Giuffré Editore

Funzione pubblica e concorrenza ovvero come conservare lo stato nel mercato


di Roberto Barone

Notaio in Nichelino

Consigliere Fondazione italiana del Notariato

Consigliere Cassa nazionale del Notariato


Per ogni relazione la scelta del titolo può essere più o meno felice. Il titolo che ho immaginato esige in via preliminare una spiegazione: mi rivolgo infatti a un uditorio che conosce bene il significato dei termini pubblica funzione e concorrenza così come quello di Stato nella sua articolazione nella società e, quindi, nei rapporti economici. Mi propongo di dimostrare che concorrenza e pubblica funzione sono termini descrittori di realtà diverse, opposte e di difficile compatibilità e che l’unico mezzo per renderle “di pacifica coesistenza” è l’intervento dello Stato. Ho parlato di come conservare …, ma il discorso è identico sostituendolo con perché conservare ... Se la concorrenza mira a produrre utilità per i cittadini, mi propongo di dimostrare che senza l’intervento dello Stato non si può realizzare questa finalità.

In questo percorso prendo le mosse da dati di comune conoscenza, ma spesso studiati singolarmente, senza una visione d’insieme e un loro confronto. Ricordo soltanto, al riguardo, che l’approccio al mercato e alle sue dinamiche è completamente diverso per i politici e per gli economisti. I primi saranno attenti alle ricadute sociali, al benessere collettivo, i secondi ai dati econometrici, alle dinamiche di competizione, in una parola ai numeri. In prima approssimazione direi che la politica si interessa ai valori, l’economia agli interessi. Questa conclusione evidenzia il problema della coesistenza pacifica tra valori e interessi al quale facevo riferimento, coesistenza necessaria allo sviluppo delle relazioni sociali, ma la cui regolazione non può essere lasciata al solo Stato né al solo mercato. Mi permetto di riproporre concetti noti, ma che costituiscono il fondamento delle mie argomentazioni e conclusioni.

Sappiamo tutti che i termini “concorrenza”, “mercato”, libertà economica”, “abolizione di barriere”, “tutela del consumatore”, costituiscono la Bibbia del XXI secolo e che chiunque si permette di parlare di regole e di limiti, è antistorico, conservatore o sacerdote di un ordine vecchio che va sostituito dal nuovo ordine costituito dal mercato. Ogni Stato, poi, rimette alla concorrenza il solo o il più importante fattore di sviluppo sociale. È bene allora soffermarsi sul termine “concorrenza” per conoscerne il contenuto. Al riguardo si deve rimarcare una prima differenza: nella giovane America la concorrenza è il fine che regola tutti i rapporti che sono dapprima economici e poi sociali. Il sogno americano si realizza quando si ha di più e questo di più deriva dalla vittoria sui competitori nel mercato. Nella vecchia Europa (e i trattati della Comunità economica europea lo testimoniano), la concorrenza è un fine per elevare il livello di vita dei cittadini, per consentire loro di esplicare tutte le libertà individuali. In Europa la nascita (magistralmente descritta dal Weber) di una borghesia laboriosa, colta, pronta alla politica, che si fonda sull’uomo e sulle sue qualità. Da lì, in Europa, allo sviluppo della ricchezza si accompagna la nascita e lo sviluppo di modelli di welfare, cioè di intervento dello Stato per assicurare a tutti i cittadini la soddisfazione di bisogni primari. Lo Stato quindi si preoccupa di stabilire un ordine sociale. Lo Stato deve assicurare ai cittadini i diritti di partecipazione o diritti civili, una quantità di Anrechte (R. DARHENDORF, Per un nuovo liberalismo, Il ruolo dello Stato nel mutamento delle strutture sociali, Bari, 1990, 101). Per questa finalità lo Stato da sentinella del mercato, ideologicamente convinto di laissez faire, laissez aller, deve intervenire nel mercato. Si parla di Stato forte, di Stato che da arbitro diventa giocatore. Nasce quindi lo Stato sociale: se si riflette sui costi della socialità, ad esempio istruzione, sanità e giustizia, si nota che essi sfuggono al criterio di profittabilità che ispira il mercato. Ma lo Stato, per soddisfare i bisogni sociali e, spesso, i governi per calcolo elettorale, interviene nel mercato con la mano pesante: da arbitro a giocatore, ma un giocatore con più diritti, con più arbitrio, con regole autoprodotte a suo vantaggio. Non è questa la sede per discutere sul fallimento del mercato puro o della crisi del welfare.

Tutti sappiamo, da Adamo Smith, che l’economia si sviluppa in un mercato ove da un lato esistono i produttori di beni e servizi che “offrono” e dall’altro i consumatori che “domandano”. L’incontro tra le due categorie è dominato da una mano invisibile che assicura il miglior prezzo per entrambi rispetto a tutti i possibili nelle curve della domanda e dell’offerta. Accanto all’ordine sociale dello Stato abbiamo un ordine spontaneo del mercato, anche se la “spontaneità” è sempre e soltanto teorica essendo governata da forze in conflitto tra loro. Un eccesso di offerta causa una diminuzione di prezzi, mentre un eccesso di domanda ne provoca l’aumento. Quindi nel primo caso i produttori che non saranno in grado di offrire a prezzi bassi saranno espulsi dal mercato, nel secondo i consumatori dovranno rinunciare all’acquisto di quei beni o servizi divenuti troppo cari. O da un versante o dall’altro qualcuno subirà un danno in quanto la situazione di equilibrio tra domanda e offerta è instabile. Pochi però sanno, (o sapendolo non lo dicono), che lo stesso Smith aveva escluso dal mercato alcune aree tra le quali istruzione, sanità e giustizia. Il motivo: sono aree non pesabili in termini economici secondo regole di mercato. Basti pensare ai costi di una lunga malattia o di un lungo processo o allo spreco di risorse per l’istruzione di coloro che non ne trarranno vantaggio alcuno. In un regime di concorrenza perfetta chi è gravemente malato, ma senza denaro proprio, deve morire, chi deve affrontare i costi di un processo e non ha i soldi deve perdere o tutto o un poco di meno se riesce a concludere una transazione anche se rovinosa, chi non ha denaro per pagare la propria istruzione deve rimanere ignorante. Veniamo al 2017 e guardiamoci intorno: la piena concorrenza è sempre un vantaggio per il consumatore? E, quando è per lui un vantaggio perché gli riduce un costo, è un vantaggio per la società, cioè per l’insieme dei consumatori? Nel mercato i produttori si fanno concorrenza; spesso però i più abili o, sfortunatamente per i consumatori, coloro che non rispettano gli standard di qualità, sono in grado di abbassare i prezzi espellendo dal mercato i meno abili o i più virtuosi. Divenuti pochi i produttori riterranno più utile non farsi la guerra e si metteranno d’accordo sui prezzi; ecco nascere gli oligopoli che condurranno alla creazione di cartelli con costi imposti al consumatore non dal mercato, ma dal cartello. Sono frequenti le multe comminate dalle diverse Autorità della concorrenza comunitaria e nazionale contro i cartelli (società di telefonia, di informatica, produttori di camions). Poi, se tra i pochi qualcuno è ancora più bravo o in possesso di un brevetto interessante per il consumatore, ridurrà i prezzi e resterà il solo produttore; ecco nascere il monopolio. Gli oligopolisti o il monopolista saranno padroni del mercato, cioè dell’offerta il cui costo non sarà determinato dal mercato, ma, anche grazie a bisogni indotti dal marketing, da loro. Pensiamo a certi beni che tutti devono possedere e il cui costo per il consumatore è elevato mentre per il produttore è molto basso. La globalizzazione aiuta la concorrenza? Certamente, ma fino ad un certo punto. I prodotti e servizi costeranno meno, ma i produttori di certe aree geografiche non potranno sostenere la concorrenza. Ricordiamoci dell’idraulico polacco e del costo orario del lavoro in certe aree. Ho indicato alcuni mali della concorrenza. Per onestà intellettuale occorre sottolineare che un’economia di piano, cioè dove il mercato è nelle mani dei politici che decidono prodotti, servizi e prezzi ha, forse, maggiori inconvenienti. Mortificata l’iniziativa individuale (valorizzata da Weber e da Shumpeter, per citare i due noti esaltatori della figura dell’imprenditore) il mercato diventa oggetto di ideologie e non di leggi economiche. Solo mercato o solo Stato, in conclusione, è un danno per la collettività cioè per la società. Nascono da qui i facili e suggestivi slogan che da anni ascoltiamo: più mercato nello Stato, meno Stato nel mercato, fuori lo Stato dal mercato, meno o più regole nel mercato. Spesso dietro gli slogan c’è il vuoto perché lo slogan dovrebbe essere la punta emersa dell’iceberg la cui parte sommersa è studio, modelli econometrici, simulazioni, proposte di politica fiscale. Nulla di tutto ciò, salvo ricercare la tutela del consumatore al quale si dice che spenderà sempre di meno per avere un prodotto o un servizio sempre migliore. Conclusione questa alla quale neppure lo Smith avrebbe osato pervenire! Forse aveva ragione James Buchanan nella sua conferenza dal significativo titolo “Fallimento del mercato e fallimento politico” (Market Failure and Political Failure, relazione alla conferenza Civitas 22-25 ottobre 1986, Università Herdecke); l’autore, tra altro, parla di limitazioni imposte al mercato da una struttura giuridica e che la libertà individuale prospera là dove i diritti civili stabiliscono una limitazione accettata e gelosamente tutelata dagli eccessi hobbesiani della lotta economica e politica. Anche Karl Popper (La società aperta e i suoi nemici, Roma, 1981) invoca l’esigenza di un vincolo tra libertà e sicurezza. La libertà economica (il mercato) non deve limitare i diritti civili. È bene ora riportare la tesi di Wilhelm Ropke, illustrata in una bellissima prefazione di Luigi Einaudi a un suo ponderoso articolo (Economia di concorrenza e capitalismo storico. La terza via fra i secoli, in Riv. st. ec., giugno 1942, 49-72): «la sostanza vera dell’economia di concorrenza, al pari di quella del liberalismo politico, non sta nella concorrenza, ma nei limiti dei vincoli posti alla concorrenza». Ancora, nella dotta prefazione, si riproduce il pensiero dell’economista tedesco che «l’economia di mercato sottrae l’economia alla politica». Certamente nel 1942 i problemi dell’Europa e del mondo erano ben altri, ma l’autore aveva già sottolineato i possibili effetti negativi di una concorrenza senza limiti. Sarebbe bene ricordare che l’economista tedesco fu chiamato dal suo allievo Ludwig Erhard, ministro delle finanze del governo Adenauer, quale consigliere per i problemi della ricostruzione post bellica della Germania. I suoi consigli, ispirati dalla sua teoria di economia sociale di mercato (Soziale Marktwirstshaft) hanno sicuramente giovato alla Germania del cui rilancio economico egli fu il padre ideologico. La terza via da lui indicata, tra il liberismo e il socialismo, era quella dell’umanesimo economico e la teoria elaborata venne definita ordoliberalismo. Negli Stati Uniti, se pure con un significato diverso, ma con la consapevolezza di un rilevante problema sociale, Eliot L. Freidson, grande sociologo americano e massimo esponente della sociologia del lavoro della scuola di Chicago, nella sua opera più originale e discussa (Professionalismo, La terza logica), ha dato dignità e rilevanza alla professionalità, intesa quale terza via tra mercato e burocrazia. In sintesi l’autore afferma che nel mondo del lavoro la professionalità, intesa come capacità di intervento dei lavoratori intellettuali nella società per creare uno sviluppo armonico accanto al mercato e alla burocrazia (per questa potremmo parlare di Stato), ha il ruolo di terza forza propulsiva di sviluppo sociale. Per l’autore, naturalmente, il professionista deve avere certi requisiti di conoscenza, integrità, capacità di dialogo e comprensione attiva e passiva del cliente. Il professionista si pone così a metà tra la dinamica tumultuosa di un mercato che ricerca il solo profitto e il potere (o lo strapotere) della burocrazia, cioè della politica che cerca, in modo diverso, di dominare gli uomini. Mercato e burocrazia, da soli, comprimono, in modi diversi, la libertà dell’individuo condizionandone le scelte ovvero obbligandolo a comportamenti decisi o imposti da pochi. A mio avviso, se pure non detto espressamente, si ripropone il valore dell’uomo, al centro dei processi economici, con i suoi valori etici, di conoscenza, di moralità ed è questo il fil rouge che lega i due grandi economisti. Anzi, considerando i diversi ambienti di formazione dei due, la Germania nazista dalla quale espatriò per il primo, gli Stati Uniti epigoni della libertà per il secondo, occorre sottolineare che, nell’economia, l’uomo è il soggetto e non l’oggetto del mercato. Ciò non vuol dire che lo Stato deve essere espulso dal mercato: l’Europa continentale a partire dalla Rivoluzione francese ricerca lo sviluppo di libertà individuali contro lo strapotere dello Stato assoluto. Il percorso è lento, interrotto da guerre, ma, finalmente, in epoca recente si arriva a un modello di Stato che tutela i cittadini garantendo loro i diritti fondamentali e il loro esercizio; questo modello non può essere privatizzato o rimesso al mercato. Ma lo Stato non può essere quotidianamente a fianco dei cittadini, non può né spiegare loro a livello individuale le leggi, né, caso per caso, indicare loro che cosa possono o non possono fare per meglio esercitare i propri diritti. Allo stesso tempo, per la tutela di interessi collettivi quali, ad esempio, salute, ambiente, tutela del patrimonio artistico, tutela del territorio, sicurezza, libertà, dignità umana, ordine pubblico, lotta alla criminalità, sistema tributario, pone delle norme. Poiché le norme riguardano la generalità dei cittadini e, come detto, lo Stato non può essere loro accanto in concreto, ecco il ricorso a dei collaboratori, i professionisti, che aiutano i cittadini, spiegano e applicano le leggi, li assistono e aiutano, in una parola il professionalismo che così è la via per avvicinare lo Stato ai cittadini e i cittadini allo Stato. In sostanza lo Stato interagisce con i cittadini, in alcune aree, con le professioni. Laddove si tratti di tutelare interessi pubblici, che superano o forzano le leggi di mercato, le professioni vengono fornite di una parte dei poteri dello Stato, cioè delegate di pubbliche funzioni con il potere di fare osservare, nelle contrattazioni, le regole. Al controllo dell’esercizio dei diritti possono seguire le loro violazioni che devono trovare, nello Stato, una sanzione: ecco ancora coloro che sanzionano le violazioni: i giudici. Non si può fare un ordine di priorità tra le professioni liberali: tutte sono necessarie in specifici settori e la loro comparazione, come per tutte le grandezze eterogenee, risulterebbe comunque errata. Mi premeva, in prima approssimazione, sottolineare che le professioni sono una componente necessaria della società. Vengo ora alla pubblica funzione: sarebbe inutile e comunque ripetitivo di concetti a voi tutti noti parlarne. Dirò soltanto che la pubblica funzione è una parte dello Stato-ordinamento al servizio dello Stato-comunità: alcune aree di pubblico interesse sono presidiate da coloro che sono investiti di pubbliche funzioni; costoro sono da un lato servitori dello Stato e dall’altro al servizio del cittadino, un ponte tra il primo e i secondi, ancora sono i difensori dell’ordine giuridico, i guardiani dei limiti (gatekeepers).

Nasce qui un grande problema: come conciliare la rigidità delle norme, la loro obbligatorietà e il patrimonio di conoscenze che richiedono al professionista con la libertà e la fluidità del mercato? Da un lato la pubblica funzione richiede comportamenti vincolati, a volte complessi, a volte vere e proprie catene procedimentali; il mercato, dall’altro, vuole velocità e, prima di pesare il valore intrinseco della prestazione professionale, toglie spazio nel mercato alla prestazione buona, ma più cara ed esamina il costo. Lo sconfortante risultato è che se il mercato privilegia i costi via via decrescenti anche la qualità delle prestazioni segue la stessa dinamica. Si può qui trovare una deludente applicazione della legge di Gresham (anche se costui non elaborò alcuna legge: era un ricco mercante inglese che, stabilitosi in Anversa quale mercante e agente finanziario della Corona curava i pagamenti in moneta metallica: le monete erano di rame, d’argento e d’oro, egli trasferiva quelle d’oro, restavano le altre “cattive” che avevano cacciato le “buone”; l’osservazione del 1551 che le monete cattive facevano andare all’estero quelle buone e pesanti e salire i prezzi era di Humphrey Holt, oscuro scrittore inglese). Purtroppo la prestazione di basso costo è spesso cattiva; per la legge di Gresham scaccia la buona; il professionista o viene escluso dal mercato o deve abbassare il costo della sua prestazione allineandosi al prezzo basso e, al contempo, riducendo la qualità della prestazione. Ma, per la professione, il mercato produce un ulteriore danno: se il danno per l’erogatore del servizio è un minor guadagno (per lo sconto che è costretto a praticare per vincere la concorrenza), per il consumatore, incapace di valutare la bontà della prestazione per asimmetria informativa, il danno può essere più grave. Riflettiamo, nel nostro settore, sulle donazioni dirette o indirette, sui rapporti con la successione del donante e sulle numerose implicazioni giuridiche ed economiche che ne derivano: occorrerà del tempo o no per spiegare la situazione al cliente medio? Il tempo è o non un costo? Naturalmente si può evitare questa “perdita di tempo”, non spiegare nulla, perché l’atto si chiude oggi e in futuro il cliente dovrà vedersela con un altro professionista. I suoi costi futuri non interessano al professionista di oggi proteso al suo guadagno attuale. Ora mentre nel mondo manifatturiero il mercato espelle il produttore di beni di scarsa o nulla qualità in quanto i consumatori sono in grado di pesare la bontà di un qualsiasi prodotto di largo consumo, nel mondo delle professioni il professionista che eroga un cattivo o pessimo servizio non viene espulso, ma può tranquillamente continuare a fare danni … In altri termini se il mercato è in grado di abbassare i prezzi dei servizi professionali, non è in grado di mantenere un loro elevato standard di qualità. L’esercizio di una funzione pubblica, proprio per essere un mezzo rispetto a un fine di utilità collettiva, non concerne soltanto il rapporto tra professionista e cliente, ma quello tra professionista e collettività. Quando il servizio professionale si materializza in un prodotto si parla a ragione di “bene pubblico”. Analizziamo un semplicissimo atto di trasferimento di un bene immobile. È ovvio che il cliente acquirente vuole divenire proprietario di quel bene e vuole che il suo acquisto sia sicuro mentre il venditore vuole incassare un prezzo e sapere che non avrà più obblighi connessi allo statuto proprietario che va a dismettere. In realtà il prodotto “atto notarile di trasferimento” deve avere una serie di conformità o rispetto di interessi collettivi che trascendono quelli delle parti, cioè è un bene la cui circolazione e il pacifico possesso esigono il rispetto delle regole. Il rispetto delle regole rende stabile l’acquisto, assicura impossibilità di conflitto e quindi coopera, nell’area del diritto, alla pace cioè alla non conflittualità. L’eliminazione del contenzioso civile, infatti, è un interesse pubblico. Tuttavia al cliente non importa nulla della componente “bene pubblico” della prestazione; il professionista, invece, deve curare tale aspetto; non solo, ne deve rendere partecipe il cliente. Un proverbio inglese del XVI secolo diceva “I will never buy the pig in poke cioè non acquisterò mai un maiale nel sacco. Il professionista deve aprire il sacco e mostrare al cliente il valore e l’utilità di che cosa acquista (la prestazione), quanto e perché paga.

Ne deriva che la funzione pubblica si inserisce nel mercato concorrenziale con i suoi ontologici limiti e vincoli; si può fare soltanto ciò che è legale, anche se il consumatore non mostra alcun interesse alla legalità, ma esclusivamente al proprio tornaconto personale. Ho parlato di limiti e vincoli: chi è deputato a porli? Poiché essi sono a tutela di interessi pubblici la risposta è ovvia: lo Stato. A questo punto si impone una precisazione. Ogni professione ha un bagaglio necessario di conoscenze (le c.d. credenziali) e deve essere esercitata, nell’interesse dei cittadini e della stessa professione, con regole di comportamento che sfuggono a qualsiasi contrattazione ed anzi, se contrattate nel mercato, sono violazioni sanzionabili. Gli ordini professionali hanno alcuni poteri che sono loro sempre e comunque attribuiti dallo Stato. Quindi è lo Stato che fissa direttamente o per delega a un corpo intermedio regole o vincoli. La stragrande maggioranza dei professionisti è stupita da una certa campagna mediatica che bolla gli Ordini professionali come barriere all’accesso, limitazioni alla concorrenza, un opprimente peso per l’esercizio della propria libertà professionale. Mentre è ovvio che i professionisti più sensibili ai ricavi non vogliono alcun vincolo, denunciandolo come lesivo della loro libertà d’impresa. È quasi paradossale, ad esempio, che i prodotti enogastromici siano tutelati da disciplinari di produzione, da marchi registrati, da controlli, mezzi che mirano a conservarne un elevato standard di qualità; certamente ciò è un bene e favorisce consumi salubri e esportazione. Ora l’aceto balsamico di Modena, il prosciutto di Parma e di San Daniele, il formaggio parmigiano, il prosecco etc. etc. hanno controlli rigorosi che vincolano i produttori; quale è lo scandalo se li ha una prestazione professionale? Non voglio qui aprire una polemica; vi chiedo di riflettere che cosa sarebbero le professioni senza un controllo interno; di pensare che spesso, anzi, la poca professionalità di certi professionisti nasce dalla mancanza di controlli. Né il mercato può fissare regole etiche, non solo non vi è deputato, ma non ne sarebbe capace perché, come ho detto sopra, crea un ordine spontaneo!

Da quanto fin qui detto emerge che le regole sono monopolio dello Stato che, con la delega di pubbliche funzioni, impone in certo modo il loro esercizio a certi soggetti selezionati e le regole sono necessarie per il funzionamento del mercato. Ma quali i limiti? Gli studi sulla concorrenza e le decisioni della giurisprudenza sia comunitaria che nazionale hanno elaborato e valorizzato i concetti di adeguatezza e proporzionalità: adeguato è il vincolo che consente e favorisce lo sviluppo della concorrenza, proporzionale è la misura che impone un vincolo o limite ragionevole per evitare distorsioni della concorrenza, ma non la sua cancellazione. Ad esempio in tutti i regimi concessori (demanio, giochi e scommesse, farmacie) sono presenti vincoli e compressioni della concorrenza; lo Stato vuole che l’utilizzazione di beni pubblici, il gioco, la salute siano regolati e che non tutti possano fare tutto. Si tratta di tutelare interessi generali. Il notaio deve contribuire alla sicurezza giuridica, altro valore fondamentale dello Stato di diritto. Un Notariato senza regole non sarebbe idoneo al fine, perché ciascun notaio potrebbe inventare una regola specifica per ciascun caso; un Notariato aperto a tutti non lo sarebbe neppure perché, in una platea di tutti notai, qualcuno saprebbe tutto, altri meno, altri nulla. Di qui regole di comportamento e regole di accesso. Un Notariato senza controllo potrebbe causare danni al cliente; di qui l’aspetto sanzionatorio delle regole. Ma, come insegna la Corte costituzionale (ex pluris sentenza 178/2014), occorre «abolire inutili oneri regolamentari, mantenendo però quelli necessari alla tutela di interessi necessari alla tutela di superiori interessi costituzionali». Come è stato rilevato (L. DELLI PRISCOLI, La libertà di concorrenza nelle professioni intellettuali) «un ragionevole bilanciamento tra i diritti fondamentali e i valori del mercato appare assai problematico». L’autore rileva con acutezza quanto è noto a tutti i giuristi, ma che non viene tenuto in debito conto e cioè che per il professionista il diritto di esplicare la propria personalità nel lavoro è diritto costituzionale fondamentale che non ammette restrizioni (art. 1, 2, 4 e 35 Cost.), mentre l’iniziativa economica è comprimibile (art. 41). I valori hanno un contenuto etico che trascende una posizione individuale. Gli interessi, invece, appartengono a una sfera individuale. Di qui, in applicazioni pratiche, numerose dicotomie: giusto-bene, rigore-compromesso, fermezza-flessibilità, gruppo-individuo. Per il Notariato, oltre quelli di preparazione, competenza, disponibilità al servizio, fedeltà allo Stato, un importante valore di riferimento è la solidarietà, che è l’espressione etica del senso di appartenenza a una comunità che opera in un modo uniforme con un catalizzatore costituito dalla pubblica funzione. Il notaio singolo appartiene a tale comunità; il vincolo è o dovrebbe essere chiaramente visibile all’esterno, per i cittadini, nell’applicazione delle leggi e nei risultati di certezza che assicura. In altri termini non dovrebbe mai esistere, nell’ambito dei notai, un notaio che, richiesto di una prestazione, la accetta e un altro che la rifiuta. La legge o permette o vieta e non v’è questione di concorrenza. Ma il quadro di riferimento dei vincoli, per essere adeguato e proporzionale, deve essere semplice, intellegibile, applicabile e tempestivo. Il codice deontologico deve regolare i comportamenti virtuosi non per costruire modelli (ideal-tipi) referenziali, ma per mostrare e informare il consumatore dei doveri del notaio; lo Stato, con il codice, dice al cittadino che se ha concesso al notaio una delega di pubbliche funzioni lo ha fatto per l’interesse della collettività. Questa, per la stragrande maggioranza dei casi, non conosce le norme, il notaio, con la forza della pubblica funzione, le mostra, le illustra, le impone. La società attuale, prima di controlli e sanzioni, esige informazione: i consumatori devono essere posti in grado di valutare la bontà di un prodotto o servizio. L’informazione si realizza in due vie a seconda del prodotto o servizio offerto: la prima, di puro marketing, illustra le specifiche tecniche del prodotto, principalmente con la pubblicità. La seconda, che ci riguarda direttamente, spiega contenuti e effetti della prestazione e la necessità che essa si conformi alle regole che lo Stato ha posto per tutelare i valori e gli interessi collettivi.

Ne deriva la necessità per lo Stato: o di provvedere lui stesso all’informazione e applicazione delle regole o di commettere la missione a operatori qualificati che deve dotare di un potere pubblico.

La pubblica funzione si pone così come un mezzo di raccordo tra Stato e società; essa è riconducibile al concetto di burocrazia, che definirei virtuosa perché mantiene lo Stato nel mercato senza ingessarlo o soffocarlo. Le regole esterne che regolano l’esercizio della pubblica funzione si intrecciano con quelle interne imposte ai professionisti delegati e il codice deontologico deve essere strumento di informazione per tutti i cittadini che, incontrando poi un notaio nella loro vita, sapranno che cosa chiedergli, che cosa pretendere e che cosa non chiedere né pretendere. Purtroppo esiste la burocrazia viziosa o inutile o pletorica. Tutti gli Stati hanno bisogno di un corpo di dipendenti pubblici che assicuri il corretto esercizio dei poteri e dei controlli dello Stato e, in quasi tutti i sistemi di civil law, di professionisti che hanno dallo Stato deleghe di pubbliche funzioni; ciò che viene a ragione contestato è un apparato elefantiaco, di sovrapposizione di norme e di controlli, una sorta di sfiducia di tutti verso tutti, con una frammentazione delle responsabilità che è la madre delle irresponsabilità. Il nostro Paese, purtroppo, si colloca ai primi posti dell’inutile complessità e spesso vessatorietà della burocrazia. Certo uno Stato troppo invasivo è il primo nemico della concorrenza e delle due l’una: o vince lo Stato e soffoca la concorrenza con il suo apparato burocratico o vince la concorrenza e l’apparato viene dimenticato o non applicato. Entrambi gli scenari sono un grave danno per i consumatori: infatti convergono in unico fine negativo, senza concorrenza si arriva a un mercato ingessato, senza Stato all’anarchia. Ricordo Buchanan e il fallimento dello Stato e della politica. Non solo: la burocrazia inutile è un costo inutile che si incorpora nei beni e servizi e, a livello internazionale, danneggia il nostro Paese di fronte a quelli che producono con semplificazioni e flessibilità; è socialmente dannosa perché è sempre in ritardo per soddisfare i bisogni del cittadino (cioè i suoi diritti) e diventa odiosa e da lì odiata. Chi acquista un immobile sottoposto a vincolo artistico e vuole conformarsi alle norme di sicurezza obbligatorie in materia di energia, quale calvario inizia a percorrere? Occorre coordinare mille pareri, progetti, autorizzazioni, spendere e aspettare. Forse allora è meglio non acquistare e attendere che il patrimonio artistico vada in rovina. Perché su oltre cento imposte e tasse, l’85% del gettito complessivo è prodotto da solo circa dieci? È utile che molti si occupino di riscuotere il restante 15% con costi di esazione superiori al gettito? Perché i tempi della giustizia sono lunghi e scoraggiano l’investitore? La risposta italiana è che occorre garantire; di qui il garantismo esasperato che danneggia la collettività quasi che nei Paesi dove la giustizia è più veloce non vi siano garanzie! Si risponde che il personale della Giustizia è sotto organico, per risparmiare costi dello Stato; di qui un risparmio assolutamente inferiore al guadagno che si sarebbe potuto ritrarre da investimenti esteri confortati da un sistema giustizia efficiente e veloce e il risparmio di spesa pubblica per i risarcimenti dovuti per l’irragionevole durata dei processi. I bandi di gara per la rimozione delle macerie ad Amatrice sono stati pubblicati oltre un anno dopo l’evento. Abbiamo assistito ai vari cortei di uomini politici che assicuravano agli abitanti danneggiati dal sisma la vicinanza della nazione, il sostegno del Governo, la tempestività degli aiuti, sempre passeggiando tra le macerie, la vetrina della solidarietà. Senza dubbio per rimuovere le macerie occorreva selezionare delle imprese idonee al fine; un anno non è troppo? Quante leggi, regolamenti, pareri, controlli, autorità sono state viste e applicate per redigere un bando di gara? Il tempo perduto per le popolazioni interessate, non è un danno sociale? A loro interessa sapere, in una condizione di perdurante disagio, che è stata rispettata la legge, ma che purtroppo la legge richiede tempi lunghi? La presenza dello Stato dovrebbe essere il vero fattore di equilibrio della concorrenza. Alla famosa mano invisibile che assicura il magico incontro tra domanda e offerta e l’ottimo (quasi paretiano) bilanciamento degli interessi degli attori del mercato, dobbiamo sostituire la mano di uno Stato visibile che aiuta, che controlla con attenzione le violazioni, che tutela la qualità dei prodotti e che non tanto produce l’espulsione dal mercato dei produttori o prestatori di servizi quanto quella dei prodotti o servizi di scarsa o nulla qualità. Per il Notariato la delega di pubbliche funzioni è il fattore di produzione del prodotto-servizio e, al contempo, il suo valore aggiunto. Occorre che questa delega sia utilizzata secondo le finalità per le quali è data che non sono certo quella di creare una sorta di privilegio o una casta. Lo Stato, se vuole intervenire nel mercato con intelligenza, deve conferire questa e altre deleghe con accortezza; a questo riguardo vorrei aggiungere qualche considerazione in tema di tariffe e deontologia. Tariffe e deontologia sono, secondo l’opinione corrente, un danno per il consumatore e un limite alla concorrenza. Il mercato dovrebbe premiare i prestatori che ottimizzano i costi fissi per aumentare il valore marginale della prestazione (connesso ai costi variabili), senza richiedere particolari qualità etiche. L’economia non è buona né cattiva. Questa facile conclusione, entrata nell’immaginario collettivo come un dogma, viene riproposta in qualsiasi occasione e, spesso, diventa la manifestazione di “parole in libertà” cioè di affermazioni senza un retroterra di cultura e riflessione, il Bar Sport dei tuttologhi. Se si leggono i lavori di tutti gli economisti degli ultimi cento anni possiamo rilevare che la maggior parte di loro, collegano le professioni a un’etica di gruppo che ne giustifica la sopravvivenza, da molti si parla di un umanesimo professionale. Prendo le mosse dalla tariffa: sappiamo che è abolita per tutti i professionisti e sostituita dalla contrattazione individuale. Ma, per i professionisti, è obbligatoria l’assicurazione sulla responsabilità da danni al cliente; quindi il sistema sposta la tutela dal professionista all’assicurazione, senz’altro nell’interesse del cliente, ma generando un costo fisso per il professionista e un guadagno per le compagnie assicuratrici. Il prevedibile abbassamento della qualità delle prestazioni professionali causerà maggiori danni e, di conseguenza, aumento dei premi assicurativi. Non contesto questo profilo, ma debbo rilevare che, forse inconsapevolmente, la concorrenza incrementa il c.d. azzardo morale, cioè della tendenza del professionista a fornire una prestazione di scarsa qualità (per cura, per tempo, per approfondimento) con la scommessa o che il danno non venga scoperto o che, scoperto, venga ristorato dall’assicurazione. Non credo che un paziente che ha ricevuto una prestazione dentistica con danno alla sua dentatura, né che un acquirente che inizia una lunga causa su un acquisto immobiliare, siano contenti di essere rimborsati dall’assicurazione dopo il danno subito. Forse qui fa capolino un concetto che la concorrenza ignora: la qualità della vita, il benessere psico-fisico individuale. Accanto al prodotto interno lordo occorrerebbe occuparsi de benessere interno lordo. A mio avviso il benessere viene garantito, in via preventiva, da una prestazione di qualità, non in via successiva da un ristoro assicurativo; dei nostri due cittadini il primo voleva avere i denti a posto, il secondo godere della sua proprietà con tranquillità. Nella contrattazione vincerà il più forte; che è in posizione di monopolio imporrà il prezzo, chi non lo è lo subirà. Le varie istanze attuali di compenso minimo o compenso equo nascono dalla sottoproletarizzazione indotta dalla concorrenza nelle professioni. Si tratta della perversa combinazione tra esigenza di lavoro del professionista e posizione dominante del committente. Gli effetti prodotti negli Stati Uniti dal mortale abbraccio delle professioni legali con l’impresa (che si sono se pur con certi limiti in Italia con il socio di capitale nelle società professionali) sono stati devastanti. Come osserva Maria Malatesta (Professionisti e gentiluomini, Torino, 2006, 354), «gli avvocati sono diventati operai di lusso, alienati in una fabbrica che produce pareri, sacrificano all’ideale di carriera e al profitto la loro vita privata». Sappiamo ad esempio, che per le surroghe è necessario l’intervento del notaio; le surroghe vengono pagate dalle banche che si surrogano; l’idea, giusta, era che ogni Banca interessata, con propria promozione, fidelizzava il cliente sottraendolo a una banca concorrente. A parte che il costo della surroga veniva spalmato sulla massa della clientela della Banca, la stessa Banca poteva recuperare tale costo (e lo ha fatto) con una lieve maggiorazione dei servizi resi alla sua clientela. Tra Banche e Notariato, in varie zone e con piena libertà si erano convenute, in via di larga massima, alcune indicazioni di costi contenuti e non obbligatori. Un bel giorno la Banca decide lei, da sola, la tariffa, ovviamente più bassa, e la impone ai notai, rectius chiede ai notai se accettano il compenso da essa Banca unilateralmente stabilito, e solo chi lo accetta ottiene il lavoro. Altro esempio sotto gli occhi di tutti: ai fini di garantire la migliore concorrenza lo Stato ha ritenuto di aprire a società commerciali la possibilità di divenire socie di professionisti. L’intento è di favorire una politica di prezzi bassi e di prestazioni efficienti, nonché di aiutare i giovani professionisti a trovare un’occupazione. Vi invito a pensare alle società dentistiche che sono nate in ogni luogo, soprattutto di grande passaggio come i centri commerciali. Il giovane dentista (il c.d. dentista da supermercato) ivi occupato diventa un proletario intellettuale che, essendo autonomo, non gode delle garanzie sociali del lavoratore dipendente. Sarebbe interessante accertare quanti giovani restano nella stessa società e per quanto tempo e quanti pazienti ritrovano, in caso di problemi successivi, lo stesso professionista. Mi auguro che, in futuro, si possa ancora parlare di società professionali, cioè tra professionisti e non di società commerciali con professionisti (dipendenti). Quanta romantica malinconia nel ricordare le parole di un grande sociologo Talcott Parsons, in questo caso cattivo profeta, che nel 1968 (voce Professions in Enciclopedia internazionale delle scienze sociali, vol. 12, New York, 546) preconizzava l’ascesa della competenza professionale e il declino dello Stato: «l’insieme delle professioni non solo si è già distinto ma ha cominciato a dominare la scena contemporanea, in modo da rendere obsoleta la priorità delle vecchie questioni relative ad autoritarismo politico e sfruttamento capitalistico». Dopo soli quarant’anni la società si è capovolta! Che abbia invece ragione Freidson quando ritiene «che i governi di tutte le azioni europee stiano perdendo la capacità e volontà di proteggere le professioni dalle forze del mercato?».

A mio avviso l’impresa professionale o l’impresa che detta legge alle professioni non è vera concorrenza perché è prodromica, per sua natura, all’oligopolio o al monopolio o all’abuso di posizione dominante. Allo stesso modo alcuni professionisti sono, per parafrasare Orwell in una immaginaria “Fattoria delle professioni”, più eguali degli altri e, con una decisa politica degli sconti tentano di eliminare dal mercato i colleghi. Il cliente farà la selezione avversa (ai professionisti non scontisti) e sceglierà il meno caro, perché “tanto sono tutti eguali”. Una volta espulsi i concorrenti dal mercato il o i pochi rimasti potranno aumentare i prezzi; i consumatori, dapprima favoriti, subiranno un danno. Ora è proprio vero che, nella concorrenza normale, esiste una sconfinata libertà di contrattazione e di fissare prezzi o premi bassi i inferiori ai costi? La Corte giust. CE nella famosa sentenza 27 marzo 2012 nella causa C-209/10 ha dato un’interessante interpretazione di limiti alla concorrenza. Il caso era quello delle Poste danesi che, con sconti notevolissimi, avevano sottratto tre grandi clienti ad altre società di recapiti postali. Le società avevano impugnato i provvedimenti dell’Autorità danese della concorrenza (consigli della concorrenza). Non interessa qui ripercorrere la vicenda da cui fu causa quanto riportare la massima della Corte che, come è noto, costituisce, se chiara, norma applicabile. «Al fine di valutare se sussistono effetti anticoncorrenziali in circostanze come quelle di cui al detto procedimento, occorre esaminare se tale politica dei prezzi porti, senza giustificazione obiettiva, all’esclusione effettiva o probabile di tale concorrente, a danno della concorrenza e pertanto degli interessi dei consumatori». Si può quindi trarre un insegnamento: se una politica di prezzi bassi, o addirittura sotto il costo fisso della prestazione, è fatta per escludere, anche probabilmente, un concorrente, si viola la concorrenza e il comportamento deve essere sanzionato. Nello stesso ordine di idee è il numeroso materiale sulla politica degli sconti o premi di fedeltà: un conto è fidelizzare la clientela, altro è espellere il concorrente dal mercato con la previsione, lui escluso, di riaumentare i prezzi in regime di monopolio. Si parla al riguardo di “prezzi predatori” o “prezzi civetta” cioè fissati con l’intento di escludere un concorrente. Forse allora, in una materia d’interesse pubblico come quella delegata con la pubblica funzione al Notariato, l’idea di un compenso minimo che eviti il sottoproletariato intellettuale e professionale non è contraria alla concorrenza, ma rappresenta un vincolo ragionevole e proporzionato che lo Stato pone nell’interesse della qualità del servizio e quindi, prima che del professionista, del consumatore. La conservazione della qualità del prodotto, in questa materia, non può essere rimessa a valutazioni del singolo o alla forza dirompente della mano invisibile, ma all’intervento dello Stato. Il futuro probabilmente farà giustizia del furore giacobino che ha voluto l’abolizione delle tariffe professionali; per ora, se pure tra molte contestazioni, l’intervento dello Stato nella professione, cioè la tutela della pubblica funzione, si realizza con la deontologia. Come credo di avere dimostrato la deontologia non è contro la concorrenza, ma a tutela del servizio prestato. Chi è libero, in una società libera, deve essere libero di scegliere, secondo la formula che ha fatto la fortuna di Milton Friedman. Ma, indipendentemente da una qualifica professionale, questa sconfinata libertà è un valore o un interesse egoistico del singolo? La libertà spesso diventa un valore negativo: si può esprimere nel danneggiare il proprio prossimo, nella disinvolta gestione di un’azienda, nella violenta gerarchia familiare, nel disinteresse totale verso gli altri, abili o inabili? La risposta, anche per i più ferventi liberisti, è negativa. La libertà di scegliere esige la capacità di comprendere e capire ciò che si sceglie. Quanti ne sono in grado? Anche i più grandi egoisti, quelli che a tutto antepongono il loro personale interesse, sono costretti a riconoscere che in qualche settore la libertà non è sconfinata, che vi sono regole dettate dalla traduzione dei valori in prescrizioni. Il valore che con la delega della pubblica funzione e il suo corretto esercizio lo Stato, a mezzo del Notariato, diffonde nella società è la certezza del diritto nella sua applicazione quotidiana, la sicurezza degli scambi, e, di conseguenza, una società in pace o più giusta. Come sopra detto, per realizzare questa traduzione dei valori in interessi e, al contempo, la loro conservazione, lo Stato attribuisce un potere, la pubblica funzione. Il notaio non è una figura mitica, ma è un garante dell’ordinamento, cioè una garanzia della corretta applicazione del diritto sulla base della sua buona qualificazione professionale. La qualificazione è un primo scostamento rispetto alla concorrenza in quanto introduce una distinzione tra i qualificati e i non qualificati (già Weber, a proposito delle professioni, parlava di società chiuse). Non esiste una società dove tutti possono fare tutto, salvo preconizzare un sistema di totale anarchia o un paradiso in terra ove le regole sono comuni, condivise e autoimposte. La nostra società vede oggi un certo dualismo tra chi fa le leggi, il Parlamento, e un’autorità indipendente, quella garante della concorrenza, con poteri di grande rilievo che, in certa misura, assommano quelli di legiferazione, amministrazione e giurisdizione. A volte pare che l’una ignori l’altra. Il Parlamento, nella tutela di interessi pubblici quali salute, tutela del territorio, tutela del credito, ordinato sviluppo urbanistico, riscossione dei tributi, risparmio energetico, prevenzione dei reati di criminalità finanziaria, pone dei divieti e degli obblighi in materia contrattuale demandandone la tutela e la vigilanza ai notai. La magistratura sanziona comportamenti scorretti, perché incoerenti con la delega attribuita al notaio dallo Stato. L’Autorità della concorrenza non tiene conto che, se commessi ai notai, gli interessi pubblici che connotano la prestazione notarile hanno una qualche specifica rilevanza e, quindi, lamenta che nell’accesso si richieda ai candidati una certa qualificazione, che nell’attività quotidiana si richieda ai notai un comportamento corretto, quasi che le prescrizioni deontologiche siano orpello iconografico novecentesco, che l’obbligo di indicare l’ora negli atti sia misura anticoncorrenziale. In buona sostanza, anche se nessuno ha il coraggio di dirlo, che il servizio notarile è una merce. Fino ad affermare che la stessa pubblica funzione è inutile ovvero è una difesa corporativa dei notai. Non è così. La pubblica funzione impone delle regole di comportamento e di attività; alcune forse sono antiche e non reggono ai tempi, ma nel complesso esse sono utili per omologare la certezza individuale che proviene dal singolo notaio e, quindi, trasferirla nella circolazione giuridica come bene pubblico. L’eliminazione di tali regole, ovviamente antitetiche rispetto alla concorrenza, ad esempio leggere con calma l’atto, spiegarlo assicurandosi che il cliente abbia capito che cosa stipula, richiede del tempo che, impedendo di fare numerosi atti nella giornata comprime un’economia di scala e, quindi, la libertà di praticare lo sconto. È un dovere anticoncorrenziale? Se fosse così bisognerebbe abolire la figura del notaio, ignorare la pubblica funzione e … sperare nell’assicurazione! Molti contratti possono essere, in tesi, scaricati da internet, ma nessun contratto che proviene da Internet può avere quella garanzia che a esso è data dalla pubblica funzione unita alla qualificazione del notaio. E poi Internet è nozione, non elaborazione critica della conoscenza. Oltre a cercare un punto di equilibrio tra pubblica funzione e concorrenza, occorre scegliere tra un sistema di certezze legali e uno di certezze fattuali (il che significa di incertezze legali). La pubblica funzione, è noto, avvicina il notaio al giudice; anzi il perimetro dell’attività notarile è più ampio perché delimita l’area della giustizia preventiva, mentre il giudice interviene nel rimedio alla violazione della norma. Il notaio costruisce nel caso la giustizia con l’accordo, il giudice ripristina la giustizia violata dal disaccordo. Da questi rilievi deriva che tra pubblica funzione e concorrenza v’è una sorta di contrapposizione ontologica; i due termini descrivono realtà diverse e ossimore. Certo v’è uno spazio di concorrenza nella logistica, nel miglior servizio al cittadino, nella strumentalità dell’informatica, nella formazione continua, ma la logistica può essere adattata e rivista sempre in rapporto all’esercizio della funzione pubblica. È abbastanza semplice, nell’analisi sociologica di un fenomeno, pervenire a delle conclusioni diagnostiche, assai più difficile è individuare la terapia per conservare o ristabilire la salute professionale. Mi piace al riguardo citare Michael Sandel che nell’opera dal significativo titolo “Giustizia - Il nostro bene comune” a proposito dell’appartenenza a un gruppo, a un’associazione, a una nazione, ci ricorda che all’appartenenza si accompagna la responsabilità e che non ci si può sentirsi fieri del proprio passato se si rifiuta di accettare la responsabilità nel presente. È straordinario constatare che l’elevato livello culturale perseguito a partire dai primi anni del 900 muta il notaio mero certificatore in notaio giurista e operatore di giustizia. È altrettanto straordinario, ma forse paradossale, che tale elevato livello abbia creato nell’immaginario collettivo una sorta di fungibilità professionale; poiché tutti i notai sono eguali l’unico elemento distintivo è il prezzo della prestazione. Ma il cerchio si chiude quando molti di noi, forse dimenticando la propria storia e il passato specifico di sacrificio individuale, accettano che la propria opera professionale sia considerata una merce. Ho parlato di notai e di prestazione notarile; se sostituiamo queste parole con lo Stato che ci delega una pubblica funzione il risultato non cambia; anzi in questa delega risiede l’intervento dello Stato nel mercato del servizio professionale notarile. Tutti dobbiamo riflettere sul rapporto tra professione e concorrenza e rivendicare che la pubblica funzione è un valore da conservare. Non dimentichiamo che mentre gli operatori sul mercato possono fallire e quindi essere eliminati dal mercato, il notaio “spregiudicato operatore nella concorrenza” può creare alla clientela seri danni per molto tempo, soprattutto se si ritiene che il controllo sull’attività dei notai è una misura anticoncorrenziale da eliminare! Vorrei precisare che non evoco né un corporativismo interno, né un cartello sui prezzi. Se ciascuno, a livello individuale, è libero di nuotare nella concorrenza come meglio crede, occorre evitare che vi affoghi con il pericolo di trascinare in fondo l’intera categoria la quale vuole continuare a essere al servizio dello Stato in un mercato di libertà e di regole.