura, che esprime un’esigenza di completezza dell’ordinamento giuridico, disponendo la nullità del contratto anche quando questa non sia prevista dalla specifica norma violata.
Questa ricostruzione trova peraltro una conferma nell’esame dei precedenti storici della regola codificata nell’art. 1418 c.c. La previsione di una generale nullità degli atti vietati aveva infatti sempre assunto, fin dalle sue origini nel diritto romano postclassico, il significato di norma di chiusura che escludeva in radice la sussistenza di lacune dell’ordinamento riguardo alla sorte dei contratti che violano i divieti previsti dalla legge e privi di una specifica sanzione (c.d. leges imperfectae).
Da questa medesima prospettiva può essere peraltro inteso anche il significato dell’inciso finale dell’art. 1418, comma 1, c.c., che differenziandosi dal § 134 BGB richiede che le eccezioni alla regola della nullità siano disposte dalla “legge”.
Se, infatti, la nullità si fonda su una precisa scelta del legislatore, concretizzatasi nell’emanazione di una norma imperativa, allo stesso modo la sua esclusione non può che dipendere dalla previsione di una diversa disciplina legale con essa incompatibile.
Si tratta di un’esigenza di razionalità e coerenza dell’ordinamento, il quale non può tollerare che un contratto da esso vietato possa ugualmente produrre i suoi effetti, se non in casi eccezionali nel quali la legge stessa ritenga più opportuno scoraggiare le violazioni della norma con rimedi diversi, incompatibili con la nullità, allorché questa potrebbe pregiudicare altri interessi anch’essi reputati meritevoli di tutela.
Questo è ad esempio quanto avviene nel caso di acquisto di azioni proprie effettuato da una società in violazione dell’art. 2357 c.c. Tale norma dispone che le azioni acquistate senza rispettare i limiti e le condizioni in essa stabiliti «debbono essere alienate secondo le modalità da determinarsi dall’assemblea, entro un anno dal loro acquisto».
La previsione di un obbligo di alienazione, pertanto, se da un lato conferma il carattere perentorio del divieto, assistito anche da sanzioni penali che rendono indisponibile l’interesse tutelato, dall’altro è incompatibile con la nullità del primo acquisto, in quanto logicamente presuppone che la società sia divenuta titolare delle azioni acquistate in violazione della norma.
È pertanto evidente che la nullità è esclusa da una diversa disposizione di legge con essa incompatibile dal punto di vista logico e non assiologico.
In definitiva la sorte del contratto prescinde da qualsiasi valutazione della sua congruità da parte dell’interprete, il quale deve limitarsi ad accertare le conseguenze stabilite dalla legge.
Questa soluzione non si esaurisce tuttavia in un modello interpretativo positivistico, in quanto esige che le scelte di politica legislativa siano conformi ai valori, riconosciuti dalla Costituzione e ritenuti prevalenti in base ad un bilanciamento comunque soggetto al sindacato di ragionevolezza della Corte Costituzionale.
In quest’ottica è possibile una rilettura dell’art. 1418, comma 1, c.c. come norma di chiusura posta a garanzia dell’autonomia contrattuale rispetto a soluzioni autoreferenziali dell’interprete che, non essendo universalizzabili in base ad un criterio “sistematico”, potrebbero concretizzare il rischio di un positivismo giudiziario ben più arbitrario, in quanto legato alle valutazioni contingenti del quotidiano.