Giuffré Editore

Deposito del prezzo e criptovalute. Come entrano i bitcoin nel conto dedicato?


di Michele Manente

Notaio in Marcon


Introduzione

Come è noto, al fine dell’applicazione dell’art.1, comma 63 e seguenti, della legge 27 dicembre 2013, n.147, come modificato dalla Legge 4 agosto 2017, n. 124, ciascun notaio provvede ad aprire almeno un conto corrente, dedicato al deposito:

  1. (…);
  2. di ogni altra somma adatagli e soggetta ad obbligo di annotazione nel registro delle somme e dei valori di cui alla legge 22 gennaio 1934, n.64;
  3. dell’intero prezzo o corrispettivo, ovvero il saldo degli stessi, se determinato in denaro, oltre alle somme destinate ad estinzione di gravami o spese non pagate o di altri oneri dovuti in occasione del ricevimento o dell’autenticazione di atti di trasferimento della proprietà o di trasferimento, costituzione o estinzione di altro diritto reale su immobili o aziende, se in tal senso richiesto da almeno una delle parti e conformemente all’incarico espressamente conferito.

In relazione ai controlli demandati al Consiglio notarile distrettuale ai sensi della legge notarile, ciascun notaio comunica al Consiglio notarile del proprio Collegio gli estremi del/i conto/i corrente dedicato/i aperto/i ai sensi dell'comma 63 dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013. Ogni modifica deve essere comunicata al Consiglio notarile distrettuale entro 45 giorni.

Al di là di tutti i dubbi applicativi che questa nuova normativa porta con sé, ciò che invece appare assolutamente chiaro a tutti è la tipologia dei ‘beni' che possono essere ricevuti in deposito dal notaio, consistenti unicamente in: somme, prezzi e corrispettivi (quest’ultimi solo se determinati in denaro). Invero, anche su questo aspetto, i problemi non paiono alleggerirsi qualora il notaio si trovi di fronte ad un trasferimento di beni effettuato a fronte di un ‘pagamento’ non effettuato mediante l’uso delle ‘tradizionali valute’, ma attraverso il ricorso a criptovalute.


Cosa sono le criptovalute e come funziona una transazione in criptovaluta?

Il primo esempio notoriamente riconosciuto di criptovaluta sono i bitcoin, e ad essi si farà per semplicità riferimento (anche implicitamente) nella presente disamina.

Nonostante, infatti, a inizio 2018 si contino ormai più di 1.500 criptovalute, la più importante, per diffusione e capitalizzazione, rimane – appunto – il bitcoin.

Se partissimo, allora, dalla stessa definizione fornita dal loro ignoto creatore, Satoshi Nakamoto (https://bitcoin.org/bitcoin.pdf), dovremmo definire i bitcoin come «Una versione puramente peer-to-peer (da pari a pari, n.d.a.) di denaro elettronico (che) consentirebbe di inviare pagamenti online direttamente da una parte all'altra senza passare attraverso un istituto finanziario». Insomma: uno strumento di pagamento; una valuta.

Invero non mancano voci discordi di coloro che, analizzando le caratteristiche dei bitcoin (http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2018-01-15/bitcoin-perche-non-e-moneta-vero-valore-blockchain-155334.shtml?uuid=AEYilviD), ne hanno negato l’attitudine a fungere da moneta.

Prima, tuttavia, di addentrarci in un simile dibattito, appare opportuno analizzare – per sommi capi – in cosa consista una transazione in criptovaluta e, per fare questo, si prenderà nuovamente come riferimento (semplificandola) la transazione in bitcoin.

Essa si fonda su un uso particolarmente intenso dei principi della crittografia asimmetrica che (a sua volta) si basa sull’esistenza di una coppia di chiavi tra loro differenti ma correlate; una delle quali può essere usata per cifrare un documento che solo l’altra chiave sarà in grado di decifrare.

Esse vengono generate attraverso un procedimento matematico unidirezionale, che rende impossibile risalire da una chiave all’altra.

In tal modo è possibile rendere nota a terzi una delle due chiavi (chiave pubblica) ed al contempo mantenere riservata l’altra (chiave privata), con ciò ottenendo due meccanismi interessanti: 1) in primo luogo sarà possibile utilizzare la chiave pubblica di un determinato utente per cifrare un documento, avendo con ciò la certezza che lui sarà l’unico soggetto in grado di decifrarlo (in quanto unico detentore della chiave privata); e 2) in secondo luogo, l’utilizzo di una determinata chiave pubblica per decifrare un documento consentirà di attribuire inequivocabilmente il documento stesso a colui che – possedendo la correlativa chiave privata – sarà stato l’unico ad averlo potuto cifrare.

È esattamente sulla combinazione di questi due principi che si fonda anche una transazione in bitcoin.

Nel momento in cui un soggetto scarica l'apposito software (ne esistono di vario tipo, ma non è questa la sede in cui esaminarli), questi si connette alla rete bitcoin e genera un ‘portafoglio’ al cui interno esiste un numero arbitrario di coppie di chiavi crittografiche. Di queste, quella privata rimane – ovviamente – secretata e nella esclusiva disponibilità del ‘titolare’, mentre quella pubblica viene condivisa con gli altri utenti, i quali possono usarla come 'indirizzo di destinazione' di una transazione (come fosse un codice Iban).

Quando il soggetto A decide di effettuare un trasferimento di bitcoin al soggetto B, il software di A ‘firma' (o meglio: cripta) l’operazione stessa combinando la propria chiave privata con la chiave pubblica di B.

In tal modo, utilizzando la chiave pubblica di A è possibile essere certi che la transazione è stata disposta solo e soltanto da A medesimo (che è l’unico detentore della rispettiva chiave privata) e quindi – una volta verificato che l’importo di bitcoin trasmesso era nella sua disponibilità (attraverso l’interrogazione del registro pubblico denominato blockchain) – l’ammontare di bitcoin trasmesso viene definitivamente associato alla chiave pubblica di B, e ciò consentirà in futuro unicamente a B, usando la propria chiave privata, di disporre di tale somma in una eventuale successiva transazione.

È evidente che questo lavoro di ‘verifica’ dev’essere effettuato da qualcuno, al fine di evitare che una medesima quantità di bitcoin venga trasferita dallo stesso soggetto due volte a due soggetti diversi.

Ma, mentre nel sistema ‘tradizionale’ dei pagamenti questa verifica viene effettuata da una autorità centrale (una banca o un Istituto a ciò deputato), nel sistema delle criptovalute (come spiega ancora Nakamoto https://bitcoin.org/bitcoin.pdf) «L'unico modo per confermare … una transazione è essere a conoscenza di tutte le transazioni. Nel modello basato sulla zecca, la zecca era a conoscenza di tutte le transazioni e decideva quale era stata effettuata per prima. Per fare ciò senza una parte fidata, le transazioni devono essere annunciate pubblicamente».

È quindi attraverso la totale trasparenza e pubblicità del registro che i c.d. miners verificano la correttezza delle transazioni in bitcoin attraverso quel procedimento che nei bitcoin viene chiamato 'proof of work' ma che può avvenire con modalità differenti in altre criptovalute.

Si è parlato di “trasparenza e pubblicità”, poichè in effetti tutte le transazioni di bitcoin sono pubbliche e totalmente tracciabili.

Ma occorre intendersi sul significato del termine 'tracciabile’.

Gli indirizzi di bitcoin sono le uniche informazioni utilizzate per definire dove si trovano i bitcoin stessi, da dove provengono, e dove vengono inviati.

Tali indirizzi, come abbiamo visto, sono chiavi crittografiche create privatamente dai portafogli di ciascun utente in modo completamente anonimo (solo in rari e più recenti casi, infatti, gli utenti devono rivelare la propria identità per poter ricevere un ‘portafoglio' bitcoin).

Il che significa che, nonostante tali indirizzi siano pubblici e chiunque possa vedere il saldo e tutte le transazioni di ogni singolo indirizzo presente nella blockchain, essi costituiscono solo una anonima sequenza alfanumerica.

Non esiste, insomma, alcun sistema che consenta di attribuire con certezza un determinato indirizzo ad un determinato soggetto.

Nemmeno colui che esegue una transazione in bitcoin può essere assolutamente certo della effettiva titolarità dell’indirizzo di destinazione.

Chi effettua una transazione in bitcoin effettua infatti un trasferimento sull’indirizzo che gli viene ‘comunicato’ dal destinatario.

Ma ciò può solo far presumere che detto conto ‘appartenga’ anche a detto destinatario,

poiché in verità la blockchain non garantisce alcuna certezza sul punto.

Si tratta, insomma, di un concetto alquanto ‘strano’ di trasparenza, ma ciò che tuttavia qui maggiormente interessa è che il procedimento sopra descritto assomiglia moltissimo ad un qualsiasi altro trasferimento elettronico di valuta (come un bonifico, o un pagamento con moneta elettronica), ove esiste un tracciato che viaggia all’interno di un ‘ambiente’, e questo ambiente è in grado di tenere traccia della provenienza e della destinazione del flusso (ed a garantire la sussistenza della somma trasferita).


I bitcoin sono una moneta?

Siamo allora giunti al tema più interessante che l'analisi del fenomeno dei bitcoin e delle criptovalute in generale pone per un giurista: qual è la natura giuridica dei bitcoin?

Abbiamo appena visto che il loro stesso ideatore li definisce come un 'sistema di pagamento', ma occorre ancora un po’ di prudenza nel poterli definire ‘moneta’ o ‘valuta’, visto che posizioni contrarie non mancano.

Da un lato, infatti, esistono importanti prese di posizione che assimilano i bitcoin al denaro o alla moneta in generale.

Tra i principali esempi:

  • Corte giustizia UE, sez. V, 22 ottobre 2015, causa C-264/14, la quale – partendo dall’assunto che «è pacifico che la valuta virtuale “bitcoin” non abbia altre finalità oltre a quella di un mezzo di pagamento e che essa sia accettata a tal fine da alcuni operatori» – esclude dall’ambito di applicazione dell’Iva le «prestazioni di servizi che consistono nel cambio di valuta tradizionale contro unità della valuta virtuale “bitcoin” e viceversa»;
  • Risoluzione Agenzia entrate n. 72/E del 2 settembre 2016, la quale – richiamando la pronuncia della Corte europea sopra citata – ribadisce che le operazioni tramite bitcoin rientrano «tra le operazioni relative a divise, banconote e monete con valore liberatorio …, avendo la funzione di mezzo di pagamento alternativo ai mezzi di pagamento tradizionali».
  • Sentenza US District Court Eastern Division of Texas,  Judge Ams L.  Mazzant, Case N. 4:13-CV-41 del 06.08.2013 (SEC v. Shavers) secondo cui «It is clear that bitcoin can be used as money. It can be used to purchase goods or services, and as Shavers stated, used to pay for individual living expenses. The only limitation of bitcoin is that it is limited to those places that accept it as currency».

Non mancano tuttavia nemmeno le posizioni opposte (provenienti soprattutto dal mondo economico) che vedono nell’estrema volatilità del sistema e nell’instabilità della valuta dei bitcoin le caratteristiche che ne impedirebbero l’inquadramento come moneta (http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2018-01-15/bitcoin-perche-non-e- moneta-vero-valore-blockchain-155334.shtml?uuid=AEYilviD).

Prima di procedere nell’analisi conviene allora, seppur brevemente, interrogarsi su cosa venga comunemente inteso con il termine ‘moneta’.

Il denaro (o la moneta) rappresenta l’unico bene che può essere scambiato con qualsiasi altro bene.

Il denaro nasce, del resto, proprio come strumento che funge da intermediario negli scambi.

Se pensiamo, infatti, al sistema del baratto (che rappresenta probabilmente storicamente la prima forma di scambio tra operatori economici) sarà facile immaginare che esso presentava tanti e tali inconvenienti e complicazioni pratiche da indurre ben presto gli operatori economici a scindere l’atto di scambio in due operazioni distinte: in primo luogo la cessione di un bene (o di un servizio) in cambio di un ‘bene intermedio’, dotato della caratteristica di essere largamente diffuso ed accettato, e successivamente l’impiego di questo ‘bene intermedio’ per l’acquisto di altri beni o servizi.

Questa caratteristica di ‘bene intermedio’ rappresenta una delle funzioni tipiche (se non la principale) della moneta individuate dai classici: la funzione di mezzo di scambio.

Essa, tuttavia, non è l’unica caratteristica necessaria di una moneta posto che in economia si è soliti associare alla funzione di mezzo di scambio della moneta anche quella di riserva di valore. Del resto, se la principale funzione della moneta deve essere quella di mezzo di scambio, tale ruolo implica anche che una certa quantità di ‘moneta’ debba essere trattenuta e conservata nel tempo da chi ne dovrà poi fare uso, posto che – ovviamente – deve poter intercorre un certo intervallo di tempo tra un incasso e un esborso, durante il quale dev’essere possibile per l’operatore economico mantenere la ricchezza di cui dispone.

Una moneta, quindi, deve saper fungere da mezzo di scambio, e deve anche essere facilmente conservabile.

Esistono inoltre anche altre funzioni tradizionalmente riservate alla moneta, quali la funzione di misura del valore e la funzione di termine di riferimento per pagamenti dieriti, che consistono rispettivamente nella possibilità per la moneta di fungere da unità di misura del valore dei beni da scambiare, in modo che tutti i beni esistenti possano essere misurati con la stesse unità, nonché nell’idoneità di essa ad essere usata come misura per i pagamenti differiti nelle transazioni di lungo periodo, come ad esempio, i prestiti.

È proprio su tali ultime due caratteristiche che si concentrano le maggiori critiche circa l’idoneità dei bitcoin da fungere come moneta. Le recenti (ma anche passate) importanti fluttuazioni del valore dei bitcoin hanno dimostrato che il relativo valore è prevalentemente dipendente dal meccanismo della domanda e dell’offerta e ciò ne determina crescite e ribassi così repentini (nell’ordine anche di percentuali a due cifre in una singola giornata) da renderlo inadatto a fungere da misura del valore.

Si sostiene, ad esempio, che se si adottassero i bitcoin come moneta avente corso legale, ogni giorno (fors’anche ogni ora) i cartellini dei prezzi della merce nei negozi andrebbe aggiornata, stante il continuo mutamento del suo valore.

Si sostiene, insomma, che una buona moneta debba avere un valore stabile, se si vuole che il pubblico conservi fiducia in essa. Qualora infatti la fiducia del pubblico su di una moneta venga meno (per effetto di una sua continua perdita di valore), il pubblico stesso si affretterebbe a spendere velocemente la moneta stessa, nel timore di una sua ulteriore svalutazione, contribuendo – in tal modo – ad accelerarne il crollo.

L’assenza di una stabilità di valore e l’alta dipendenza dai meccanismi della domanda e dell’offerta ha indotto taluni a definire i bitcoin come una ‘commodity’. 

La stessa Commodity Futures Trading Commission (CFTC) degli USA infatti ha comunicato nel 2015 che i bitcoin e le altre monete digitali sarebbero state considerate commodities, per essere sottoposte ai relativi regolamenti https://www.investireoggi.it/economia/i-bitcoin-sono-commodity-per-gli-usa-vediamo-cosa-significa/. Con il termine ‘commodity’ si intende una locuzione anglosassone che descrive ogni tipo di merce o materia prima tangibile e fruibile sul mercato, facilmente immagazzinabile e conservabile nel tempo (http://www.treccani.it/enciclopedia/commodity_%28Dizionario-di-Economia-e-Finanza%29/). Si tratta, in altre parole, di un termine che indica beni per cui c'è domanda ma che sono offerti senza differenze qualitative sul mercato e per questo sono fungibili, cioè il prodotto è lo stesso indipendentemente da chi lo produce.

Esempi tipici sono i metalli (tra cui il principale esempio è l’oro), il petrolio, prodotti agricoli, carni, ecc.

Ma il punto da chiarire è il seguente: un ‘mezzo di scambio’ cessa di essere moneta per diventare ‘commodity' per il solo fatto di non essere stabile e di essere altamente sensibile alle variazioni di domanda ed offerta?

Invero da più parti si ricava esattamente il contrario.

Nella dottrina economica (http://www.treccani.it/enciclopedia/moneta/), infatti, si afferma sovente che «le funzioni della moneta come misura dei valori e come termine di riferimento nei pagamenti differiti … possono anche non coesistere nel mezzo che operi come mezzo di pagamento e riserva di valore».

Tali caratteristiche, infatti, sono di norma riservate alla moneta avente corso legale, la quale viene definita tale quando il riconoscimento della sua funzione di mezzo di pagamento è garantito dalla legge, ed è pertanto lo Stato (o l’autorità centrale) a preoccuparsi di garantire la sua stabilità.

Tuttavia, accanto alle monete aventi corso legale esistono anche altre tipologie di monete, che vengono definite come ‘complementari’, ma che per ciò solo non cessano di essere idonee ad essere considerate ‘monete’. 

Le 'valute complementari’ possono essere definite come strumenti di scambio con cui è possibile scambiare beni e servizi senza l’intermediazione del denaro ufficiale (rispetto al quale sono complementari). Esse sono accettate su base volontaria e rappresentano un mezzo di scambio accettato ed utilizzato all’interno di un gruppo, di una rete, di una comunità per facilitare e favorire lo scambio di merci, la circolazione di beni e servizi all’interno di quella determinata rete sociale.

Ma c’è di più. Nemmeno le valute aventi corso legale in uno Stato (e quindi in qualche modo ‘stabilizzate’ dall’attività dello Stato o delle Banche centrali) sono del tutto esenti da oscillazioni piuttosto importanti, eppure non per questo cessano di essere considerate monete.

Si pensi al crollo del rublo russo, che nel 2014 si svalutò di oltre il 50%, o ancora al manat azero che nel 2015 subì una quasi analoga svalutazione (https://it.sputniknews.com/economia/201601011822348-Ucraina-Valute-Forex-Bloomberg-Finanze-Borsa/).

Non vanno poi nemmeno dimenticate le c.d. ‘commodity currencies’; termine con cui si suole indicare talune valute caratterizzate dalla stretta correlazione con le variazioni di prezzo di determinate materie prime.

«Un classico esempio del legame tra valute e materie prime è quello del Canada e del Giappone da un lato e del petrolio dall’altro. Il Canada è soltanto la quindicesima economia del mondo in termini di Prodotto interno lordo, ma è il sesto produttore mondiale di petrolio, in passato ha persino superato nelle esportazioni di greggio verso gli Stati Uniti l’Arabia Saudita. Questo significa che l’economia canadese è fortemente legata al petrolio e che dunque le oscillazioni dei prezzi del greggio sui mercati internazionali possono influenzare l’andamento del dollaro canadese. Il legame tra l’economia canadese e i prezzi del greggio risalta da una stretta correlazione inversa tra prezzi del greggio e andamento della coppia Usd/Cad. Se il petrolio si apprezza, il dollaro canadese si rivaluta sul dollaro Usa.

Una relazione opposta è quella instauratasi tra i prezzi del greggio e la valuta giapponese (yen). Essendo il Giappone un importatore storico di materie prime – nel caso del petrolio è il quarto importatore del mondo – un rincaro delle commodity e del petrolio può   danneggiare la sua economia e deprimere la sua valuta».

(cit. http://www.borsaitaliana.it/notizie/speciali/valute/monete-materie-prime/materie- prime/relazioni-imperfette-con-le-monete.htm).

Esistono, insomma, esempi di valute il cui comportamento è molto simile a quello delle commodity, oppure risulta essere addirittura del tutto legato a quello di alcune commodity. Ma non per questo cessano di essere considerate valute.

Certo l’estrema volatilità di una valuta può renderla forse ‘poco adatta' ad essere in concreto utilizzata su larga scala (e quindi può determinare finanche il suo abbandono; es. http://smartmoney.startupitalia.eu/trend/56475-20160611-zimbabwe-senza-soldi-dollaro) ma ciò non ne muta la natura.

Alla luce delle osservazioni che precedono, si ritiene di poter concludere che i bitcoin siano certamente un mezzo di scambio (essendo nati per questo) potenzialmente idoneo a mantenere una riserva di valore (i bitcoin rimangono nel ‘portafoglio virtuale’ in attesa che il titolare ne disponga la spesa), e ciò appare sufficiente a conferire agli stessi la funzione e la natura giuridica di moneta.

Di una moneta rischiosa, forse, e poco adatta per costituire la base di una economia di mercato, ma pur sempre una moneta.

Non trattandosi, ovviamente, di moneta avente corso legale (non essendovi alcuno Stato che – attualmente – abbia conferito ai bitcoin tale qualifica) essa andrà qualificata necessariamente come ‘moneta complementare’.


La disciplina civilistica dei bitcoin

Se, dunque, ai bitcoin può essere riconosciuta la natura di moneta o valuta (ancorché complementare), occorre allora verificare quale sia la disciplina giuridica da applicare ai trasferimenti di beni effettuati in cambio di bitcoin

Com’è noto, infatti, ciò che distingue la permuta (diretta a realizzare tra i contraenti il reciproco scambio della proprietà di una bene con altro bene) dalla compravendita è la presenza caratterizzante – nella seconda – di un prezzo, ossia di un corrispettivo in denaro in funzione di immediato controvalore dei beni ceduti (1470 c.c.).

Ne discende che l’obbligazione del pagamento del prezzo di una compravendita costituisce un debito di valuta (Causa n. 96/10069), con conseguente applicazione di quanto previsto dagli artt. 1277 e seguenti c.c. con specifico riguardo alle obbligazioni pecuniarie.

Da un’analisi di tali articoli emerge che il principio di base, posto dall’articolo 1277 c.c., secondo cui «i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento …», può essere derogato dalla volontà delle parti, posto che gli artt. 1278 e 1279 c.c. prendono espressamente in esame il caso in cui sia convenuto il pagamento «in una moneta non avente corso legale nello Stato».

Com’è noto, il primo dei due articoli (il 1278 c.c.) attribuisce al debitore la facoltà di pagare in moneta legale un'obbligazione originariamente prevista in moneta ‘diversa’, facendo riferimento al corso del cambio nel giorno della scadenza e nel luogo stabilito per il pagamento.

Il secondo articolo citato, invece, (1279 c.c.) consente alle parti di escludere addirittura tale facoltà, salvo che – alla scadenza dell’obbligazione – non sia possibile procurarsi tale ‘diversa' moneta.

Entrambi tali articoli paiono adattarsi perfettamente alle obbligazioni pecuniarie espresse in bitcoin, infatti: da un lato già da tempo la dottrina (T. ASCARELLI, Delle obbligazioni pecuniarie, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1959) ha chiarito che la clausola “effettivo” prevista dall’art. 1279 c.c. che paralizza la facoltà del debitore di liberarsi in valuta nazionale non trasforma il debito di moneta in debito di merce. Dall’altro, entrambi i suddetti articoli testualmente ammettono l’utilizzo di una «moneta non avente corso legale nello Stato» senza tuttavia richiedere espressamente che tale moneta debba anche avere corso legale in altro Stato.

Fondare tuttavia la disciplina normativa dei bitcoin su di un mero dato letterale significherebbe comunque giungere ad una conclusione alquanto affrettata.

Infatti, il richiamo al ‘corso di cambio’ contenuto nell’art. 1278 c.c., posto a fondamento della facoltà alternativa di estinzione dell'obbligazione con valuta nazionale, potrebbe invero far supporre esattamente il contrario.

Potrebbe insomma far ritenere che il corso del cambio della valuta usata debba essere necessariamente identificato con quello uciale, coincidente con il cambio medio delle borse nazionali (così M. BIANCA, Diritto Civile, L’Obbligazione, Milano, 2004 e F. MASTROPAOLO, Obbligazioni pecuniarie, Roma, 1990), con la conseguenza che il disposto degli articolo 1278 e 1279 c.c. troverebbe applicazione unicamente per quelle valute dotate di un cambio uciale.

Questo aspetto ci porta allora a chiederci se esista un valore ‘ufficiale’ dei bitcoin e, quindi, un corso di cambio ufficiale dei bitcoin nelle diverse valute ’tradizionali’.

L'unica risposta attuale sono gli exchange.

La maggior parte degli attuali possessori di criptovalute, infatti, siano essi bitcoin piuttosto che altre criptovalute, hanno usato gli exchange per acquistarle.

Gli exchange, infatti, sono semplicemente delle piattaforme internet attraverso le quali è possibile scambiare le valute virtuali con le monete tradizionali. È possibile per esempio trasformare i bitcoin in euro e viceversa.

È possibile, in pratica, aprire presso queste piattaforme dei conti nelle diverse valute e criptovalute, ivi accreditando i fondi necessari per effettuare la conversione.

Sono di fatto gli ordinativi raccolti da queste piattaforme a contribuire a determinare il valore della criptovaluta. Maggiore, infatti, è la domanda di una criptovaluta, maggiore sarà il rialzo del suo valore nel mercato.

Sia ben chiaro, tuttavia, che quanto sopra descritto avviene in un ambiente tutt’altro che ‘regolamentato’ ed al cui interno pertanto partecipano operatori talvolta di scarsa affidabilità o, nella migliore delle ipotesi, grandi speculatori.

Risale a novembre 2017 la notizia (https://qz.com/1130147/bitcoins-price-in-zimbabwe- is-not-actually-13000/) che in Zimbabwe – dopo che i militari avevano assunto il potere con una sorta di colpo di Stato – l’acquisto di bitcoin era in quei giorni aumentato esponenzialmente, forse perché considerato una sorta di ‘bene rifugio’, e ciò aveva fatto sì che una locale piattaforma di exchange chiamata Golix (https://golix.com) scambiasse bitcoin al valore di oltre 13.000,00 dollari, laddove il prezzo medio nel resto del mondo si attestava in quello stesso periodo a circa 7.000,00 dollari.

Non esiste, insomma, ad oggi una quotazione uciale dei bitcoin, ma solo molteplici quotazioni da parte di numerosi exchange, i quali contribuiscono in maniera più o meno determinante a fissare il valore medio globale (https://coinmarketcap.com).

Dobbiamo allora concludere che l’assenza di un corso di cambio ‘ufficiale’ determini l’impossibilità di applicare ai bitcoin (ed alle criptovalute in genere) i principi di cui agli arti. 1278 e seguenti c.c.?

La risposta appare negativa.

Già da tempo, infatti, la dottrina (T. ASCARELLI, Delle obbligazioni pecuniarie, cit.) ha precisato che – in relazione al corso di cambio di cui all’art. 1278 c.c. – è facoltà riconosciuta alle parti quella di derogare convenzionalmente alla disciplina legislativa, sia fissando pattiziamente il corso di cambio, sia individuando in modo autonomo il corso di cambio diverso da quello uciale a cui fare riferimento.

In una compravendita, quindi, il cui prezzo sia determinato in criptovaluta sarà pertanto assolutamente indispensabile per le parti optare per l’una o l’altra delle suddette soluzioni, e pertanto, o fissare pattiziamente un rapporto di cambio tra la criptovaluta e la valuta nazionale, o – in alternativa – individuare la piattaforma (o le piattaforme) a cui fare riferimento. E ciò anche nell’ipotesi in cui si voglia escludere la facoltà di cambio prevista dall’art. 1278 c.c., in quanto – a norma del successivo 1279 c.c. – sarà sempre necessario comunque prevedere il caso in cui non sia più possibile procurarsi la criptovaluta prescelta.

Le considerazioni fin qui svolte, portano quindi a ritenere pienamente compatibile ai bitcoin (ed alla stragrande maggioranza delle criptovalute esistenti) la disciplina civilistica delle obbligazioni pecuniarie, con la conseguenza che la cessione di un bene a fronte del ‘trasferimento’ di una criptovaluta andrà qualificato come ‘compravendita’ e non come permuta, essendo il trasferimento di criptovaluta parificato ad un pagamento di una somma, e quindi ad un prezzo.

Si ritiene che la conclusione a cui si è giunti possa valere, se non in tutti, senza dubbio nella quasi totalità dei casi. Non si ignora, infatti, la posizione espressa in dottrina (G. COTTINO, Del riporto. Della permuta, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1966) secondo cui configurerebbe permuta e non vendita anche lo scambio tra due monete, qualora queste siano considerate per il loro valore intrinseco o artistico; tuttavia si fatica non poco a riconoscere ad una criptovaluta come i bitcoin un valore intrinseco.

Essa, infatti, rappresenta di per sé unicamente una sequenza di bit, puramente matematica, per cui appare difficile attribuire alla stessa un valore intrinseco differente da quello di mezzo di scambio.


Il pagamento con criptovalute, problematiche antiriciclaggio

Riconosciuta (quantomeno in astratto) al pagamento in criptovaluta la medesima natura di un pagamento in ‘denaro’, occorre ora verificare (questa volta in concreto) se le caratteristiche di anonimato, attualmente comuni a tutte le principali criptovalute esistenti, pongano problematiche di sorta sull’utilizzo di una criptovaluta per il pagamento del prezzo di una compravendita.

Come abbiamo visto, analizzando nel dettaglio il funzionamento dei bitcoin, gli ‘attori’ di una transazione spesso si celano dietro indirizzi consistenti in pure sequenze alfanumeriche, la cui riferibilità ad un determinato soggetto è tutt’altro che certa.

Ciò può rende di fatto dubbia (o non sempre dimostrabile) la circostanza che il pagamento in criptovaluta sia avvenuto effettivamente tra i medesimi soggetti che pongono in essere il ‘corrispondente’ trasferimento del bene oggetto della compravendita.

Esemplificando: se Alice vendesse a Bob un quadro a fronte del pagamento di un prezzo in bitcoin da parte di quest’ultimo, non vi potrà essere né la certezza che i bitcoin provengano da un ‘portafoglio’ di proprietà di Bob, ma nemmeno che essi siano stati versati su un ‘portafoglio’ di effettiva proprietà di Alice.

Potrà, forse, esistere una sorta di presunzione che ciò rispecchi la realtà delle cose, basata unicamente sulla dichiarazione delle parti (e magari nella maggior parte dei casi sarà pure così), ma nulla impedisce che Bob abbia effettuato il pagamento utilizzando un portafoglio di proprietà altrui (e di cui semplicemente dispone delle chiavi di accesso), così come nulla impedisce che Alice abbia fornito a Bob un indirizzo di destinazione dei bitcoin che non le appartiene (e che magari appartiene all’amica esperta di informatica a cui Alice ha chiesto aiuto per effettuare l’operazione).

Ora, tutti questi aspetti non comportano – di per sé – alcun problema dal punto di vista civilistico, posto che il nostro ordinamento conosce tanto l’istituto dell’adempimento da parte del terzo (art. 1180 c.c.) quanto l’effetto solutorio di un pagamento effettuato ad un soggetto diverso dal creditore, ma da questi ‘indicato’ (art. 1188 c.c.).

In altre parole, l’eventuale non coincidenza tra i soggetti interessati dall’effetto traslativo e dall'obbligazione di consegna del bene e quelli interessati dall’obbligazione di pagamento del prezzo (in bitcoin) non pone alcun ostacolo al perfezionamento civilistico della vendita o all’estinzione delle relative obbligazioni.

Qualche problema, tuttavia, potrebbe sorgere ad altri fini.

Com’è noto, infatti, gli obblighi di adeguata verifica, prescritti dal d.lgs. n. 231 del 2007 e s.m.i., impongono a commercialisti, notai, avvocati, associazioni di categoria, patronati, Caf e altri soggetti obbligati, di procedere all'identificazione del cliente o del titolare effettivo.

Il titolare effettivo è la persona fisica, diversa dal cliente, nel cui interesse la    prestazione professionale è resa o l’operazione è effettuata.

Nel fare ciò, di norma, il notaio, in base all’indice di rischio attribuito al cliente e alla sua prudente valutazione, deve procedere all’identificazione del titolare effettivo decidendo (alternativamente o cumulativamente) di fare propria una dichiarazione in tal senso ottenuta dal cliente, o di effettuare delle autonome verifiche.

L’uso in una transazione di strumenti di pagamento ‘anonimi’, come i bitcoin o le criptovalute, appare a chi scrive condizione sufficiente per invitare il professionista all'estrema prudenza.

Prudenza, tuttavia, non significa automaticamente sospetto.

Infatti, se è vero che il sistema è anonimo, è anche vero che non è affatto impossibile per chi lo desideri dimostrare la propria titolarità dei bitcoin utilizzati.

Sarà sufficiente, ad esempio, mostrare il bonifico o la transazione con carta di credito effettuati in valuta tradizionale verso l’exchange utilizzato per l’acquisto dei bitcoin. Quindi, accedendo all’exchange stesso sarà possibile avere evidenza della transazione di 'cambio valuta’.

Da qui, poi, il tracciamento del trasferimento dei bitcoin viene attestato dal registro stesso della blockchain.

Quanto al conto di destinazione, la sua apertura è così semplice da poter essere fatto anche alla presenza del notaio stesso.

Anzi, fino a certi importi, l’intera procedura di acquisto e trasferimento dei bitcoin da un soggetto ad un altro potrebbe perfezionarsi in poche ore, partendo da zero, direttamente davanti al notaio.

Insomma, il sistema delle criptovalute – ed in particolare quello dei bitcoin – è sì anonimo, ma ciò non significa che sia del tutto impossibile attribuire un ‘nome’ alle singole transazioni.

È evidente che la situazione andrà valutata caso per caso, poiché un rifiuto (o una impossibilità) di procedere a simili verifiche dovrà essere opportunamente valutato dal notaio interessato.

Ma l’aspetto più delicato, e che forse qui maggiormente interessa è un altro, ed è costituito dalla compatibilità di una transazione in bitcoin (o in altra criptovaluta) con la normativa che disciplina l’uso del contante.

Com’è noto, infatti, l'articolo 49, comma 1 del d.lgs. n.  231del 2007 (nella sua formulazione vigente) dispone che è vietato il trasferimento di denaro contante effettuato a qualsiasi titolo tra soggetti diversi, «siano esse persone fisiche o giuridiche», di importo pari o superiore a 3.000,00 euro. Parimenti è vietato l’uso di titoli al portatore.

Si suole affermare (http://www.ipsoa.it/documents/fisco/accertamento/quotidiano/2017/10/06/limiti-all-uso-del-contante-la-provenienza-del-denaro-e-irrilevante) che «La limitazione all’utilizzo del contante e dei titoli al portatore rappresenta uno dei pilastri del sistema di prevenzione del riciclaggio di proventi da attività illecite. Tale limitazione è finalizzata a garantire la tracciabilità delle operazioni al di sopra di una certa soglia, attraverso la canalizzazione dei flussi finanziari presso banche, Poste SpA, istituti di pagamento ed istituti di moneta elettronica. Il divieto – sottolinea il Dipartimento del tesoro nelle Faq sulla normativa antiriciclaggio – sussiste indipendentemente dalla natura lecita o illecita dell’operazione alla quale il trasferimento si riferisce, trattandosi di un illecito “oggettivo”, in cui non rilevano – per la sussistenza della violazione – le ragioni che hanno determinato il trasferimento dei valori».

Da questo punto di vista, se scopo della norma è quello di canalizzare tutte le operazioni di valore superiore ad una soglia prefissata attraverso intermediari abilitati, ne consegue che la natura stessa dei bitcoin (e delle altre criptovalute) consentirebbe a mio avviso di assimilare – quantomeno ai fini della richiamata normativa – tali strumenti al contante, ed i relativi ‘portafogli’ a titoli al portatore.

Del resto, così come allegare ad un contratto di vendita la fotocopia delle banconote utilizzate per il pagamento (cristallizzando, quindi, il relativo numero di serie) non è sufficiente a rendere tracciabile un pagamento in contanti, così anche non è sufficiente citare gli estremi di ‘registrazione’ su una blockchain di una transazione per poterla definire ‘tracciata'.

Ed ancora, così com'era in passato possibile trasferire fondi da un libretto al portatore, non solo ‘prelevandoli’ da esso per poi versarli a terzi, ma anche semplicemente consegnando al destinatario il libretto stesso, così oggi è possibile trasferire dei bitcoin non solo effettuando una transazione (che verrebbe scritta sulla blockchain), ma semplicemente consegnando al destinatario le credenziali per accedere al portafoglio; in altre parole consegnandogli la titolarità di quella coppia di chiavi asimmetriche che consente di disporre di quei bitcoin.

In tal caso, quindi, nessuna registrazione (nemmeno nella blockchain) avverrebbe della transazione effettuata, ma avverrebbe ugualmente il trasferimento di ‘ricchezza’.

Nè, a risolvere il problema, varrebbe il tracciamento dell’operazione da parte del notaio, posto che, ad avviso di chi scrive, il notaio non può e non deve limitarsi ad esaminare una singola ‘fase’ dell’operazione (e precisamente solo quella che si svolge dinnanzi a sé), ma deve chiedersi se anche le fasi “antecedenti” e “successive” dell’operazione siano intervenute o siano destinate ad intervenire per mezzo di altri soggetti parimenti tenuti al rispetto della normativa antiriciclaggio.

Insomma, compito del notaio (in quanto baluardo della sicurezza dei traffici giuridici) appare essere anche quello di valutare se l’operazione si inserisca nel quadro di un flusso economico “tracciato” (nel vero senso della parola) o se i clienti, una volta usciti dallo studio, siano tranquillamente nelle condizioni di alterare (senza alcuna forma di controllo) il risultato economico dell’operazione posta in essere.

Se questi sono i principi ispiratori della normativa antiriciclaggio, una transazione in bitcoin (o in altre valute) parrebbe, nello spirito della legge, violare la normativa sopra richiamata in tema di limitazione nell’uso del contante, con tutti gli obblighi di segnalazione ivi previsti (articolo 51, comma 1 del d.lgs. n. 231 del 2007).

Il problema, tuttavia, è che allo spirito della legge non sembra corrisponde il tenore letterale delle norme.

Ai fini del suddetto d.lgs. n. 231 del 2007, infatti, il “denaro contante” viene definito all’art. 1 lett. o) come «le banconote e le monete metalliche, in euro o in valute estere, aventi corso legale».

Analogamente, l’art. 49 vieta testualmente «il trasferimento di denaro contante (la cui definizione è quella precedente) e di titoli al portatore in euro o in valuta estera, effettuato a qualsiasi titolo tra soggetti diversi, siano esse persone fisiche o giuridiche, quando il valore oggetto di trasferimento, è complessivamente pari o superiore a 3.000 euro».

A differenza, quindi, delle norme del codice civile sopra esaminate, queste due norme si riferiscono espressamente all’euro o alle valute estere (cioè riconosciute da altri Stati) e richiamano espressamente il corso legale.

Ne rimarrebbero, insomma, testualmente esclusi proprio i bitcoin e le altre criptovalute, che valute estere non sono, e corso legale non hanno.

Ne risulta, insomma, un quadro normativo assolutamente carente (M. KROGH, Bitcoin, blockchain e le transazioni in valute virtuali. Il ruolo del notaio ed i rischi riciclaggio, in corso di pubblicazione su Riv. not.) nel quale le valute legali trovano una regolamentazione paradossalmente più stringente rispetto a quelle non aventi corso legale.


Bitcoin, criptovalute e conto dedicato

Dopo questa lunga disamina è giunta l’ora di tentare una risposta al quesito iniziale. Se i bitcoin (e la maggior parte delle altre criptovalute) sono moneta – ancorché complementare – ad essi troverà applicazione la normativa sul 'deposito-prezzo' in principio ricordata? Ed in caso affermativo, come fanno i bitcoin ad entrare sul conto dedicato?

La risposta potrebbe apparire scontata: non ci entrano. Non è infatti possibile far ‘entrare’ in un conto espresso in valuta legale una valuta non legale.

Tuttavia, prima di negare completamente la possibilità di astratta applicazione della normativa in esame, conviene svolgere alcune considerazioni.

Innanzitutto appare opportuno valutare l’interesse concreto voluto dalle parti; interesse di fronte al quale il ruolo del notaio potrebbe – addirittura – agevolare (con il deposito prezzo) la transazione.

Si pensi, ad esempio, al caso in cui la compravendita sia caratterizzata dall’obbligazione facoltativa di pagare il prezzo in bitcoin o in Euro, e ciò sia stato fatto unicamente nell’interesse dell’acquirente a poter utilizzare i bitcoin che possiede per effettuare il pagamento, laddove invece il venditore non è ‘particolarmente’ interessato a tale criptovaluta, avendo accettato tale ‘metodo di pagamento’ già in fase di trattativa al solo fine di attirare maggiori potenziali acquirenti.

Ebbene, in questo caso, l’applicazione della normativa sul deposito del prezzo potrebbe consentire al notaio di ricevere (in un proprio ‘portafoglio’ appositamente aperto) la somma in bitcoin; somma che provvederà a convertire immediatamente in Euro, tramite un exchange. Da qui il notaio provvederà a bonificare tale somma nel proprio conto dedicato, quasi fosse una sorta di ‘giroconto’.

Analogo ruolo potrebbe essere svolto dal notaio nel caso opposto, in cui cioè il venditore accetti un pagamento solo in criptovaluta, ma l’acquirente disponga unicamente di Euro. In tal caso, infatti, la clausola contrattuale di pagamento del prezzo potrebbe essere formulata in modo tale da consentire al notaio di ricevere (e versare sul conto dedicato) la somma in Euro, per poi convertirla (con il procedimento più volte descritto) in criptovaluta nel momento in cui andrà trasferita al venditore.

Più difficile appare, invece, la gestione di una compravendita con pagamento del prezzo in criptovaluta, nell’ipotesi in cui le parti abbiano espresso la volontà di apporre la clausola “effettivo” di cui all’art. 1279 c.c.

In tal caso l’applicazione della normativa sul deposito prezzo appare possibile solo in via analogica, mediante l’apertura di un ‘portafoglio’ da parte del notaio, nel quale l’acquirente trasferirà la criptovaluta; da qui – al termine delle formalità di legge – la criptovaluta verrà trasferita nel ‘portafoglio' indicato dal venditore.

Volendo applicare una simile procedura, si ritiene doveroso rispettare il dettato di legge anche per quanto concerne la comunicazione al Consiglio notarile distrettuale del conto ‘transitorio’ aperto. Anzi, prudenzialmente appare altresì opportuno consegnare al Consiglio notarile distrettuale, in busta chiusa, le credenziali e le chiavi di accesso a detto conto transitorio, posto che – in mancanza – in caso di morte o sopravvenuta incapacità del notaio, detti fondi rimarrebbero definitivamente irrecuperabili.

Inutile dire che tutte tali operazioni espongono, non solo le parti contraenti, ma anche il notaio, a numerosi rischi.

Rischi di natura pratica, ma anche rischi di natura sociale.

Dal punto di vista pratico, in tutti i passaggi sopra descritti, bisognerà tener necessariamente conto di alcuni fattori tutt’altro che scontati o poco significativi, che potremmo indicare:

  • nel rischio di cambio (come abbiamo visto le criptovalute sono sensibili ai meccanismi della domanda e dell’offerta, a tal punto da comportare sensibili variazioni da un giorno all’altro; variazioni che andranno in qualche modo disciplinate o accettate preventivamente dalle parti);
  • nell’affidabilità dell’exchange (la conversione delle criptovalute in moneta ‘tradizionale’ e viceversa avviene all’interno di ambienti non regolamentati; il che significa che estrema attenzione andrà posta sulla scelta della piattaforma e sulla sua affidabilità);
  • nelle commissioni (nonostante sia credenza popolare che i bitcoin e le criptovalute possono circolare velocemente, liberamente e soprattutto gratuitamente, stante l’assenza di intermediari, in realtà ciò non corrisponde a verità in quanto, nella maggior parte dei casi, vi sono costi di transazione, oltre ovviamente alle commissioni dell’exchange per l’attività di cambio della valuta).

Dal punto di vista ‘sociale’ il notaio non deve – in nome di una presunta “modernità” – dimenticare il proprio ruolo, che consiste nell’essere guardiano della legalità e della certezza dei traffici giuridici; ruolo che non può certo essere assolto limitandosi a certificare ‘un singolo passaggio di ricchezza’ senza preoccuparsi del contesto in cui tale passaggio si inserisce.