La dispensa dalla collazione: questioni notarili
La dispensa dalla collazione. Nozione e funzione
Il primo comma dell’art. 737 c.c., dopo aver sancito l’obbligo di collazione a carico dei figli e del coniuge, fa salva l’eventualità «che il defunto non li abbia da ciò dispensati».
La dispensa dalla collazione è una liberalità supplementare, rafforzativa di quella principale, contenuta nella donazione stessa o in un successivo testamento, con cui il donatario viene dispensato dall’obbligo di conferimento. Invero il codice attuale, a differenza di quello precedente che parlava di «donante o testatore», limita il riferimento al «defunto»; ma nessuno dubita che la dispensa possa essere, come peraltro avviene nella prassi notarile, espressa nel contratto di donazione: ciò è di particolare utilità quando il donante non abbia intenzione di far testamento perché preferisce affidare le proprie sostanze secondo i criteri della vocazione legale; si soddisfa, così, un’esigenza di economia di atti, giacché si evita che il donante si trovi costretto alla redazione di un testamento, che altrimenti non avrebbe stilato, al solo fine di sancire la dispensa.
Per effetto della dispensa «la successione si svolge, e la determinazione delle quote di eredità si attua, come se la donazione non fosse stata fatta e il bene, che ne fu l’oggetto, non fosse uscito dal patrimonio del de cuius a titolo liberale» [[1]]. Il fenomeno successorio, dunque, si svolgerà senza tener conto di quel trasferimento (salva la tutela dei legittimari), ed il bene donato non farà parte della massa ereditaria.
Dall’ammissione legislativa della dispensa dalla collazione, si ricava la derogabilità della disciplina della collazione, e quindi la possibilità di dar luogo ad una collazione “volontaria” [[2]].
Fermo che la dispensa può essere certamente contenuta sia nella donazione stessa sia in un testamento successivo, prevale l’idea che il donante possa dispensare dalla collazione, in epoca posteriore alla liberalità, anche attraverso un negozio inter vivos [[3]].
È ritenuta ammissibile una dispensa parziale dalla collazione, che limiti il valore da conferire a quello che il bene donato aveva al momento della donazione [[4]].
Il cpv. dell’art. 737 c.c., ribadendo anche in questo ambito la vigenza del principio di intangibilità della legittima, specifica che «la dispensa da collazione non produce effetto se non nei limiti della quota disponibile». La dispensa, quindi, non può pregiudicare i diritti dei legittimari lesi da una donazione il cui valore eccede (eventualmente sommato alla quota ereditaria destinata al donatario) la quota di patrimonio di cui il de cuius poteva disporre.
Il limite della quota disponibile è una naturale conseguenza dell’essere la dispensa una ulteriore liberalità, tramite la quale non si possono ledere gli altrui diritti di riserva. Il donante non può concedere al donatario di conservare definitivamente il bene, se il valore del dono eccede la parte di patrimonio di cui egli può liberamente disporre: la dispensa dalla collazione «è senz’altro tale da esonerare il donatario dall’obbligo di conferire i beni ricevuti, onde nei suoi confronti non è più a parlarsi di collazione. Ma la dispensa non è anche tale da sottrarlo agli effetti di una eventuale azione di riduzione che possa contro di lui esercitarsi dagli altri riservatari »[[5]].
Nel giudizio di riduzione, le donazioni elargite dal de cuius in favore dei legittimari, sono rilevanti sotto un duplice punto di vista: da un lato, ai fini del calcolo della legittima con il procedimento di riunione fittizia del relictum al donatum (al quale sono soggette tutte le liberalità fra vivi, chiunque sia il donatario); dall’altro, ai fini dell’imputazione ex se imposta dall’art. 564 c.c. al legittimario che agisce in riduzione, il quale, appunto, è tenuto ad imputare alla sua porzione legittima le donazioni a lui fatte senza dispensa dall’imputazione[[6]].
L’esclusione dell'obbligo di conferimento non si estende al valore dei miglioramenti e delle addizioni che il de cuius abbia apportato con proprio denaro ai beni dopo la donazione, in quanto tali miglioramenti e addizioni, essendo intervenuti quando i beni donati erano usciti dal patrimonio del de cuius ed erano entrati in quello del donatario, costituiscono delle vere e proprie donazioni indirette, in relazione alle quali l'obbligo della collazione viene meno solo in presenza di altra specifica dispensa relativa a detti miglioramenti e donazioni[[7]].
Come noto, l’idea prevalente ravvisa nella donazione ai soggetti di cui all’art. 737 c.c. un’anticipazione di eredità[[8]]. Ebbene, la dispensa garantisce in ogni momento al donante di smentire la presunzione secondo cui la liberalità sarebbe da lui intesa come acconto sulla quota ereditaria del congiunto. Per le donazioni fatte senza dispensa si potrà sostenere trattarsi di anticipazioni sull’eredità; ma con la precisazione che, poiché il donante ha, finché è in vita, la facoltà di disporre la dispensa, è solo al momento della sua morte che la presunzione si concreterà. Se il donante non dispensa il donatario nell’atto di donazione, pertanto, il donatario sa che all’apertura della successione quel bene o il suo valore dovrà essere restituito alla massa a meno che non sia subentrato, prima di allora, un atto successivo alla donazione, testamentario o tra vivi, col quale il donante dimostri di aver cambiato idea in ordine alla sorte del dono.
La dispensa come negozio mortis causa, autonomo, unilaterale e revocabile
Quando la dispensa è contenuta nel contratto di donazione, v’è contrasto tra giudici ed interpreti in ordine alla sua autonomia o alla sua accessorietà rispetto alla donazione medesima. La questione è di primaria importanza per la funzione notarile, perché è attraverso la sua soluzione che si risolve, anche, il problema della revocabilità o meno della dispensa contenuta nell’atto di donazione.
I giudici ravvisano nella dispensa una clausola accessoria, facendo leva sul fatto che il donante, tramite essa, non vuole due cose distinte, ma semplicemente attribuire attraverso un unico negozio (donazione con dispensa) un diritto che rimanga definitivamente acquisito al donatario[[9]].
Dal carattere accessorio della dispensa dipenderebbe la sua irrevocabilità senza il consenso anche del donatario qualora essa sia contenuta nella stessa donazione[[10]]. Parimenti, sarebbe irrevocabile la dispensa contenuta in un autonomo negozio inter vivos successivo alla donazione. Quando, invece, la dispensa sia contenuta in un testamento, essa «ne segue la disciplina e pertanto è revocabile mediante un atto successivo»[[11]].
La maggioranza degli studiosi, invece, propende per l’autonomia della dispensa, pur non obliterando il suo carattere di negozio (autonomo ma) collegato al negozio di donazione; detta autonomia deriverebbe sia dalla possibilità che sia contenuta in un atto separato dalla donazione com’è il testamento, sia dalla sua funzione mortis causa, che la distingue nettamente da un negozio tipicamente inter vivos come la donazione[[12]].
Sotto quest’ultimo aspetto, va notato che la dispensa dalla collazione rappresenta una deroga al principio secondo cui il solo negozio a causa di morte ammissibile è il testamento. Non v’è dubbio, infatti, che la dispensa, essendo diretta a regolare la successione ereditaria di chi la pone in essere, dev’essere considerata atto a causa di morte. Ne deriva che essa, se contenuta nella donazione (o in altro atto inter vivos posteriore), costituisce l’unico esempio (accanto alla dispensa dall’imputazione ex se) conosciuto dal nostro ordinamento di negozio a causa di morte a struttura inter vivos. Pertanto, la tradizionale affermazione del testamento come unico negozio a causa di morte ammesso dall’ordinamento va riconsiderata sulla base degli studi più recenti, che hanno evidenziato l’esistenza di negozi a causa di morte che non solo non si identificano con il testamento, ma hanno struttura inter vivos: la dispensa dalla collazione (ma anche la dispensa dall’imputazione) che siano contenute, anziché in un testamento, nella donazione o in un successivo negozio tra vivi posteriore alla donazione. È evidente che di questi atti la morte non costituisce soltanto l’occasione per la produzione degli effetti, ma la causa stessa[[13]].
Inoltre, la dispensa dalla collazione è necessariamente un atto unilaterale, sia quando sia racchiusa in un testamento sia quando risulti contestuale alla donazione, tant’è che la legge non prevede alcuna specifica accettazione del donatario[[14]].
Dall’autonomia della dispensa deriva il suo carattere revocabile.
Invero ciò non è pacifico, perché anche tra i sostenitori dell’autonomia della dispensa v’è chi crede si debba distinguere: sarebbe revocabile solo se discende da testamento o da altra dichiarazione unilaterale del donante, mentre se è stata oggetto di un contratto tra donante e donatario non potrebbe che dirsi irrevocabile, nel senso che solo con il consenso del donatario, e quindi per mutuo consenso, la dispensa potrebbe cessare di avere effetto (oltre che nei casi di revoca legale per ingratitudine o sopravvenienza di figli)[[15]].
Tuttavia, non pare corretto legare il tema della revocabilità al contesto documentale: anche se contenuta in un contratto tra vivi la dispensa rimane atto unilaterale autonomo e mantiene la sua peculiare funzione a causa di morte. Ciò trova conferma nell’acclarata impossibilità che la dispensa, quale negozio mortis causa, sia oggetto di contrattazione, seppure contenuta in un contratto[[16]]. Anche perché una tale contrattazione, se ammessa, affievolirebbe la spontaneità del negozio di liberalità, che è invece strutturato dall’ordinamento come un negozio che al donatario non lascia altro spazio che quello di accettare o rifiutare l’esito liberale[[17]]. Inoltre, se si attribuisse al donatario la facoltà di contrattare in ordine alla dispensabilità o meno della futura collazione, si rischierebbe, visto il carattere a causa di morte della dispensa, di contravvenire al divieto di delazione contrattuale (art. 458 c.c.).
Sebbene questo rischio sia stato smentito in alcuni arresti della Suprema Corte[[18]], il notaio cui è affidata la stipulazione dell’atto di donazione, che ha il dovere di non rogare atti nulli e deve comunque agire sempre in via prudenziale e in ossequio al suo ruolo antiprocessuale, dovrebbe avvisare le parti che l’apposizione della clausola in questione è di esclusiva spettanza e competenza del donante.
La dissolubilità del legame tra il tema della revocabilità o irrevocabilità della disposizione e la sede nella quale la disposizione è inserita è confermata anche nelle eccezionali ipotesi di disposizioni mortis causa irrevocabili[[19]]: si fa l’esempio della riabilitazione dell’indegno, che può essere contenuta, oltre che nel testamento, in un atto pubblico (art. 466 c.c.: «chi è incorso nell’indegnità è ammesso a succedere quando la persona, della cui successione si tratta, ve lo ha espressamente abilitato con atto pubblico o con testamento»)[[20]]. In questo caso, il sentimento di perdono è l’intima ragione che muove l’offeso alla riabilitazione, ma il mezzo tecnico è una dichiarazione che è vero e proprio atto di volontà, un negozio giuridico unilaterale, formale (atto pubblico o testamento), non recettizio, personale e, secondo la tesi preferibile, irrevocabile. Non si tratta di una mera dichiarazione di voler perdonare, ma di una dichiarazione formale di voler ammettere alla successione[[21]]: il contenuto dell’atto di riabilitazione consiste nella volontà di «abilitare» l’indegno «ammettendolo alla successione» dalla quale, altrimenti, resterebbe escluso. Orbene, ai sensi della norma ora citata, la riabilitazione può essere racchiusa in un atto pubblico non testamentario, non necessariamente unilaterale ma anche con l’intervento di altri soggetti: nonostante ciò, la riabilitazione, fondandosi su un fatto irretrattabile come il perdono, rimane irrevocabile[[22]]. Si ha così conferma della irrilevanza del contesto documentale al quale i diversi negozi sono affidati (purché sia osservato il requisito formale minimo prescritto dalla legge); la natura della disposizione, irrevocabile nel caso della riabilitazione e revocabile nel caso della dispensa dalla collazione, è perfettamente slegata dalla forma e dalla sede imposte dalla legge, che è sempre la medesima (l’atto pubblico). Sia nel caso della riabilitazione, sia in quello della dispensa dalla collazione, la natura della disposizione «non risulta intaccata neppure nell’ipotesi in cui siano state calate nell’atto che vesta altro negozio, ché non fanno parte del suo contenuto, né possono confondersi col medesimo, sicché non dovrebbe avere ragion d’essere il timore, che il donante si senta vincolato a non revocare la manifestazione di volontà concernente la dispensa dalla collazione»[[23]].
Una posizione ancora diversa è assunta da chi afferma che il problema debba essere risolto caso per caso indagando la volontà del donante, ossia se egli volesse emettere una dichiarazione di ultima volontà come tale revocabile, o una disposizione inter vivos, irrevocabile[[24]].
Ma anche qui si è giustamente obiettato che non compete al testatore il potere di attribuire il carattere di irrevocabilità ad una data disposizione mortis causa: «l’irrevocabilità deriva soltanto, ed imperativamente, alla luce della natura della disposizione, dalla legge, che ha posto, quale principio generale, la revocabilità delle disposizioni a causa di morte»[[25]].
Questo principio generale, posto dall’art. 679 c.c., che garantisce al testatore la possibilità di porre nel nulla o modificare a proprio piacimento, fino all’ultimo momento della sua vita, le disposizioni testamentarie, è ovvia conseguenza dell’inesistenza di un affidamento dei terzi meritevole di protezione giuridica: chi dovesse conoscere il contenuto del testamento, potrebbe al più riporre fiducia nella sua conservazione sino alla morte del testatore, ma ciò non dà mai luogo ad una aspettativa di diritto. La revocabilità non è soltanto la principale caratteristica sostanziale del testamento (art. 587 c.c.), ma è anche l’espressione di un principio considerato dal legislatore come di ordine pubblico. Ciò, già chiaramente evincibile dalla nullità dei patti successori istitutivi (art. 458 c.c.) e del testamento congiuntivo (art. 635 c.c.), è reso esplicito dalla norma che apre la sezione (la quinta) intitolata alla «revocazione delle disposizioni testamentarie», la quale sancisce che «non si può in alcun modo rinunziare alla facoltà di revocare o mutare le disposizioni testamentarie» e che «ogni clausola o condizione contraria non ha effetto» (art. 679 c.c.)[[26]].
È fondamentale, ai nostri fini, chiarire che il principio di revocabilità[[27]] non affetta solo le disposizioni patrimoniali, ma anche quelle non patrimoniali: le ipotesi come quella prevista dall’art. 256 c.c., che espressamente afferma l’irrevocabilità del riconoscimento del figlio naturale fatto col testamento revocato, o quella della confessione stragiudiziale (art. 2735 c.c.) non costituiscono un diverso principio particolare, ma eccezioni al principio generale di revocabilità. Parimenti eccezionali sono, a maggior ragione, le ipotesi in cui l’inammissibilità della revoca non è frutto di una espressa previsione normativa, ma di procedimenti logici (e quindi controvertibili) dell’interprete, com’è per il riconoscimento del debito, ove la revocabilità stride con la natura di dichiarazione di scienza, e per la riabilitazione dell’indegno, ove alla revoca, come visto, osta la circostanza che oggetto della ritrattazione sarebbe un sentimento: il perdono.
Si è allora in presenza di una regola giuridica precisa e inconfutabile: le disposizioni di ultima volontà hanno, nel nostro ordinamento, natura revocabile. Corollario della regola è che le ipotesi di irrevocabilità sono eccezionali. Per la dispensa dalla collazione, in assenza di qualsivoglia norma che ne sancisca la irrevocabilità, opera pienamente la regola generale della revocabilità incondizionata, indipendentemente dal documento nel quale la dispensa è calata[[28]].
In definitiva, la struttura della dispensa dalla collazione, che è quella di negozio a causa di morte autonomo e unilaterale, fa propendere per la sua revocabilità da parte del donante, indipendentemente da quale fosse l’atto nel quale la dispensa era stata espressa.
Il carattere autonomo della dispensa è poi conferma dell’ammissibilità di una dispensa contenuta in un atto tra vivi distinto da quello con cui si compie la liberalità e ad esso successivo.
La forma della dispensa
Se contenuta nel testamento, la dispensa dalla collazione seguirà la sorte di questo, condividendone lo stesso formalismo e risultandone invalida in caso di inosservanza.
Il formalismo testamentario, d’altronde, è spiegabile in considerazione della qualifica del testamento, condivisa anche dalla dispensa, quale atto mortis causa con natura di etero-regolamento, ossia di atto destinato a produrre effetti in capo ai superstiti, quale ultimo messaggio del de cuius; un atto caratterizzato, dunque, da una non ripetibilità che ne specifica la gravità e ne spiega la rigidità formale. Solo muovendo dalla valutazione del testamento come dichiarazione ultima del de cuius è possibile comprendere appieno la particolare gravità di quest’atto e la ragione della sua ampia e a volte minuziosa disciplina: «la giustificazione non va rintracciata alla luce delle conseguenze che l’atto può produrre [...], bensì e unicamente nella considerazione della sua caratteristica di atto non ripetibile»[[29]].
Il formalismo testamentario riflette dunque la natura etero-regolamentare dell’atto, ossia quell’elemento, tipico del diritto nella tradizione kantiana (sebbene non unanimemente accolto da parte della stessa scuola normativista, si pensi a Kelsen e a Bobbio), consistente nel potere di qualcuno, che nella specie è il disponente, di imporre delle regole a qualcun altro, che nella specie è costituito dai superstiti.
Il principio del formalismo è quindi improntato al rispetto della volontà del testatore[[30]]. Alla luce delle ragioni ora esposte, non v’è motivo di derogarvi con riguardo alla dispensa dalla collazione: se il testamento è invalido per vizio di forma, parimenti invalida sarà la dispensa in esso contemplata. Anche per la dispensa contenuta nel testamento, d’altra parte, la forma svolge la sua funzione sostanziale, consistente nel garantire al testatore una maggiore riflessione sulle sue scelte, e la sua funzione processuale, che consente di precostituire una prova della volontà del testatore attraverso la formazione di un documento, per quando l’autore non sarà più in vita.
Un problema interpretativo più serio si pone per il notaio riguardo alla dispensa contenuta nella donazione o in un diverso atto tra vivi.
Chi propende per la natura di negozio autonomo applica il principio della libertà di forma; chi, al contrario, sostiene l’accessorietà della dispensa, richiede la stessa forma prescritta per la donazione, anche laddove la dispensa sia contenuta in un diverso e successivo atto inter vivos.
È noto che la civilistica italiana non dà più per scontata la vigenza nel nostro ordinamento di un principio generale secondo il quale, tutte le volte che sia assente una precisa prescrizione normativa che impone una determinata forma, la forma stessa sia libera. Ma la tesi che applica il principio di simmetria prescinde da questa obiezione: se la dispensa è un negozio accessorio, quale negozio di secondo grado non può essere slegato nella sua considerazione giuridica da quello di primo grado; pertanto, mantenere saldo il principio di libertà della forma, non risolve il problema della forma della dispensa, giacché tale principio generale può valere solo per i negozi di primo grado, ossia quelli che costituiscono un rapporto giuridico patrimoniale, mentre l’istituto qui esaminato è un negozio di secondo grado, in quanto modifica dal punto di vista del contenuto il contratto di donazione. In tal caso, quindi, varrebbe la regola secondo cui la forma del negozio di secondo grado deve seguire quella del negozio di primo grado: diversamente, la prescrizione formale che la legge impone per il negozio principale potrebbe essere agevolmente elusa attraverso la stipulazione di un secondo negozio, modificativo del primo, non soggetto all’onere formale.
In definitiva, applicando il principio della relatio degli atti strumentali, si afferma che la dispensa, se espressa con una dichiarazione unilaterale contenuta in atto tra vivi, debba avere la stessa forma dell’atto di donazione[[31]].
In senso contrario, si consideri che l’equiparazione fatta dalla disciplina collatizia tra donazioni dirette e indirette induce a considerare valida la dispensa anche se contenuta nella donazione indiretta, la quale come noto prescinde dalla forma solenne e può perfezionarsi anche oralmente: ciò significa che in questi casi la dispensa può essere espressa in forma verbale, e può essere, nonostante la sua natura mortis causa, provata in giudizio mediante testimoni, in deroga al normale rigore del formalismo testamentario (e analogo discorso vale quando la dispensa si accompagni ad una donazione manuale). Diversamente, si finirebbe con l’imporre alla dispensa un rigore formale maggiore di quello sufficiente per la donazione (indiretta) cui essa si riferisce.
Questa soluzione, peraltro, è coerente con la nostra configurazione della dispensa come negozio non accessorio ma autonomo, svincolato quindi dall'osservanza della regola di simmetria delle forme valevole per i negozi di secondo grado.
La dispensa implicita o virtuale
Applicare il principio generale di libertà della forma[[32]] comporta ammettere anche l’efficacia della dispensa tacita dalla collazione (a differenza dalla dispensa dall’imputazione nell’azione di riduzione, per la quale l’art. 564, cpv., c.c. richiede esplicitamente una dichiarazione espressa).
Una dispensa implicita non può rinvenirsi nella clausola, piuttosto frequente, con cui il donante afferma che la donazione è fatta a titolo di anticipata successione in conto di legittima e che, per l’eventuale eccedenza, graverà sulla disponibile; infatti, una tale clausola non esclude la soggezione a collazione di tutti i beni donati, sia quelli prelevati sulla legittima, sia quelli prelevati sulla disponibile. D’altra parte, una siffatta imputazione del donante non interferisce nei rapporti tra coeredi, ma soltanto sul limite che la quota di legittima rappresenta per il potere di disposizione del de cuius[[33]].
Se questo punto non dà adito a dubbi, più incerta è la definizione di altre ipotesi nelle quali si è ventilata la presenza di una dispensa non espressa.
In linea teorica, ogni incertezza dovrebbe nel caso concreto portare ad escludere una tale presenza, giacché la natura mortis causa del negozio rende opportuna l’applicazione dei principi interpretativi validi per la volontà testamentaria, alla stregua dei quali, nel conflitto tra volontà e dichiarazione, è la prima a prevalere e la seconda a soccombere; è un punto di emersione del problema del rapporto tra autonomia testamentaria e autonomia contrattuale: indifferente alla tutela dell’affidamento la prima, sensibile alla posizione della “controparte” la seconda, con evidenti conseguenze anche in sede di interpretazione della volontà nei due casi.
La volontà testamentaria non crea nei terzi né diritti né giuridiche aspettative sino alla morte del testatore, e le è quindi coessenziale il carattere revocabile, tanto che tale caratteristica, per alcuni, porrebbe in crisi persino l’idea del testamento quale “autoregolamento impegnativo”, ossia quale negozio[[34]]. La volontà contrattuale, all’opposto, origina un vincolo immediato normalmente fonte di diritti e di obblighi. Il ruolo centrale della volontà del disponente si impone con prepotenza persino nel campo dei motivi individuali, di regola irrilevanti nei negozi inter vivos: «una disposizione che favorisca un capriccio non è meno valida, e giuridicamente giustificata, della disposizione più santa; nessun negozio è più aperto alla scelta individuale dei motivi, diciamo pure all’arbitrio, come il testamento»[[35]].
Questa premessa non porta ad escludere radicalmente l’ammissibilità della dispensa implicita, ma, come accennato, a negare la sua configurabilità in assenza di elementi certi e univoci.
Per l’orientamento più rigoroso, infatti, la dispensa può risultare da fatti concludenti solo se questi fatti possono essere desunti dallo stesso contratto di donazione e non aliunde[[36]]. Si tratta di una fondamentale differenza rispetto alla dispensa dalla imputazione ex se, la cui esistenza può invece essere provata solo se è stata rispettata la prescrizione della forma espressa (ex art. 564, cpv., c.c.).
Non è possibile, però, stabilire in via preventiva e astratta le fattispecie con le quali si identificherebbe una implicita volontà di dispensare. La nostra dottrina ha parlato di dispensa implicita (da alcuni autori definita “virtuale”, ma deve ritenersi che i due concetti coincidano nella sostanza) nei seguenti casi: 1) divisione dell’ascendente; 2) attribuzione ai legittimari della sola legittima; 3) donazione dissimulata.
Ma in nessuna di queste fattispecie esiste la univocità indispensabile per inferire una volontà implicita:
1) Quando il de cuius dispone la divisio inter liberos, sarebbe ravvisabile la volontà di ripartire in via definitiva il proprio patrimonio, e quindi sarebbe implicito l’intento di evitare una ulteriore ripartizione in sede collatizia: il silenzio del testatore riguardo al bene donato farebbe presumere che detto bene sia stato lasciato definitivamente al donatario anche in sede successoria. È verosimile che in buona parte dei casi concreti la divisione dell’ascendente presupponga proprio la descritta volontà; tuttavia, se si concorda sulla necessità di ricavare la volontà effettiva del disponente in maniera univoca, non può non considerarsi come altri e diversi fattori abbiano potuto giustificare il suo comportamento: egli potrebbe avere semplicemente dimenticato, nel fare testamento, l’esistenza della pregressa donazione (tanto più che soggette a collazione sono anche le donazioni di modico valore), oppure potrebbe aver evitato di esprimersi in ordine alla donazione proprio perché voleva sottoporla al congegno collatizio, sapendo che esso sarebbe scattato ex lege senza bisogno di una sua specificazione nel testamento in ordine all’obbligo di conferimento del donatario[[37]].
2) Una implicita volontà di dispensare sarebbe per alcuni ravvisabile nell’assegnazione ai riservatari non donatari della sola legittima, oppure nell’istituzione universale del discendente donatario. Ma anche in questo caso, tali disposizioni sono prive di univocità in ordine all’asserita volontà del de cuius di attribuire al donatario il bene donato in via definitiva: esse, infatti, non valgono ad escludere che la donazione fosse riguardata dal donante come anticipazione sulla futura successione, come tale soggetta a collazione.
3) La giurisprudenza ha giustamente negato che possa ravvisarsi un’implicita dispensa dalla collazione nelle donazioni dissimulate, a meno che non si riesca a provare in concreto che alla simulazione si diede luogo proprio al fine esclusivo di nascondere l’intento liberale per sottrarre la donazione all’obbligo di conferimento[[38]]. A mio avviso, determinante non è tanto che lo scopo di evitare la collazione sia la ragione esclusiva del mascheramento (perché, se così fosse, non avrebbe senso il mascheramento stesso: al de cuius sarebbe stato sufficiente dispensare dalla collazione!): sarà raro il caso in cui il disponente appronta il meccanismo simulatorio solamente per sottrarre la liberalità alla collazione, laddove la legge lo legittima apertamente in tal senso. Molto più probabile è che il de cuius sia stato spinto da una molteplicità di scopi, tra i quali potrebbe primeggiare, semmai, non quello di nascondere l’attribuzione ai propri discendenti bensì ai terzi. Migliore soluzione, allora, è ricercare caso per caso la volontà di escludere la collazione, in relazione alla singole circostanze: il mascheramento della donazione non equivale tout court a dispensa (implicita) dalla collazione, ma questa equivalenza va supportata sul piano probatorio avendo riguardo agli specifici motivi che avevano spinto l’ereditando, e dimostrando, eventualmente, che questi avesse voluto tenere nascosta la liberalità agli altri discendenti al preciso scopo di esonerare il donatario dall’obbligo di conferimento.
In definitiva, nessuna delle ipotesi enucleate in dottrina può essere aprioristicamente e astrattamente considerata sufficiente, in assenza di dispensa espressa, a reperire una volontà del disponente logicamente incompatibile con la sua volontà di assoggettare il donatario a collazione. Pertanto: giuridica ammissibilità della dispensa implicita o virtuale, ma concreta difficoltà di un suo reperimento, da superare caso per caso in forza di univoci elementi di fatto.
A soluzioni più innovative potrebbe peraltro giungersi, grazie al lavoro della giurisprudenza, collocando la dispensa implicita nel quadro del generale necessario collegamento della collazione con l’attuale realtà sociale: in tal senso, potrebbe prendere piede un orientamento più favorevole alla dispensa implicita, cui conseguirebbe un ridimensionamento della portata pratica dell’istituto collatizio che pare più conforme alla crescente vitalità dell’autonomia privata nel contesto successorio.
Questa attuazione più elastica della disciplina collatizia potrebbe trovare titolo in diverse considerazioni:
1) in favore dell’ammissibilità di una dispensa implicita depone un argomento letterale: il nostro codice, a differenza di quello francese (art. 842), esenta i donatari dalla collazione qualora il defunto «li abbia da ciò dispensati», e non espressamente dispensati.
2) L’analisi sociologica, che proprio nella famiglia ha il suo oggetto privilegiato, dimostra che oggi solo in alcuni casi la donazione al congiunto costituisce un’anticipazione ereditaria, sicché una delimitazione dell’istituto, qualora sia ravvisabile in concreto una implicita volontà di dispensare, non si porrebbe in contrasto con la sua ratio; al contrario, sarebbe possibile meglio realizzare il fine dell’equiparazione di trattamento tra congiunti nelle ipotesi in cui l’automatico operare della collazione condurrebbe in concreto, come dimostrato in altra sede, persino ad una disuguaglianza[[39]].
3) Si tratterebbe di un’interpretazione idonea a riconoscere nella collazione uno strumento equitativo che concreti, in virtù della suaccennata equiparazione, un bilanciamento delle posizioni patrimoniali dei congiunti: in ossequio al generale interesse familiare, ma, nel contempo, nel rispetto del principio di autonomia privata e del rinnovato ruolo della libertà del disponente. Sotto quest’ultimo profilo, tale interpretazione valorizzerebbe ulteriormente l’alto grado di simbolismo del testamento[[40]]: colui che redige la propria scheda testamentaria sapendo di aver fatto donazioni (soltanto) tacitamente dispensate dalla collazione, confida nella futura obbedienza spontanea dei coeredi sfavoriti, e quindi nella pressione anche psicologica, oltre che normativa, che tale atto, più di qualsiasi altro negozio dell’autonomia privata, gli consente di esercitare.
4) La Suprema Corte ha, in qualche occasione, ammesso che, per accertare se in un atto di donazione ricorra la volontà tacita di dispensare dalla collazione, si possa tenere conto, ai sensi dell’art. 1362 c.c., del comportamento complessivo del donante, eventualmente desumibile anche da elementi estrinseci a tale atto[[41]]. Inoltre, seppure premettendo che «nel campo negoziale per aversi manifestazione tacita della volontà di una parte occorrono facta concludentia e cioè univoci e non equivoci, incompatibili con una volontà contraria a quella che da essa si argomenta», ha tuttavia ritenuto corretta la decisione del giudice del merito, che aveva riconosciuto la dispensa tacita dall’obbligo della collazione di un immobile da parte di un erede, nel fatto che nello stesso testamento tale obbligo di collazione era espressamente imposto a carico di altro coerede[[42]].
Si tratta di un’interpretazione, in definitiva, che offre, attraverso lo strumento della dispensa implicita o virtuale, la possibilità di un’attuazione della collazione più aderente alla variegata realtà dei singoli casi, consentendo ai congiunti di trattenere la donazione, tutte le volte in cui dalle circostanze concrete sia possibile desumere che il disponente intendeva attribuire il bene donato quale beneficio ulteriore rispetto al lascito ereditario.
La forma della revoca della dispensa
Sulla incondizionata revocabilità della dispensa si è già detto. Altro problema è capire se la revoca della dispensa debba essere necessariamente espressa, cioè resa attraverso una dichiarazione con cui il donante specificamente dichiara di voler revocare la dispensa fatta in un precedente determinato atto.
Sembra però condivisibile che la volontà di revocare possa essere desunta dal complesso delle disposizioni a causa di morte successive, purché essa emerga in maniera univoca.
Questa soluzione discende dai principi, giacché l’ordinamento giuridico riconosce la stessa efficacia revocante alla volontà espressa ed a quella implicita, purché inequivoca[[43]]; l’art. 682 c.c., infatti, esprime la regola della prevalenza, in presenza di più manifestazioni di volontà incompatibili, della volontà attuale, portatrice di interessi nuovi del disponente. E il valore di questa regola è rafforzato dal successivo art. 683 c.c., che proprio al fine di tutelare pienamente l’autonomia testamentaria, precisa che la revoca fatta con un testamento posteriore conserva la sua efficacia anche quando questo rimane senza effetto perché l’erede istituito o il legatario è premorto al testatore, o è incapace o indegno, ovvero ha rinunziato all’eredità o al legato. Ciò esprime l’attenzione legislativa per la volontà di revocare, che trova comunque realizzazione, senza essere inficiata da fatti ad essa esterni come la impossibilità o la mancanza di volontà del chiamato ad accettare[[44]].
Pertanto, il testamento posteriore, così come annulla le disposizioni dei testamenti precedenti che sono con esso incompatibili (art. 682 c.c.), parimenti, se contiene disposizioni oggettivamente [[45]] incompatibili con la dispensa contenuta in un precedente atto (pur quando si tratti di donazione), comporta la revoca della stessa.
Dispensa dalla collazione e dall’imputazione ex se
Grazie alla dispensa dalla collazione, il coerede-donatario è avvantaggiato rispetto agli altri coeredi, perché egli tratterrà la donazione ricevuta, mentre gli altri vedranno diminuire del relativo valore la massa da dividere.
Sennonché, il codice prevede anche la dispensabilità dall’imputazione ex se, quando afferma (art. 564, cpv., c.c.) che il legittimario è tenuto ad imputazione «salvo che ne sia stato espressamente dispensato»[[46]]. Il legittimario che sia stato dispensato dall’imputazione ex se avrà per intero la sua quota di riserva, senza dover detrarre le donazioni ed i legati che ha ricevuto, i quali graveranno sulla disponibile.
Anche con riguardo alla dispensa dall’imputazione ex se si è posto il problema se abbia natura di mera clausola accessoria alla donazione o al legato, o, come sostiene la tesi prevalente, di negozio autonomo: precisamente, poiché regola situazioni connesse e conseguenti alla morte dell’ereditando, si tratta di un negozio mortis causa, eccezionalmente contenuto in un atto inter vivos. Essa, per questi aspetti, ha quindi importanti elementi di identificazione con la dispensa dalla collazione.
Inoltre, anche la dispensa dall’imputazione può essere contenuta nell’atto di liberalità stesso oppure in un successivo atto tra vivi, dovendo in questo secondo caso, giacché costituisce una liberalità ulteriore, rivestire la forma solenne della donazione[[47]].
Ma, nonostante questi caratteri comuni, la netta differenza tra le due dispense discende pianamente dalla distinzione di funzioni e di ambito che intercorre tra collazione e imputazione ex se ([48]). I due istituti operano su piani diversi, in quanto, mentre la dispensa dalla collazione agisce nei rapporti tra coeredi, la dispensa dall’imputazione sposta il limite che la legittima rappresenta per i poteri di disposizione del de cuius. La volontà del donante di imputare i beni donati alla legittima non incide in alcun modo sulla efficacia della dispensa dalla collazione[[49]].
Ed infatti è certo che la dispensa dalla collazione non importa mai, da sola, anche dispensa dall’imputazione ex se, giacché quest’ultima dev’essere espressamente e specificatamente prevista (art. 564, cpv., c.c.).
Né la dispensa dalla collazione può ritenersi inclusa nella dispensa dall’imputazione[[50]].
NOTE:
[1] Cass., 12 marzo 1966, n. 711, in Mass. Giur. it., 1966, 309.
[2] Cass., 10 febbraio 2006, n. 3013, in Notariato, 2006, 390; Vita not., 2006, 2, 1, 791; Notariato, 2007, 253, con nota di R. SCOTTI, Volontà testamentaria e obbligo di collazione: la disciplina legale della collazione «non ha carattere inderogabile né sotto il profilo oggettivo né sotto quello soggettivo, anche se l'imposizione dell'obbligo della collazione disposto dal testatore si configura come imposizione di un legato, sicché il correlativo obbligo degli eredi tenuti al conferimento incontra il solo limite del rispetto della quota di riserva, ai fini della cui determinazione – fermo il divieto posto dall’art. 549 c.c. di imporre su di essa pesi o condizioni – i legittimari devono comunque imputare, ai sensi dell’art. 553 c.c., ed in conformità di quanto previsto nella clausola testamentaria impugnata, quanto hanno ricevuto dal de cuius in virtù di donazioni o legati » (Nella specie è stata ritenuta legittima la disposizione testamentaria con cui il de cuius aveva imposto ai legittimari – figli e coniuge – istituiti nella quota loro riservata per legge l’obbligo di conferire ai coeredi – nipoti ex filio ai quali era stata attribuita la disponibile – quanto ricevuto in vita dal de cuius a titolo di liberalità). Al fenomeno della collazione volontaria è dedicata la monografia di R. SICLARI, Il fenomeno collatizio tra legge e volontà. A proposito della collazione c.d. volontaria, Torino, 2005; nonché il mio breve parere in forma casistica, La collazione volontaria: ammissibilità e limiti, in Fam., pers. succ., 2009, 336.
[3] Per tutti, F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, IV, La famiglia. Le successioni. La tutela dei diritti. Il fallimento, Padova, 2004, IV ed., 266; M.C. ANDRINI, La collazione. II. La dispensa dalla collazione e dall’imputazione, in Successioni e donazioni a cura di P. Rescigno, II, Padova, 1994, 141.
[4] A. PALAZZO, Le successioni, cit., 1001. Cass., ord., 24 maggio 2023, n. 14274, in CED Cassazione, 2023, ha dichiarato legittima la clausola con la quale il donante dispensi espressamente e parzialmente il donatario dalla collazione per la sola parte eccedente la quota di legittima spettante al donatario non essendoci ragione per negare al donante la facoltà di esplicare la propria autonomia anche con il prevedere una dispensa parziale da collazione.
[5] G. AZZARITI, La divisione, in Tratt. dir. priv., dir. da P. Rescigno, VI, Successioni, 2, Torino, 1997, II ed., 447 s. Di recente, Cass., Ord., 5 maggio 2022, n. 14193, in Quotidiano giur., 2022, ha ribadito che la dispensa dalla collazione sottrae il donatario del conferimento ma non importa l'esclusione del bene donato dalla riunione fittizia ai fini della determinazione della porzione disponibile. Conf. Trib. Lecce, 11 settembre 2023, n. 2433, in www.leggiditalia.it. Cass., 30 maggio 2017, n. 13660, in Corr. giur., 2018, 492, con nota di F. SANGERMANO, Riducibilità della donazione recante la clausola "in conto di legittima e per l'eventuale esubero sulla disponibile con dispensa dalla collazione", ha chiarito che la donazione fatta ad un legittimario dal defunto a valere in conto legittima e per l'eventuale esubero sulla disponibile, con dispensa da collazione, è soggetta a riduzione, secondo i criteri indicati negli artt. 555 e 559 c.c., non implicando tale clausola una volontà del de cuius diretta ad attribuire alla stessa liberalità un effetto preminente rispetto alle altre in caso di esercizio dell'azione di reintegrazione da parte degli altri legittimari lesi, secondo quanto, invece, stabilito per le disposizioni testamentarie dall'art. 558, comma 2, c.c., e rimanendo, pertanto, il medesimo donatario esposto alla riduzione per l'eccedenza rispetto alla sua porzione legittima.
[6] Per questa duplice valenza, v. Trib. Roma, 18 settembre 2003, in Giur. mer., 2004, 535.
[7] Cass., 4 agosto 1982, n. 4381, cit.
[8] A. ALBANESE, Della collazione. Del pagamento dei debiti. Artt. 737-756, in Il Codice civile. Commentario fondato da P. Schlesinger e diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2009, 44 ss. Tra gli studi successivi, cfr. R. SICLARI, in Tratt. breve delle successioni e donazioni diretto da P. Rescigno, coordinato da M. Ieva, II, Padova, 2010, 241 ss.
[9] Cass., 1° ottobre 2003, n. 14590, in Giust. civ. Mass., 2003, 2290; Cass., 29 luglio 1961, n. 1845, in Giust. civ. Mass., 1961, 814. In dottrina in tal senso: G. AZZARITI, Le successioni e le donazioni, cit., 764; e M.C. ANDRINI, La collazione. II. La dispensa dalla collazione e dall’imputazione, cit., 140, secondo la quale «la dispensa è un negozio giuridico unilaterale a carattere strumentale che accede al negozio principale (sia esso testamento o donazione) per rendere irrevocabile l’attribuzione di un determinato bene fatta ad un discendente o al coniuge: salva l’ipotesi in cui tale attribuzione venga a ledere la quota di legittima degli altri legittimari».
[10] «In tema di divisioni ereditarie, la dispensa dalla collazione, contenuta in una donazione, si configura come una clausola accessoria al contratto che, come tale, non può essere eliminata dal contesto per atto unilaterale di volontà di uno solo dei contraenti» (Cass., 1° ottobre 2003, n. 14590, cit., la quale specifica anche che, peraltro, la natura contrattuale di tale clausola non contrasta col divieto dei patti successori, trattandosi di una mera modalità dell'attribuzione, destinata ad avere efficacia dopo la morte del donante, e non di un atto con cui questi dispone da vivo della propria successione; Cass., 7 maggio 1984, n. 2752, in Giust. civ. Mass., 1984, 914, ha ritenuto la dispensa una clausola contrattuale, dunque ineliminabile ex post per volontà di uno dei contraenti, e irrinunciabile unilateralmente anche dallo stesso donatario; v. anche Cass., 27 gennaio 1995, n. 989, in Giur. it., 1996, I, 1, 269, con nota di R. DE MICHEL, Il fondamento della collazione e la dispensa di cui all’art. 737 c.c.; in Riv. not., 1996, 876. Per l’irrevocabilità della dispensa si era pronunciata anche Cass., 29 luglio 1961, n. 1845, in Giust. civ., 1962, I, 100, con nota di G. CASSISA, A proposito di un singolare caso di donazione in conto della quota legittima e per l’eccedenza sulla disponibile del donante e con dispensa dalla collazione (Appunti in tema di divisione ereditaria).
[11] U. CARNEVALI, voce Collazione, in Dig., sez. civ., II, Torino, 1988, 472.
[12] G. GAZZARA, voce Collazione (diritto privato), in Enc. dir., Milano, VII, 1960, 337; L. CARIOTA FERRARA, Le successioni per causa di morte. Parte generale, Napoli, 1977, 709; A. BURDESE, La divisione ereditaria, in Tratt. Vassalli, XII, 5, Torino, 1980, 311; P. FORCHIELLI – F. ANGELONI, Della divisione, in F. GALGANO (a cura di), Commentario del c.c. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 2000, 516 ss.; G. BONILINI, La revocabilità della dispensa dalla collazione, in Studium iuris, 2005, 444.
[13] A. ALBANESE, Della collazione. Del pagamento dei debiti, cit., 165 ss.; V. BARBA, La dispensa dalla collazione, in Dir. succ. fam., 2016, 1 ss.; ID., La dispensa dalla collazione, in Studi in onore di G. De Nova, I, Milano, 2015, 165 ss.
[14] L. MENGONI, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione necessaria, in Trattato di dir. civ. e comm., dir. da A. Cicu e F. Messineo e continuato da L. Mengoni, 2000, IV ed., 268; G. BONILINI, La revocabilità della dispensa dalla collazione, cit., 443; G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, Milano, 2002, II ed., 730, secondo cui il carattere dell’unilateralità «deve affermarsi in ogni caso, anche, cioè, nell’ipotesi di dispensa contenuta nella stessa donazione; si tratta di due negozi collegati di natura diversa: contrattuale la donazione, unilaterale la dispensa. L’eventuale accettazione del donatario, anche per la dispensa, rappresenta un atto giuridicamente inutile».
[15] Così, tra gli altri, M.C. ANDRINI, La collazione. II. La dispensa dalla collazione e dall’imputazione, cit., 140: «se è vero che la dispensa da collazione è un atto di liberalità e come tale di natura revocabile, è però anche certo che ove sia contenuto in un contratto di donazione esso è parte di detto contratto [...]. La revoca della clausola non può perciò avvenire che per mutuo consenso del donante o del donatario ovvero secondo i principi generali che consentono la revoca delle donazioni e quindi a causa di ingratitudine o di sopravvenienza di figli, su domanda rivolta all’autorità giudiziaria». Conf. U. CARNEVALI, voce Collazione, cit., 472.
[16] Trib. Vicenza, 30 giugno 1959, in Foro it., 1960, I, 2055.
[17] G. BONILINI, La revocabilità della dispensa dalla collazione, cit., 446.
[18] Cass., 29 luglio 1961, n. 1845, cit.; Cass., 7 maggio 1984, n. 2752, cit.
[19] G. BONILINI, La revocabilità della dispensa dalla collazione, cit., 446.
[20] Sulla facoltà data all’offeso di perdonare chi ha compiuto nei suoi confronti i gravi atti di cui all’art. 463 c.c.: G. BONILINI, La riabilitazione dell’indegno, in Studium iuris, 1997, 1141 ss.; U. SALVESTRONI, Osservazioni sulla riabilitazione dell’indegno, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, 879.
[21] Dall’essere la riabilitazione una dichiarazione di volontà, deriva la rilevanza dei vizi della volontà (errore, violenza, dolo). Si esclude, tuttavia (L. FERRI, Successioni in generale, in Commentario del c.c. Scialoja e Branca, cit., 208, 212), che in questo ambito la conseguenza di tali vizi sia l’annullabilità come accade per i contratti: si vuole così evitare l’applicazione dell’istituto della convalida, che consentirebbe di rendere efficace l’atto ad opera di soggetti diversi dal de cuius (i suoi eredi) e al di fuori dalla volontà di quest’ultimo, in contrasto con l’articolo in esame, che prescrive la sua volontà espressa. (Per la stessa ragione sarebbe nulla e non annullabile la riabilitazione compiuta da un minore o da un interdetto, anche se compiuta in suo nome dal rappresentante legale). Da qui, la soluzione di ritenere che la riabilitazione viziata costituisca atto illegittimo e quindi sanzionato con la nullità, che può essere fatta valere da chiunque ne abbia interesse senza limiti di tempo. Parimenti, si ritiene inapplicabile alla riabilitazione l’art. 590 c.c. sulla conferma ed esecuzione volontaria del testamento.
[22] G. GROSSO – A. BURDESE, Le successioni. Parte generale, in F. VASSALLI (diretto da), Trattato dir. civ., XII, Torino, 1977, 131, n. 24; A. CICU, Successioni per causa di morte, Parte generale. Delazione e acquisto dell'eredità. Divisione ereditaria, in A. CICU – F. MESSINEO (diretto da), Trattato di dir. civ. e comm., Milano, 1961, II ed., 106 ss.: «Ammettere la libera revocabilità significherebbe ammettere un libero potere di escludere dalla successione». All’irrevocabilità farebbe eccezione, però, il caso in cui manchi il pentimento o il ravvedimento del colpevole, da considerarsi un presupposto tacito del perdono. Poiché, infatti, è immorale che l’indegno possa approfittare di un perdono immeritato, si dovrebbe ammettere, «in armonia col principio di ordine pubblico su cui si fonda la sanzione d’indegnità, che questa possa non essere eliminata» (A. CICU, Successioni per causa di morte, cit., 107, testo e nota 83). Su questa scia, se si vuole ammettere una riabilitazione condizionata, deve risolversi che unica condizione lecita sia proprio quella di un sincero pentimento o ravvedimento (A. BUTERA, Il codice civile commentato, Libro delle successioni per causa di morte, Torino, 1940, art. 11, 41).
[23] G. BONILINI, La revocabilità della dispensa dalla collazione, cit., 447.
[24] Cfr. P. FORCHIELLI, voce Collazione, in Enc. giur. it., VI, Roma, 1988, 4, § 2.1.; P. FORCHIELLI – F. ANGELONI, Della divisione, cit., 504 ss.; N. VISALLI, La collazione, cit., 115.
[25] G. BONILINI, La revocabilità della dispensa dalla collazione, cit., 445.
[26] Dall’ampia formula dell’art. 679 («in alcun modo»), si ricava che sono nulle non solo le clausole derogatorie assolute, con le quali il testatore rinunzia a revocare in futuro il testamento o alcune disposizioni ivi contenute, ma anche le clausole derogatorie relative, nelle quali egli limita la propria facoltà di revocare dal punto di vista formale, predeterminando cioè una specifica forma per il caso che intendesse un giorno revocare il testamento.
[27] Nonostante l’imprecisione che connota il concetto di revoca utilizzato dalla legge, nonché la grande varietà di significati che vi si attribuiscono, è ormai classica la riconduzione della revoca, nel diritto privato, al potere di ritrattazione facoltativa di un atto giuridico, compiuta o provocata dall’autore dell’atto stesso, con l’effetto di impedire la nascita di una nuova situazione giuridica, o di ripristinare la situazione giuridica preesistente (S. ROMANO, voce Revoca (diritto privato), in Noviss. Dig. it., XV, Torino, 1968, 809. Dello stesso autore: ID., La revoca degli atti giuridici privati, Padova, 1935). Attraverso la revoca, l’autore esplica quella stessa autonomia privata che aveva dato vita al negozio (E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1952, 251), e rende concreta la tutela che l’ordinamento appronta in favore dell’assoluta libertà e spontaneità del suo volere (cfr. L. ROSSI CARLEO, voce Revoca degli atti. II, Revoca del testamento, in Enc. giur. it., XXVII, Roma, 1991, 1). Costituisce ius receptum, nella nostra letteratura giuridica, l’idea che effetto principale della revoca sia il venir meno dell’atto revocato. La revoca non elimina solo l’efficacia di un atto precedente, ma la sua stessa esistenza. Sebbene a questa tradizionale impostazione si obietti che far venir meno un atto giuridico significa proprio privarlo di effetti, giacché «il negozio non può essere eliminato come fatto storico ma viene ripudiato nella sua efficacia giuridica» (C.M. BIANCA, Diritto civile. 2. La famiglia. Le successioni, Milano, 2005, IV ed., 822. L’idea dell’eliminazione dell’atto è criticata con decisione da M. TALAMANCA, Osservazioni sulla struttura del negozio di revoca, in Riv. dir. civ., 1964, I, 150, la diretta incidenza della revoca sull’atto rimane, per la concezione largamente dominante, il principale elemento caratterizzante l’istituto rispetto ad altri che, come il recesso o il mutuo dissenso, non eliminano l’atto, ma operano sul piano degli effetti. L’impostazione prevalente, poi, aggiunge che la revoca, proprio perché incide direttamente sull’atto precedente, ne provoca l’eliminazione fin dal suo sorgere ed esplica quindi, necessariamente, efficacia retroattiva; inoltre, può intervenire solo re adhuc integra, ossia riguardo ad atti che non abbiano ancora esplicato i propri effetti (Cfr., su questi punti, e per le diverse concezioni avanzate dalla dottrina minoritaria, G. GENTILE, voce Revoca degli atti. I) Profili generali (dir. civ.), in Enc. giur. it., XXVII, Roma, 1988, 4 ss.). L’attribuzione, agli atti giuridici, della qualifica della revocabilità o della irrevocabilità non compete alla volontà privata, ma in via esclusiva alla legge, in base a criteri non omogenei che sono fonte di una serie di questioni molto complesse. In ordine alle disposizioni testamentarie, peraltro, la legge è oltremodo chiara, poiché la revocabilità è espressamente dichiarata dall’art. 587 c.c., è riaffermata dall’art. 679 c.c., e trova ulteriore tutela negli artt. 464, n. 4, 589, e 458 c.c.
[28] G. BONILINI, La revocabilità della dispensa dalla collazione, cit., 447, il quale richiama anche l’attenzione (448) sulla meritevolezza giuridica delle ragioni pratiche che possono spingere il donante a cambiare idea, «come nell’ipotesi in cui il donatario, pur non macchiatosi di comportamenti così gravi da giustificare la revocazione della donazione per ingratitudine (art. 801 c.c.), si sia reso colpevole, per così dire, di manchevolezze, che il donante apprezzi tali da giustificare, almeno, la revoca del beneficio discendente dalla dispensa dalla collazione». Aderisce alla tesi della revocabilità, più di recente, A. REALI, La dispensa dalla collazione: diritto potestativo del donatario indisponibile e atto del donante irrevocabile?, in Contr. e impr., 2019, 130, secondo cui la dispensa deve ritenersi sempre revocabile dal donante, anche se posta in essere inter vivos, con l’atto di donazione, fino al momento della sua morte. Essa, inoltre, deve sempre considerarsi unilateralmente rinunciabile dal donatario, in particolare dopo la morte del donante.
[29] A. LISERRE, Formalismo negoziale e testamento, Milano, 1966, 180.
[30] Il formalismo testamentario, che non si accontenta della forma scritta, ma richiede una delle tre forme appositamente previste per questo atto: olografo, pubblico o segreto, è stato sovente criticato per il suo eccessivo rigore, riscontrabile non solo nell’articolata disciplina dei testamenti pubblico e segreto, ma anche nella forma più semplice, l’olografo, ove la mancanza di data dà luogo ad annullabilità anche se non v’è questione da decidere in base al tempo in cui fu redatto il testamento. Si è sostenuto che, rispetto all’autonomia testamentaria, «la forma costituisce quasi l’altra faccia della medaglia. Costituisce in qualche modo un contrappeso, un freno, un correttivo all’ampiezza dell’autonomia testamentaria» (L. IBERATI, Il testamento ed i patti successori tra autonomia testamentaria ed autonomia contrattuale. Considerazioni introduttive, in AA.VV., Testamento e patti successori, Bologna, 2006, 3, il quale evidenzia la differenza con l’autonomia contrattuale, nella quale vige il principio di libertà della forma). Ma è un correttivo dovuto (come lo stesso autore cit. riconosce) all’inusuale dilatarsi dell’autonomia privata nella materia testamentaria. La ragione di questo rigore è stata spiegata da alcuni, specie in passato (G. STOLFI, Teoria del negozio giuridico, Padova, 1961, 68), con la necessità di garantire gli eredi legittimi da decisioni avventate del testatore; e se ne è tratta conferma dall’art. 590, che ammette l’efficacia del testamento invalido se gli eredi legittimi abbiano inteso dargli comunque esecuzione. Ma questa tesi presuppone che la successione legittima prevalga sulla successione testamentaria, e non piuttosto il contrario, come emerge invece dall’art. 457 (secondo cui non si dà luogo alla successione legittima se non quando manchi, in tutto o in parte, quella testamentaria).
[31] G. GAZZARA, voce Collazione (diritto privato), cit., 337; C. GIANNATTASIO, Delle successioni. Divisione-Donazione, cit., 114; M.C. ANDRINI, La collazione. II. La dispensa dalla collazione e dall’imputazione, cit., 141. Sulle prese di posizione più risalenti, v. V.R. CASULLI, La dispensa dalla collazione delle liberalità palliate con la forma del contratto oneroso o per interposizione di persona, in Riv. dir. civ., 1941, 19; A. MIGNOLI, Se la dispensa dalla collazione debba essere espressa, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1949, 80.
[32] A. BURDESE, La divisione ereditaria, cit., 310. Confronta le riflessioni di P. FORCHIELLI – F. ANGELONI, Della divisione, cit., 512 ss.
[33] Cass., 10 febbraio 2006, n. 3013, in Notariato, 2006, 390; Vita not., 2006, 2, 1, 791; Notariato, 2007, 253, con nota di R. SCOTTI, Volontà testamentaria e obbligo di collazione; Cass., 18 marzo 2000, n. 3235, in Riv. notar., 2001, 163; Cass., 27 gennaio 1995, n. 989, cit.; Cass., 13 gennaio 1984, n. 278, in Giust. civ. Mass., 1984, 106. Conf.: App. Palermo, 27 marzo 2019, n. 686; Trib. Ravenna, 10 luglio 2019, n. 701; Trib. Bari, 30 giugno 2008, n. 1625. Posizione opposta era stata assunta in tempi non recenti: App. Napoli, 16 ottobre 1962, in Temi na., 1963, I, 36. Cass., 30 maggio 2017, n. 13660, in Quotidiano giur., 2017, ha affermato che in assenza di comunione ereditaria, una volta esperita con successo l'azione di riduzione, la donazione contenente la clausola «in conto di legittima e per l'eventuale esubero sulla disponibile con dispensa da collazione» non solo va ridotta secondo l'ordine stabilito dall'art. 559 c.c. per inapplicabilità del comma 2 dell'art. 558 c.c., funzionante per le sole disposizioni testamentarie – ma nemmeno può gravare sulla quota disponibile, in quanto la clausola sopra riportata, inoperante la dispensa da collazione per difetto di comunione ereditaria, non introduce una dispensa da imputazione ai sensi dell'art. 564 c.c.
[34] È noto che la concezione del testamento quale negozio ha avuto in Italia sviluppo più complesso rispetto al sistema germanico. L’idea della natura negoziale del testamento era così radicata, tra i maestri della Pandettistica, da non essere scalfita neanche dall’assenza, nel codice civile tedesco successivamente entrato in vigore (1900), dell’espressa definizione di negozio. Sembra determinante, in ciò, oltre che la tradizione, il dato che nel BGB il titolo relativo al contratto è preceduto da un apposito titolo dedicato alla dichiarazione di volontà. In Italia, invece, è stato più problematico lo stesso reperimento di un concetto rilevante di negozio nell’ordinamento moderno, perché i nostri autori hanno dovuto confrontarsi con un dato normativo opposto a quello tedesco: il legislatore del ’42 ha infatti rovesciato la prospettiva del BGB, facendo del contratto la categoria ordinante ed estendendone la disciplina (se compatibile) agli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale (art. 1324 c.c.). Proprio la specificità del testamento, poi, ha costituito una spina nel fianco della dottrina italiana del negozio giuridico (F. GALGANO, Il negozio giuridico, in Trattato di dir. civ. e comm., dir. da A. Cicu e F. Messineo e continuato da L. Mengoni, Milano, 2002, II ed., 604; v. anche ID., Teorie e ideologie del negozio giuridico, in C. SALVI (a cura di), AA.VV., Categorie giuridiche e rapporti sociali. Il problema del negozio giuridico, Milano, 1978. L’attacco più incisivo alla negozialità del testamento ha preso le mosse dalle considerazioni di Nicolò, il quale ha osservato che il testamento assolverebbe una mera funzione di indirizzo della vocazione ereditaria, la quale, per suo tramite, si orienterebbe verso soggetti diversi rispetto a quelli cui l’eredità perverrebbe per successione legittima. La volontà del de cuius, allora, pur imprimendo una determinata direzione alla vocazione, non costituirebbe il titolo dell’attribuzione della posizione ereditaria (R. NICOLÒ, La vocazione ereditaria diretta e indiretta, Messina, 1934, 18). Egli ha così posto le basi per una negazione della negozialità che, pur non essendo svolgimento indispensabile della sua tesi (ed infatti Nicolò riconosce espressamente la natura negoziale del testamento in R. NICOLÒ, Attribuzioni patrimoniali post mortem e mortis causa, in Vita not., 1971, 149), proprio da essa parte (proseguendo con G.B. FERRI, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, e arrivando a N. LIPARI, Autonomia privata e testamento, Milano, 1970, e N. IRTI, Disposizione testamentaria rimessa all’arbitrio altrui, Milano, 1967, 16 ss., per affermare la non negozialità. Ancora la dottrina più moderna riconosce la mancanza, nel testamento, di due caratteristiche fondamentali del negozio giuridico: la produzione di effetti nel proprio patrimonio; l’irrevocabilità dell’impegno (F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2006, XII ed., 495). Tuttavia, la maggior parte degli autori, proprio partendo da suoi connotati distintivi, quali l’assenza di fonti di integrazione della volontà e la mancanza di criteri oggettivi di interpretazione, ha ravvisato nel testamento la massima espressione dell’autonomia privata e dunque il negozio giuridico per eccellenza (per tutti: L. BIGLIAZZI GERI, Il testamento, I, Profilo negoziale dell’atto, Milano, 1976). Infine, va ricordato che il tema della negozialità del testamento è stato strumentale al raggiungimento di differenti obiettivi: chi lo ha risolto in senso positivo, ad esempio, lo ha fatto per giungere all’ammissibilità della diseredazione grazie all’applicazione al testamento del primo comma dell’art. 1322 c.c. (M. BIN, La diseredazione – Contributo allo studio del contenuto del testamento, Torino, 1966) ovvero per giustificare una teoria generale del modus valida sia in ambito testamentario sia in ambito donativo (A. MARINI, Il modus come elemento accidentale del negozio giuridico, Milano, 1976). Chi, invece, ha negato la negozialità, ha per questa via posto in crisi la stessa concezione di negozio giuridico (F. GALGANO, Il negozio giuridico, cit., 605).
[35] A. TRABUCCHI, Ancora sulla capacità a far testamento, in Giur. it., 1961, I, 1, 1304.
È tradizionale la configurazione del principio del favor testamenti quale favore per la volontà testamentaria «inteso a dare ad essa una tutela e un’efficacia particolarmente intense e che costituirebbe un principio informatore di tutta la disciplina del testamento». Ma il principio, in questi termini, non è pacifico. Si obietta, infatti, che si tratterebbe di «un giudizio di valore che si evince da norme intese ad evitare che alcuni vizi attinenti al contenuto delle disposizioni testamentarie le rendano improduttive di effetti, con la conseguenza che i beni oggetto di tali disposizioni potrebbero essere altrimenti devoluti secondo le norme sulla successione legittima» (E. PEREGO, Favor legis e testamento, Milano, 1970, 311).
[36] Cass., 12 marzo 1966, n. 711, in Mass. Giur. it., 1966, c. 309.
[37] P. FORCHIELLI – F. ANGELONI, Della divisione, cit., 541.
[38] Cass., 10 maggio 1967, n. 942, in Giust. civ. Mass., 1967, 483; Cass., 13 settembre 1975, n. 3045, in Giust. civ. Mass., 1975, 1432. La giurisprudenza ha così contraddetto un orientamento più risalente che riteneva sempre equivalente a dispensa da collazione il mascheramento della donazione: cfr. ad esempio App. Catanzaro, 19 gennaio 1934, in Foro it., 1934, I, c. 648. Diverso è il tema trattato da Cass., ord., 11 gennaio 2018, n. 536, in Fam. e dir., 2018, 851, con nota di PERILLO, che ha ritenuto improprio il riferimento all'istituto della dispensa da collazione per giustificare una deroga alle regole in tema di prova della simulazione per l'erede, trattandosi di istituto che opera o meno, una volta che sia stata accertata la natura di donazione dell'atto, la cui verifica va però condotta in base alle previsioni di cui all'art. 1417 c.c., ove la parte non abbia inteso far valere nel giudizio anche la qualità di legittimaria. La Corte non si è occupata quindi di dispensa implicita, ma ha solo ribadito il proprio granitico orientamento secondo cui soltanto la spendita della qualità di legittimario e la strumentalità dell'azione di simulazione al coevo esperimento dell'azione di riduzione consente all'erede di poter aggirare il limite probatorio posto dalla norma in questione per la parte (ovvero i suoi successori universali) del negozio simulato. Per tale orientamento e per la sua critica, v. A. ALBANESE, Della collazione. Del pagamento dei debiti, cit., 195 ss.
[39] V. A. ALBANESE, Della collazione. Del pagamento dei debiti, cit., 36 ss.
[40] Sul quale: V. FERRARI, Diritto e società, Roma-Bari, 2005, II ed.
[41] Cass., 21 marzo 1977, n. 1100, in Giust. civ. Mass., 1977, 469.
[42] Cass., 8 novembre 1983, n. 6591, in Giust. civ. Mass., 1983, 2273.
[43] G. BONILINI, La revocabilità della dispensa dalla collazione, cit., 449.
[44] Se, pertanto, in presenza di due testamenti di diversa data ed incompatibili, chi è chiamato con il secondo testamento non può o non vuole accettare, l’eredità o il legato in nessun caso va ai soggetti contemplati nel primo testamento, poiché questo rimane privo di effetti. Si rispetta, così, la volontà del testatore, che nel redigere il secondo testamento disponendo in maniera differente delle proprie sostanze, aveva dimostrato di aver cambiato idea in ordine a quanto stabilito nel precedente atto.
[45] Invero, non v’è accordo tra coloro che attribuiscono valore sia all’incompatibilità oggettiva (ossia rilevabile dall’esame della scheda testamentaria), sia all’incompatibilità soggettiva (Cass., 17 ottobre 2001, n. 12649, in Riv. notar., 2002, 1250; G. GIAMPICCOLO, Il contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell'atto di ultima volontà, Milano, 1954, 135 ss.), e coloro che propendono, invece, per l’esclusiva inconciliabilità oggettiva delle disposizioni (per tutti: Cass., 21 ottobre 1968, n. 3380, in Foro pad., 1960, I, 179; M. ALLARA, La revocazione delle disposizioni testamentarie, Torino, 1951, 214). Nel primo senso si è espressa la giurisprudenza: «L'art. 682 c.c., secondo il quale il testamento posteriore quando non revoca in modo espresso il precedente, annulla in questo soltanto le disposizioni incompatibili, fissa un principio generale di conservazione delle disposizioni precedenti e di loro coesistenza con quelle nuove, sì da circoscrivere la possibilità di ritenere caducate le une, per effetto delle altre, solo previo riscontro, caso per caso, di una sicura inconciliabilità e da consentire, inoltre, di ravvisare una revoca implicita dell'intero testamento precedente, esclusivamente ove sia positivamente accertata la non configurabilità di una sopravvivenza del suo contenuto superstite, a fronte delle mutilazioni derivanti da detta incompatibilità» (Cass., 17 ottobre 2001, n. 12649, in Riv. notar., 2002, 1250; Cass., 22 gennaio 1982, n. 423, in Giust. civ. Mass., 1982, 151; in Giur. it., 1982, I, c. 1533, con nota di L. ROSSI CARLEO, Una precisazione – che è quasi un revirement – in tema di incompatibilità tra successive disposizioni testamentarie). Dare rilievo all’intenzione di revocare pur in presenza di due testamenti compatibili, pone il problema della ricerca dell’effettiva volontà del testatore, e riconduce pertanto al più ampio tema dell’interpretazione del testamento. Sulla revoca del testamento, v. A. ALBANESE, Revocazione delle disposizioni testamentarie, sostituzione, esecutori testamentari. Artt. 679-712, in G. DE NOVA (a cura di), Comm. cod. civ. Scialoja-Branca-Galgano, Bologna, 2015, 263 ss.; nonché i miei contributi racchiusi nel volume II, La successione testamentaria, in G. BONILINI (diretto da), Tratt. dir. delle successioni e donazioni, Milano, 2009, 1651 ss.
[46] Il penultimo comma art. 564 c.c., chiarendo che «la dispensa non ha effetto a danno dei donatari anteriori», impedisce che il de cuius ponga in essere una sostanziale revoca delle donazioni precedenti a quella fatta oggetto di dispensa.
[47] In ogni caso, occorre una manifestazione di volontà espressa ed inequivoca: «In tema di successioni, ai sensi dell'art. 564, cpv., c.c., la dispensa dall'imputazione ex se deve essere espressa e, quindi, occorre che la volontà di dispensare dall'imputazione sia deducibile con certezza dal contesto della disposizione, senza possibilità di equivoci sul significato sia logico che letterale dell'espressione usata, restando conseguentemente esclusa l'utilizzabilità di elementi extracontrattuali e la desumibilità di una volontà in tal senso per implicito dalle disposizioni del donante. Discende che non può ravvisarsi una dispensa dalla imputazione alla legittima nella dichiarazione del donante che la donazione viene da lui fatta sulla disponibile» (Cass., 6 giugno 1983, n. 3852, in Giust. civ. Mass., 1983, 1368).
[48] Per un esame più approfondito della distinzione, soprattutto con riguardo alla collazione per imputazione che, per la identità lessicale potrebbe a priva vista creare qualche confusione, v. A. ALBANESE, Della collazione. Del pagamento dei debiti, cit., 81 ss. Cfr. anche N. DI MAURO, La dispensa dalla collazione, in Fam. pers. succ., 2010, 63 ss.
[49] V. supra, nota 33.
[50] Cass., 13 gennaio 1984, n. 278, cit.: «Con riguardo alla donazione che il de cuius abbia fatto in vita in favore di uno dei propri eredi, la dispensa dalla collazione, che si traduce, con svantaggio degli altri eredi, nell'esonero del donatario dal conferimento del donatum in sede di formazione della massa ereditaria da dividere, non può essere implicitamente ravvisata nelle clausole con le quali il donante abbia regolato l'imputazione della donazione medesima, in conto di legittima o sulla disponibile, atteso che tale imputazione non interferisce, come la dispensa dalla collazione, nei rapporti tra coeredi, ma solo sul limite che la quota di legittima rappresenta per il potere di disposizione del de cuius». In un caso all'attenzione della Suprema Corte (Cass., 22 aprile 2008, n. 10390, in www.leggiditalia.it), i ricorrenti avevano dedotto, come unico motivo del ricorso, che la clausola testamentaria «con dispensa dalla collazione ed imputazione ex se» avrebbe potuto essere interpretata, in considerazione della sua formulazione letterale, in due modi: a) dispensa dalla collazione, però con imputazione ex se; b) dispensa dalla collazione e dispensa dalla imputazione ex se. Ne inferivano, pertanto, che i giudici di merito avrebbero dovuto chiarire per quale ragione avevano preferito la seconda interpretazione. I giudici di legittimità hanno ritenuto infondato il motivo sostenendo che l'interpretazione dell'atto negoziale fosse oggetto di accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità.