Giuffré Editore

La decisione degli amministratori di accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza e il ruolo dei soci

Gian Domenico Mosco

Ordinario di Diritto commerciale, Università Luiss Guido Carli



Il d.lgs. 17 giugno 2022, n. 83, l’ultimo correttivo del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (di seguito, anche Codice), sembra aver compiuto un passo decisivo nella configurazione nel diritto positivo concorsuale di quel “diritto societario della crisi” – inteso come regole speciali di governance delle società in stato di crisi, anche nella fase di assoggettamento a procedure volte alla sua soluzione – in precedenza ricostruito soprattutto in via interpretativa sulla base di poche disposizioni del codice civile e della vecchia legge fallimentare.

Il d.lgs. n. 83 del 2022 ha infatti inserito all’interno del Codice una nuova sezione VI-bis che già dalla rubrica (“Degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle società”) si presenta come un microsistema normativo. Sezione che si apre con l’art. 120-bis, il quale al comma 1 statuisce: «l’accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza è deciso, in via esclusiva, dagli amministratori unitamente al contenuto della proposta e alle condizioni del piano. La decisione deve risultare da verbale redatto da notaio ed è depositata e iscritta nel registro delle imprese. La domanda di accesso è sottoscritta da coloro che hanno la rappresentanza della società». Per poi precisare al comma 2 che «ai fini del buon esito della ristrutturazione» il piano «può prevedere qualsiasi modificazione dello statuto della società debitrice, ivi inclusi aumenti e riduzioni di capitale anche con limitazione o esclusione del diritto di opzione e altre modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci, nonché fusioni, scissioni e trasformazioni».

Si tratta di un passo di grande rilievo e che, però, non può far dimenticare che nel 2019 il Codice, nei principi generali e nella parte seconda, era intervenuto per modificare il diritto societario e ancor prima quello dell’impresa dettando regole organizzative applicabili non perché sussiste uno stato di crisi o d’insolvenza, ma per prevenirlo e rilevarlo tempestivamente. 

Dunque, un diritto societario della crisi, ma ancor prima un diritto societario per la crisi.

Riflettere sull’art. 120-bis e sulla nuova “competenza esclusiva” degli amministratori offre pertanto l’occasione per domandarsi se si può parlare di un diritto societario che, nell’ormai acquisita consapevolezza che crisi e insolvenza fanno parte dei possibili esiti di ogni iniziativa imprenditoriale, possa essere semplicemente un diritto societario che include la crisi, con regole “speciali” quando questa si manifesta, ma complessivamente pensato anche in sua funzione, quindi nei limiti del possibile da “leggere” e interpretare unitariamente.

L’art. 120-bis attribuisce agli amministratori in via esclusiva:

(i) le scelte relative a quando reagire alla crisi e attraverso quale strumento di regolazione;

(ii) l’individuazione del contenuto della proposta e delle condizioni del piano;

(iii) la possibilità, per il buon esito della ristrutturazione, che il piano preveda qualsiasi modificazione dello statuto, compresi «aumenti e riduzioni di capitale anche con limitazione o esclusione del diritto di opzione e altre modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci, nonché fusioni, scissioni e trasformazioni».

La riserva in favore degli amministratori della competenza esclusiva in relazione all’an e al quomodo della reazione alla crisi appare dunque coerente con quella, altrettanto esclusiva e inserita nello stesso codice civile, relativa al dotare le società e in genere gli enti imprenditoriali di assetti adeguati alla tempestiva rilevazione della crisi. E l’una e l’altra costituiscono pur sempre atti di gestione dell’impresa che in tutti gli enti e le società, comprese quelle personali, competono in via generale solo o anche agli amministratori, si può dire in ogni contesto anzi tutto a loro. 

Certo, in questo caso si tratta di atti che hanno anche o soltanto contenuto organizzativo, con gli amministratori che con riguardo agli assetti e alla loro adeguatezza sono chiamati a completare le regole fondamentali di corporate governance dettate dai soci definendo prioritariamente, in raccordo con queste, la cornice e i contenuti dell’internal governance, ormai altrettanto fondamentali.

Con la crisi, nondimeno, la gestione si caratterizza per uno spostamento dei doveri fiduciari degli amministratori dai soci ai creditori che trova fondamento nel recepimento delle previsioni della direttiva Insolvency da parte del Codice, che già nel suo testo originario si riferiva all’art. 4, lett. c), a una gestione dell’impresa durante i procedimenti «nell’interesse prioritario dei creditori». Richiamo che il d. lgs n. 83 ha mantenuto  aggiungendo però una clausola di salvezza relativa a «quanto previsto dagli articoli 16, comma 4, e 21», le cui disposizioni, anch’esse introdotte a opera del Correttivo del 2022, oggi indicano piuttosto uno scivolamento progressivo dei doveri fiduciari dai soci ai creditori, iniziando a manifestarsi in termini attenuati con la composizione negoziata della crisi, durante la quale il debitore, che continua a gestire l’impresa, deve astenersi dal «pregiudicare ingiustamente gli interessi dei creditori» (art. 16, comma 4). Per poi rafforzarsi quando la crisi è conclamata, allorché l’impresa va gestita «in modo da evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività» (art. 21, comma 1, primo periodo). Fino a porre i soci in una posizione del tutto subalterna quando l’imprenditore diventa insolvente e la gestione deve essere in tutto orientata a tutelare il “prevalente interesse dei creditori» (art. 21, comma 1, secondo periodo). 

Sono previsioni normative che, in ogni caso, danno da noi fondamento positivo alla teoria dello shift of fiduciary duties. Teoria il cui rilievo e i cui effetti sono documentati empiricamente da un’ampia letteratura di law and finance e che ha di recente trovato sostegno in una decisione della corte suprema inglese del 5 ottobre 2022 nel giudizio BTI 2014 LLC (Appellant) v Sequana SA and others (Respondents). Il dibattito sul possibile rilievo della teoria anche in Italia appare dunque superato dalle scelte normative del Codice, che pongono in secondo piano il suo controverso presupposto relativo all’assegnazione della posizione di residual claimants ai creditori in luogo dei soci. 

I doveri fiduciari verso i creditori potrebbero interessare, fuori dal cerchio delle competenze esclusive riservate agli amministratori,  anche gli stessi soci se e quando – come è normale almeno nelle società di persone e nella Srl – co-gestiscono l’impresa, considerato che i doveri indicati dal Codice riguardano il debitore/imprenditore (la direttiva Insolvency fa invece riferimento ai “dirigenti”), dunque gli enti e le società come tali, e che sembra possano concernere chiunque ha nell’organizzazione competenze di gestione, senza una limitazione aprioristica ai soli amministratori.

Non si può valutare correttamente la portata dei primi due commi dell’art. 120-bis senza considerare la disciplina dell’«esecuzione» dello strumento regolatorio contenuta nell’art. 120-quinquies del Codice, che con loro si combina sistematicamente tanto più perché e per come regola contenuto ed effetti del provvedimento di omologazione.

In particolare, il primo comma dell’art. 120-quinquies dispone che «il provvedimento di omologazione dello strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza determina la riduzione e l'aumento del capitale e le altre modificazioni statutarie nei termini previsti dal piano, demanda agli amministratori l’adozione di ogni atto necessario a darvi esecuzione e li autorizza a porre in essere, nei successivi trenta giorni o nel diverso termine previsto dal piano, le ulteriori modificazioni statutarie programmate dal piano».

La disposizione ha un duplice rilievo.

Conferma, nella seconda parte, la centralità del ruolo degli amministratori anche con riguardo alla esecuzione di tutte le modifiche statutarie contenute o programmate nel piano, per le prime chiarendo che è comunque necessario il loro coinvolgimento per l’adozione di ogni atto necessario per darvi esecuzione, nei termini che tra poco si dirà.

Allo stesso tempo, nella prima parte attribuisce al provvedimento di omologazione il compito di «determina[re] la riduzione e l’aumento di capitale e le altre modificazioni statutarie nei termini previsti dal piano». 

L’omologazione, ogni omologazione, dovrebbe comportare una mera valutazione del giudice di conformità alla legge, per quanto nel Codice, se si pensa all’omologazione del concordato preventivo ai sensi dell’art. 112, vi è anche, innegabilmente, qualcosa di più. Tuttavia, la previsione secondo la quale il provvedimento “determina” le modificazioni supera la tradizionale ricostruzione dei contenuti del controllo giudiziario, attribuendo al tribunale un ruolo in qualche modo attivo nel procedimento di modificazione statutaria, che va del resto oltre le stesse previsioni che l’art. 10 della direttiva Insolvency dedica all’omologazione.

Sembra, infatti, che “determinare” non possa che equivalere a individuare, fissare puntualmente, stabilire. Nella sostanza, a “decidere”, pur se – da escludere ogni portata costitutiva al provvedimento di omologazione, incompatibile con la sua natura – saranno comunque gli amministratori a porre in essere un’attività di trasfusione della decisione in atti endosocietari, ma un’attività dovuta e vincolata, dunque sostanzialmente ricognitiva e, per l’appunto, esecutiva. 

Questa ricostruzione è sostenuta in particolare dal comma 2 che, senza distinguere tra modificazioni determinate immediatamente o “programmate” chiama il notaio a compiere una verifica delle “condizioni stabilite dalla legge”. Compito che il notaio non può che svolgere allorché è chiamato a verbalizzare, nella forma dell’atto pubblico, l’atto corporativo di “esecuzione”, anzi tutto controllando l’esatta attuazione di quanto deciso dal tribunale. Ed è una ricostruzione confermata dalla possibilità che sia nominato, ancora una volta in ogni caso, dunque anche nell’ipotesi del comma 1, un amministratore giudiziario che agisca in luogo degli amministratori che non hanno provveduto e da quella che, ai sensi del comma 2, gli amministratori ricorrano al tribunale per superare l’esito negativo del controllo notarile.

A ogni modo, se è dunque il tribunale che determina le modifiche statutarie, è evidente che queste non possono essere già state decise dagli amministratori ai sensi dell’art. 120-bis del Codice.

In altri termini, la lettura congiunta dell’art. 120-bis e dell’art. 120-quinquies configura un meccanismo di coinvolgimento nelle modifiche sia degli amministratori sia del tribunale, con i primi che progettano e propongono le modifiche e il secondo che in sede di omologazione le valuta, per poi determinarle sostituendosi ex lege – lui e non gli amministratori – ai soci.

Il che, si badi, non nega il ruolo fondamentale degli amministratori, non solo perché a loro spetta la scelta delle modifiche, ma perché il tribunale può solo farle proprie (tutte, alcune, nessuna) ovvero rifiutare l’omologazione, non rivederle o sostituirle, secondo la logica di ogni provvedimento di omologazione e comunque secondo quanto espressamente previsto dallo stesso art. 120-quinquies, là dove vincola la decisione ai “termini previsti dal piano”, così circoscrivendo la determinazione del tribunale entro i confini tracciati dalla proposta degli amministratori.

In sostanza, il ruolo degli amministratori che predispongono il piano in sede di accesso allo strumento regolatorio e vi includono modifiche statutarie non sembra troppo dissimile da quello propositivo che ordinariamente assumono in direzione dell’assemblea straordinaria, e più ancora a quello che si verifica con riferimento alle operazioni di fusione e scissione che presuppongono una dialettica organo amministrativo/assemblea sulla base di un progetto presentato dai primi e una deliberazione della seconda che non può apportare modifiche al progetto che incidano sui diritti dei soci o dei terzi (art. 2502, comma 2, c.c.).

Emerge, dunque, un ruolo endo-societario dell’autorità giudiziaria che, nella dialettica libertà/autorità, risulta sbilanciata forse in modo come mai prima così netto a favore di quest’ultima, certamente se si ha riguardo all’omologazione delle modificazioni statutarie ai sensi dell’art. 2436 c.c., ma anche fuori delle stesse ipotesi di omologazione non trattandosi di una sostituzione per inerzia dell’organo, come per esempio nel caso dell’art. 2487, comma 2, c.c. con riguardo alla nomina dei liquidatori e alla luce dello stesso art. 2409 c.c., il quale prevede comunque che agli «opportuni provvedimenti» decisi dal tribunale si affianchi la convocazione dell’assemblea «per le conseguenti deliberazioni» ovvero, quando nei casi più gravi si arriva alla nomina di un amministratore giudiziario, dispone che questo prima del termine del suo incarico convochi l’assemblea per una delle decisioni indicate nel comma 6.

Va detto, però, che appare un’attribuzione preferibile allo spostamento della competenza a decidere le modificazioni statutarie sugli amministratori, posto che il tribunale deve valutarne in chiave giurisdizionale la ragionevolezza anche in termini di paralisi e sacrificio dei diritti dei soci in ragione delle modifiche statutarie, vagliando la strumentalità e la necessità della modifica statutaria rispetto al risultato della ristrutturazione finanziaria, specialmente ma non soltanto in caso di opposizione dei soci. E ciò sia in ragione dell’art. 12 della direttiva Insolvency sia attraverso una lettura costituzionalmente orientata alla luce dell’art. 41 e dell’art. 42 Cost. delle disposizioni del Codice e del loro concreto riflesso, alla luce delle proposte contenute nel piano, su questa paralisi e su questo sacrificio.

I soci, in ogni caso, assumono nel loro insieme la scomoda veste del convitato di pietra.

L’art. 120-quinquies, comma 1, non si limita a prevedere che l’omologazione determina le modificazioni statutarie previste dal piano, ma anche che il provvedimento “autorizza” gli amministratori a «porre in essere, nei successivi trenta giorni o nel diverso termine stabilito dal piano, le ulteriori modificazioni statutarie programmate dal piano».

La norma distingue così, nell’ambito delle modificazioni statutarie inserite nel piano, quelle la cui determinazione (e conseguente esecuzione) può – e per la loro importanza, come quelle sul capitale, deve – essere avviata immediatamente, da quelle da determinare successivamente secondo quanto “programmato” dal piano, ma che il tribunale non considera (anche solo opportuno) che siano subito “poste in essere”, pur autorizzando gli amministratori a provvedervi in seguito.

Indubbiamente, qui il ruolo degli amministratori assume un rilievo ancora maggiore, sia pure ancora sostanzialmente esecutivo. E dunque anche quello del notaio verbalizzante (ex art. 120-quinquies, comma 2) diviene più dedicato e complesso, ancora una volta a partire dalla valutazione della corretta adesione degli amministratori al provvedimento di omologazione.

Tra i commentatori è diffusa l’idea che l’espansione oltre misura ai sensi dell’art. 120-bis della competenza esclusiva degli amministratori impedirebbe qualsiasi interlocuzione – quanto meno, formale – tra amministratori e soci nel momento cruciale dell’accesso a uno strumento regolatorio.

Ne deriverebbe l’illegittimità di previsioni statutarie volte non soltanto, com’è certo, a riattribuire ai soci la competenza decisionale riservata dalla legge agli amministratori, ma anche a richiedere autorizzazioni dell’assemblea o dei soci o il loro intervento pur solo in chiave consultiva.

Va però ricordato che il principio di “competenza esclusiva” è stato introdotto all’interno del codice civile con la riforma del 2003 limitatamente alla SpA, nella quale riguarda la gestione dell’impresa, vale a dire l’intera attività volta alla concreta realizzazione dell’iniziativa imprenditoriale, che ai sensi dell’art. 2380-bis c.c. «spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale».

Nella SpA, la codificazione della regola organizzativa ha avuto la funzione di eliminare le possibili ingerenze dei soci nella gestione dell’impresa che erano espressamente legittimate dal vecchio art. 2364, comma 1, n. 4), c.c., che consentiva all’assemblea di deliberare «sugli altri oggetti attinenti alla gestione della società riservati alla sua competenza dall’atto costitutivo, o sottoposti al suo esame dagli amministratori». Disposizione che secondo i più assicurava flessibilità all’ordine legale delle competenze tra assemblea e amministratori.

Alla perentoria scelta del riformatore del 2003 ha dato forza concreta il nuovo numero 5 dell’art. 2364 c.c., il quale prevede che l’assemblea ordinaria deliberi «sugli altri oggetti attribuiti dalla legge alla competenza dell’assemblea, nonché sulle autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti degli amministratori, ferma in ogni caso la responsabilità di questi per gli atti compiuti» (art. 2364, comma 1, n. 5).

Si tratta infatti di un chiaro, per quanto implicito, divieto di trasferire statutariamente all’assemblea una frazione, più o meno ampia, di potere gestorio. Al tempo stesso, però, si dà il via libera all’introduzione nello statuto di autorizzazioni per atti dei quali gli amministratori restano (non a caso) responsabili.

Le autorizzazioni assembleari si caratterizzano infatti, come in passato ho avuto modo di scrivere, «in senso negativo, valendo a impedire l’esercizio di un potere da parte dell’organo al quale pure compete fino a quando l’autorizzante non l[e] renda», rimuovendo l’ostacolo giuridico rappresentato dall’autorizzazione all’esercizio del potere. Proprio in ragione di questa peculiare incidenza dell’autorizzazione – limitata al momento dell’esercizio del potere, senza estendersi alla sua titolarità – il n. 5) dell’art. 2364 c.c. non contempla alcuna eccezione alla regola organizzativa dell’art. 2380-bis c.c., ma, come si diceva, si pone semmai come norma che a quella regola dà attuazione e specificazione. Art. 2380-bis che sarebbe invece svuotato di contenuto se si attribuisse all’autorizzazione il significato di riserva parziale ai soci del potere decisionale o di vera e propria attribuzione a questi di un diritto di veto.

Se questo è vero nella SpA con riguardo alla codicistica attribuzione in via esclusiva all’organo amministrativo della gestione dell’impresa, anche la competenza esclusiva degli amministratori ex art. 120-bis (o quella relativa agli assetti o all’assunzione delle misure di prevenzione) non può, in linea di principio, essere di ostacolo alla legittimità di una clausola statutaria che preveda l’autorizzazione assembleare per l’accesso agli strumenti regolatori e alla formazione del relativo piano. 

Le possibili obiezioni non sembrano decisive.

In genere, si mette in relazione la riserva di competenza in favore degli amministratori sancita dai primi due commi dell’art. 120-bis con la configurazione dei soci come meri destinatari di un’informativa da effettuarsi solo dopo la scelta dello strumento e la presentazione del piano ai sensi del comma 3, anche alla luce delle altre disposizioni della sezione VI-bis che attribuiscono ai soci diritti analoghi a quelli dei creditori. E, soprattutto, si leggono le norme di entrambi i commi alla luce della dichiarata finalità della direttiva Insolvency di evitare l’ostruzionismo dei soci. 

Quanto a quest’ultimo profilo, perché assuma un rilievo decisivo l’autorizzazione dovrebbe riguardare non solo i rapporti interni alla società, ma anche quelli esterni. Se con riguardo ai primi le violazioni inerenti all’autorizzazione espongono gli amministratori sia a un’eventuale revoca successiva all’omologazione, in precedenza nella sostanza impedita dalla previsione del comma 4 dell’art. 120-bis, sia a un’azione di responsabilità, del resto in ogni caso altrimenti esperibile ricorrendone i presupposti; con riguardo ai secondi, almeno nelle società di capitali l’art. 2384, comma 2 rende inopponibili ai terzi, salvo il limite dell’exceptio doli, «le limitazioni ai poteri degli amministratori che risultano dallo statuto o da una decisione degli organi competenti», rendendo così irrilevanti i vizi del procedimento deliberativo derivanti da una previsione statutaria, tra i quali rientra certamente il difetto di preventiva autorizzazione assembleare ai sensi dell’art. 2364, comma 1, n. 5.

Il problema potrebbe invece porsi nelle società di persone, pur in termini meno gravi considerata la naturale coincidenza tra soci e amministratori, posto che la mancata autorizzazione va considerata opponibile ai terzi se la relativa clausola è stata iscritta nel registro delle imprese ex art. 2298 c.c. 

Con riferimento all’efficacia nei confronti dei terzi dell’atto compiuto dagli accomandatari in difetto o a seguito del diniego di autorizzazione da parte degli accomandanti prevista dallo statuto ex art. 2320 c.c., gli interpreti sono infatti sostanzialmente concordi nel ricondurre l’autorizzazione a una limitazione dei poteri rappresentativi degli amministratori. Anche se non va dimenticato come la giurisprudenza di legittimità (Cass., 10 agosto 1992, n. 9454) abbia statuito, in una pronuncia rimasta però isolata, che la clausola relativa all’autorizzazione o al parere degli accomandanti non incide sul potere rappresentativo degli amministratori, i quali sono responsabili soltanto nei rapporti interni in caso di inosservanza della clausola.

Rispetto all’altro profilo, l’informativa ex post non è incompatibile con l’introduzione statutaria di un’autorizzazione assembleare che recuperi un ruolo attivo dei soci nella fase immediatamente antecedente all’accesso allo strumento regolatorio, senza pregiudicare l’operato degli amministratori, che, come si diceva, possono procedervi almeno nelle società di capitali anche in caso di mancata autorizzazione da parte dei soci, ferma la loro “esclusiva responsabilità”.

Un coinvolgimento che, oltre a non essere vietato dalla normativa comunitaria, può essere opportuno per varie ragioni. Anzitutto, perché l’uscita dalla crisi non può che essere più probabile e agevole se i soci condividono le scelte degli amministratori, potendosi in tal caso anche orientare a investire nuovamente nell’attività di impresa per favorirne la prosecuzione, specie attraverso apporti e finanziamenti che beneficiano della prededucibilità sino all’80% se concessi in vista dell’omologazione o dell’esecuzione di un concordato preventivo o di accordi di ristrutturazione dei debiti.

Il dialogo soci-amministratori in sede di accesso a uno strumento di regolazione della crisi è poi più che opportuno al fine di predisporre un piano che ottenga il consenso anche della classe (o delle classi) dei soci, per evitare loro proposte concorrenti, per prevenire la loro opposizione all’omologazione. 

Se (con sicurezza nelle società di capitali e cooperative) la mancanza di autorizzazione rileva solo nei rapporti interni, (almeno in queste società) il notaio non sembra possa rifiutarsi di redigere il verbale dell’organo amministrativo appellandosi all’art. 28, comma 1, punto 1), della legge n. 89 del 1913, non trattandosi di un atto “espressamente proibito dalla legge” e risultando anzi normativamente tutelato l’interesse a evitare ostacoli o impedimenti irragionevoli nell’accedere a uno strumento di regolazione.

Il nuovo art. 120-bis del Codice cambia profondamente, in definitiva, il quadro dei poteri relativi a scelte, contenuti ed effetti dell’attivazione di uno strumento di regolazione della crisi, assumendo ora un ruolo di grande rilievo il tribunale, ancora maggiore di quello, comunque significativo, che con più immediata evidenza l’articolo attribuisce agli amministratori.

Alcune delle soluzioni proposte possono apparire meno piane di altre, anche con riguardo a possibilità e conseguenze di un’eventuale previsione statutaria di autorizzazione dei soci, che può recuperare un qualche spazio a questi ultimi senza ostacolare irragionevolmente il ricorso a uno strumento di regolazione. 

Si tratta, in ogni caso, di soluzioni da approfondire e da sottoporre alla verifica della pratica e dei tribunali. Nondimeno, parafrasando Elias Canetti nel suo La lingua salvata, ci si può almeno consolare illudendosi che se «i contrari saranno più numerosi, i favorevoli saranno più interessanti».