Il contratto di costituzione di comunione e masse plurime: riflessioni in ambito fiscale
1. Premessa
Le presenti riflessioni prendono le mosse da una risposta ad interpello resa dall'Amministrazione Finanziaria (la n. 526 del 13 dicembre 2019) che, a quanto consta, costituisce una prima ed importante presa di posizione sul regime fiscale applicabile al contratto di 'messa in comunione' (o di costituzione di comunione), talora definito anche con l'espressione 'negozio preunificatorio', se riguardato con riferimento alla fase negoziale che preluda ad un successivo scioglimento dell'(unica) comunione così formatasi tra i comunisti, ancorché riferita ed originatasi per effetto della 'combinazione' della contitolarità di più beni o diritti appartenenti a due o più soggetti e dagli stessi acquisiti con titoli diversi e distinti.
Si noti in via di preliminare osservazione che nella fattispecie esaminata della risposta ad interpello n. 526 del 2019 si prendevano in considerazioni due comunioni derivanti da due titoli diversi (originariamente formatesi in relazione a due aree edificabili, di diversa superficie tra loro, con sovrastanti manufatti successivamente demoliti e poi, dopo la fusione catastale, utilizzate per la edificazione di un unico edificio composto da quattro diverse unità immobiliari) e che la prima delle due comunioni intercorreva solo tra tre soggetti (dei quali uno ‘Filano’ non coniugato all’epoca dell’acquisto pro-quota e gli altri due ‘Caio’ e ‘Sempronia’ coniugati fra loro in regime di comunione legale dei beni), e la seconda intercorrente anche con un quarto soggetto ‘Mevia’ – che non figurava nella prima –, coniuge in regime di comunione legale dei beni del medesimo compartecipe ‘Filano’ della prima comunione (il quale ultimo risultava pertanto coniugato solo all’epoca dell’acquisto-pro quota dei beni oggetto della seconda comunione).
Alla menzionata risposta ad interpello ne è seguita poi un’altra, più recente (la n. 413 del 16 giugno 2021), che, analogamente, ha preso in considerazione una fattispecie costitutiva di comunione fra due coniugi (Tizio e Caia), proprietari di beni acquistati con titoli diversi (rispettivamente A e B). I medesimi erano intenzionati ad attribuire per testamento, ai loro due figli, la proprietà esclusiva del bene A (di titolarità di uno solo dei coniugi) ad un figlio e del bene B (di proprietà esclusiva dell’altro coniuge) all’altro figlio, ma temendo che all’apertura delle rispettive successioni, taluno dei figli potesse lamentare la lesione della quota di legittima (per non risultare beneficiario di alcunché in relazione alla successione del genitore che avesse disposto solo a favore dell’altro figlio), hanno formato un’unica comunione in contitolarità tra di essi dei suddetti beni, allo scopo di attribuire poi, per testamento, ai loro due figli, ciascuno la metà del bene A ad un figlio e la metà dell’altro bene B all’altro figlio.
La tematica che peraltro emerge con immediatezza in affianco a quanto si viene qui esponendo è, come ben noto, quella delle cd."masse plurime", la cui rilevanza sul piano fiscale è oggetto della disposizione del quarto comma art. 34 del T.U.R. n. 131 del 1986. Ivi si dispone, come è noto, che in presenza di "più titoli" (s'intende:d'acquisto)si generano "più comunioni"(tranne l'ipotesi in cui l'ultimo acquisto di quote sia una successione a causa di morte) e che pertanto, laddove si assegnino ai condividenti beni provenienti da più comunioni, l'atto di apporzionamento avente ad oggetto tali beni avrebbe solo in parte funzione divisoria e per la residua parte funzione traslativa, con il conseguente aggravio sul piano fiscale.
Siffatta situazione (se non si vuole addivenire a più divisioni distinte, ciascuna riferita ad ogni distinta comunione) potrebbe però profilarsi in maniera diversa se le plurime masse comuni convergano in una nuova unica comunione attraverso un ‘negozio specifico’ [come viene definito nella sentenza della Cass. civ., sez. II, n. 5798 del 15 maggio 1992] che, se ha per oggetto beni immobili, deve rivestire la forma scritta ad substantiam ai sensi dell’art. 1350 n. 3 c.c. e che consentirebbe di procedere ad una sola divisione piuttosto che a tante divisioni per quante sono le masse. Ed invero nell’insegnamento della giurisprudenza di legittimità è solo a siffatto congegno negoziale che si potrebbe far ricorso (quale ineludibile presupposto) se si intendesse addivenire allo scioglimento di una comunione divenuta in tal modo unica ed accedere conseguentemente ad un trattamento fiscale parametrato all’assenza di un profilo traslativo. Ma per comprendere meglio quale sia o possa essere la funzione, anche sul piano fiscale, di tale congegno negoziale, è opportuno un rapido ‘flashback’ storico sulla parallela tematica delle ‘masse plurime’
2. Le radici ‘storiche’ del fenomeno delle masse plurime
Non è poi così senza rilievo il fatto che soltanto nel secondo dopoguerra, quindi nella seconda metà del secolo scorso, il tema della ‘masse plurime’ è venuto ad assumere profili di criticità: ciò in forza della sentenza della Cassazione n. 1556 del 30 agosto 1947. Sino a quell’epoca aveva costituito un punto di riferimento pressoché condiviso unanimemente un documento, assai datato (1880) della prassi, la ‘Normale’ n. 31, documento nel quale si affermava esplicitamente che "su concorde avviso della Regia avvocatura generale, il Ministero ha osservato che quando la comunione legittimamente esiste, resta indifferente se questa siasi formata per più e diversi titoli e ragioni, essendo inconcepibile tra le medesime persone due o più comunioni distinte". Da tale premesse discendeva che "Quando pertanto si procede a dividere i beni comuni, bisogna ritenere che essi costituiscano una comunione sola nella quale è lecito ai dividenti spaziare tanto da poter assegnare ad uno di loro la sua quota con una qualunque delle cose comuni, senza che ne possa derivare mutato il carattere della divisione e da declaratoria diventar per ciò attributiva".
La ‘requie’ – soprattutto sul piano fiscale – risultava fino a quel momento sorretta anche dal fatto che l’ art. 48 della vecchia legge di Registro approvata con R.d. n. 3269 del 1923 non trattava affatto di ‘masse plurime’ stabilendo la debenza dell’imposta prevista per i trasferimenti solo in presenza di ‘conguaglio di maggior assegno, anche per mezzo di accollo di debiti comuni in una quota maggiore di quella che sarebbe a carico dell’assegnatario’, e quindi senza menzione alcuna all’unico o ai diversi titoli di acquisto. Ma quella ‘requie’ era destinata a cessare alla fine degli anni ’40.
Nella richiamata sentenza n. 1556/47 infatti, e per la prima volta con accenti chiari e netti, veniva negata l’unicità della comunione in presenza di diversi titoli e tempi di acquisto di beni (divenuti) comuni tra i contitolari, e così acquisiva consistenza un’idea, che poi sarà fondativa della categoria concettuale stessa di che trattasi: le “masse plurime”, intese come ‘pluralità di comunioni per quanti sono i titoli di provenienza’. Ciò non ostante, la medesima sentenza della Cassazione inventariava essa stessa un’ eccezione alle regola così formulata, data dalla circostanza – si precisava – che più masse comuni siano assegnate tutte nelle stesse proporzioni ai condividenti: in tale evenienza, insomma, il fenomeno delle ‘masse plurime’ non avrebbe avuto luogo poiché, assegnando di fatto a ciascun condividente ciò che gli spettava di diritto e provvedendo quindi ad una ripartizione dei beni comuni senza alcuna ‘eccedenza’, la pluralità dei titoli di acquisto non avrebbe avuto alcuna rilevanza peggiorativa del trattamento tributario.
Ma la giurisprudenza della Suprema Corte – in parte supportata anche dalla giurisprudenza tributaria nel frattempo formatasi e consolidatasi – nei decenni successivi alla sentenza n. 1556/47 cancellò drasticamente anche quell’unica eccezione cui si accennava, messa definitivamente a tacere. E così con altra ‘storica’ sentenza degli inizi degli anni ’60 [la n. 2224 del 18 ottobre 1961] – che fonda il definitivo orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia – partendo dal principio di cui all’art. 1100 c.c. (a tenore del quale, in buona sostanza, la comunione è regolata dal titolo o dalla legge, o, in mancanza, dalle norme codicistiche), si arrivò alla conclusione (peraltro senza dimostrazione del nesso logico e giuridico che lega premessa e conclusioni) per cui «si hanno tante comunioni, quanti sono i titoli di provenienza dei beni». Secondo i Supremi Giudici, infatti, l’acquisto di beni in comune, attraverso diversi titoli, «solo apparentemente dà luogo al fenomeno dell’accrescimento dell’originaria comunione, costituita con il primo titolo d’acquisto e in sostanza, invece, dà luogo alla sommatoria di tante comunioni, ciascuna regolata dal suo titolo». Ciò conduce la Suprema Corte a ritenere che «attribuendo a ciascun condividente sopra una sola massa la somma delle quote vantate sulle diverse masse, gli si assegnano su quella massa beni eccedenti la sua frazione di diritto, mentre lo si esclude dalle altre masse, e reciprocamente si opera nei confronti degli altri condividenti arrivare infine a sostenere che addirittura anche in caso di eguaglianza delle quote dei condividenti su tutte e su ciascuna massa, dal negozio di accertamento dichiarativo si pone in essere un negozio che ha l'apparenza del negozio dichiarativo, ma la vera sostanza di un negozio traslativo (permuta). Si è così pervenuti ad uno snodo fondamentale (dal punto di vista della ricostruzione storica del fenomeno in discussione). A questo principio della pluralità delle comunioni a fronte della pluralità dei titoli di acquisto, anche in presenza di eguaglianza di quote fra i comunisti, così nettamente percepito ed espresso da Cass. n. 2224/1961, si ispirerà con connotazioni quasi pedisseque ed omologanti praticamente quasi tutta la giurisprudenza della Cassazione negli anni a venire, con l’ulteriore corollario che in caso di scioglimento di masse plurime – per evitare l’aggravio della tassazione collegata con la supposta natura traslativa della fattispecie – si debba procedere ad altrettante divisioni per quanti sono i titoli di acquisto.
Come si è visto il principio giurisprudenziale “pluralità di titoli/pluralità di comunioni” risulta fondato sul presupposto per cui, essendo disciplinata ogni singola comunione, pur tra gli stessi soggetti, da un titolo ‘ ad hoc’, ciò comporti la pluralità delle comunioni così regolate. Esso verosimilmente emerge e si fa strada nell’ottica dei giudici di legittimità per evitare di dare spazio eccessivo a deprecabili intenzioni elusive dei comunisti, indotti ad adottare lo schermo legale della divisione per l’assegnazione in proprietà esclusiva di beni e diritti co-acquistati in tempi e con titoli diversi senza pervenire ad una formale permuta. Ma a ben vedere l’automatismo di quel principio poi non è così scontato. Se infatti Tizio e Caio si rendono acquirenti in parti eguali fra loro con uno stesso atto in unica soluzione dei fondi Tuscolano e Corneliano o al contrario si rendono acquirenti prima con una compravendita del fondo Tuscolano e con una donazione successiva del fondo Corneliano, ciò non significa, per ciò stesso, che nel primo caso siamo di fronte ad una sola comunione e nel secondo caso a ‘due’ distinte comunioni, in ragione del fatto che in questo secondo caso i titoli sono diversi. In ogni caso, infatti, sia nella prima come nella seconda ipotesi, si va a costituire un'unica comunione di diritti in relazione a beni diversi, a prescindere dalla pluralità dei titoli acquisitivi.
Ciò per dire come l'unicità o la pluralità dei titoli d'acquisto debba ritenersi di per sé criterio (di regola) fallace per argomentare in ordine alla unicità o alla pluralità delle comunioni. Peraltro, la stessa sistemazione sul piano normativo che si era data dell'istituto al vaglio da parte della legislazione originaria e, come si è notato, anche della prassi amministrativa (sino al revirement di cui alla sentenza Cass. n. 1556/1947 e poi a seguire) non offriva alcun spazio di manovra a quell’(indimostrato) automatismo.
3. In particolare il cd. negozio preunificatorio delle masse plurime
All’interno di questo scenario, così rigidamente delineato dal legislatore tributario da un lato (ai sensi dell’art. 34 del T.U.R.) e dalla giurisprudenza della Cassazione dall’altro, e non ostante i fondati dubbi che il fenomeno delle plurimasse sia riconducibile a quello della pluralità dei titoli d'acquisto, restava e resta scalfito tuttora il principio della corrispondenza ‘pluralità di titoli di acquisto/pluralità di comunioni’ e il suo conseguente corollario, reiteratamente affermato in Giurisprudenza, della possibilità di addivenire allo scioglimento delle comunioni plurime solo attraverso tanti singoli negozi con effetti divisori per quante siano le comunioni.
Ma, tutto ciò, con l’eccezione data appunto dal contratto di costituzione di comunione o ‘negozio preunificatorio’ di masse plurime, quello stesso, che la giurisprudenza della Cassazione con un indirizzo assolutamente costante ed immodificato nel tempo individua come innanzi si accennava come strumento negoziale (e non meramente comportamentale) che compartecipi deibeni comuni devono espressamente dichiarare di voler perfezionare, nel rispetto della solennità formale di cui all'art.1350 c.c. se afferenti ad immobili, qualora intendano perseguire l’obiettivo detto.
Il referente normativo e codicistico del congegno negoziale al vaglio sarebbe offerto dal combinato disposto degli artt. 1350 n. 3 e 2643 n. 3 c.c., ove appunto è tratteggiata la categoria dei contratti ‘che costituiscono la comunione dei diritti indicati/menzionati dai numeri precedenti’, con evidente ‘relatio’ ai diritti reali immobiliari riportati nei n. 1 e 2 dei citati articoli.
In un arresto del 2009 (sent. n. 3029) della Corte di Cassazione e poi ancora in altro del 2012 (sent. n. 5694) il principio è ben riassunto in un passo emblematico "nel caso di divisione di beni oggetto di comproprietà provenienti da titoli diversi e, quindi, appartenenti a diverse comunioni ... è possibile procedere ad un'unica divisione invece che a tante divisioni quante sono le masse ... con il consenso di tutte le parti, consenso che non può risultare da una manifestazione tacita o da un semplice comportamento processuale non oppositivo avverso la domanda di divisione unitaria, ma deve materializzarsi in uno specifico ed apposito negozio giuridico, da cui possa evincersi in modo inequivocabile tale comune volontà".
Prima ancora nella sentenza n. 5798/1992 la Cassazione aveva precisato che rispetto ad una siffatta divisione, l’atto preunificativo «risolvendosi in un atto di conferimento delle singole comunioni in una comunione unica» era “l’antecedente” necessario acciocché la divisione potesse essere stipulata.
Circa il profilo della ‘necessità’ del ricorso a siffatto negozio con funzione preparatoria e strumentale rispetto alla divisione delle masse plurime, accorta dottrina[[1]] opina che anzi andrebbero affermati – oltre che la tipicità del congegno negoziale stesso rilevabile proprio dalle previsioni di cui agli artt. 1350 n. 3 e 2643 n. 3 c.c. – anche la unilateralità dello stesso (nel senso che la sorte del negozio divisorio, e solo quella, dipende dal negozio preunificatorio e non viceversa, soprattutto per il profilo della incidenza della validità del secondo sul primo) e il suo collegamento genetico rispetto a quello divisorio. La messa ‘in comunione’, infatti, non avrebbe ragion d’essere se non in vista del perseguimento dell’esito divisorio, esito che senza il negozio preunificativo a sua volta non si produrrebbe nemmeno.
Ma, al di là delle qualificazioni teoriche dello strumento negoziale al vaglio, è evidente che l’utilizzo del congegno negoziale preunificatorio, per gli scopi precipui che ne definiscono anche il profilo causale, dovrebbe sostenere, con esito positivo, sia il giudizio di liceità o quanto meno di inesistenza di profili che conducano ad escluderne la qualificazione in termini di fattispecie ‘abusiva’ del diritto vigente; sia quello di tenuità fiscale.
In ordine al primo dei due ‘giudizi’ è stata la giurisprudenza di merito stessa (Corte di Appello di Bari del 28 marzo 1952), in una sentenza alquanto ‘datata’ ma mai contraddetta da altra giurisprudenza successiva di segno contrario, a stabilire che «… i coeredi possono formare di più eredità una sola massa e ripartire questa nelle proporzioni in cui sono rispettivamente eredi, in quanto tale atto non è contrario alla legge, al buon costume e all’ordine pubblico, ed evita il dispendio di più divisioni …».
Circa poi la non-abusività del congegno negoziale al vaglio (anche sul piano fiscale) dovrebbe deporre quello stesso carattere di ‘necessarietà’ ravvisato dai supremi giudici di cui s’è detto – se riguardata con riferimento al consequenziale esito divisorio da esso scaturente. Non può certo definirsi ‘abusivo’ ciò che è necessario ad attuare il disegno negoziale complessivo perseguito dai compartecipi; anzi, e per di più, esso si profila come ‘unico’ percorso giuridico e fiscale praticabile in punto di diritto, se non si intende addivenire alla stipula di altri atti, sia pure estintivi dello stato di comunione, aventi diretto ed immediato contenuto traslativo. Ciò risulta particolarmente vero dopo l'introduzione nella legge n. 212/2000 (Statuto del contribuente) dell'art. 10-bis che ha sancito la liceità della scelta del contribuente di accedere a forme di legittimo risparmio d'imposta.
Quanto poi agli effetti giuridici e alla intrinseca natura della convenzione unificativa (dalla cui rilevanza, come è noto, il legislatore tributario ai sensi dell’art. 20 del T.U.R. fa discendere anche il correlativo trattamento fiscale), è necessario svolgere qualche specifica riflessione.
Da un lato è pur vero che la giurisprudenza della Cassazione, in alcuni degli arresti afferenti al negozio in parola, ha, con diversità di accenti, talvolta ritenuto che esso si attui attraverso ‘reciproci trasferimenti delle rispettive partecipazioni’, e talaltra attraverso ‘un atto di conferimento delle singole comunioni in una sola comunione’; dall’altro lato non si è mancato in dottrina di rilevare come l’ atto costitutivo dell’unica comunione, pur avendo risvolti e profili di un nuovo ‘status’ di compartecipazione dei comunisti rispetto alle comunioni pregresse e riunificate, non ha effetti ‘traslativi’, nella sua conformazione tipica, e cioè laddove i comunisti acquisiscano, per effetto della ‘costituzione’, una quota di contitolarità sui beni 'riunificati’ in unica massa comune (già oggetto delle singole e plurime comunioni) di valore pari alla somma dei valori delle quote di cui gli stessi erano titolari nell’ambito di ogni singola comunione. In tale evenienza, infatti, siffatto negozio costitutivo avrebbe pur sempre un contenuto ‘dichiarativo’, in quanto implica una sorta di surrogazione dei diritti già vantati da ogni compartecipe su ogni singola massa con un unico diritto sul complesso dei beni.
E, si noti bene, pare legittimo ritenere che tale surrogazione abbia parimenti luogo –senza che ciò possa smentire il contenuto dichiarativo del negozio – anche ove i compartecipi vantino diritti diversificati e non necessariamente paritari nelle singole pregresse comunioni poi riunificate, rilevando solo la rispondenza tra il valore di quei diritti e quello a ciascun compartecipe riconosciuto sulla massa riunificata. Tant’è che, nella medesima fattispecie presa in esame dall’Amministrazione Finanziaria (n. 526 del 13 dicembre 2019), di cui s’è detto all’esordio delle presenti note, uno dei compartecipi – coniuge in regime di comunione legale di altro compartecipe – risultava essere contitolare addirittura solo in una delle due diverse comunioni poi riunificate (e con una quota diversa rispetto a quelle degli altri compartecipi), ma ciò non ha dissuaso l’Amministrazione stessa a ritenere che in ogni caso la siffatta convenzione serbasse natura dichiarativa[[2]]. Ciò che insomma assume rilevanza, ai fini che qui interessano, è che, anche nell’ipotesi appena descritta, si assiste ad un fenomeno surrogatorio con riferimento ai ‘valori’ in campo; sicché, anche in presenza di quote di diritto diverse tra i vari compartecipi, è quella rispondenza tra i detti valori che connota la natura dichiarativa del negozio preunificatorio.
4. Le ricadute qualificatorie sul trattamento fiscale
È stato peraltro ben rilevato in dottrina che non deve suonare come un ossimoro l’affermazione per cui il contratto in esame (pur ‘costitutivo’) abbia di fatto una natura dichiarativa. A ben riflettere, è proprio tale ‘natura’ che, anche a fini fiscali, qualifica la fattispecie al vaglio ed assume rilevanza sul piano impositivo per la conseguente applicazione dell’imposta di registro con aliquota dell’1%, prevista dall’art. 3 della tariffa allegata al d.P.R. n. 131 del 1986. La diversa ricomposizione in "unicum" delle quote di titolarità grave; dei compartecipi nelle distinte comunioni non determina un accrescimento patrimoniale indice di una differenziata capacità grave contributiva dei comunisti, prima e dopo la costituzione dell'unica massa comune. Seppure ne scaturiscano effetti ‘costitutivi’, (e ciò in quanto si assiste, come si diceva, ad una sorta di surrogazione reale dei diritti dei compartecipi e quindi in ogni caso ad una mera trasformazione oggettiva dei diritti stessi), ciò certamente non colloca la fattispecie di cui si discorre nell’ambito dello ‘scambio’ e resta solo enunciata la ‘dichiarazione’ di una situazione di contitolarità ricondotta ad unità massiva, senza alcuna alterazione in eccesso o in difetto degli equilibri patrimoniali antecedenti. Difetta peraltro il presupposto logico e fiscale stesso per una imposizione ispirata ai criteri e ai principi della vera e propria traslatività: questa, infatti, dovrebbe comportare una modifica quanto alla identità dei soggetti titolari dei diritti, che invece nella fattispecie ‘de qua’ restano gli stessi. E d’altro canto va rilevato che gli atti di ‘natura’ dichiarativa di cui al cit. art. 3 della tariffa non sono quelli meramente ricognitivi o accertativi di una situazione giuridica preesistente (che come tali rientrerebbero non nell’art. 3, ma nell’art. 11 della tariffa, e sarebbero quindi tassabili con l’imposizione solo fissa o, trattandosi di scrittura privata non autenticata, sarebbero soggetti a registrazione solo 'in caso d'uso' ai sensi dell'art. 4 della tariffa parte seconda, scontando sempre la sola imposta in misura fissa), quanto piuttosto gli atti «che determina[no] un effetto di specificazione o determinazione del contenuto della situazione giuridica», se è vero – come autorevolmente chiarito in dottrina dal Falzea – che gli atti di natura dichiarativa «non determinano mai una modificazione degli elementi strutturali o del contenuto sostanziale della situazione giuridica»[[3]], ma possono comunque produrre una modificazione di una situazione giuridica preesistente; il che è proprio quanto si verifica e connota la fattispecie costitutiva dell’unica comunione.
In questa prospettiva infatti innegabile che il contratto con funzione preunificativa – come si diceva, con una lata funzione anche costitutiva, ancorché non traslativa – non si connota come mero atto ricognitivo dei rapporti di contitolarità intercorrenti tra i compartecipi. Esso infatti assurge a dignità e funzione di 'titolo generativo' dell’unica comunione così formatasi e, per questo stesso motivo, interpone una soluzione di continuità netta tra le plurime comunioni preesistenti, poi unificate, e l’eventuale conseguente atto di scioglimento della comunione stessa. Se così non fosse e si dovesse per ipotesi attribuire storica rilevanza agli atti o fatti giuridici costitutivi delle singole e diverse comunioni, poi riunificate, infatti, non si potrebbero ritenere integrati i presupposti per l'applicazione all'atto divisorio, successivo alla comunione pur così costituita, dell'aliquota ordinaria dell'1% e risulterebbe frustrata la funzione calmieratrice del trattamento fiscale stesso perseguita dal negozio preunificatorio.
Il contratto di costituzione dal quale emerga la corrispondenza dei valori assegnati nell'unica comunione a ciascun compartecipe rispetto a quelli dei diritti già di sua spettanza sulle plurime pregresse comunioni,rivendica pertanto la sua tipica funzione "ricompositiva"(anche se ne scaturisce un effetto costitutivo che innova rispetto alla titolarità pregressa di ciascuno dei compartecipi su ognuna delle plurime masse). In modo speculare, infatti, rispetto all'atto divisorio che realizza essenzialmente,nelle varie forme ed accezioni in cui esso può articolarsi, una funzione distributiva (intesa come indice minimo di riconoscimento dei fenomeni divisionali in sensolato),il negozio pre-unificatorio ricompone la molteplicità delle plurimasse proprio in funzione della successiva distribuzione dei beni comuni e, al contempo, costituendo comunque unico valido titolo fondativo dell'unica comunione stessa in grado di neutralizzare la pluralità; delle pregresse distinte comunioni, implica la spettanza del più tenue trattamento tributario.
Ciò anche in analogia e simmetria con quanto avviene nel fenomeno divisorio ove, – specie dopo la netta presa di posizione teorica delle sez. un. della Suprema Corte di Cassazione nella sentenza n. ro 21025/2019 – come autorevole dottrina ha sottolineato –[4]: «È altrettanto certo che, trasposta al diverso piano delle modificazioni della sfera giuridica dei singoli partecipi, la divisione è titolo del mutamento, e dunque causa dell’attribuzione della diversa situazione giuridica soggettiva (la titolarità esclusiva), destinata a sostituirsi (ove vi sia) alla preesistente contitolarità». Attraverso questo percorso concettuale, pertanto, uno speculare analogo trattamento tributario come previsto per la divisione non potrebbe ora essere negato anche al contratto di costituzione di comunione di plurimasse, di cui fin qui si è discusso.
NOTE:
[1] G. AVERSANO, La costituzione contrattuale della comunione. Lo scopo di godimento e le masse plurime, Napoli, 2005, 181.
[2] Altro sarebbe il discorso sulla natura ‘attributiva’ (e non solo dichiarativa) del negozio preunificatorio, invece, qualora taluno dei compartecipi non figuri affatto in tutte le comunioni, ma solo in alcuna di esse e, ciò non ostante, si intenda pervenire alla stipula in considerazione della utilità di siffatta soluzione negoziale (specie a fronte di situazioni di contiguità soggettiva e/o oggettiva che afferiscano ai soggetti o, rispettivamente, all’oggetto del successivo atto di scioglimento della comunione). In tal caso è evidente che non si assiste solo ad un mero fenomeno surrogatorio, ma accrescitivo per taluno dei compartecipi stessi, beneficiari di valori sulla massa riunificata in esubero rispetto a quelli già vantati sulle singole comunioni, in quanto in tal modo tale compartecipe risulterà acquisire una quota dell’unica comunione riunificata senza essere stato titolare pro-quota di beni o diritti ricompresi in ogni singola pregressa comunione; sicché tale circostanza finisce per trasformare la natura del negozio di messa in comunione da dichiarativa in attributiva, anche se limitatamente alle quote dei beni di cui taluni compartecipi non risultavano contitolari nelle pregresse comunioni e per i valori che risultano riconosciuti a loro favore sulla massa riunificata. In ogni caso, però, e in linea teorica, una siffatta ricostruzione negoziale (salva la natura attributiva entro i limiti detti) non appare inconcepibile; anzi essa consentirebbe di pervenire alla stipula del negozio di cui qui si discute anche in assenza di una perfetta e totale identità soggettiva tra i contitolari delle diverse comunioni – come si diceva anche in ragione delle situazioni di contiguità soggettiva/oggettiva molto spesso rinvenibili con riferimento a beni/diritti comuni – ed utilizzare il congegno negoziale di che trattasi per realizzare lo scopo essenziale della economia dei mezzi giuridici, che costituisce il principio fondante dell’orientamento giurisprudenziale richiamato nelle battute che precedono ed integra la ‘ratio’ dell’istituto al vaglio. Volendo peraltro esemplificare si potrebbero ipotizzare tre diverse comunioni (in quanto formatesi con riferimento ad altrettanti diversi titoli): una prima comunione, avente ad oggetto il bene X del valore di 100, tra i soggetti A, B, e C, titolari rispettivamente il primo della quota di 4/10, il secondo della quota di 3/10 e il terzo della residua quota di 3/10; una seconda comunione, avente ad oggetto il bene Y del valore di 200, tra i soggetti B, C e D, titolari rispettivamente il primo della quota di 2/10, il secondo della quota di 5/10, e il terzo della quota di 3/10; ed infine una terza comunione, avente ad oggetto il bene Z del valore di 300, tra i soggetti C, D ed E, titolari rispettivamente il primo della quota di 3/10, il secondo della quota di 1/10, e il terzo della quota di 6/10. Il valore totale dei beni, che formerebbero oggetto dell’unica costituenda comunione, pertanto ascende a 600. In esito alla stipula del negozio di riunificazione avremmo che A risulta titolare di una quota di 40/600, B di una quota di 70/600, C di una quota di 220/600, D di una quota 90/600 e infine E di una quota di 180/600: ove ovviamente il valore della quota di ogni compartecipe sulla massa comune riunificata viene dato dalla sommatoria dei valori della quota (o delle quote) che vanta su ogni singola comunione.
[3] G. FALZEA, voce Efficacia giuridica, in Enc. dir., 1965, 494-495, che, trattando dei modi in cui si attuano o possono attuarsi le trasformazioni giuridiche, parla al riguardo degli 'svolgimenti interni', categoria che, contrapposta a quella della "trasformazioni esterne', non determinano alcun mutamento dell'identità strutturale e sostanziale di una certa situazione e dall'altro conducono questa ad ulteriore sviluppo, sicché quegli 'svolgimenti' possono comportare un mutamento che trasforma una certa situazione giuridica senza intaccarla nella sua struttura e nel suo contenuto sostanziale; v. anche A. URICCHIO, in N. D’AMATI (a cura di), La nuova disciplina dell’imposta di registro, Torino, 1989, 479, che richiama, oltre all’Autore da ultimo citato, F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale (Vol. I), Milano, 1957, 472, e T. ASCARELLI, Studi in tema di contratti, Milano, 1952, 238.
[4] G. AMADIO, L’efficacia costitutiva della divisione ereditaria, in Riv. dir. civ., 2020, 1, 13 ss.