Giuffré Editore

Introduzione

Nicolò Lipari

Emerito di Diritto privato Università di Roma “La Sapienza”


Chiamato a svolgere una funzione introduttiva analoga a quella odierna nel convegno di Roma del marzo 2017 sul contratto di affidamento fiduciario, mi sono preoccupato di delinearne le peculiarità in relazione al tradizionale modo di intendere il contratto atipico. Il contratto di affidamento fiduciario – che è una chiara, inequivoca creazione dottrinaria (grazie all’intuizione di Maurizio Lupoi), progressivamente acquisita all’esperienza giuridica per la lucida preveggenza di alcuni notai di avanguardia – non è riconducibile né al paradigma di cui all’art. 1322 cpv. c.c. (un paradigma rimasto praticamente per decenni senza ricadute giurisprudenziali), che infatti non risulta richiamato in nessuna delle vicende giudiziali in cui la figura è stata concretamente riconosciuta, né al modo di operare di quei contratti (come il leasing o il factoring) che si sono imposti in forza di una loro tipicità sociale, attesa la modesta percentuale dei casi che, nonostante il trend in tendenziale aumento, ancora risultano offerti all’esame dei nostri Tribunali.

Quando perciò la legge 22 giugno 2016, n. 112 ha dato per acquisito il contratto di affidamento fiduciario, considerandolo, in buona sostanza, come strumento alternativo al trust, si è realizzato un unicum nella nostra esperienza giuridica. Uno schema negoziale (impregiudicata qui la questione se si tratti di un tipo unico o di una pluralità di tipi, sia pure attraversati da un connotato comune) è stato legislativamente riconosciuto (escludendo quindi in capo al giudice un giudizio individuale di meritevolezza) indipendentemente da una definizione normativa e al di fuori di qualsiasi tipicità sociale.

Se oggi fosse ancora possibile una teoria generale del negozio giuridico (ma credo di avere dimostrato in altro luogo quanto sia paradossale una tale ipotesi), il contratto di affidamento fiduciario si collocherebbe in una posizione del tutto autonoma, certamente irriducibile alla logica classificatoria delle categorie ordinanti di cui alla nostra formazione universitaria.

A ciò di aggiunga che – al di là delle stesse intuizioni di chi lo ha proposto e coltivato come significativa valvola di apertura del nostro sistema giuridico – il contratto di affidamento fiduciario finisce per diventare esemplare testimonianza della necessità di superare, nella ricostruzione del fenomeno giuridico, le asfissianti strettoie dell’alternativa fatto-diritto. A suo tempo, occupandomi, in un contesto tutto diverso, del negozio fiduciario, avevo intuito che gran parte del problema stesse proprio nel modo di intendere questa alternativa. Oggi – ferme le differenze tra il negozio fiduciario della tradizione classica e il moderno contratto di affidamento fiduciario, sulle quali mi sembra superfluo ritornare – la nuova figura può davvero essere assunta ad esempio emblematico di quello che è stato, non a torto, definito il passaggio dalla modernità alla postmodernità giuridica.

Non è questa evidentemente la sede per svolgere più raffinate riflessioni di teoria generale, ma mi sembra evidente che la figura del contratto di affidamento fiduciario rompe il metodo oggettivante della filosofia teoretica che individuava nel diritto una sostanza definita, scolpita dal legislatore e acquisiva il fatto come un dato, anch’esso oggettivo, da accertare con il metodo delle scienze della natura. L’affidamento fiduciario va inesorabilmente valutato in chiave di principî e di valori con tutti i rischi e le incertezze che una simile prospettiva determina, assumendo il caso (al quale, non a torto, Viola riconnette il connotato della “legalità”) come una sorta di “camera di ibridazione” tra fatto e diritto (per riprendere qui una lucida immagine introdotta da Vogliotti). In altri termini la riflessione su questa figura dovrebbe averci insegnato – costringendoci ad abbandonare, una volta per tutte, il modello sillogistico che il dualismo fatto-diritto presupponeva – che il diritto non può essere assunto in una sua definita datità che debba essere, nella sua sostanza normativa, calata sui fatti, ma semmai come un complesso fenomeno che si viene storicamente determinando (che si fa) in relazione ai fatti. Di riflesso, anche il fatto non può essere accertato in una sua pretesa oggettività empirica, perché a sua volta si chiarisce all’esito di un processo ricostruttivo che è influenzato dalle finalità e dai valori del diritto inteso come esperienza.

In questa chiave sono stato fin dall’origine affascinato dalla figura del contratto di affidamento fiduciario: perché mi appariva quale esemplare paradigma del diritto del postmoderno, un diritto non più consegnato alla anelastica centralità di un contesto normativo, ma alle duttili capacità ricostruttive dell’operatore. A ben vedere, il multiforme schema del contratto di affidamento fiduciario fa evaporare il rigore di qualsiasi impalcatura granitica e sottopone la vicenda applicativa a quella erosione ermeneutica che nasce necessariamente dal basso e che impone un costante confronto con le categorie culturali di senso e di valore della società.

Il problema che oggi intendiamo porci – e al quale il convegno fiorentino intende offrire alcune possibili prospettive di soluzione – è se queste indicazioni siano integralmente riproducibili con riferimento all’affidamento fiduciario successorio e quindi di fonte testamentaria o se le vicende giudiziali fin qui emerse non impongano una lettura in chiave di fattispecie passando comunque attraverso l’interpretazione di alcune figure tipiche disciplinate dal codice.

In sostanza, l’affidamento fiduciario successorio si è fin qui espresso, nelle ricostruzioni che ne ha fatto la dottrina, come tentativo di lettura in chiave fiduciaria di figure tipiche disciplinate dal codice. Al di là dell’art. 627, già sottoposto ad analisi dai teorici del negozio fiduciario, l’art. 631 sulle disposizioni rimesse all’arbitrio del terzo, l’art. 632 sulla determinazione del legato per arbitrio altrui, gli artt. 664 e 665 sull’adempimento del legato di genere e sulla scelta nel legato alternativo, la stessa figura dell’esecutore testamentario.

Ciascuna di queste figure sarà, nel corso dell’incontro odierno, attentamente analizzata da alcuni dei maggiori esperti del settore e tutti certamente ne trarremo preziose indicazioni. Quel che mi preme qui rilevare, in chiave di inquadramento ricostruttivo, è che la fiduciarietà di fonte testamentaria si presenta in termini qualitativamente diversi rispetto a quella di fonte contrattuale. Quest’ultima, come abbiamo detto, nasce da una spinta della prassi e della cultura giuridica ed è diretta a disciplinare interessi, ad attuare valori che rimarrebbero altrimenti senza tutela nel contesto dell’ordinamento. L’affidamento fiduciario di natura testamentaria, in funzione dell’asserita esclusività della fonte per la disciplina dei rapporti successori mortis causa, si qualifica invece come inquadramento classificatorio di fattispecie testualmente disciplinate e che si ritiene opportuno ricondurre ad un unico parametro individuante. In sostanza, a mio giudizio, mentre, introducendo la figura del contratto di affidamento fiduciario, la dottrina (e, sulla sua scia, una sempre meno timida giurisprudenza) ha compiuto un’opera di carattere radicalmente innovatore, riconducendo invece sotto l’ombrello unificante della fiduciarietà una serie di fattispecie tipiche testualmente codificate, essa finisce per collocarsi ancora nel solco della tradizione. Mentre la prima prospettiva sembra muoversi nell’alveo di quella che è stata chiamata la costituzionalizzazione del diritto, facendo dei giudizi di valore e della giustificazione che essi inevitabilmente implicano un presupposto della stessa individuazione della regola (e non a caso il riconoscimento normativo è avvenuto dopo e, a ben vedere, solo per implicito), la seconda si muove nell’alveo tradizionale della fattispecie, pur con il corredo di raffinate specificazioni suggerite dalla fantasia della prassi.

Mi domando se non sia arrivato il momento di compiere anche qui un radicale salto qualitativo, assumendo la figura dell’affidamento fiduciario come una sorta di grimaldello per forzare, anche in materia successoria, antiche sedimentate strutture concettuali.

Senza necessità di riesumare la figura del mandato post-mortem, della quale è stata tradizionalmente negata l’ammissibilità, sul presupposto che non potrebbe formarsi il consenso essendo morto il conferente nel momento in cui potrebbe manifestarsi l’accettazione del mandatario, io credo che quel processo di costituzionalizzazione del diritto nel segno del principio di ragionevolezza, che ha ormai significativamente inciso – nonostante talune perduranti resistenze – sulla teoria del contratto, debba progressivamente estendersi anche al territorio delle successioni mortis causa, rompendo la radicata convinzione secondo la quale questo settore dei rapporti privati risulterebbe chiuso ad ogni possibilità di rilettura in chiave evolutiva.

Nonostante la sconfinata letteratura che si è formata – riflesso di un nuovo modo di porsi delle relazioni economiche fra le generazioni – sulla molteplicità degli strumenti che oggi si offrono quale alternativa al testamento nella trasmissione della ricchezza, rimane ancora scoperto l’ampio territorio di quei rapporti in cui i profili di ordine patrimoniale si saldano con peculiari condizioni del potenziale beneficiario, che esigono una mediazione ulteriore, legata alle contingenze e quindi non sempre valutabile al momento dell’atto dispositivo.

Ho già avuto modo di riflettere sul fatto che, essendo radicalmente mutato il modo di intendere la proprietà e la famiglia, che sono i pilastri su cui si fonda l’antico edificio successorio, dovremo cominciare a porci (così come fin qui non è stato fatto) il problema di una rilettura anche del secondo libro del codice civile alla luce dei principî costituzionali, vincendo la resistenza di quanti guardano ancora con preoccupazione a quello che è stato definito, nella prospettiva del postmoderno, il passaggio dalla stagione della legge a quella dell’uomo di legge. Non dimentichiamo che Paolo Grossi (che pure è stato al vertice di quella Corte che la vulgata definisce “giudice delle leggi”) ha parlato di “arbitrarietà della legge”, definendola una sorta di «materiale inerte capace di diventare diritto (cioè esperienza giuridica, cioè vita quotidiana giuridicamente vissuta) unicamente in forza dell’interpretazione-applicazione», intesa come «circostanza intrinseca alla norma e sua condizione di validità». Dobbiamo abituarci a sostituire ad un diritto che ci veniva consegnato in una sua prefabbricata struttura alla quale era necessario adeguarsi, un diritto che si presenta semmai come “progetto” che dobbiamo in qualche misura contribuire a realizzare. Io credo che una riflessione sull’affidamento fiduciario di tipo successorio possa essere da questo punto di vista preziosa.

A ben vedere, la teoria del negozio accostava contratto e testamento nell’ottica di un comune denominatore volontaristico che oggi ci appare assolutamente evanescente nel momento in cui abbiamo visto evaporare quella teoria che pure la nostra stagione universitaria aveva assunto a pilastro del nostro programma formativo. Per quanto riguarda il contratto, la dottrina e soprattutto la giurisprudenza si sono ormai liberate dalle sedimentazioni riassunte nella formula di Fouillet “qui dit contractuel dit juste” e, in vista del perseguimento di un risultato di giustizia costituzionalmente garantito, si è ormai giunti ad ammettere il potere di intervento del giudice sul contenuto di un contratto pur liberamente pattuito. Non altrettanto è avvenuto per il testamento, in forza del duplice condizionamento che discendeva da un lato dalla sua irripetibilità, vista la morte del testatore, dall’altro dalla radicata convinzione (entro la quale si annidano i sintomi dell’ideologia) secondo la quale nel sistema del codice si realizza un equilibrio tra l’affermazione della libertà di testare, quale espressione della più generale libertà del soggetto, e il principio di equilibrio delle aspettative che si traduce nell’eguaglianza dei successibili e nella quota di riserva.

In sostanza, salva la tutela del legittimario (peraltro già puntualmente disciplinata e composta), il principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., che ormai pacificamente si ritiene criterio di ridimensionamento del contenuto del contratto, al di là della pattuizione concordata, non ha in alcun modo influenzato la disciplina della successione mortis causa. In altri termini, rispetto all’originario impianto codicistico, i due connotati caratterizzanti il diritto civile del postmoderno, la sua costituzionalizzazione e la sua giurisdizionalizzazione, hanno inciso in maniera diretta ed evidente sulla teoria del contratto mentre non hanno in alcun modo sfiorato quella del testamento. Mi domando se una riflessione di quadro sull’affidamento fiduciario successorio non possa essere una preziosa occasione per un simile salto di qualità.

Oggi non ha più senso ripercorrere l’itinerario (sul quale mi avventurai in anni lontani) di uno svincolamento della teoria del testamento da quella teoria del contratto che era stata costruita nel segno della comune negozialità. Oggi non siamo più nella stagione delle simmetrie concettuali, ma semmai in quella in cui occorre valorizzare le differenze fino al punto di riconoscere la forza precettiva del singolo caso. Riflettendo su questa tematica in un convegno della Sisdic di qualche anno fa, mi domandavo se non sia giunto il momento perchè la cultura giuridica, rompendo le sedimentazioni di una radicata tradizione, cominci a riflettere – così dicevo – sulla necessità di coniugare il contratto con la trasmissione dei beni mortis causa. L’ottica dell’affidamento fiduciario successorio, laddove venga inteso non semplicemente come figura riassuntiva di figure tipizzate, può risultare a mio giudizio preziosa per porre le premesse di una costruzione innovativa.

Mi sembra debba essere segnalato il fatto che il nostro ordinamento giuridico, essendo divenuta sempre più evidente la progressiva inadeguatezza dello strumento testamentario per regolare la vicenda successoria che si apre con la morte di una persona, pur senza ancora nulla direttamente mutuare dalla tradizione germanica che fra i titoli della vocazione pone anche il contratto ereditario, cominci a fare i conti con vicende contrattuali incidenti sugli effetti attributivi mortis causa. Un primo segno si è avuto con la riforma delle società di capitali (d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), che ha introdotto regole per il trasferimento delle partecipazioni societarie in funzione successoria nell’ambito del più generale problema dei vincoli convenzionali alla circolazione delle partecipazioni societarie. Le nuove disposizioni di cui agli artt. 2355-bis, comma 3 c.c., per le società per azioni, e 2469, comma 2 c.c., per le società a responsabilità limitata, legittimano a fini ereditari patti successori istitutivi. Meno limpido il problema qualificativo del c. d. patto di famiglia introdotto, con una novella al codice (artt. 768-bis e ss.), dalla legge 14 febbraio 2006, n. 55, la cui incidenza sul nostro tessuto normativo è stata ritenuta tanto drastica quanto superficiale ed approssimativa. Ho visto che un recente disegno di legge recante delega al Governo per la revisione del codice civile prevede la possibilità di «consentire la stipulazione di patti sulle successioni future» in qualche modo generalizzando un effetto che gli affidamenti fiduciari di tipo successorio avevano prefigurato.

In conclusione, senza interferire sulla puntuale analisi delle figure che saranno illustrate nelle relazioni che seguiranno, mi è sembrato opportuno segnalare in limine la forza innovativa che può essere assegnata all’affidamento fiduciario successorio quale possibile grimaldello per scardinare alcune consolidate acquisizioni della tradizionale dottrina sulle successioni di fonte testamentaria. Se – come io credo non possa essere seriamente contestato – il diritto del postmoderno assegna un ruolo del tutto nuovo all’operatore pratico, quale che sia la funzione che egli è chiamato a svolgere, è necessario che ciascuno di noi che fa professione del diritto si carichi di responsabilità impreviste, cominci ad intendere che non è più chiamato a decodificare dati normativi secondo criteri di lettura tratti dal sistema dei testi, ma piuttosto a tessere relazioni tra una serie di indici sempre nuovi, in massima parte traibili dalla fantasia dell’esperienza e dalle novità della storia. Avventuriamoci con coraggio lungo questa strada. Noi professori abbandonando i paradigmi di una didattica tutta intrisa della ipostasi del positivismo, voi notai dimostrando che, nell’ottica di un diritto che si fa costantemente entro il quadro dei principî costituzionali, siete ormai consapevoli che la vostra funzione non è semplicemente quella di offrire alle parti il linguaggio del diritto, ma semmai quella di indirizzarle a perseguire i loro interessi nell’ottica di principî costituzionali che si impongono allo stesso legislatore. Ci accompagna – viatico di speranza per i meno coraggiosi – l’ammonimento di Schopenhauer secondo il quale la verità nasce come paradosso anche se è destinata a morire come ovvietà.