Giuffré Editore

Gli arbitrati societari tra regole organizzative e modelli negoziali


di Gianvito Giannelli

Ordinario di Diritto commerciale, Università di Bari


Arbitrato societario e tipi di società 

L’arbitrato societario ha per oggetto i diritti disponibili relativi al rapporto sociale e, in quanto tale, costituisce una disciplina del gruppo organizzato. Lo dimostra l’assoggettamento al regime di pubblicità, sia della domanda di arbitrato che dei dispositivi del lodo e della ordinanza che sospende la delibera (art. 3, commi 1 e 5-bis, d.lgs. n. 5 del 2003), la disciplina degli effetti della decisione, con particolare riferimento alla invalidità delle delibere assembleari e quindi la competenza a decidere sulla validità di atti della organizzazione societaria (artt. 35, comma 5 e 36, comma 1), la competenza a sospendere in via cautelare tali deliberazioni (art. 35, comma 5), scelta eterodossa rispetto alla disciplina dell’arbitrato di diritto comune e che trova giustificazione proprio per l’apprezzamento, in chiave di valutazione comparata, dell’interesse della società che è rimesso al giudice del cautelare (art. 2378, comma 4, c.c.) (Bove); dicevamo che gli effetti del lodo sono comunque opponibili anche ai soggetti esterni al giudizio arbitrale proprio in forza di questo regime di pubblicità, della disciplina dell’intervento nel giudizio e l’introduzione della clausola arbitrale a maggioranza (art. 34, comma 6), tipica di ogni decisione della società che incida sui rapporti all’interno della organizzazione e che non si possa ricostruire meramente in termini di soluzione di un conflitto individuale. 

Il rilievo organizzativo dell’arbitrato societario si applica sicuramente alle società di capitali con eccezione di quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio. 

Più dubbio è che tale disciplina si applichi anche ai contratti di società di società di persone, ed invero la dizione atto costitutivo contenuta nell’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 5 del 2003, rimanda all’atto genetico (e alle regole organizzative) delle società di capitali. A sostegno della soluzione positiva mi sembra militino non tanto il richiamo contenuto nell’art. 1 d.lgs. n. 5 del 2003 a tutte le società perché non vi è coincidenza tra l’ambito di applicabilità del rito societario e quello del rito arbitrale societario (e basti riflettere alla circostanza che non tutte le controversie elencate nell’art. 1 riguardano società e che anche non tutte quelle che ai sensi dell’art. 1 riguardano le società sono compromettibili in arbitri), quanto da un lato l’art. 12, comma 3, l. n. 366 del 2001 (legge delega), che riguarda tutte le società con oggetto commerciale, dall’altro l’esplicita esclusione contenuta nell’art. 34 delle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, il che significa che tutte le altre società sarebbero incluse nella disciplina in oggetto. Inoltre l’utilizzo del termine atto costitutivo non può avere una portata selettiva della fattispecie, più di quanto non ne abbia l’utilizzo improprio del termine statuto nell’art. 12 della legge delega, riferito comunque a tutte le società commerciali.

D’altro canto anche l’argomento sistematico finisce per militare a favore dell’applicabilità dell’arbitrato societario alle società di persone, perché, si è detto, questo arbitrato è utilizzabile soprattutto per le società di medio-piccole dimensioni e siffatta previsione è agevolmente comprensibile ove si consideri che nelle società ad azionariato diffuso i soci non partecipano alle scelte gestionali, ma rivestono la qualità di semplici investitori che non possono vedersi sottrarre la possibilità di correre all’autorità giudiziaria per il solo fatto che lo statuto contiene una clausola compromissoria che con buona probabilità è a loro ignota.

D’altro canto è pur vero che l’introduzione a maggioranza della clausola compromissoria nel contratto sociale di una società di persone contrasterebbe con il principio della unanimità dei consensi previsto dall’art. 2352 c.c., peraltro non mancano altre eccezioni nel nostro ordinamento societario tendenti a sacrificare tale principio al rispetto di regole di organizzazione e si pensi alla trasformazione a maggioranza, pacificamente consentita a maggioranza anche per le società di persone (art. 2500-ter c.c.) e salvo anche in questo caso il diritto di recesso del socio e, ancora, consentita anche in caso di trasformazione eterogenea (anche in questo caso) con la maggioranza qualificata dei due terzi. 

Per lo stesso motivo, l’arbitrato societario non si applica alle società semplici; l’esclusione è sorretta da una motivazione di ordine letterale che a sua volta sottintende una scelta di ordine sistematico.

Infatti la legge delega faceva riferimento alle società commerciali e tale non è, pacificamente, la società semplice (Sassani e Guicciardi); la espunzione della società semplice a sua volta si giustifica perché non è assoggettata ad un regime di pubblicità dichiarativa a differenza delle società commerciali (queste sia pure con diversa efficacia).

Per lo    stesso motivo (assoggettamento ad un regime di pubblicità), l’arbitrato societario non si applica alle società irregolari cioè non iscritte nel registro delle imprese e alle società di fatto (v. Zucconi Galli Fonseca, 79).

L’art. 34 comma 1, nel fare riferimento alle clausole contenute negli atti costitutivi delle società, intende riferirsi alle regole che disciplinano un gruppo organizzato e, quindi, non solo agli atti costitutivi (è noto che per le Srl non vi è distinzione), ma anche agli statuti. Non avrei dubbi, inoltre, a estendere tali regole anche alle successive modifiche statutarie (soluzione che trova conforto nell’art. 34, comma 5) purché la clausola sia approvata con il consenso di tanti soci che rappresentino almeno i due terzi del capitale sociale; in questo caso la tutela dei soci dissenzienti passa attraverso la possibilità di esercitare il diritto di recesso.

Viceversa, la clausola contenuta nell’atto costitutivo di una società dichiarata nulla è comunque applicabile e tanto sia in virtù del principio di indipendenza di cui all’art. 808, comma 2, c.p.c., sia perché la nullità della società si traduce nella disciplina dello scioglimento con salvaguardia degli effetti il che è appunto compatibile con il regime di ultrattività della clausola compromissoria già peraltro contemplato dalla norma processuale (Corsini, Nullità, 809). Infatti, in base all’art. 808, comma 2, c.p.c., la valutazione della validità della clausola compromissoria è autonoma dalla valutazione della validità del contratto cui essa si riferisce, cosicché gli arbitri possano sempre ritenersi competenti anche se è invalido l’atto in base al quale un soggetto ha acquistato la qualità di socio o è nulla la clausola che regola il trasferimento della partecipazione o l’acquisto della qualità di socio.


L’opponibilità ai terzi

La clausola compromissoria, contenuta in un contratto di società, ha, dunque, un rilievo organizzativo e la sua efficacia è, quindi, opponibile all’esterno, il che significa che l’efficacia non è solo vincolante per i soci che hanno sottoscritto l’atto costitutivo ma anche nei confronti della società, di tutti i soci anche non partecipanti al giudizio arbitrale nonché ancora di ulteriori soggetti terzi, che entrino a far parte della organizzazione societaria, i quali vanno, naturalmente identificati. 

Secondo le regole generali sull’arbitrato, la clausola compromissoria non potrebbe che spiegare effetti soltanto tra coloro che l’hanno sottoscritta (art. 1376 c.c.).

Il tema dei profili soggettivi dell’arbitrato si era già posto all’attenzione della giurisprudenza soprattutto sotto alcuni profili: da un lato la procedura di formazione del collegio arbitrale in caso di arbitrati con pluralità di parti; dall’altro, la vincolatività delle clausole compromissorie introdotte negli statuti delle società di capitali mediante delibere adottate a maggioranza, anche per i soci assenti o dissenzienti. 

Il primo aspetto atteneva alla corretta formazione del collegio arbitrale soprattutto in caso di una pluralità di parti o di centri di interesse, senza che vi fosse stato uno spontaneo aggregarsi delle parti in due centri di interesse.

Quanto al secondo problema, la rara giurisprudenza giustificava l’universale obbligatorietà della clausola introdotta per modifica statutaria (e, quindi, nelle società di capitali, mediante l’adozione della regola maggioritaria), affermando che chiunque decida di far parte dell’ente societario deve accettare che i propri interessi siano regolati secondo il principio maggioritario proprio del funzionamento delle società.

Da ultimo, vi era la difficoltà di rendere partecipi del giudizio arbitrale tutti i possibili soggetti i cui diritti potevano risultare incisi da un lodo reso, ad esempio, sulla validità di una delibera assembleare, con gravi problemi anche in punto di estensione dei limiti soggettivi del giudicato arbitrale.

Le tre categorie interessate sono i) coloro la cui qualità di socio è oggetto di controversia, ii) i nuovi soci aggiunti (ad esempio per aumento di capitale) e iii) i successori di precedenti soci.

Per quanto riguarda la prima categoria non si pongono problemi, atteso il chiaro tenore dell’art. 34, comma 3.

Piuttosto, la norma va intesa non nel senso di escludere che la semplice contestazione da parte del convenuto della qualità di socio sia di per sé sufficiente ad escludere la competenza del collegio, posto che gli arbitri dovrebbero comunque in primo luogo dichiararsi competenti (in ossequio al principio Kompetenz - kompetenz) e poi decidere sulla qualifica di socio di chi la contesta, quanto piuttosto nel senso di estendere la competenza degli arbitri alle controversie che hanno per parte un soggetto cui si contesta la perdita della qualità di socio o il non acquisto di tale qualità.

Per quanto riguarda la seconda categoria, la giurisprudenza ha sempre sostenuto l’opponibilità delle clausole compromissorie contenute negli statuti a terzi acquirenti delle partecipazioni.

In particolare si è sostenuto che: i) le clausole compromissorie contenute negli statuti o negli atti costitutivi delle società anche cooperative vincolerebbero coloro che assumono la qualità di socio successivamente all’acquisto della personalità giuridica da parte della società, senza che trovi applicazione l’art. 1341, comma 2, c.c.; ii) l’atto di adesione a società già costituite aventi uno statuto sottoposto a regole che ne rendono pubblico il contenuto non può considerarsi un contratto con condizioni generali predisposte da uno solo dei contraenti; iii) secondo una opinione leggermente differente sarebbe comunque sufficiente una dichiarazione del socio sottoscritta che dichiari di avere letto e accettato lo statuto.

La prospettiva è destinata a mutare radicalmente nel momento in cui si consideri che, in base ad una recente linea interpretativa, la presenza di una clausola compromissoria configura un’eccezione di merito piuttosto che di competenza e, quindi, si porrebbe al di fuori dell’ambito di applicabilità dell’art. 1341 c.c.

Cosicché non solo non sarebbe necessaria una specifica approvazione per iscritto ai sensi dell’art. 1341 comma 2 ma nemmeno una adesione per iscritto al contratto, purché la clausola sia inserita nello statuto (redatto per iscritto, nel rispetto di quanto prescrivono gli artt. 807 e 808 c.p.c.) e resa pubblica mediante iscrizione presso il Registro delle imprese.

Lo stesso dicasi per coloro che abbiano sottoscritto un aumento di capitale, perché, ove si consideri che la delibera di aumento di capitale oltre che atto avente rilievo organizzativo, finisce per configurare, sul piano strettamente negoziale, una proposta in senso contrattuale, allora la sottoscrizione dell’aumento non può che assumere il valore di accettazione ad un contenuto negoziale complesso. 

Può porsi, se mai, il problema se la clausola compromissoria sia opponibile ai soci subentranti (per esempio perché hanno sottoscritto un aumento di capitale) che dichiarino di avere conosciuto solo successivamente la clausola compromissoria a cui non vogliono assoggettarsi, la facoltà di recesso prevista per i soci assenti o dissenzienti in caso di modifiche dello statuto ai sensi dell’art. 34, comma 6 (Bove). Questa soluzione mi lascia perplesso perché la norma in questione si riferisce ai soci che, in quanto già parte della compagine sociale, abbiano subito una decisione cui perché assenti o dissenzienti non hanno partecipato, non invece a coloro che aderiscano successivamente a un regolamento negoziale. In altre parole, o si ritiene che la clausola compromissoria non sia vincolante nei confronti del nuovo socio o, al contrario si ritiene che l’adesione al regolamento di gruppo (o associativo) comporti, purché formalizzata per iscritto (ex art. 808 c.p.c.), anche l’adesione al regolamento di risoluzione delle controversie ed allora non spetta il diritto di recesso.

Inoltre a sostegno della soluzione che ritengo preferibile, va ricordato che l’art. 34, comma 4, gli amministratori, i liquidatori e i sindaci sottostanno alla clausola compromissoria (che però preveda esplicitamente le controversie con questi soggetti) semplicemente perché hanno accettato l’incarico all’interno del gruppo sociale, indipendentemente da una loro specifica accettazione della clausola

Quanto alle società di persone, direi che secondo le regole generali l’ingresso di nuovi soci debba avvenire con il consenso unanime di tutti e che la sottoscrizione del contratto sociale comporti anche l’accettazione della clausola compromissoria, né, per quanto ho già detto, è richiesta una specifica approvazione per iscritto della clausola compromissoria.

Il terzo ordine di problemi si pone per i successori di precedenti soci, in caso di trasferimento delle partecipazioni societarie.

Tradizionalmente, la vincolatività della clausola compromissoria statutaria nei confronti del successore del socio si fondava su due argomenti: in primo luogo, perché il fenomeno della cessione, in sé e per sé, è caratterizzato dal subentro da parte del cessionario nelle medesime posizioni di carattere sostanziale appartenute al cedente; in secondo luogo perché questo meccanismo vale a tutelare il terzo (la società o un altro socio) che non può vedere pregiudicato il proprio diritto ad adire i giudici privati per effetto di una cessione cui non ha partecipato.

La giurisprudenza ha distinto, in materia di circolazione della clausola compromissoria, le ipotesi di successione a titolo universale da quelle di successione a titolo particolare.

Per quanto riguarda la successione a titolo universale tra persone fisiche, essa ritiene perlopiù che la clausola compromissoria tra i componenti di una società per la risoluzione delle controversie su diritti nascenti dal patto sociale è opponibile all’erede universale di uno dei soci ed al cessionario dei diritti dello stesso, postulando dunque l’operatività di tale clausola, nei confronti dell’erede medesimo, senza necessità di accettazione (Cass., 22 giugno 1982, n. 3784, Cass., 17 settembre 1970, n. 1529).

Quanto alla successione a titolo universale tra persone giuridiche, e soprattutto, dunque, in ipotesi di fusione, l’incorporante subentrerà in tutti i rapporti obbligatori, e quindi anche nella convenzione arbitrale.

La questione sulla necessità o meno della partecipazione del successore a titolo particolare è stata risolta, in senso positivo, dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, con l’inserimento dell’articolo 816-quinquies c.p.c.

Anche in questo caso, un equo contemperamento degli interessi in gioco rende necessario che il trasferimento delle partecipazioni avvenga, quanto meno, mediante forma scritta (Majorano), ancorché non sia necessaria la specifica riproduzione in contratto della clausola compromissoria ma sia sufficiente un mero richiamo al documento esterno (atto costitutivo o statuto) che la contenga.


Gli effetti dell’arbitrato. Arbitrato societario e arbitrato irrituale. Patti parasociali. Arbitrato societario e compromesso

La configurazione dell’arbitrato societario come giustizia di gruppo giustifica largamente la particolare disciplina del lodo, dal duplice punto della sua efficacia e della sua possibile impugnazione (Biavati).

In primo luogo vengono in considerazione gli effetti riflessi che le sentenze sono in grado di produrre anche per i terzi titolari di situazioni giuridiche dipendenti da quella decisa nonché per la medesima società: il problema è se la stessa regola valga per il lodo di diritto comune, sul che avrei delle perplessità, perché anche a voler riconoscere l’ammissione di un arbitrato di diritto comune a fianco dell’arbitrato societario (Zucconi Galli Fonseca, 73 ss.; Cass., 13 ottobre 2011, n. 21202), l’inapplicabilità delle regole di quest’ultimo porta a non estendere l’efficacia sull’organizzazione (che ne costituisce una prerogativa) all’arbitrato di diritto comune. In sostanza si delinea un doppio binario in cui possono convivere l’arbitrato di diritto comune a fianco dell’arbitrato societario; ii) secondo alcuni possono coesistere due diverse clausole compromissorie, una per l’arbitrato di diritto comune, e una per l’arbitrato di diritto societario (Zucconi Galli Fonseca, 75).

Tra chiunque sia reso, all’interno del gruppo sociale il lodo (emesso nell’arbitrato societario) è idoneo ad avere quegli stessi effetti riflessi anche per soggetti diversi da quelli in lite.

La scelta si giustifica non solo come una possibile decisa opzione per la tesi giurisdizionale in senso forte del loro arbitrale (così Ricci) ma anche per il rilievo che assumono all’interno della società le vicende organizzative, cosicché la risoluzione di una controversia anche tra soci (per esempio sulla titolarità di una partecipazione) finisce per avere rilievo sia per gli altri che per la stessa organizzazione sociale (e si può pensare anche ad una controversia tra socio e creditore pignoratizio sull’ esercizio del diritto di voto nel rispetto di una clausola dello statuto che lo disciplini).

Viceversa secondo alcuni il legislatore ha voluto semplicemente dire che la società è tenuta a prendere atto del lodo che ha deciso una controversia tra soci quale evento storico giuridico ovvero che è tenuta a subire gli effetti del giudicato solo nei limiti in cui subirebbe gli effetti di un negozio giuridico stipulato tra i soci. La soluzione è sostenuta da coloro che ritengono che l’essere parte del negozio compromissorio non significa di per sé l’automatica soggezione al giudicato arbitrale. 

Mi sembra che questa tesi, pur diffusamente argomentata, sia smentita: a) dal deposito della domanda di accesso arbitrale proposta dalla società o in suo confronto presso il Registro delle imprese; b) dalla iscrizione, a cura degli amministratori, dell’ordinanza di sospensione e del lodo che decide sull’impugnazione; c) dalla possibilità di intervento dei soci nel giudizio arbitrale o in via autonomia o su richiesta delle parti o degli arbitri, ai sensi degli artt. 106 e 107 c.p.c.

Insomma i) il lodo reso nell’arbitrato rituale finisce per spiegare un’efficacia riflessa sull’organizzazione societaria; ii) i soci sono tutelati attraverso la possibilità dell’intervento nonché l’obbligo di deposito della (sola) domanda di accesso a giudizio arbitrale che riguardi come parte la società. 

Va detto al riguardo che l’obbligo di deposito della domanda presso il Registro delle imprese riguarda la sola ipotesi in cui sia parte la società, non invece il caso dell’arbitrato tra soci. È allora lecito chiedersi se il rispetto della pubblicità di cui al comma 1 dell’art. 35 costituisca un onere per rendere opponibile il lodo nei confronti della società ex art. 35 comma 4. Va detto perciò che il comma 2 si riferisce solo alle controversie proposte dalla società o in suo confronto, mentre il comma 4 dice che il lodo è comunque vincolante per la società cosicché o si deve ritenere che il lodo è opponibile alla società anche a prescindere dal deposito della domanda o si deve ritenere che le controversie proposte nei confronti della società siano anche quelle in cui la società sia destinataria degli effetti, in quanto formalmente parte o legittimata ad intervenire.

Le considerazioni che precedono possono offrire ulteriori spunti interpretativi per tentare di risolvere il noto problema se, attesa la sua valenza organizzativa, le regole dell’arbitrato societario si applichino anche all’arbitrato irrituale.

Mi spiego: l’arbitrato irrituale si contraddistinguerebbe solo per il valore negoziale che le parti hanno inteso attribuirgli, cosicché esso vincolerebbe le parti alla stregua di qualsiasi contratto e sarebbe inidoneo a spiegare gli effetti di una sentenza.

Senonché, la considerazione che precede non è ancora sufficiente per escludere l’applicabilità dell’arbitrato societario all’arbitrato irrituale ed infatti l’art. 35, comma 5 espressamente prevede l’applicabilità della tutela cautelare ex art. 669-bis c.p.c. anche alle controversie devolute in arbitrato non rituale e la seconda parte della norma ammette anche il potere degli arbitri di sospendere l’efficacia della delibera con ordinanza non reclamabile.

Ne deriva, allora, che all’arbitrato irrituale si applica sia la ricorribilità alla tutela cautelare ex art. 669-quinquies che il ricorso alla tutela cautelare “privata” prevista dall’art. 35, comma 5.

Per la verità la menzione dell’arbitrato irrituale tra i tipi di arbitrato cui si potrebbe applicare la tutela cautelare prevista dall’art. 35, comma 5 non ha risolto i dubbi interpretativi ed infatti non è mancato chi ha sostenuto che la norma dovrebbe piuttosto leggersi nel senso della inderogabilità della normativa speciale e nella sostanziale uniformizzazione dei due tipi di arbitrato (Ricci). In altre parole, se il legislatore si è preoccupato di estendere la tutela cautelare all’arbitrato irrituale vuole dire che allo stesso non troverebbero applicazione le altre regole dell’arbitrato societario se non espressamente richiamate. Viceversa, c’è chi ha sostenuto che proprio l’art. 35, comma 5 ammetterebbe la sopravvivenza dell’arbitrato irrituale societario, salvo poi a verificare se tutta la disciplina dettata per l’arbitrato rituale sia derogabile nel tipo irrituale (Zucconi Galli Fonseca, 135).

Premesso che le incertezze sopra riferite sono anche presenti nella giurisprudenza[1], a me sembra che la disciplina dell’arbitrato societario detti delle regole nel rispetto delle quali le decisioni degli arbitri assumono una valenza organizzativa forte e cioè entrano a modificare la struttura societaria con la conseguente opponibilità ai terzi e questo in virtù del meccanismo negoziale e pubblicitario previsto; se questo assunto è corretto, allora anche il lodo deciso nell’arbitrato irrituale che spiega effetti negoziali può assumere una valenza organizzativa, nel senso che la decisione assunta entra nell’assetto regolamentare dell’organizzazione societaria e deve trovare applicazione da parte dei soci e degli organi della società (diverso discorso è la coercibilità coattiva della decisione per la quale varranno le regole generali). Peraltro, se l’arbitrato irrituale si conformasse alle regole dell’arbitrato societario, in virtù di questa valenza organizzativa forte e dell’opponibilità ai terzi, sarebbe difficile negare poi l’applicabilità della tutela prevista dall’art. 36 d.lgs. n. 5 del 2003 che richiama l’art. 829, comma 2 c.p.c. (perplessa Zucconi Galli Fonseca, 138).

La valenza organizzativa dell’arbitrato societario esclude che lo stesso trovi applicazione ai patti parasociali che riguardano profili di conflittualità interindividuale e non organizzativa nonché ancora alle controversie intersoggettive sul trasferimento delle azioni che non riguardino la società, (per esempio per la negoziazione delle azioni) che non incidano sulla titolarità delle azioni e che non abbiano quindi un rilievo organizzativo (per es. sul pagamento del prezzo o sul risarcimento danni).

Più dubbio è se la disciplina dell’arbitrato societario trovi applicazione per le regole parasociali che siano inserite nello statuto di una società, soluzione che tenderei ad escludere perché il discrimen resta pur sempre, oltre l’assoggettamento ad un regime di pubblicità, anche la pertinenza della controversia a rapporti sociali (Zucconi Galli Fonseca, 83). 

Ciò significa che alle clausole arbitrali inserite in patti parasociali non si applicherà i) la regola della modificabilità dello statuto o dell’inserimento a maggioranza; ii) il riconoscimento al socio del diritto di recesso; iii) l’efficacia erga omnes dei provvedimenti del lodo dell’ordinanza che sospende la delibera assembleare.

Per gli stessi motivi non troveranno applicazione all’arbitrato societario le regole relative al compromesso a lite insorta, incompatibile con l’organizzazione societaria; nel senso che l’eventuale decisione del lodo non sarà opponibile erga omnes e non spiegherà gli effetti sostanziali e processuali tipici dell’arbitrato societario. 


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[1] Secondo Trib. Biella, 28 febbraio 2005, in Giur. comm., 2006, II, 504 all’arbitrato irrituale non si applicherebbe la disciplina dell’arbitrato societario; Appello Napoli, 14 gennaio 2009, in Banca borsa tit. cred., 2010, 3, II, 335; conf. Cass., 9 dicembre2010, n. 24867; contra Trib. Bari, 24 gennaio 2005 e 2 novembre 2006, in www.giurisprudenzabarese.it, 2006, Trib. Genova, 2 novembre 2009, in Riv. arb., 2010, 3, 481; e Cass., 4 giugno 2010, n. 13664, per l’applicabilità anche all’arbitrato irrituale della disciplina dell’arbitrato societario.