Giuffré Editore

Imposta sostitutiva sui finanziamenti bancari a medio/lungo termine: questioni vecchie e nuove nella giurisprudenza tributaria

Annarita Lomonaco

Ufficio Studi Consiglio Nazionale del Notariato


Premessa

Monitorando la giurisprudenza, si riscontra, soprattutto nel corso dell'anno appena trascorso, un “rinnovato” contenzioso relativo all’imposta sostitutiva sui finanziamenti bancari a medio/lungo termine.

In particolare nel corso del 2018 la Suprema Corte è intervenuta a concludere una serie di giudizi che avevano tutti alla base la contestazione del requisito della durata del finanziamento, in ragione di clausole contrattuali ritenute disciplinanti una facoltà di recesso ad nutum da parte della banca.

Si tratta di una “vecchia” questione, giá oggetto di un ampio dibattito in passato, ma evidentemente non ancora del tutto superata a livello di contenzioso.

E l'esame delle sentenze più recenti offre a mio avviso alcuni spunti di riflessione, da un lato, sotto il profilo, invero non nuovo ma ancora attuale, della stessa configurabilità di un recesso ad nutum dal contratto di finanziamento, da un altro lato sotto il profilo, forse meno esplorato fino ad ora, della rilevanza o meno della “complessità documentale” dell'operazione di finanziamento.

Infine, alcuni quesiti pervenuti all’Ufficio Studi richiamano l’attenzione su un’altra “vecchia” questione, legata alla territorialità dell’imposta sostitutiva in esame, affrontata solo per alcuni aspetti dalla giurisprudenza e dall’Amministrazione finanziaria.


Il recesso ad nutum della banca finanziatrice: le conclusioni del “vecchio” dibattito

Va ricordato che diversi anni fa era emerso, a seguito di recuperi di imposte effettuati dagli uffici della (allora) Agenzia del territorio, in ragione anche di alcune sentenze della Cassazione, il problema della compatibilità con il regime dell'imposta sostitutiva sui finanziamenti a medio e lungo termine, delle clausole che prevedono la possibilità di risolvere anticipatamente il rapporto di finanziamento.

Sul tema intervennero il Consiglio Nazionale del Notariato, con studi della commissione studi tributari (cfr. G. CIPOLLINI – F. COLUCCI – A. LOMONACO, Ancora sull’art. 15 del d.p.r. 29 settembre 1973, n.601, studio n. 92/2001/T) e poi l'Amministrazione finanziaria (cfr. circolare 24 settembre 2002 n. 8/T, risoluzione 24 febbraio 2003 n. 1/T).

Quali le conclusioni?

Quanto alle clausole relative al recesso da parte della banca si era ritenuto che l'applicazione del regime sostitutivo non fosse escluso se «in applicazione delle ordinarie norme del codice civile in tema di inadempimento […] e in virtù di particolari clausole contrattuali, il rapporto venga ad essere anticipatamente risolto, sempreché tale anticipata risoluzione sia collegata a circostanze di fatto obiettivamente accertabili e non rimesse al mero arbitrio del mutuante», mentre la facoltà di recesso ad nutum – cioè non correlata «ad ipotesi di inadempienze contrattuali o di obblighi pattiziamente assunti» – farebbe venir meno il requisito della durata ai sensi dell’art. 15 d.P.R. n. 601 del 1973 (circ. 8/T cit.).

In particolare, la circolare 8/T del 2002 ha riconosciuto la compatibilità con il requisito della durata contrattuale minima del finanziamento, previsto dall’art. 15 d.P.R. n. 601 del 1973, di quelle clausole contrattuali che consentono alle banche l’esercizio della facoltà di recesso anticipato dal contratto, ma soltanto in relazione a circostanze di fatto pattiziamente predeterminate ed obiettivamente riscontrabili (ed anche qualora dette clausole prevedano che la banca possa optare, in via alternativa, per la prosecuzione del rapporto a condizioni diverse rispetto a quelle originariamente negoziate), in quanto esse «sembrano assicurare al rapporto contrattuale un grado di stabilità sufficiente a garantirne una durata potenziale conforme a quella minima stabilita dalla norma citata», a differenza delle clausole che attribuiscono alla banca la facoltà di recesso ad nutum la quale «impedisce al vincolo negoziale di sorgere ab origine in modo stabile».

E nella circolare, a titolo meramente esemplificativo, si fa riferimento alle clausole che prevedono la decadenza dal beneficio del termine al verificarsi di una delle ipotesi di cui all’art. 1186 c.c., ivi compreso il prodursi di eventi tali da incidere negativamente sulla situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della parte finanziata, oppure alle clausole che disciplinano casi di risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1456 del codice civile; clausole che per l’Amministrazione finanziaria non riservano, in via generale, alla banca una facoltà di recesso rimessa alla sua libera determinazione ed esercitabile in qualsiasi momento. 

In linea era anche l‘orientamento della Corte di cassazione, secondo il quale sarebbero compatibili con la durata minima contrattuale di cui all’art. 15 d.P.R. n. 601 del 1973 quelle «clausole che attribuiscono all’Istituto stesso facoltà di risoluzione, che, per quanto diverse da quelle previste dalla legge, siano subordinate all’accertamento di circostanze obiettive», quali quelle riflettenti la diminuzione della garanzia, l’inefficacia delle ipoteche, il pericolo di perdita del capitale (Cass. n. 4470/1983). La Corte, peraltro, ha ritenuto che l’ipotesi del mero arbitrio non ricorra comunque qualora, in presenza di tali fatti obiettivi, sia attribuito al mutuante l’esercizio della facoltà di recesso a suo insindacabile giudizio, in quanto una clausola di questo genere va interpretata nel senso di riferire la valutazione discrezionale soltanto all’apprezzamento della situazione di pericolo e dell’opportunità di richiedere o meno l’anticipato rimborso della somma mutuata (cfr. studio n. 92/2001/T cit. e i riferimenti giurisprudenziali ivi contenuti).

Sotto un altro profilo, va anche ricordato come l’Amministrazione finanziaria, nella ris. 2/T del 24 marzo 2003, partendo dalla considerazione che alla formazione della disciplina contrattuale complessiva dell'operazione di finanziamento concorrono sia le disposizioni inserite nel documento contrattuale principale sia quelle previste dagli schemi negoziali allegati, variamente denominati, ed aventi funzione integrativa delle previsioni contrattuali, ha ritenuto che l'eventuale presenza, nei predetti schemi negoziali integrativi, di clausole che consentono all'istituto di credito la cosiddetta facoltà di recesso ad nutum, comporti «l'incompatibilità dell'operazione di finanziamento con il regime tributario di cui all'art. 15 del d.P.R. n. 601 del 1973, ancorché nel contratto principale la clausola di durata temporale dell'operazione appaia in astratto compatibile con il requisito minimo normativamente fissato».

Per inciso e solo per completezza del riepilogo, si ricordano anche le conclusioni del dibattito relativo alla rilevanza della facoltà di estinzione anticipata da parte, invece, del finanziato, nel qual caso, atteso che la facoltà di adempimento anticipato da parte del debitore trova fondamento nella legge, che è irrinunciabile e quindi indipendente dalle previsioni contrattuali, la stessa è stata ritenuta ininfluente ai fini dell'individuazione della durata contrattuale dell'operazione di finanziamento.


(Segue) Gli orientamenti giurisprudenziali più recenti

A fronte di questo quadro interpretativo, più di recente la Cassazione è nuovamente intervenuta, dopo un po' di tempo, con la sentenza n. 2188 del 6 febbraio 2015, che ha destato alcune perplessità negli interpreti (cfr. D. STEVANATO, Imposta sostitutiva sui finanziamenti a medio-lungo termine e spettanza dell’agevolazione, in Dialoghi trib., 2015, 102 ss.; A. PISCHETOLA, Imposta sostitutiva sui finanziamenti in caso di ripianamento debiti e recesso per “giusto motivo”, in Fisco, 2015, 3348 ss.), la quale in relazione ad un contratto di apertura di credito in conto corrente con garanzia ipotecaria ha ritenuto, invero senza particolari argomentazioni, incompatibile con la necessità della durata contrattuale minima di diciotto mesi e un giorno la clausola che preveda per la banca la facoltà di recedere dall’apertura di credito «in qualsiasi momento al ricorrere di un giustificato motivo».

La Corte interviene anche, con riguardo all’altro profilo, con la sentenza n. 7254 del 13 aprile 2016, che a dire il vero introduce a mio avviso un nuovo aspetto che sarà poi ripreso nelle sentenze del 2018. In estrema sintesi questa sentenza, la quale si è pronunciata sempre con riferimento a contratti di apertura di credito con garanzia ipotecaria, regolati in conto corrente, ha ravvisato l'incompatibilità con la durata minima contrattuale in presenza di una clausola di recesso ad nutum da parte della banca prevista unicamente nel contratto (tipo) di conto corrente (superando, o meglio prescindendo dalla stessa previsione contrattuale contenuta nell'apertura di credito che, nel rinviare per la disciplina anche ai patti ed alle condizioni di cui all’allegato contratto-tipo, stabiliva però la prevalenza delle clausole speciali dell'apertura di credito nel caso di contrasto con le clausole del contratto tipo).

E ciò in quanto, secondo la Corte, pur trovandosi in presenza di due diversi contratti, di finanziamento ipotecario e di conto corrente, si deve apprezzare il collegamento negoziale fra gli stessi alla luce del criterio interpretativo di cui all’articolo 20 del testo unico dell'imposta di registro, che imporrebbe – secondo la sentenza del 2016 – di ricostruire la causa reale complessiva ed unitaria del regolamento negoziale tra le parti anche nell'ipotesi di una pluralità di atti negoziali, ravvisando, nella specie, questa unitarietà sul piano giuridico in quanto la regolazione in conto corrente del finanziamento «costituiva nell'obiettivo assetto di interessi, elemento fondamentale di svolgimento del rapporto […] anche per quanto concerneva la facoltà della banca di porre termine a quest'ultimo, eventualmente anche prima della scadenza, in ipotesi di recesso dal conto corrente».

Entrambi i profili esaminati da queste due sentenze sono stati ripresi dalle pronunce del 2018.

1. La configurabilità del recesso ad nutum della banca

Le ultime sentenze vertono tutte su casi di recesso ad nutum della banca, non essendo assolutamente in dubbio che laddove la facoltà di estinzione anticipata sia correlata a circostanze di fatto oggettivamente accertabili il regime della sostitutiva sia salvo.

Ma ciò che forse era rimasto in ombra nel passato dibattito era se vi sia uno spazio tra le clausole relative a circostanze di fatto obiettivamente accertabili ed il mero arbitrio della banca finanziatrice, ossia se sia necessario, ai fini della compatibilità con la durata contrattuale minima di cui all’articolo 15 d.P.R. n. 601 del 1973, una predeterminazione contrattuale dei singoli casi legittimanti l'estinzione anticipata del vincolo, come sembrava implicitamente ritenere la citata Cassazione n. 2188 del 2015 sul recesso per giustificato motivo, considerato alla stregua di un recesso ad nutum.

 A dire il vero la circolare 8/T già citata faceva espresso riferimento a «circostanze di fatto pattiziamente predeterminate ed obiettivamente riscontrabili», distinguendo questa ipotesi dal recesso ad nutum, cioè non correlato ad ipotesi di inadempienze contrattuali o di obblighi pattiziamente assunti, mentre la giurisprudenza risalente era più sfumata sul punto.

Tuttavia, ai fini dell’individuazione delle ipotesi di recesso influenti sulla stabilità del rapporto, non possiamo a mio avviso ignorare che uno ius poenitendi rimesso al mero arbitrio della banca e senza alcuna giustificazione obiettiva in realtà ben difficilmente ricorrerebbe nei contratti di finanziamento, in quanto potrebbe porsi in contrasto con lo stesso schema causale.

La prestazione della banca necessariamente deve essere misurata in funzione del tempo, perché essa adempie non solo con la consegna della somma ma anche impegnandosi a garantire al debitore l'utilizzazione di questa somma per un certo periodo di tempo.

Tanto che secondo una certa dottrina e parte della giurisprudenza civilistica non sarebbe ammissibile prevedere un recesso rimesso al mero arbitrio del soggetto che eroga il finanziamento.

La clausola di recesso andrebbe, cioè, comunque armonizzata ed interpretata non solo alla luce delle specifiche disposizioni del codice civile, quale l’art. 1845 che prevede per l’apertura di credito a tempo determinato il recesso per giusta causa, ma più in generale alla luce del principio codicistico di buona fede nell'esecuzione del contratto (cfr. studio n. 92/2001/T cit.).

E, infatti, parte della giurisprudenza ha ritenuto sindacabile la legittimità del recesso cosiddetto ad nutum da parte del giudice di merito, così da ridurre – come osserva la dottrina – la differenza tra recesso per giusta causa e recesso ad nutum ad una differenza di ordine processuale, dovendo nel primo caso essere provata l'assenza delle ragioni giustificatrici, e nel secondo dovendo provarsi la sussistenza della giusta causa, mentre le due fattispecie finirebbero per identificarsi nei loro presupposti di fatto (cfr. studio n. 92/2001/T cit.).

Ma ciò che più importa e che emerge da queste riflessioni civilistiche è che, quindi, il recesso anche se contrattualmente previsto come puro e semplice, cioé non ancorato a eventi predeterminati, non può considerarsi di per sé, tout court, come rimesso alla libera determinazione della banca.

La sentenza n. 9506 del 18 aprile 2018 mi pare offra un importante contributo in questa direzione.

La fattispecie contestata riguardava un’apertura di credito recante una clausola di recesso unilaterale a favore della banca “al ricorrere di una giusta causa”.

La Corte ritiene «che la pattuizione di una clausola risolutiva o di recesso a favore dell'ente erogante – ricollegata alla sussistenza di gravi inadempimenti e, comunque, di una giusta causa impeditiva del normale svolgimento del rapporto secondo la natura e gli scopi suoi propri – non determini il venir meno della ratio agevolativa».

Osserva infatti come «la previsione di una clausola di recesso per giusta causa: – opera in direzione non espansiva ma limitativa dell'autonomia delle parti, là dove esclude di per sè l’antitetica facoltà di recesso ad nutum (della banca); – risponde ad un principio connaturato ai rapporti negoziali di durata, e coessenziale anche all'ambito della funzione creditizia; – è posta essa stessa a presidio del nucleo fondamentale del contratto di finanziamento a medio-lungo termine e della possibilità di concreta realizzazione del suo sostrato causale, così come valorizzato dal regime fiscale di favore; – è selettivamente assoggettata, a tutela del contraente debole in rapporto asimmetrico, a vaglio giudiziale circa l'effettiva rispondenza a giusta causa dell'evento ostativo alla prosecuzione del rapporto dedotto dalla banca; – consente che tale vaglio venga espletato anche quando non vi sia stata predeterminazione contrattuale dei singoli casi legittimanti l'estinzione anticipata del vincolo, dovendo l'ipotesi concretamente dedotta pur sempre rispondere a caratteri di serietà, gravità, comprovata improseguibilità del rapporto».

La Corte mantiene, però, la distinzione con il recesso ad nutum, non spingendosi, cioè, fino a quell’assimilazione pur prospettata da un certo orientamento civilistico, ma mi sembra comunque un passo meritevole di segnalazione, perché consentirebbe di superare quella discriminazione – a mio avviso irragionevole – che sembrerebbe desumersi dalla circolare n. 8/T e dalla Cassazione n. 2188 del 2015, agli effetti del riconoscimento del regime dell’imposta sostitutiva, tra fattispecie di recesso che nella sostanza, ed a prescindere da un’analitica, specifica previsione contrattuale, devono trovare tutte giustificazione in circostanze obiettive, riconducibili ad esigenze cautelative del credito.

Seppure è sempre bene avere presente il rischio di una discriminazione da parte degli uffici, basato su aspetti redazionali della clausola di recesso, quantomeno sotto un profilo prudenziale (v. A. PISCHETOLA, op. cit.).

2. L’interpretazione del contratto di finanziamento e dei suoi allegati

L’altro spunto di riflessione offerto dalle sentenze più recenti sul recesso ad nutum riguarda l’individuazione dei criteri interpretativi applicabili nella specie.

Più nello specifico, la sentenza n. 6316 del 14 marzo 2018 ritiene che, per ricostruire le pattuizioni delle parti, al fine nella specie di verificare se presente una facoltà di recesso ad nutum della banca da un contratto di apertura di credito regolato in conto corrente, debbano essere interpretate complessivamente, secondo i criteri di interpretazione letterale e sistematica ex art. 1362 comma 1 e 1363 del codice civile, le clausole contenute nel contratto di apertura di credito e nell’allegato contratto di conto corrente, la cui disciplina il primo richiama espressamente (e che nella fattispecie recava una clausola che prevedeva il recesso ad nutum da ogni apertura di credito gestito sul conto corrente). 

Conclusioni che mi sembrano ragionevoli.

La sentenza n. 7649 del 28 marzo 2018 si pone su una posizione analoga, con qualche passaggio motivazionale particolare, precisando che «la concedibilità dell'agevolazione fiscale di cui al d.P.R. n. 601 del 1973, art. 15 va dunque valutata in relazione alla causa concreta del contratto (o in caso di contratti collegati, alla luce dell’operazione economica complessiva realmente posta in essere dai contraenti), in ossequio al principio costituzionale di uguaglianza e di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., dal momento che sarebbe irragionevole trattare in maniera fiscalmente diverse situazioni assimilabili dal punto di vista socio-economico quali un mutuo garantito da ipoteca privo di clausole che attribuiscono il recesso ed un altro che contenga delle clausole sostanzialmente interpretabili come risolutive espresse ex art. 1456 c.c., in presenza di inadempimenti particolarmente gravi o come recesso per giusta causa; viceversa sarebbe altrettanto irragionevole trattare in maniera fiscalmente uguale situazioni diverse dal punto di vista socio-economico quali un mutuo garantito da ipoteca privo di clausole che permettano il recesso ed è un altro che invece contenga delle clausole che consentono il recesso ad nutum».

Invece, le sentenze nn. 6504, 6505, 7651 del 2018 richiamano e confermano espressamente la posizione della sentenza della Cassazione n. 7254 del 2016 prima illustrata, che ravvisa nell’art. 20 del testo unico del registro (nella ben nota lettura della Corte di Cassazione) il criterio interpretativo applicabile.

Più precisamente, la Cassazione nella specie ritiene che, attesa la peculiare articolazione contrattuale tra conto corrente bancario da un lato ed apertura di credito in conto corrente con garanzia ipotecaria dall'altro, l'effetto ostativo all'agevolazione debba operare anche nell'ipotesi in cui la clausola di recesso ad nutum a favore della banca sia contenuta unicamente in un contratto di conto corrente che, in esito all'applicazione del criterio interpretativo di valutazione complessiva ed interdipendente del regolamento negoziale tra le parti, (il quale, si legge in un inciso nelle sentenze, sarebbe «rilevante, per l'imposta di registro, anche ex art. 20 d.P.R. n. 131 del 1986, nella formulazione vigente ratione temporis») risulti collegato al contratto di finanziamento.

Al di là delle conclusioni dei giudizi, ossia se effettivamente il recesso ad nutum della banca dal contratto di conto corrente potesse dirsi, nella fattispecie concreta, collegato ed incidente sul recesso dall’apertura di credito, il dubbio che queste ultime sentenze, lette unitamente a quella del 2016, potrebbero ingenerare è se, mutata la formulazione dell’art. 20 del testo unico dell’imposta di registro, ed esclusa espressamente la rilevanza degli elementi extratestuali e dei negozi c.d. collegati, la questione dell’interpretazione complessiva del finanziamento, tenuto conto anche delle clausole contenute in contratti-tipo dallo stesso richiamati e in genere allegati, sia venuta meno agli effetti dell’applicazione del regime sostitutivo, e della conseguente esenzione dai tributi di cui all’art. 15 citato, dovendosi avere riguardo cioè, ad esempio, solo alle pattuizioni dell’atto notarile di mutuo o di apertura di credito.

A mio avviso una tale conclusione desterebbe non poche perplessità, essendo queste sentenze fuorvianti.

Prima di tutto va osservato, in generale, che il rinvio che l’art. 20 comma 5 del d.P.R. n. 601 del 1973, in materia di dichiarazione e pagamento dell'imposta sostitutiva, fa alle norme sull’imposta di registro, per quanto possa apparire ampio («per quanto altro riguarda l'applicazione dell’imposta sostitutiva, valgono le norme sull’imposta di registro»), a mio avviso non comporta un’automatica applicazione delle disposizioni del testo unico dell’imposta di registro.

La dottrina, che si è occupata del tema in modo più approfondito, sembra abbastanza concorde nel riconoscere all’imposta sostitutiva un’autonomia rispetto alle imposte sostituite, nel senso che sono diversi i rispettivi presupposti (cfr. D. CANÈ, Territorialità dell’imposta sostitutiva sulle operazioni di credito a medio e lungo termine, in Rass. trib., 2013, 1441; G. PETRELLI, Imposta sostitutiva sui finanziamenti ipotecari a medio e lungo termine contratti all’estero, in Riv. not., 2016, 12 ss.).

Più precisamente l’imposta sostitutiva colpisce la capacità contributiva espressa dell'attività creditizia, misurata attraverso l'ammontare dei finanziamenti erogati nell'anno, quindi ha riguardo all’operazione di finanziamento, con ciò richiamando un concetto più economico che giuridico (cfr. D. CANÈ, op. cit.; V. MASTROIACOVO, Operazioni complesse ed imposta sostitutiva, studio n. 88-2005/T), mentre l’esenzione dai tributi sostituiti di cui all’art. 15 del d.P.R. n. 601 del 1973 – che è giustificata e dipende dalla sussistenza del presupposto dell'imposta sostitutiva – attiene ai singoli atti (anche se pur sempre funzionali e strumentali all’operazione di finanziamento).

E se è ragionevole intendere il rinvio dell’articolo 20 comma 5 d.P.R. n. 601 del 1973 nel senso che l'interprete deve fare riferimento al testo unico del registro per colmare eventuali lacune nella applicazione dell’imposta sostitutiva, sembra altrettanto ragionevole che ciò debba essere subordinato ad una valutazione di coerenza con la ratio di quest'ultima.

Allora seguendo questo ragionamento, a mio avviso non si tratta tanto di applicare o meno l’art. 20 del testo unico dell’imposta di registro, quanto di individuare ai sensi dell’art. 15 d.P.R. n. 601 cit. la durata contrattuale dell’operazione di finanziamento.

E pertanto, se l’operazione è regolata da pattuizioni contenute in una pluralità di documenti – tenuto conto, peraltro, che redazionalmente si tratta in genere di atti notarili che richiamano come parte integrante i contratti-tipo, spesso allegati – occorre avere riguardo alla regolamentazione complessiva, per valutare se esiste o meno una clausola di recesso ad nutum dal finanziamento, guardando però – a mio avviso – al contenuto contrattuale, senza fare cioè ricorso alla cd. causa reale dell’operazione, o all’obiettivo assetto di interessi delle parti.


La questione della territorialitá dell’imposta sostitutiva

Le riflessioni appena svolte, in ordine al presupposto ed all'autonomia dell'imposta sostitutiva e ai suoi “rapporti” con la disciplina dell'imposta di registro, sono di interesse anche per affrontare un'altra, diversa, “vecchia” questione, ancora attuale, relativa alla territorialità dell’imposta sostitutiva.

Essa è stata oggetto di alcune pronunce della giurisprudenza di merito (comm. Trib. Prov. Verona n. 261 del 16 giugno 2014, comm. Prov. Milano n. 6045 del 24 giugno 2014 e del 14 luglio 2014, Comm. Trib. Reg. Lombardia n. 588 del 1 febbraio 2016), le quali escludono, per carenza del requisito di territorialità, la legittimità di pretese, invocate nei confronti di banche italiane, per l'imposta sostitutiva relativa a contratti di finanziamento stipulati all'estero.

Ed in particolare la Commissione regionale della Lombardia 1 febbraio 2016 n. 588 argomenta ritenendo il criterio della territorialità essenziale e necessario anche per l’imposta sostitutiva e da rinvenire nel testo unico dell’imposta di registro, il quale all’art. 2 stabilisce che l’imposta si applica agli atti formati per iscritto nel territorio dello Stato.

E su questa linea sembra essere anche l’Amministrazione finanziaria (ris. n. 20/E del 28 marzo 2013).

Per quanto si abbia l'impressione che l’applicabilità del criterio di territorialità proprio dell’imposta di registro all'imposta sostitutiva sia frutto di quella automatica applicazione, tout court, della disciplina dell'imposta di registro menzionata nel precedente paragrafo, comunque, anche volendo ragionare in termini più sistematici, avendo presente la diversità dei tributi, appare corretto ritenere che un presupposto di territorialità debba esserci anche per l'imposta sostitutiva.

Tuttavia mutuare quello dell’imposta di registro, legato alla formazione dell’atto, può destare delle perplessità, soprattutto perché – come già detto – l’imposta sostitutiva è legata ad un’attività, più che ad un atto.

Peraltro, le pronunce non si occupano della fattispecie che in realtà – specie dopo l’introduzione del regime opzionale dell’imposta sostitutiva – è più problematica, ossia il finanziamento stipulato all'estero ma con costituzione di ipoteca su immobili siti in Italia.

Ipotesi nella quale occorre valutare se possa venire in rilievo la disposizione di cui all’art. 2, lett. d) del d.P.R. n. 131 del 1986, secondo la quale sono soggetti all’imposta di registro gli atti formati all’estero che comportano la costituzione di diritti reali su immobili in Italia, o se più in generale possa assumere rilevanza, anche riguardo all’imposta sostitutiva, la ricorrenza del requisito di territorialità per i tributi sostituiti, o anche solo per alcuni di essi.

L’ABI nella circ. n. 15 del 5 giugno 2000 si è espressa favorevolmente, ma nell’ipotesi in cui sia riscontrabile una contestualità documentale, ossia nel caso in cui l'atto formato all'estero incorpori nel medesimo documento il finanziamento e la costituzione della garanzia su immobili siti nel territorio italiano, ritenendo in tal caso ricorrere la territorialità ai sensi del citato art. 2 lett d) d.P.R. n. 131 del 1986.

Limitazione documentale che invece non condivide una parte della dottrina, che più di recente ha affrontato la tematica, e che ritiene integrato il requisito della territorialità in tutte le ipotesi in cui anche uno solo degli atti di cui si compone l'operazione sia territoriale ai fini dell'imposta di registro, o di uno degli altri tributi sostituiti (come l’imposta ipotecaria legata all’esecuzione della formalità in Italia), perché tale atto sarebbe legato a tutti gli altri negozi di cui si compone l'operazione che costituisce oggetto di imposizione, e per questo sarebbe idoneo ad attrarre l'intera complessiva operazione nel regime dell'imposta sostitutiva sui finanziamenti bancari a medio e lungo termine (cfr. G. PETRELLI, op. cit.; G. PANZERA, Il mito della “territorialità” dell’imposta sostitutiva sui finanziamenti a medio e lungo termine, in Corr. trib., 2018, 2127 ss.; V. MASTROIACOVO, Considerazioni sul regime fiscale del prestito vitalizio ipotecario, studio n. 156-2017/T. V. altresì D. CANÈ, op. cit.).

In altri termini, posto che l'operazione di finanziamento costituisce il presupposto dell'imposta sostitutiva – laddove si ritenga (e non tutta la dottrina è concorde sul punto. Cfr. A. BUSANI, L’imposta di registro e l’imposta sostitutiva sui finanziamenti bancari, Milano, 20182413) di accedere ad una nozione di operazione complessiva di finanziamento idonea a ricomprendere non solo il finanziamento in sè ma anche tutti gli atti ad esso inerenti, per i quali l’art. 15 prevede l’esenzione dalle imposte, ed essendo la garanzia, in tale ottica, elemento essenziale dell’operazione, in quanto funzionale alla sua concessione – potrebbe sostenersi che ricorra il requisito della territorialità anche quando questo si realizza per uno solo dei tributi sostituiti, applicando quindi a tutta l'operazione il regime sostitutivo e la collegata esenzione dai tributi di cui all'articolo 15 del d.P.R. n. 601 del 1973.

Tuttavia va segnalato che sul punto la giurisprudenza di legittimità e l’Amministrazione finanziaria non si sono ancora espresse, ma si sono verificati dei recuperi di imposta da parte di alcuni uffici, mentre la dottrina, come accennato, non è giunta a delle soluzioni concordi, quindi resta una questione che ancora non può definirsi risolta.