Giuffré Editore

L’impresa familiare. Diritti dei coniugi, degli uniti civilmente e diritti dei conviventi: un istituto, due regimi?

Giovanni Di Rosa

Ordinario di Diritto civile, Università degli Studi di Catania



1. I termini del problema nel quadro sistematico

La forma interrogativa del titolo del contributo muove (e, per certi versi, giustifica) le riflessioni che seguono, all’interno, peraltro, di un dibattito più complessivo rispetto all’istituto dell’impresa familiare[[1]], introdotto dalla riforma del diritto di famiglia del 1975 (e oggetto della disciplina contenuta nell’art. 230-bis c.c.) al fine di superare per via normativa il principio secondo cui l’opera prestata dal congiunto nell’àmbito di un’attività di impresa (tecnicamente intesa) doveva essere considerata gratuita in considerazione proprio dei vincoli familiari e, dunque, della causa affectionis vel benevolentiae[[2]]. Veniva infatti così riconosciuto ai partecipanti (nella loro qualità normativa di familiari) il diritto al mantenimento, agli utili, ai beni acquistati con essi e agli incrementi dell’azienda, unitamente ai connessi poteri decisionali di natura gestoria secondo l’articolata dizione di legge. L’esclusione della presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative del familiare rappresenta, del resto, un dato acquisito per la stessa giurisprudenza[[3]], precisandosi che «ove un’attività lavorativa sia stata svolta nell’ambito dell’impresa ed un corrispettivo sia stato erogato dal titolare, il giudice di merito dovrà valutare le risultanze di causa per scriminare tra la fattispecie del lavoro subordinato e quella della compartecipazione all’impresa familiare; ma non può più avere ingresso alcuna causa gratuita della prestazione lavorativa per ragioni di solidarietà familiare»[[4]].

Si è dunque chiuso in via definitiva il capitolo aperto dall’originario (infausto) connubio tra la prestazione lavorativa e la solidarietà familiare, tradottosi nella individuazione nella seconda della causa giustificativa (nel senso cioè della gratuità) della prima. Attraverso la riforma si è pertanto operata una significativa scelta di valorizzazione e di rafforzamento del rapporto familiare[[5]], in un contesto caratterizzato dalle intervenute variazioni di natura sociale (con inevitabili riflessi sotto il profilo economico-patrimoniale e correlativo adeguamento giuridico) delle relazioni tra apporto lavorativo e gruppo familiare. In tal senso, infatti, l’assegnata valenza all’aspetto economico e contrattuale della convivenza familiare (non ovviamente in quanto tale) è stata formalizzata attraverso la predisposizione di una fattispecie normativa che, in un’articolazione del tutto particolare, quantunque non scevra di difficoltà interpretative[[6]], tiene propriamente conto del rapporto tra famiglia e impresa[[7]]. In tale direzione si segnala, in maniera certamente condivisibile, il «modo assolutamente nuovo con cui il legislatore ha regolato la prestazione di lavoro, non legandola alla retribuzione in senso tecnico, bensì attribuendo al partecipe una serie di diritti patrimoniali-amministrativi»[[8]]. Pur infatti dovendosi rilevare, in punto di tecnica legislativa, la non felice formulazione dell’art. 230-bis, è tuttavia da riconoscere, dal punto di vista della sostanza dei problemi (e delle relative soluzioni), che «scopo del legislatore è stato quello di dare piena attuazione ai principi costituzionali di solidarietà e di eguaglianza nei rapporti familiari, non già semplicemente di aggiornare alle mutate esigenze un istituto già noto»[[9]].

Tale rilievo assume una particolare importanza nel delineare l’autonomia sistematica (sia formale sia sostanziale) dell’istituto dell’impresa familiare rispetto alla comunione tacita familiare, originariamente disciplinata dall’abrogato art. 2140 c.c. con riferimento all’esercizio dell’agricoltura (e, allora, rimessa alla regolamentazione degli usi), nei cui confronti si è evidenziata l’assenza di continuità o, comunque, di derivazione normativa, in considerazione delle profonde diversità esistenti tra le due fattispecie[[10]]. Peraltro, la stessa collocazione sistematica dell’art. 230-bis c.c., a chiusura (nella sezione VI) del capo VI del titolo VI del libro I, dedicato al regime patrimoniale della famiglia, può appropriatamente essere ritenuta indicativa di una scelta legislativa ben precisa, orientata cioè a completare la disciplina dei rapporti patrimoniali della famiglia[[11]]. La qualificazione in termini di regime appare del resto chiaramente funzionale a richiamare un complesso di regole di disciplina degli atti che vi fanno riferimento; al riguardo, rispetto alle tematiche di ordine patrimoniale familiare e, dunque, in termini sistematici, giustamente si è precisato che «secondo l’intenzione del legislatore, il riferimento al regime patrimoniale della famiglia vale a indicare riassuntivamente l’insieme di norme – legali, o, in deroga, pattizie – che determinano una speciale condizione giuridica dei diritti patrimoniali acquistati da persone fisiche, in dipendenza del vincolo matrimoniale da cui queste sono legate»[[12]].

Assunte queste preliminari coordinate di riferimento, ai fini di un sia pur minimo ma necessario previo inquadramento dell’istituto, la questione che in questa sede formerà oggetto di analisi concerne quel progressivo svolgimento che, muovendo per l’appunto dall’originaria disciplina del diritto di famiglia contenuta nel codice civile del 1942 (caratterizzata sul punto dalla già evidenziata presunzione di gratuità del lavoro prestato a favore del congiunto) e passando attraverso la riferita riforma del 1975 (con la esplicitata inversione di prospettiva segnata dalla introduzione dell’art. 230-bis c.c.), ha portato a più recenti sviluppi in ordine all’ambito soggettivo di correlativa operatività. Si tratta, in buona sostanza, di indagare il profilo inerente alla identificazione dei partecipanti all’impresa familiare beneficiari della normativa di tutela, in ragione dell’intervento normativo rappresentato dalla legge 20 maggio 2016, n. 76, di regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze, per poi misurarne la rilevanza in termini di comparazione, dunque rispondendo all’interrogativo di partenza quanto ai rapporti tra le (distinte) situazioni giuridiche soggettive rispettivamente riconosciute. In merito, infatti, la l. n. 76 del 2016 ha, per un verso, esteso l’applicazione dell’istituto dell’impresa familiare all’unione civile tra persone dello stesso sesso (art. 1, comma 13, ultima parte); ha, per altro verso, introdotto l’art. 230-ter c.c. (art. 1, comma 46), relativo ai diritti del convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente. Si è, pertanto, in presenza dell’estensione applicativa della (preesistente) disciplina di legge quanto agli uniti civilmente e dell’introduzione di una apposita (nuova) regolamentazione normativa quanto ai conviventi di fatto.


2. Il pregresso dibattito e le soluzioni prospettate in ordine all’apporto lavorativo del convivente more uxorio

Il senso delle ragioni poste a fondamento del recente intervento normativo, nel duplice senso ora evidenziato, si coglie peraltro alla luce del precedente contrasto, sorto proprio a fronte della originaria scelta legislativa di non fare menzione alcuna del convivente more uxorio nel testo dell’art. 230-bis c.c. La riforma del diritto di famiglia del 1975 aveva sì dunque superato il (consolidato) principio della presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative del familiare, ma nulla aveva invece disposto quanto alla rilevanza dei rapporti affettivi non formalizzati. Il risultato, per l’appunto, era stato quello di non riconoscere (almeno espressamente) forme di tutela a chi, non essendo legato da vincolo coniugale, assicurava il proprio apporto lavorativo in favore dell’imprenditore proprio convivente; ai sensi, infatti, dell’art. 230-bis c.c. destinatario delle relative tutele per l’opera prestata risultava il familiare, ossia, nella adottata terminologia normativa, il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo.

Del tutto nuova, invece, quanto alla corrispondente puntuale considerazione, era la figura della parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, la cui acquisita rilevanza si snoda attraverso un percorso fondamentalmente diverso e con approdi distinti, quantunque nel comune contesto delle relazioni caratterizzate dalla sussistenza di (formalizzati o meno) legami di coppia (a prescindere dalla diversità sessuale).

In verità, come si avrà modo di rappresentare nel prosieguo, è proprio il tipo di prospettiva assunta in ordine alla rilevanza del lavoro, ossia la dimensione oggettiva dell’impresa familiare, nel senso che è nella prestazione di lavoro che va ravvisato il fondamento della medesima (prestazione indifferentemente svolta nell’impresa o nella famiglia)[[13]], a essere strettamente correlata alla corrispondente dimensione soggettiva che qui viene in particolare considerazione, concernente cioè per l’appunto l’individuazione dei partecipanti beneficiari della normativa di tutela.

Ora, come già rilevato, vigente il solo art. 230-bis c.c., si era posto il problema della individuazione dei partecipanti beneficiari della normativa di tutela, proprio con particolare riguardo alla posizione del convivente more uxorio[[14]], all’interno peraltro del tema (più generale) della rilevanza della situazione di convivenza rispetto al modello familiare (tradizionale)[[15]].

Non è certo possibile affrontare in questa sede la questione (pure non irrilevante) se la possibile estensione analogica della tutela ex art. 230-bis c.c. al convivente more uxorio rappresentasse, così come per il familiare espressamente menzionato nella previsione normativa, una soluzione minimale (e spesso, almeno se confrontata con la tutela assicurata dal riscontrabile rapporto di lavoro subordinato, notevolmente meno incisiva); un appropriato punto di partenza (in termini di comparazione) è stato comunque rappresentato dal riscontro degli elementi o requisiti richiesti per l’operare della fattispecie (a suo tempo) normativamente data, negativi (ossia, tra quelli più rilevanti, assenza di vincolo societario e insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato) e positivi (ossia vincolo coniugale, di parentela o di affinità nei termini di cui all’art. 230-bis, comma 3 c.c.). Quanto ai requisiti positivi, l’affermato fondamento dell’impresa familiare sulla convivenza more uxorio[[16]] trovava certo dinanzi a sé un dato letterale normativo che, ad altri, era apparso insuperabile[[17]] e che, peraltro, aveva trovato il conforto della prevalente giurisprudenza, sia di merito sia di legittimità[[18]]. In verità, la soluzione negativa era sembrata da preferire per una pluralità di ragioni senza che ciò, tuttavia, potesse implicare un’affermazione di irrilevanza (economica e giuridica) dell’attività eventualmente prestata, attività che poteva comunque trovare riconoscimento e tutela nelle altre forme (e configurazioni) previste dall’ordinamento.

In primo luogo doveva, infatti, predicarsi l’irrilevanza, di per sé sola, dell’affectio, che altrimenti sarebbe dovuta valere (quale fondamento del riconoscimento della tutela del convivente more uxorio) anche per altri soggetti, non inclusi nel novero di quelli indicati nell’art. 230-bis, comma 3 c.c. (ossia, oltre al coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo). In secondo luogo lo stesso convivente, proprio al fine del riconoscimento della partecipazione, in assenza (a motivo della insussistenza del vincolo matrimoniale) dei doveri e degli obblighi (contributivi) previsti dagli artt. 143 e 147 c.c., avrebbe potuto invocare in via immediata lo svolgimento di una simile attività ottenendo un trattamento più favorevole rispetto al coniuge, al quale invece il vincolo matrimoniale impone doveri e obblighi ex artt. 143 e 147 c.c., il cui assolvimento non può essere ritenuto sufficiente (di per sé solo) a fondare la partecipazione all’impresa familiare. In terzo luogo l’esigenza di tutela rivendicata per il convivente more uxorio avrebbe comunque potuto essere soddisfatta dalla disciplina di cui all’art. 2041 c.c. in materia di arricchimento senza causa, in relazione all’affermata astratta idoneità dell’attività medesima, in assenza della prova della retribuzione (anche indiretta) della prestazione di lavoro resa dal convivente more uxorio, a configurare un depauperamento del prestatore e un arricchimento senza causa del convivente[[19]]; salva ovviamente (così come per il familiare prestatore di attività) la possibilità di provare l’esistenza di un altro rapporto (ad esempio di lavoro subordinato o di natura societaria), come nel caso della ritenuta sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato della ricorrente con la società, gestore di un ristorante, di cui era socio il convivente[[20]].

Proprio rispetto a quest’ultimo passaggio era peraltro da rilevare la non condivisibile tendenza, che peraltro nulla aveva a che vedere con il rapporto tra la famiglia fondata sul matrimonio e l’unione non formalizzata, ad escludere (in via cioè di principio), in un rapporto lavorativo che si svolgesse nell’ambito della convivenza more uxorio, la ricorrenza di un rapporto di subordinazione onerosa[[21]]; si trattava, infatti, di un orientamento che, immotivatamente (e con un percorso logico già inficiato per via normativa), tendeva ad applicare l’antica (negativa) soluzione costruita per il nucleo familiare matrimoniale (con la presunzione appunto della affectio vel benevolentia) alle unioni non formalizzate, con evidente grave pregiudizio della tutela della prestazione lavorativa (comunque) assicurata[[22]]. Diverso era, invece, il discorso allorquando si richiedeva al giudice (rispetto alla rilevanza della convivenza more uxorio), ai fini della distinzione (in ordine alla relativa possibile ricorrenza) tra un rapporto di lavoro subordinato o una situazione nella quale non trovi realizzazione né il requisito della subordinazione né quello della retribuzione in senso proprio, di non limitarsi all’accertamento della mera comunanza di vita (sia materiale sia spirituale), dovendo piuttosto ricercarsi se in concreto esista un’effettiva ed equa partecipazione del convivente alle risorse della famiglia di fatto; tale accertamento, invero, si poneva non tanto sul piano della rilevanza della convivenza more uxorio come tale, quanto piuttosto sul piano delle caratteristiche dell’attività prestata, proprio nel senso che qui di séguito si avrà modo di precisare[[23]].

In ogni caso, infine, la tutela del convivente non sarebbe stata espressione del consolidato riconoscimento della famiglia di fatto quanto del lavoro in sé prestato, trattandosi, in altri termini, della tutela di un interesse diverso non fondato sulla rilevanza (se non indiretta, ma ingiustificata) della affectio che, tuttavia, ordinariamente sarebbe potuta mancare anche nello stesso modello familiare immaginato e delineato dal legislatore. Emblematica, in tal senso, l’ipotesi della separazione personale tra coniugi, rispetto alla quale l’impresa familiare non può ritenersi automaticamente sciolta[[24]]. Al riguardo, infatti, anzitutto la convivenza tra coniugi in quanto tale non appare requisito necessario per la configurabilità (tra di loro) dell’impresa familiare; poi, anche l’assenza di convivenza determinata dalla separazione non esclude la sussistenza e permanenza dell’impresa familiare, diversamente da quanto avviene con riferimento alla famiglia di fatto, situazione rispetto alla quale proprio l’impegno di stabile convivenza rappresenta un elemento caratterizzante[[25]].

In termini più generali, altresì, l’evidenziata eccezionalità dell’art. 230-bis c.c., ritenuto pertanto insuscettibile di applicazione analogica, con la conseguente esclusione dell’applicabilità al caso di mera convivenza[[26]], era stata fortemente criticata[[27]]; tuttavia le addotte ragioni di carattere logico-formale, ossia quelle improntate a negare il carattere eccezionale della disciplina dell’impresa familiare in considerazione della non sussistenza di esigenze straordinarie e del tutto occasionali (con correlativa possibilità di ricorso al procedimento analogico)[[28]], apparivano correre il serio rischio di non considerare il senso (profondo) di una ben definita scelta compiuta dall’ordinamento. In particolare, infatti, era da dimostrare (appropriatamente) sia l’esistenza di una lacuna dell’ordinamento sia il carattere non eccezionale dell’art. 230-bis c.c. (tralasciando, ma non si tratta certo di questione di secondaria importanza, il profilo della somiglianza tra le due situazioni considerate).

Quanto al primo aspetto, rispetto dunque alla lacuna del diritto scritto, ossia la mancanza, ai sensi dell’art. 12, comma 2 c.c., di una precisa disposizione, è stato autorevolmente sostenuto che il silenzio del legislatore «può, in astratto, avere una duplice, diversa valenza: può comunicare tacitamente una regola e può, perciò, costituire una tecnica di disciplina; può, all’opposto, configurarsi come assenza di previsione e, quindi, come vera e propria lacuna del diritto scritto»[[29]]. Nel caso della convivenza more uxorio non risultava agevole ritenere che la mancata menzione potesse configurarsi come assenza di previsione, cioè una vera e propria lacuna, in considerazione del fatto che al legislatore della riforma del diritto di famiglia non era certo ignoto tale fenomeno e i relativi possibili àmbiti di rilevanza. Piuttosto, il mancato riferimento al convivente (all’interno dei familiari di cui all’art. 230-bis, comma 3 c.c.) rappresentava una (precisa) tecnica di disciplina.

Con riferimento, poi, al secondo aspetto, quello cioè relativo alla non eccezionalità della disposizione regolativa dell’impresa familiare (e dunque anche l’àmbito soggettivo di applicabilità), doveva ritenersi condivisibile il pensiero di chi, autorevolmente, ha rilevato la molteplicità (e diversità) di ragioni a giustificazione del giudizio di eccezionalità, affermando pertanto l’esistenza di diversi tipi di norme eccezionali (oltre a quelle c.d. congiunturali)[[30]]. In tal senso la disciplina dell’impresa familiare poteva dunque considerarsi, al pari dell’intero settore del diritto di famiglia, espressione di scelte valoriali da parte dell’ordinamento rispetto a cui non è consentito l’intervento giudiziale ai sensi dell’art. 12, comma 2, c.c., dovendosi dunque aderire a chi perspicuamente assegna all’art. 14 disp. prel. c.c. (che esclude appunto l’applicazione analogica delle leggi eccezionali) «il compito ... di indicare all’interprete l’esistenza di problemi o settori dell’esperienza giuridica rispetto ai quali al legislatore va riservata, “pur in assenza di una esplicita indicazione in tal senso”, una competenza normativa “esclusiva” e sui quali, perciò, va negato l’ingresso a quella concorrente competenza ordinatrice che al giudice è in via generale riconosciuta dall’art. 12, comma 2»[[31]].

In ultima analisi, allora, la non riferibilità dell’art. 230-bis c.c. al caso della convivenza more uxorio appariva in realtà legata alla rilevata differenziazione (che il legislatore infatti aveva mantenuto in termini assolutamente generali sino alla riforma del 2016 ma che, come si vedrà, non è estranea nemmeno al nuovo impianto normativo) tra il matrimonio e la convivenza, in considerazione della loro antiteticità. Ancora oggi, infatti, appare non del tutto privo di pregio il rilievo che «il matrimonio è un istituto fondamentale del diritto, da cui discendono conseguenze perenni e ineludibili (si pensi al dovere di mantenimento o di alimenti al coniuge, dovere persistente anche a divorzio avvenuto). La convivenza, invece, è una situazione di fatto scelta da chi intende sottrarsi ai doveri di carattere pregnante connessi al matrimonio e riservarsi, invece, la possibilità di un commodus discessus in conseguenza dei caratteri di precarietà e revocabilità unilaterale ad nutum propri della convivenza di fatto. Pertanto, non può ravvisarsi una parità di situazioni»[[32]].

D’altro canto, una chiusura così netta in ordine alla rilevanza della convivenza more uxorio con riferimento al tema dell’impresa familiare suscitava certo non poche perplessità, soprattutto se posta a confronto con le generali aperture operate dalla stessa giurisprudenza in altri settori dell’ordinamento. Vero è, peraltro, che ancora di recente il giudice delle leggi aveva ribadito la legittimità del differenziato trattamento tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio in ordine alla disciplina infortunistica a tutela del coniuge superstite[[33]]. Coglieva dunque nel segno chi, in questo senso, evidenziava che «la soluzione negativa si fonda sull’idea che la mancanza del vincolo familiare esclude quella “appartenenza al gruppo” la quale costituisce ragione fondamentale per l’applicazione della disciplina prevista dall’art. 230-bis»[[34]].

La soluzione negativa, oltre a trovare il conforto del dato letterale normativo[[35]], la cui estensione sarebbe potuta avvenire esclusivamente con un apposito provvedimento legislativo[[36]], veniva fondata pertanto, in termini più generali, su di una valutazione complessiva e sistematica dei rapporti ordinamentali tra famiglia e matrimonio, con riguardo cioè alla ritenuta differenziazione tra convivenza e modello familiare fondato sul matrimonio[[37]]; ciò, tuttavia, non poteva implicare un’affermazione di irrilevanza (economica e giuridica) dell’attività eventualmente prestata, attività che avrebbe comunque potuto trovare riconoscimento e tutela nelle altre forme (e configurazioni) previste dall’ordinamento. Del resto, come già precisato, la invocata tutela del convivente doveva ritenersi espressione non tanto (rispetto alla previsione di legge) del consolidato riconoscimento della famiglia di fatto quanto piuttosto (in un’ottica dunque differente) del lavoro in sé prestato (e in un certa misura tale prospettiva sembra essere stata fatta propria dal legislatore della novella).

La soluzione positiva, invece, faceva leva sulla proposta applicazione analogica dell’art. 230-bis c.c.[[38]], adducendosi in particolare ragioni di carattere logico-formale, improntate cioè a negare il carattere eccezionale della disciplina dell’impresa familiare in considerazione della non sussistenza di esigenze straordinarie e del tutto occasionali[[39]]. Inoltre, alcune (generali) prese di posizione da parte della stessa giurisprudenza in altri settori dell’ordinamento sembravano militare nella direzione favorevole quanto allo specifico tema dell’impresa familiare. Peraltro, provando a fare un esercizio, per così dire, di riflessione ex post, laddove si fosse dato ingresso alla soluzione positiva, seguendo dunque le indicazioni dei sostenitori del procedimento analogico, il convivente more uxorio avrebbe goduto dei medesimi diritti del coniuge (o, comunque, del familiare), ossia di un complesso di situazioni giuridiche soggettive perfettamente corrispondenti e, pertanto, di maggior tutela rispetto a ciò che avrebbe successivamente riconosciuto la nuova previsione dell’art. 230-ter c.c.   

In ogni caso, in definitiva, nonostante talune precedenti aperture dello stesso giudice delle leggi[[40]] e talaltre indicazioni normative sparse, comunque non denotanti un vero e proprio sistema implicante una diversa scelta di fondo[[41]], risultava permanere la significativa distinzione (e il correlativo differente trattamento) tra la famiglia fondata sul matrimonio e la convivenza more uxorio, assumendo dirimente rilevanza la diversità tra una relazione formalizzata (con l’assunzione di specifici obblighi e la correlativa attribuzione di altrettanti diritti) e una relazione non formalizzata, connotata dunque dagli strutturali caratteri della precarietà e revocabilità unilaterale ad nutum.

In termini generali, infine, conferma della necessità di una soluzione non affidata di volta in volta all’attività dell’interprete (con àmbito di operatività dunque più ampio rispetto alla settorializzazione dei precedenti interventi) veniva poi dalla richiesta, anche ad opera della giurisprudenza più avanzata sul punto, di un complessivo intervento regolativo del legislatore, non potendosi escludere la forma della convivenza in quanto tale (purché dotata di una certa stabilità) dal novero delle formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost.[[42]].


3. Le scelte operate dal legislatore della novella. L’introdotta equiparazione (con qualche distinguo) della parte dell’unione civile

La rappresentazione fornita dello status quo ante consente adesso di (provare a) comprendere quanto operato dal legislatore della novella, muovendo anzitutto dall’opzione prescelta in merito alla posizione della parte dell’unione civile, (solo) apparentemente di più agevole approccio quanto al modello normativo e ai risultati applicativi.

Dal punto di vista formale, infatti, la disciplina contenuta nell’art. 230-bis c.c. è stata espressamente estesa all’unione civile, atteso che a quest’ultima «Si applicano le disposizioni di cui alle sezioni II, III, IV, V, VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile» (art. 1, comma 13, ultima parte, l. n. 76/2016), ossia per l’appunto (anche) la menzionata sezione VI dedicata all’impresa familiare. Invero, a fronte dell’evidenziata asetticità del mero rinvio normativo, che farebbe dunque propendere per la perfetta sovrapponibilità della persona unita civilmente al familiare di cui all’art. 230-bis, comma 3 c.c., nel senso di assicurarne la formale e sostanziale equiparazione, deve tuttavia considerarsi una differenza di non trascurabile rilevanza che è sembrata impedire la possibilità di «affermarne la piena parificazione alla figura del coniuge»[[43]]. In buona sostanza, nonostante la espressa estensione dell’applicazione dell’istituto dell’impresa familiare all’unione civile tra persone dello stesso sesso, può rilevarsi un conflitto interno (non è chiaro se voluto o meno) nella soluzione così adottata, che rischia di contraddirne la relativa logica, a meno che non se ne individui un fondamento razionale.

Il riferimento è alla mancanza menzione, nei numerosi commi che compongono la disciplina di quella parte dell’art. 1 l. n. 76 del 2016 dedicata all’unione civile tra persone dello stesso sesso, del rapporto di affinità il quale, a differenza di quanto accade a seguito della celebrazione del matrimonio che ne comporta il sorgere quale vincolo tra il coniuge e i parenti dell’altro (art. 78 c.c.), non si instaura tra la parte dell’unione civile e i parenti dell’altra. In ragione pertanto di tale assenza trova applicazione quanto disposto dall’art. 1, comma 20 l. n. 76 del 2016, ai cui sensi l’equiparazione normativa tra matrimonio e unione civile e, correlativamente, tra coniuge e parte dell’unione civile non opera per le norme del codice civile non richiamate espressamente dalla novella legislativa.

Ora, a fronte dell’esplicito dato normativo, apparso (quantunque non unanimemente) frutto di un legislatore poco avvertito[[44]], il risultato della (piana) interpretazione letterale, con la correlativa esclusione per la parte dell’unione civile, a differenza del coniuge, del titolo di partecipazione all’impresa familiare proveniente dal legame giuridico di affinità, è stato ritenuto in contrasto con la ratio della complessiva disciplina dell’unione civile, finalizzata ad assicurare la più ampia corrispondenza alla condizione giuridica (e alla correlativa posizione) derivante dal vincolo matrimoniale[[45]]. Deve tuttavia rilevarsi, in punto di metodo, che talune ulteriori (e significative) distinzioni tra unione civile e matrimonio sono comunque presenti nel novellato impianto normativo[[46]], venendo peraltro giustificate dall’ontologica distinzione tra le due fattispecie[[47]]. Nel caso di specie, e dunque nel merito, deve però avvertirsi che, quantunque residui la possibilità di invocare altre forme di tutela per il lavoro prestato all’interno dell’impresa familiare, la limitazione (della rilevanza) del legame di affinità al solo contesto matrimoniale, quale ritenuta conseguenza della capacità espansiva del matrimonio (non attribuita invece all’unione civile)[[48]], potrebbe rendere in concreto carente di effettività l’interesse della parte (meritevole di sicuro riconoscimento e di consequenziale realizzazione) a non essere oggetto di sfruttamento lavorativo[[49]].


4. (Segue). I (limitati) diritti riconosciuti al convivente di fatto partecipe

Diversamente da quanto accaduto rispetto all’intervenuta equiparazione della parte dell’unione civile, sia pure con gli evidenziati profili distintivi, il legislatore della novella, in ordine alla posizione del convivente more uxorio, ha introdotto, all’interno della sezione VI del capo VI del titolo VI del Libro primo del codice civile, per l’appunto dedicata all’impresa familiare, l’art. 230-ter c.c., rubricato “Diritti del convivente” (art. 1, comma 46, l. n. 76 del 2016). Con tale espressa previsione normativa si è dunque concluso il già riferito dibattito sul punto, come del resto testimoniato dai primi commenti in merito, ritenendosi che si è voluto così colmare il vuoto normativo lasciato dalla riforma del diritto di famiglia del 1975[[50]]. 

Quanto alla tecnica legislativa, dunque in punto di metodo, si è allora scelto di approntare una nuova disposizione, da collocare all’interno del codice civile, piuttosto che aggiungere il convivente nell’elenco dei familiari presente nell’art. 230-bis, comma 3 c.c.[[51]]. Quanto invece al relativo contenuto, dunque in punto di merito, la previsione di legge si presenta certamente assai differente dall’art. 230-bis c.c. Al riguardo, infatti, la introdotta parziale estensione al convivente della disciplina dell’impresa familiare di cui all’art. 230-bis c.c.[[52]] ha comportato l’appellativo di regola lacunosa[[53]], proprio in considerazione della ritenuta «disciplina specifica più ristretta e leggera, meno garantistica (…) per la posizione del convivente-lavoratore»[[54]]. Più precisamente, al convivente che presta stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente viene riconosciuto il diritto ad una partecipazione agli utili dell’impresa familiare, ai beni acquistati con essi e agli incrementi dell’azienda (anche in ordine all’avviamento), commisurata al lavoro prestato; vengono espunti invece, rispetto al testo dell’art. 230-bis c.c., il diritto al mantenimento, le posizioni giuridiche connesse ai profili amministrativo-gestionali, nonché la prelazione sull’azienda in caso di divisione ereditaria o di trasferimento della medesima. Invero, sia rispetto al metodo sia rispetto al merito, ma si avrà modo di meglio evidenziare nel prosieguo la stretta correlazione (logica, anzitutto, a dispetto di quanto avversamente sostenuto) dei due profili ora menzionati, deve certamente rilevarsi la peculiarità del nuovo impianto normativo; quest’ultimo, comunque, segna una esplicita presa di posizione (in virtù di una scelta di campo) da parte del legislatore della novella in un complesso (e complessivo) contesto di riforma rispetto al riconoscimento delle formazioni sociali non matrimoniali, ossia l’unione civile e le convivenze di fatto, tra di loro certamente diverse sia sotto il caratterizzante profilo formale sia sotto il consequenziale profilo sostanziale (come ben avvertibile dalle, distinte, approntate regole di legge).

Per un verso, dunque, si è predisposto un certo tipo di garanzie con le quali superare, rispetto alla convivenza more uxorio, la perpetuata presunzione di gratuità di derivazione matrimoniale (eliminata in quel contesto familiare dalla introduzione dell’art. 230-bis c.c.)[[55]]; per altro verso, però, la scelta così operata, anche in ragione dei problemi che in passato si erano posti, ha già dato vita a un vivace confronto che non sembra destinato a esaurirsi nel breve periodo, anche in considerazione di auspicati interventi sul punto, di riformulazione normativa o di interpretazione giudiziale (anche da parte del giudice delle leggi)[[56]].

Vero è, peraltro, che il riferimento al disposto dell’art. 230-bis c.c. viene oggi riproposto da chi, autorevolmente, ritiene che «Il convivente può … continuare ad avvalersi dell’applicazione analogica della disciplina dell’impresa familiare»[[57]], poiché l’eventuale interpretazione in senso negativo «sarebbe costituzionalmente non orientata in quanto creerebbe una irragionevole disparità di trattamento del lavoro prestato dal familiare nell’ambito dell’impresa»[[58]]. In senso contrario può tuttavia rilevarsi che, alle (plurime) precedenti ragioni di segno opposto, in assenza cioè della specifica (e precisa) disposizione dell’art. 230-ter c.c., rispetto alla invocata applicazione analogica dell’art. 230-bis c.c.[[59]], oggi si aggiunge anche quella rappresentata proprio dal nuovo dato normativo, ossia l’art. 230-ter c.c. che, in maniera inequivoca, segnala (di per sé) l’impossibilità del ricorso al procedimento analogico, non essendosi in presenza, più precisamente, di quella lacuna di legge che ne consente l’operatività. Anzi, il sistema delineato dal legislatore della recente riforma appare oltremodo chiaro (e, sotto questo profilo, non irrazionale, in quanto animato da una complessiva logica di senso), avendo assicurato, da un lato, la piena equiparazione, quanto all’impresa familiare, del coniuge rispetto alla parte dell’unione civile, in virtù della già richiamata (espressa) estensione all’unione civile della disciplina contenuta nell’art. 230-bis c.c., ai sensi dell’art. 1, comma 13, ultima parte, l. n. 76 del 2016; avendo predisposto, dall’altro, un complesso di situazioni giuridiche soggettive a tutela della posizione del convivente, quantunque il riferimento, tra questi diritti, agli utili dell’impresa familiare, in quanto ritenuto attestante che il lavoro prestato dall’altro convivente dà luogo ad un’impresa familiare, sia stato inteso in buona sostanza come riferibile alla medesima logica della originaria previsione dell’art. 230-bis c.c., di cui dunque si è continuata a invocare l’applicazione analogica[[60]]. Forse maggiori perplessità potrebbe destare, proprio in ordine alla posizione del convivente di fatto partecipe, il carattere di parziale (e non totale) residualità dell’istituto dell’impresa familiare, atteso che l’ultima parte dell’art. 230-ter c.c. dispone che «Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato»; invero, l’incipit dell’art. 230-bis c.c., in maniera più ampia e generalizzata, affida (sussistendone gli altri presupposti) la individuazione dell’impresa familiare alla non configurabilità di un diverso rapporto (la cui ricorrenza, per l’appunto, riveste un ruolo normativamente preclusivo).  


5. La (non irrazionale) pluralità di statuti normativi dell’impresa familiare rispetto alla (formalizzata) pluralità di modelli organizzativi delle relazioni affettive 

L’avere, pertanto, delineato uno statuto giuridico del partecipante, comune al coniuge e (in buona misura) alla parte dell’unione civile, e uno statuto giuridico del partecipante, in quanto convivente, di contenuto differente rispetto al primo, in quanto limitato ad una partecipazione agli utili dell’impresa familiare, ai beni acquistati con essi e agli incrementi dell’azienda (anche in ordine all’avviamento), in proporzione al lavoro prestato, non appare in sé da ritenersi irragionevole. La relativa soluzione deve infatti essere necessariamente inquadrata all’interno di quella logica di sistema che caratterizza l’intervento legislativo di regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso e di disciplina delle convivenze[[61]]. Il corrispondente complessivo impianto risulta perciò per buona parte connotato (anche se con qualche distinguo importante) dalla predisposta configurazione giuridica dell’unione civile alla stregua del matrimonio, quali modelli traducenti l’assunzione di un impegno formalizzato di vita in comune, diversamente dalla convivenza di fatto, pure oggi rilevante in termini di riconosciuta formazione sociale ma dai tratti certo differenti sia rispetto al matrimonio sia rispetto all’unione civile.

Il riferito diverso avviso, secondo il quale il dubbio di costituzionalità dell’art. 230-ter c.c. (per violazione dell’art. 3 Cost.) «non riguarderebbe la perfetta equiparabilità della convivenza di fatto al rapporto di coniugio, ma la ragionevolezza della diversità di trattamento per quanto attiene alla particolare disciplina dell’impresa familiare»[[62]], rischia, sotto questo profilo, di sganciare del tutto l’istituto dell’impresa familiare dal contesto normativo all’interno del quale essa comunque si colloca, in un attuale sistema regolamentare che appare il risultato, inevitabile (ma coerente), delle scelte legislative effettuate in termini di (differente) disciplina dei (diversi) rapporti relazionali (personali e patrimoniali) di coppia. Non appare dunque possibile trascurare di considerare che la concreta regolamentazione normativa risulta innestata (in ragione della espressa scelta effettuata) sulla (specifica) tipologia della relazione tra i soggetti coinvolti, che pertanto assume i tratti della caratterizzazione identificativa e distintiva della fattispecie analizzata. Diversamente, invece, si deve ritenere quanto alla possibilità di valersi, nella soluzione di taluni problemi posti dalla nuova fattispecie di cui all’art. 230-ter c.c., dei risultati ai quali sono approdate dottrina e giurisprudenza con riferimento all’art. 230-bis c.c., laddove sia chiaramente avvertibile la corrispondenza dell’ordine di problemi posto in evidenza.

In buona sostanza, allora, la contrapposizione (in termini di distinzione e, dunque, di non corrispondente sovrapponibilità) tra la compiuta rilevanza della partecipazione all’impresa familiare, in ragione di un certo formalizzato status (coniuge e parte dell’unione civile), e il diverso riconoscimento (comunque presente) della partecipazione lavorativa, sulla base di una condizione (sia pure peculiare) che resta comunque di fatto (convivente), traduce, in maniera coerente, l’articolato rapporto tra i modelli organizzativi (formalizzati o meno) delle relazioni affettive e le consequenziali scelte normative in ordine alla distinta rilevanza dell’attività lavorativa prestata al loro interno rispetto all’istituto dell’impresa familiare.

Con ogni probabilità, dunque, solo la modifica per via normativa della rilevanza (ossia del tipo di rilevanza) effettuale della condizione di convivente di fatto potrà portare a una consequenziale nuova articolazione, in termini cioè di allineamento della disciplina di più ampia tutela, della partecipazione del convivente more uxorio all’impresa familiare. In assenza di ciò (e finché non accadrà) è propriamente la vis attractiva della disciplina del diritto di famiglia, rispetto cioè ai nuclei che traducono l’assunzione di un vincolo formalizzato (indipendentemente dalla diversità sessuale dei relativi componenti), a determinare la ragionevolezza dell’attuale (diverso) regime della posizione (anche) nell’impresa familiare, da un lato (e sia pure con il rilevato distinguo), del coniuge e della parte dell’unione civile e, dall’altro, del convivente di fatto.  


NOTE: 

[1] Per la relativa ricostruzione e la disamina dei diversi ordini di problemi, in precedenza, tra diversi, G. DI ROSA, Tratti distintivi e aspetti problematici dell’impresa familiare, in Contr. e impr., 2007, 506 ss.; più di recente, diffusamente, ID., Sub art. 230-bis, in G. Di ROSA (a cura di), Commentario Gabrielli, Della famiglia, II ed., Torino, 2018, 1678 ss.; quanto alle questioni specificamente inerenti alla rilevanza del lavoro all’interno della famiglia ID., Lavoro familiare e attività di impresa, in U. SALANITRO (a cura di), Il sistema del diritto di famiglia dopo la stagione delle riforme, Pisa, 2019, 545 ss.; da ultimo, rispetto, in particolare, ai profili di configurazione giuridica G. GUZZARDI, Forma organizzativa e assicurazione delle tutele, in Contr. impr., 2021, 659 ss.; precedentemente, in maniera articolata, ID., L’affermata incompatibilità dell’impresa familiare con la disciplina societaria nel sistema delle tutele del prestatore d’opera, in Studium iuris, 2015, 1427 ss. (prima parte) e 2016, 32 ss. (seconda parte).    

[2] In tal senso, tra tanti, N. IRTI, L’ambigua logica dell’impresa familiare, in Riv. dir. agr., 1980, 533; M. TANZI, Impresa familiare. I) Diritto commerciale, in Enc. giur., XVI, Roma, 1989, 1; sull’eliminazione dello sfruttamento del collaboratore familiare, almeno, R. COSTI, Lavoro e impresa nel nuovo diritto di famiglia, Milano, 1976, 106; V. PANUCCIO, L’impresa familiare, II ed., Milano, 1981, 119; V. COLUSSI, Impresa familiare, in Riv. dir. civ., 1981, I, 703; L. BALESTRA, L’impresa familiare, Milano, 1996, 14 ss.; T. AULETTA, Collaborazione del familiare nell’attività economica e forme di tutela, in Dir. lav., 1999, I, 269; ID., Diritto di famiglia, V ed., Torino, 2020, 307 s.; F. PROSPERI, Impresa familiare (Art. 230-bis)in Commentario Schlesinger-Busnelli, Milano, 2006, 3 ss.; al riguardo O. MAZZOTTA, Diritto del lavoro, III ed., in Trattato Iudica-Zatti, Milano, 2008, 104 s., rileva come il lavoro che si svolge entro le mura domestiche o comunque da parte di un familiare a favore di un altro, titolare di un’attività produttiva o professionale, costituisca (e sia stato sempre ritenuto) un classico terreno di elezione della gratuità del rapporto, non del tutto scalfito, a suo modo di vedere, dalla stessa interpretazione giurisprudenziale successiva alla riforma del diritto di famiglia.

[3] Tra le tante, in precedenza, Cass., 1 marzo 1988, n. 2138, in Rep. Foro it., 1988, Lavoro (rapporto), n. 644, 1613, a cui avviso la prova di una causa affectionis vel benevolentiae non può desumersi dalla mera circostanza negativa che il familiare non abbia avanzato, in costanza del rapporto, pretese retributive; Trib. Torino, 7 marzo 1988, in Giur. piemontese, 1988, 344 ss. e in Foro it., 1989, I, 555 ss.; più di recente Cass., 18 ottobre 2005, n. 20157, in Foro it., 2006, I, 1082 ss., cassando con rinvio l’impugnata decisione per la ravvisata intrinseca contraddittorietà dell’esclusione della sussistenza del rapporto di lavoro subordinato e, per converso, della individuazione di una causa gratuita dell’attività di collaborazione all’impresa a fronte di un corrispettivo periodico; da ultimo Cass., sez. un., 6 novembre 2014, n. 23676, in Giur. comm., 2015, II, 519 ss., con nota (critica) di F. CORSI, Impresa in famiglia, impresa familiare e società, in Nuova giur. civ. comm., 2015, I, 350 ss., con nota (adesiva) di G.B. BARILLÀ, Impresa familiare e forma societaria: due modelli incompatibili e in Riv. dir. comm., 2015, 641 ss., con nota (critica) di L. DELLI PRISCOLI, Società e impresa familiare, pur confermando il venir meno della presunzione di gratuità delle prestazioni rese nel contesto familiare, ha ritenuto che debba restare fermo il principio secondo il quale l’estensione della tutela non possa essere stabilita a priori, con ciò tuttavia prestando il fianco ad una serie di rilievi di segno contrario nel timore di una (immotivatamente) limitata applicazione dovuta ad una certa (e contestata) interpretazione giudiziale del carattere residuale dell’istituto.

[4] Cass., 18 ottobre 2005, n. 20157, cit., 1085.

[5] In questo senso, perspicuamente, F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, IV, IV ed., Padova, 2004, 140, evidenziando la scelta, operata dalla riforma del diritto di famiglia, della valorizzazione e del rafforzamento del rapporto familiare; ID., in N. ZORZI GALGANO (a cura di), Trattato di diritto civile, I, III ed., Padova, 2015, 729 ss., rilevando che ciò ha portato a eque conseguenze il principio della mutua solidarietà nella famiglia; sulla preminenza, precedentemente alla riforma, del cosiddetto interesse familiare a giustificazione della compressione degli interessi dei singoli membri G. GHEZZI, La prestazione di lavoro nella comunità familiare, Milano, 1960, 3 ss.

[6] Per una recente, compiuta, disamina delle questioni sollevate dalla previsione dell’art. 230 bis c.c. G. PALMERI, Sub art. 230-bis, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2004, 1 ss.; puntualmente M. NUZZO, L’impresa familiare, in Trattato Bonilini-Cattaneo, II, II ed., Torino, 2007, 471 ss.; con la consueta efficacia T. AULETTA, Diritto di famiglia, cit., 309 ss.; in precedenza, tra gli altri, aveva già rilevato la problematicità scaturente dal dettato dell’art. 230-bis c.c. M.C. ANDRINI, Impresa familiare, in D. VITTORIA – M.C. ANDRINI, Azienda coniugale e impresa familiare, in Trattato Galgano, XI, Padova, 1989, 59.

[7] Sull’evoluzione della prestazione di lavoro nella famiglia si segnala l’interessante ricostruzione di T. GERMANO, Lavoro familiare, in Dig. comm., VIII, Torino, 1992, 233 ss.

[8] V. PANUCCIO, Impresa familiare, in Enc. dir., Agg., IV, Milano, 2000, 665, nt. 1.

[9] F. PROSPERI, Impresa familiare, cit., 15 ss., ritenendo (giustamente) che l’introduzione dell’impresa familiare rappresenta un importante tassello all’interno della complessiva opera di riforma del diritto di famiglia del 1975, volta (peraltro anche) all’attuazione di importanti principi costituzionali; ravvisa negli (ulteriori) dettami costituzionali a tutela del lavoro, segnatamente gli artt. 1, 35, 36 e 37 Cost., la ratio dell’art. 230-bis c.c. A. GIORDANO, Sulla tutela del lavoro “nella” famiglia: spunti per una lettura unitaria dell’impresa familiare tra diritto sostanziale e processo, in Dir. fam., 2016, 343 ss., il quale per l’appunto reputa tale fondamento radicarsi nella necessità costituzionale di salvaguardare il lavoro, dovendosi estendere le garanzie assicurate al lavoro prestato all’esterno del nucleo familiare anche a quello espletato al proprio interno.

[10] Penetranti critiche sulla (diffusa) considerazione della comunione tacita familiare quale antecedente storico dell’impresa familiare in F. PROSPERI, Impresa familiare, cit., 11 ss., essendo espressione la prima di una concezione patriarcale della famiglia in perfetta antitesi con gli obiettivi perseguiti dal legislatore con la predisposizione della seconda; nello stesso senso anche L. BALESTRA, Attività d’impresa e rapporti familiari, in Trattato Alpa-Zatti, Padova, 2009, 119 ss.

[11] In questo senso M.C. ANDRINI, Impresa familiare, cit., 60, rilevando la curiosa rubricazione ma l’esatta collocazione, quasi a sottolineare che «la disciplina del lavoro familiare era da intendersi come disciplina di rapporti “interni” tra membri di una stessa famiglia» (60, nt. 4); M. PALADINI, L’impresa familiare, in Trattato Bonilini, II, Torino, 2016, 1737 ss., precisa altresì che «l’istituto dell’impresa familiare costituisce … un regime patrimoniale secondario, in quanto non fornisce una regolamentazione esclusiva dei rapporti patrimoniali tra i coniugi, ma – essendo diretto esclusivamente a regolare la collaborazione lavorativa nell’impresa esercitata dal coniuge o da un parente entro il terzo grado o da un affine entro il secondo – si affianca necessariamente al regime della comunione legale (o convenzionale) o della separazione dei beni»; in giurisprudenza, esplicitamente, riconosce all’art. 230-bis c.c. il carattere di norma di chiusura della disciplina dei rapporti patrimoniali Cass., sez. un., 6 novembre 2014, n. 23676, cit.

[12] G. GABRIELLI, Regime patrimoniale della famiglia, in Digesto civ., XVI, Torino, 1997, 334.

[13] In questi termini, esattamente, L. BALESTRA, L’impresa familiare, cit., 126; ID., Attività d’impresa, cit., 181.

[14] La formula convivenza more uxorio, invero, rappresenta (dal punto di vista dell’evoluzione semantica) la penultima fase di sviluppo nel rapporto tra famiglia legittima (ossia fondata sul matrimonio) e altre forme di aggregazione differenti in quanto mancanti del presupposto formale matrimoniale; mentre, infatti, l’espressione  originariamente utilizzata, con una evidente caratterizzazione negativa e sprezzante, era rappresentata dal termine concubinato, a dimostrazione di una sorta di diversità (anche nel giudizio sociale) di tali forme di unione, successivamente, superata la fase del richiamo alla convivenza al modo coniugale, si è diffusa una nuova terminologia, indicativa di un distinto modo di intendere (anche socialmente) la questione, quella di famiglia di fatto (in contrapposizione alla famiglia di diritto, trovante cioè fondamento in un comportamento giuridicamente rilevante in quanto formalizzato). Su tale processo evolutivo, per tutti, F. GAZZONI, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983, 1 ss.; sulla variegata (relativa) terminologia e sugli atteggiamenti dei giuristi verso la famiglia di fatto G. ALPA, I principi generali, in Trattato Iudica-Zatti, Milano, 1993, 249 ss.

[15] Sul rapporto tra ordinamento giuridico della famiglia e formule definitorie rientranti nel campo del diritto naturale, criticamente, P. BARCELLONA, Famiglia (diritto civile), in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, 780 ss., in considerazione della ritenuta relatività e storicità della nozione di famiglia, quantunque potrebbe anche ritenersi, proprio facendo leva sulla affermata preminenza del tipo di scelte effettuate dal legislatore in relazione al tipo di società considerata e dal grado di evoluzione raggiunta che, finché non risulta modificata la previsione contenuta nell’art. 29 Cost., non si può giuridicamente sostenere l’esistenza di una pluralità di modelli (asseritamente) familiari alternativi a quello fondato sul matrimonio; il riferimento al processo di differenziazione da un unico modello di famiglia (quello fondato sul matrimonio) ad una molteplicità di tipi familiari è invece presente in G. FERRANDO, Il matrimonio, in Trattato Cicu-Messineo, V, 1, Milano, 2002, 185 s. Per alcune considerazioni su tale tematica G. DI ROSA, Forme familiari e modello matrimoniale tra discipline interne e normativa comunitaria, in Eur. dir. priv., 2009, 755 ss.; ID., Famiglia e matrimonio: consolidate tradizioni giuridiche, innovative discipline interne e attuale sistema comunitario, in B. MONTANARI (a cura di), La costruzione dell’identità europea: sicurezza collettiva, libertà individuali e modelli di regolazione sociale, II, Torino, 2013, 63 ss.; ID., L’attuale valenza (interna) del (tradizionale) rapporto tra famiglia e matrimonio nel quadro della cosiddetta pluralità delle forme familiari, in O. FUMAGALLI – O. CARULLI – A. SAMMASSIMO (a cura di), Famiglia e matrimonio di fronte al Sinodo. Il punto di vista dei giuristi, Milano, 2015, 227 ss. Deve altresì menzionarsi, per l’accurata e approfondita disamina svolta e per i risultati a cui perviene, l’ampia indagine di A. RENDA, Il matrimonio civile. Per una teoria neo-istituzionale, Milano, 2013, 3 ss. e spec. 46 ss., il quale evidenzia (tra l’altro) che l’art. 29 Cost. «non fa che assumere il nesso tra famiglia e matrimonio come presupposto culturale la cui meritevolezza assiologica deriva dal suo fondamento antropologico e, su questa base, istituire in via prescrittiva tale nesso come necessario alla tutela predisposta».

[16] Favorevolmente C.A. GRAZIANI, L’impresa familiare, in Trattato Rescigno, 3, Torino, 1996, 674 ss.; M. DOGLIOTTI – A. FIGONE, L’impresa familiare, in T. AULETTA (a cura di), Trattato Bessone, Il diritto di famiglia, IV, 2, Torino, 2011, 709; per una esplicitazione di maggior respiro L. BALESTRA, L’impresa familiare, cit., 170 ss. e spec. 202 ss.; ID., La famiglia di fatto, in Trattato Ferrando, II, Bologna, 2008, 1069 ss.; ID., Attività d’impresa e rapporti familiari, cit., 211 ss.; G. PALMERI, Sub art. 230-bis, cit., 81 ss., la quale, al termine dell’analisi del relativo dibattito dottrinale e giurisprudenziale, rilevava come «circoscrivere la portata innovativa dell’art. 230-bis c.c. alla famiglia legittima non appare in armonia con il nuovo modo di intendere la famiglia sia al livello di ordinamento interno che sovranazionale» (83); più di recente, con particolare approfondimento, F. PROSPERI, Impresa familiare, cit., 145 ss.; in giurisprudenza Trib. Ivrea, 30 settembre 1981, in Vita notarile, 1982, 802 ss. e in Giur. agr. it., 1984, 105 ss., con nota di G. AMOROSO, Sull’applicabilità della disciplina dell’impresa familiare alla famiglia di fatto; Trib. Torino, 24 novembre 1990, in Giur. it., 1991, I, 2, 428 ss. e 574 ss., con note, rispettivamente, di R. CALVO, Un precedente in tema di animus mutuandi e operazioni su conto corrente bancario cointestato ai conviventi more uxorio e di G. OBERTO, Impresa familiare e ingiustificato arricchimento tra conviventi «more uxorio»; Cass., 15 marzo 2006, n. 5632, in Fam. pers. succ., 2006, 995 ss., con nota di L. STOPPIONI, Rapporto d’impresa familiare e convivenza “more uxorio”, che indica nella famiglia di fatto una formazione sociale atipica a rilevanza costituzionale.

[17] Valorizzava il dato formale F. GAZZONI, Dal concubinato, cit., 69 ss.; evidente la forzatura per M.C. ANDRINI, Impresa familiare, cit., 211 ss.; V. COLUSSI, Impresa familiare, in Dig. comm., VII, Torino, 1992, 179, concordava sul fatto che l’estensione, a fronte di una simile disposizione di legge, non potesse che avvenire con un provvedimento legislativo ad hoc; analogamente, in precedenza, E. PROTETTĺ, L’impresa familiare tra conviventi more uxorio, in Soc., 1985, 475, rilevando la necessità, per potere aderire ad una soluzione differente, di una modifica legislativa dell’art. 230-bis c.c. che estendesse al convivente (more uxorio) la tutela assicurata al coniuge, così come previsto da una (non più recente) proposta di legge dallo stesso Autore richiamata; più cauta (ma comunque adesiva) la posizione di T. AULETTA, Il diritto di famiglia, IX ed., Torino, 2008, 195, a motivo del rimando in ordine al sostanziale riconoscimento in via interpretativa della famiglia di fatto (12 ss.), che riprende tuttavia il fondamento della soluzione negativa; similmente, quanto alla cautela, ma con riferimento a possibili forme di tutela alternativa, V. PANUCCIO, Impresa familiare, cit., 680; sulla opportunità di un approfondimento del tema, a fronte della lettera della legge che induceva ad escludere la presenza di un’impresa familiare fra conviventi, F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, IV, cit., 141, nt. 66; per l’impostazione restrittiva (coerente con il dato letterale della norma) anche G. QUADRI, Impresa familiare e prestazioni di lavoro, Napoli, 2012, 42 ss.

[18] Tale orientamento risultava fondato sul carattere eccezionale (dunque insuscettibile di applicazione analogica) della disposizione dell’art. 230-bis c.c. in ordine alle norme generali in tema di prestazioni lavorative e in relazione alle strutturali diversità tra la famiglia legittima (fondata sul matrimonio) e la convivenza: Cass., 18 ottobre 1976, n. 3585, in Giur. it., 1977, I, 1, 1949 ss. e in Nuovo dir. agr., 1977, 345 ss.; Trib. Roma, 10 luglio 1980, in Dir. fall., 1980, II, 611 ss., con nota di L. FARENGA, In tema di “rapporto more uxorio”, “famiglia di fatto” e “impresa familiare”; Trib. Milano, 10 gennaio 1985, in Soc., 1985, 507 ss.; Trib. Firenze, 18 giugno 1986, in Toscana lav. e giur., 1987, 228 ss.; Trib. Milano, 5 ottobre 1988, in Lavoro 80, 1989, 206 ss.; Cass., 14 giugno 1990, n. 5803, in Rep. Foro it., 1990, Lavoro (rapporto), n. 564, 1706; Cass., 2 maggio 1994, n. 4204, in Foro it., 1995, I, 1935 ss.; in Giur. it., 1995, I, 1, 844 ss., con nota (critica) di L. BALESTRA, Sulla rilevanza della convivenza «more uxorio» nell’ambito dell’impresa familiare e in Nuova giur. comm., 1995, I, 278 ss., con nota di M. BERNARDINI, Rapporto di lavoro, o di collaborazione “parasubordinata”, e tutela del convivente more uxorio (c.d. familiare di fatto), che aveva altresì ritenuto manifestamente infondata la (prospettata) questione di legittimità costituzionale dell’art. 230-bis c.c. nella parte in cui tale disposizione esclude dai soggetti tutelati il convivente more uxorio; Cass., 19 dicembre 1994, n. 10927, in Inform. prev., 1994, 1502 ss.; Trib. Padova, 4 aprile 2003, in Mass. Giur. civ. patavina, 2006; Cass., 29 novembre 2004, n. 22405, in Rep. Foro it., 2004, Famiglia (regime patrimoniale), n. 77, 1182. 

[19] In tal senso Trib. Milano, 5 ottobre 1988, cit. Simile soluzione era prospettata, proprio richiamando il caso deciso dalla giurisprudenza di merito ora citata, anche da V. PANUCCIO, Impresa familiare, cit., 680, nt. 135; in senso decisamente contrario F. PROSPERI, Impresa familiare, cit., 148 ss., sia perché rimedio di misura minimale sia perché la giurisprudenza riconnette alle attribuzioni patrimoniali tra conviventi il carattere di adempimento di obbligazioni naturali con la conseguente applicazione della regola della soluti retentio (art. 2034 c.c.); su tale ultimo profilo, tuttavia, L. BALESTRA, Le obbligazioni naturali, in Trattato Cicu-Messineo, Milano, 2004, 100 ss. e 233 ss., il quale ravvisa «la giusta causa dello spostamento patrimoniale ... non già nell’adempimento di un dovere morale ma nel fatto che esso si pone come elemento costitutivo della famiglia di fatto» (239).

[20] Si tratta della decisione di Trib. Firenze, 18 giugno 1986, cit.

[21] In tal senso Cass., 19 dicembre 1994, n. 10927, cit., ritenendo peraltro possibile l’inquadramento del rapporto stesso, in carenza di prove contrarie, nell’ipotesi della comunione tacita familiare così come delineata dall’art. 230-bis c.c., quantunque tale prospettazione apparisse davvero singolare (a meno di non considerarlo un errore concernente il nomen iuris), trattandosi di un’ipotesi nella quale (come nel caso di specie) la prestazione di attività in uno studio dentistico non era certo riconducibile alle comunioni tacite familiari nell’esercizio dell’agricoltura di cui all’art. 230-bis, comma 6 c.c., pur potendosi in questo modo sopperire (ed è questa probabilmente la ragione della decisione) ad una carenza (in concreto) di tutela.

[22] Per l’operatività, a differenza della famiglia legittima, della presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese da una parte in favore dell’altra all’interno della famiglia di fatto, Cass., 14 giugno 1990, n. 5803, cit. Giustamente invece si rilevava da Cass., 17 luglio 1979, n. 421, in Foro it., 1979, I, 2315 ss.; in Dir. fam., 1980, 70 ss. e in Giust. civ., 1980, I, 671 ss., che la compressione operata dall’art. 230-bis c.c. con riguardo all’estensione della presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative svolte in ambito familiare ha influenzato i criteri di estensibilità di detta presunzione al rapporto analogo di convivenza more uxorio; similmente Cass., 13 dicembre 1986, n. 7486, in Mass. Giur. it., 1986, 1260; Pret. Sampierdarena, (decr.) 26 ottobre 1987, in Dir. lav., 1991, II, 373, con nota di A. FONTANA, Lavoro fra conviventi more uxorio: cambia l’orientamento della giurisprudenza?; risultava invece ancorata al pregiudizio della presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative svolte in seno alla famiglia di fatto Cass., 17 febbraio 1988, n. 1701, in Foro it., 1988, I, 2306 ss., con nota di E. CALÒ, La giurisprudenza come scienza inesatta (in tema di prestazioni lavorative in seno alla famiglia di fatto) e in Inform. prev., 1988, 1699 ss.; da ultimo, ma con qualche attenuazione, Cass., 16 giugno 2015, n. 12433, cit. e Cass., 29 settembre 2015, n. 19304, cit.

[23] In tal direzione Cass., 17 luglio 1979, n. 421, cit., che, pur prospettando l’analogia tra famiglia fondata sul matrimonio e convivenza more uxorio, non proponeva (in quest’ultima ipotesi) l’applicazione analogica dell’art. 230-bis c.c.; conformemente Cass., 13 dicembre 1986, n. 7486, cit.; P. Sampierdarena, 26 ottobre 1987, cit.

[24] Questa la posizione di V. COLUSSI, Impresa familiare, cit., 179 e T. AULETTA, Il diritto di famiglia, cit., 195; diversamente F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, IV, cit., 141, nt. 66.

[25] Sul tratto distintivo (insieme ad altri) della stabile convivenza in ordine alla riconoscibilità della famiglia di fatto, in precedenza, T. AULETTA, Il diritto di famiglia, cit., 12 ss.; ID., Diritto di famiglia, cit., 18 ss., richiamandosi all’intervenuto riconoscimento giuridico della convivenza; a questo elemento tradizionalmente se ne aggiunge un altro, rappresentato, come peraltro già evidenziato in precedenza in testo, dall’affectio, secondo la completa ricostruzione, anche in ordine ai riferimenti normativi sull’affermata rilevanza della famiglia di fatto, offerta da L. BALESTRA, L’impresa familiare, cit., 170 ss. e spec. 175 ss.

[26] Per questa soluzione Cass., 29 novembre 2004, n. 22405, cit.; in precedenza, già Cass., 2 maggio 1994, n. 4204, cit.

[27] L. BALESTRA, L’impresa familiare, cit., 202 ss.; ID., Attività d’impresa, cit., 211 ss.; C.M. BIANCA, Diritto civile, 2, Milano, 1993 (rist.), 371 ss.; ID., La famiglia, Milano, 2005, 501; F. PROSPERI, Impresa familiare, cit., 145 ss.

[28] In tal senso, da ultimo, F. PROSPERI, Impresa familiare, cit., 152 ss.

[29] A. BELFIORE, L’interpretazione della legge. L’analogia, in Studium iuris, 2008, 427, con riguardo, in termini generali, ai requisiti e ai limiti del procedimento analogico, anche in ordine al divieto di estensione analogica delle norme eccezionali.

[30] Il riferimento è ad A. BELFIORE, L’interpretazione della legge, cit., 429 ss.

[31] A. BELFIORE, L’interpretazione della legge, cit., 430.

[32] Cass., 2 maggio 1994, n. 4204, cit., 1938, 850 e 280.

[33] Il richiamo è alla decisione di Corte cost., 27 marzo 2009, n. 86, in Dir. prat. lav., 2009, 1024 ss., che ha escluso la fondatezza della questione di legittimità costituzionale della disposizione la quale prevede, in caso di decesso del lavoratore per infortunio, una rendita a favore del coniuge superstite nella misura del cinquanta per cento della retribuzione percepita dal lavoratore medesimo, senza invece garantire alcunché al convivente more uxorio.

[34] T. AULETTA, Il diritto di famiglia, cit., 195; similmente, già in precedenza, ID., Collaborazione del familiare, cit., 280.

[35] In tal senso F. GAZZONI, Dal concubinato, cit., 69 ss.; M.C. ANDRINI, Impresa familiare, cit., 211 ss.; sulla opportunità di un approfondimento del tema, a fronte della lettera della legge che induce ad escludere la presenza di un’impresa familiare fra conviventi, F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, IV, cit., 141, nt. 66.

[36] Sul punto V. COLUSSI, Impresa familiare, in Digesto comm., cit., 179; analogamente, in precedenza, E. PROTETTĺ, L’impresa familiare tra conviventi more uxorio, in Soc., 1985, 475, rilevando la necessità, per potere aderire ad una soluzione differente, di una modifica legislativa dell’art. 230-bis c.c. che estenda al convivente (more uxorio) la tutela assicurata al coniuge, così come previsto da una (non più recente) proposta di legge dallo stesso Autore richiamata; più cauta, sia pure con riferimento a possibili forme di tutela alternativa, la posizione di V. PANUCCIO, Impresa familiare, cit., 680.

[37] Il riferimento è alla prevalente giurisprudenza, sia di merito sia di legittimità, già citata alla nota 18.

[38] Favorevolmente L. BALESTRA, L’impresa familiare, cit., 202 ss.; ID., Attività d’impresa, cit., 211 ss.; C.M. BIANCA, Diritto civile, 2, cit., 371 ss.; ID., La famiglia, cit., 501; F. PROSPERI, Impresa familiare, cit., 145 ss.

[39] In questo senso F. PROSPERI, Impresa familiare, cit., 152 ss.

[40] Possono richiamarsi in questa direzione Corte cost., 7 aprile 1988, n. 404, in Giur. it., 1988, I, 1, 1627 ss., con nota di A. TRABUCCHI, Il diritto ad abitare la casa d’altri riconosciuto a chi non ha diritti!; nonché Corte cost., 6 luglio 1994, n. 281, in Fam. e dir., 1994, 485 ss., con nota di M. DOGLIOTTI, Adozione dei minori e famiglia di fatto, con riferimento alla originaria previsione (in tema di adozione) dell’art. 6, comma 1 legge 4 maggio 1983, n. 184, in merito alla (ritenuta) rilevanza del periodo di convivenza prematrimoniale ai fini del computo del termine triennale previsto per i coniugi adottanti; proprio rispetto a quest’ultimo ordine di problemi la riforma della relativa disciplina (operata dalla legge 28 marzo 2001, n. 149) ha provveduto a formalizzare normativamente le indicazioni del giudice delle leggi e così il nuovo testo dispone che «Il requisito della stabilità del rapporto di cui al comma 1 può ritenersi realizzato anche quando i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della convivenza, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto» (art. 6, comma 4 l. n. 184 del 1983). Il principio della non irrilevanza del rapporto di fatto era stato in precedenza espresso da Corte cost., 13 novembre 1986, n. 237, in Foro it., 1987, I, 2353 ss. e in Giur. it., 1987, I, 1, 1960 ss., che rimanda a propri precedenti richiami in tale direzione.

[41] Tra i principali indici legislativi possono ricordarsi: art. 560 c.p.; artt. 261 e 317-bis c.c.; artt. 2, 29, 30 Cost.; art. 16 Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (10 dicembre 1948); art. 30 legge 26 luglio 1975, n. 354, recante norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà; art. 1 legge 29 luglio 1975, n. 405, in ordine all’istituzione dei consultori familiari; artt. 2, comma 1 e 44, comma 3 legge n. 184 del 1983, in tema di diritto del minore ad una famiglia – come sostituiti, rispettivamente, dagli artt. 2, comma 2 e 25 l. n. 149 del 2001 –, nonché art. 6, comma 4 l. n. 184 del 1983, come sostituito dall’art. 7 l. n. 149 del 2001; art. 199, comma 3, lett. a) c.p.p.; art. 3 legge 1 aprile 1999, n. 91, contenente norme sui trapianti; art. 408 c.c., così come introdotto dall’art. 3, comma 1 legge 9 gennaio 2004, n. 6, istitutiva dell’amministrazione di sostegno; art. 5 legge 19 febbraio 2004, n. 40, in materia di procreazione medicalmente assistita. Si tratta, in buona sostanza, di disposizioni che fanno riferimento, più specificamente, alla tutela di posizioni individuali e non dell’aggregato relazionale (parafamiliare) in quanto tale (con esclusione, probabilmente, dell’art. 5 l. n. 40 del 2004), in funzione della soddisfazione di particolari esigenze di carattere settoriale.

[42] Il riferimento è a Cass., 15 marzo 2012, n. 4184, in Giust. civ., 2012, I, 1691 ss., con nota di F. CHIOVINI – M. WINKLER, Dopo la Consulta e la Corte di Strasburgo, anche la Cassazione riconosce i diritti delle coppie omosessuali e in Fam. e dir., 2012, 665 ss., con nota di M. GATTUSO, ”Matrimonio”, “famiglia” e orientamento sessuale: la Cassazione recepisce la “doppia svolta” della Corte europea dei diritti dell’uomo.

[43] L. GHIDONI, Unione civile e impresa familiare: la disarmonia di una mera estensione normativa, in Fam. e dir., 2017, 703; non può altresì trascurarsi che la stessa tecnica legislativa utilizzata determini anche qualche singolare inconveniente, come rilevato da T. LAMEDICA, Unioni civili e impresa familiare: il problema è riuscire a capire la legge, in Corr. trib., 2016, 3196, a proposito della non riferibilità alle parti dell’unione civile, in quanto persone dello stesso sesso, del disposto contenuto nell’art. 230-bis, comma 2 c.c. ai cui sensi il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo.

[44] Di scelta legislativa non convincente discute T. AULETTA, Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio: evoluzione o morte della famiglia?, in Nuove leggi civ. comm., 2016, 383 ss., rilevando che «come il coniuge diviene affine dei parenti dell’altro, non vi era ragione per precludere analogo effetto riguardo ai parenti del partner dell’unione civile, principio ormai espresso dall’art. 74 c.c. a proposito della parentela naturale» (384); G. FERRANDO, La disciplina dell’atto. Gli effetti: diritti e doveri, in Fam. e dir., 2016, 891 ss., ritiene discutibile in punto di ragionevolezza la mancata considerazione del legame di affinità; in termini differenti E. QUADRI, Unioni civili: disciplina del rapporto, in Modelli familiari e nuovo diritto, Atti del Convegno Padova, 7-8 ottobre 2016, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 1694 ss., il quale assegna all’omissione in questione una precisa volontà in tal senso, escludendo pertanto l’inconsapevolezza e/o la sciatteria normativa ma, altresì, qualsiasi possibile sopravvalutazione di tale indubbia differenziazione rispetto agli effetti del matrimonio, interrogandosi piuttosto se, considerata l’ormai datato significato storico da attribuire all’affinità rispetto all’assetto matrimoniale, tale «scelta – anche se probabilmente senza averne una precisa intenzione – non abbia fatto qui emergere, nel regolamentare la valenza sociale dell’unione affettiva tra due persone, una possibile linea di tendenza evolutiva dell’ordinamento conforme alle dinamiche esistenziali in atto»; anche M. SESTA, Unione civile e convivenze: dall’unicità alla pluralità dei legami di coppia, in Giur. it., 2016, 1795, sembra essere dell’idea che la soluzione normativa sia il frutto di una voluta (e condivisibile) differenziazione (in questo come in altri casi) dell’unione civile, in termini effettuali, rispetto al matrimonio; evidenzia il silenzio sul punto M. VENUTI, La regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e delle convivenze in Italia, in Politica dir., 2016, 104.

[45] Si tratta della posizione di L. GHIDONI, Unione civile e impresa familiare, cit., 703 s. 

[46] Valga per tutte, ma senza alcuna pretesa di esaustività, oltre alla denegata possibilità del ricorso all’adozione da parte degli uniti civilmente (art. 1, comma 20 l. n. 76 del 2016), che non possono peraltro neanche accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (art. 5 l. n. 40 del 2004), la mancata previsione degli obblighi di collaborazione e di fedeltà tra i doveri scaturenti ex lege dalla costituzione dell’unione civile (art. 1, comma 11 l. n. 76 del 2016). Tali distonie della regolamentazione dell’unione civile, rispetto al disegnato calco sulla disciplina del matrimonio quanto al versante del rapporto, vengono appropriatamente qualificate da M. VENUTI, La regolamentazione delle unioni civili, cit., 103, come defezioni non bagatellari, traducendo per l’appunto assenze di peso; diffusamente altresì, in chiave critica, G. DE CRISTOFARO, Le “unioni civili” fra coppie del medesimo sesso. Note critiche sulla disciplina contenuta nei commi 1°-34° dell’art. 1 della l. 20 maggio 2016, n. 76, integrata dal d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, in Nuove leggi civ., 2017, 101 ss. 

[47] Il richiamo è a M. SESTA, Unione civile e convivenze, cit., 1796; per R. CATERINA – L. LENTI, La famiglia, in Trattato Mazzamuto, Torino, 2022, 50, l’esclusione del vincolo di affinità costituirebbe il «corollario, molto forte, della scelta di sganciare da qualsiasi dimensione autenticamente familiare la fattispecie delle unioni civili».

[48] In tal senso M. SESTA, Unione civile e convivenze, cit., 1795. 

[49] Al riguardo L. GHIDONI, Unione civile e impresa familiare, cit., 704, adduce le ragioni di tutela che hanno presidiato l’introduzione dell’art. 230-bis c.c. e che, rispetto all’unione civile, verrebbero inevitabilmente frustrate laddove non potesse farsi valere il legame giuridico di affinità del partecipante all’impresa familiare. 

[50] In tal senso G. QUADRI, Le prestazioni di lavoro del convivente alla luce del nuovo art. 230-ter c.c., in Nuove leggi civ. comm., 2017, 590; similmente F. ROMEO, Impresa familiare e rapporti di convivenza: art. 230-bis c.c. versus art. 230-ter c.c., in Studium iuris, 2018, 289.

[51] Soluzione ritenuta più lineare da T. AULETTA, Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio, cit., 394 ss., a fronte di quella più tortuosa (e ritenuta ingiustificatamente discriminatoria) seguita dal legislatore; avvertita come più semplice da L. LENTI, Convivenze di fatto. Gli effetti: diritti e doveri, in Fam. e dir., 2016, 937, che ritiene non chiara la ragione della scelta normativa; similmente C. ROMANO, Unioni civili e convivenze di fatto: una prima lettura del testo normativo, in Notariato, 2016, 346; anche M. GORGONI, Le convivenze “di fatto” meritevoli di tutela e gli effetti legali, tra imperdonabili ritardi e persistenti perplessità, in M. Gorgoni (a cura di), Unioni civili e convivenze di fatto. L. 20 maggio 2016, n. 76, Santarcangelo di Romagna, 2016, 230, rileva che, ai fini di garantire i diritti del convivente il quale presta la propria opera nell’impresa dell’altro, sarebbe stato sufficiente estendere la nozione di familiare rilevante ex art. 230-bis c.c., includendovi appunto (anche) il convivente; in termini di auspicio, in precedenza E QUADRI, Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze: spunti di riflessione, in Giust. civ., 2016, I, 274; alla descrizione figurata di strada tortuosa ricorre F. ROMEO, Impresa familiare e rapporti di convivenza, cit., 295.

[52] In questi termini F. MACARIO, I contratti di convivenza tra forma e sostanza, in Contratti, 2017, 8; di riproduzione parziale discute C.M. BIANCA, Diritto civile, 2.1, Milano, 2017, 552.

[53] Il riferimento è a L. LENTI, Convivenze di fatto, cit., 937, che propone, per rimediare, l’integrazione per via interpretativa, ricorrendo alle regole (non riprodotte) contenute nell’art. 230-bis, commi 2, 4 e 5 c.c.

[54] G. QUADRI, Le prestazioni di lavoro del convivente, cit., 602; plurime, ad avviso di M. TOLA, Famiglia, famiglie e discriminazioni nell’impresa familiare, in Nuova giur. civ. comm., 2017, 892 ss., le discriminatorie disparità sussistenti tra l’impresa familiare di fatto e l’impresa familiare istituzionale; ritiene la scelta discriminatoria (e poco garantista) anche F. ROMEO, Impresa familiare e rapporti di convivenza, cit., 295, a motivo della più limitata tutela riservata al convivente rispetto a quella prevista a favore degli altri familiari; similmente L. CUCINOTTA, L’impresa familiare tra uniti civilmente e tra conviventi: profili critici nel dibattito per le uguaglianze, in F. ROMEO (a cura di), Nuovi modelli familiari e autonomia negoziale, Atti del Convegno (Enna, 16 giugno 2017), Napoli, 2018, 137 ss.; in precedenza, autorevolmente, T. AULETTA, Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio, cit., 395. 

[55] Ancora di recente, sia pure con qualche attenuazione, Cass., 16 giugno 2015, n. 12433, in Riv. it. dir. lav., 2016, II, 150 ss., con nota di R. VOZA, Lavoro domestico e presunzione di gratuità: non basta l’affetto e Cass., 29.9.2015, n. 19304, in Fam. e dir., 2016, 129 ss., con nota di G. OBERTO, Ancora sulla pretesa gratuità delle prestazioni lavorative subordinate rese dal convivente more uxorio.

[56] Questo lo scenario prefigurato da G. QUADRI, Le prestazioni di lavoro del convivente, cit., 625, al termine di un’accurata analisi della nuova fattispecie.

[57] C.M. BIANCA, Diritto civile, 2.1, cit., 552, richiamando la posizione assunta sul punto dalla giurisprudenza anteriormente all’introduzione della nuova disposizione codicistica; differentemente, sia pure ritenendo residuare qualche incertezza su talune specifiche tutele, G. QUADRI, Le prestazioni di lavoro del convivente, cit., 601, a cui avviso «La previsione di una disciplina specifica sembra porre fine … al dibattito sulla possibilità di applicare estensivamente o analogicamente l’art. 230-bis c.c. ai conviventi more uxorio».

[58] C.M. BIANCA, Diritto civile, 2.1, cit., 552.

[59] Spunti riassuntivi in G. QUADRI, Le prestazioni di lavoro del convivente, cit., 594 ss.; cenni anche in F. ROMEO, Impresa familiare e rapporti di convivenza, cit., 292. 

[60] Si tratta della posizione di C.M. BIANCA, Diritto civile, 2.1, cit., 552.

[61] Il rilievo è comune, quanto alla rilevata impostazione normativa, anche a G. QUADRI, Le prestazioni di lavoro del convivente, cit., 595, il quale ha altresì modo di ravvisare nella operata scelta legislativa la conferma della precedente interpretazione restrittiva dell’art. 230-bis c.c., «che richiede per la costituzione della fattispecie un rapporto familiare qualificato tra il collaboratore e l’imprenditore» (601); similmente F. ROMEO, Impresa familiare e rapporti di convivenza, cit., 295, che ritiene coerente (ma non condivisibile) la differenziazione operata, ravvisando la spiegazione della scelta effettuata «nella volontà (neanche tanto nascosta) del legislatore di porre “le convivenze di fatto” in una posizione di subalternità rispetto al modello familiare tradizionale fondato sul matrimonio».

[62] L. CUCINOTTA, L’impresa familiare tra uniti civilmente e tra conviventi, cit., 143.