Giuffré Editore

La forma delle rinunce

Pietro Zanelli

Notaio in Bologna, Ordinario di Diritto civile, Università di Bologna



1. False credenze e vere apparenze

L’ordinamento giuridico italiano riconosce per ogni diritto disponibile, e dunque per ogni situazione giuridica soggettiva, sia essa sostanziale, processuale, presente o futura, relativa o assoluta, la facoltà di poter rinunciare a questa.  

La rinuncia, tuttavia, viene considerata quale “manifestazione estrema” del potere dispositivo e di godimento intrinseco ad ogni diritto soggettivo, in quanto il titolare si spoglia volontariamente di una posizione attiva di potere relativamente ai soli diritti disponibili-rinunciabili, non potendo, invece, interessare quelli indisponibili-irrinunciabili. 

Trattasi di diritti che non possono esser tolti dalla sfera giuridica del soggetto titolare, ciò in ragione delle scelte del legislatore prese sulla base della natura di detti diritti, natura tale per cui inscindibili dalla suddetta sfera giuridica. Rientrano in questa categoria di diritti gli status, i diritti della personalità, i diritti di prelazione, i diritti futuri e così altri. In ossequio a ciò, dunque, è possibile affermare che la rinunciabilità risulta esser la regola, per contro l’irrinunciabilità è l’eccezione. 

Non è stata prevista nel codice civile un’espressa disciplina in relazione alla rinuncia di diritti soggettivi, anche se la giurisprudenza sembra affermare l’ammissibilità di una rinuncia abdicativa. 

In merito alla forma dell’atto rinunciativo, le Commissioni regionali di disciplina (Co.Re.Di) sanzionano i notai ai sensi dell’art. 136 l. not. soprattutto nel campo delle rinunce all’eredità – su cui mi soffermerò meglio nel prosieguo di questo intervento. E qui anticipo già quelle che saranno le mie conclusioni, e cioè che proprio in questo così particolare settore del diritto vi sia una superfetazione delle forme. Forme non richieste espressamente dalla legge, ma imposte per (errata) interpretazione dalla giurisprudenza in materia notarile[[1]]. 

Gli orientamenti giurisprudenziali che si stanno affermando, sono alquanto discutibili. Infatti, pur affermandosi che le rinunce fatte non per atto pubblico non siano da considerarsi nulle né inopponibili, poiché il registro delle successioni iscrive anche quelle fatte nella forma della scrittura privata, si arriva a sanzionare i notai roganti. La normativa di riferimento, e cioè da una parte l’art. 1350 c.c., richiede, infatti, la sola forma scritta e dall’altra l’art. 519 c.c. parla testualmente di “dichiarazione ricevuta”, pertanto il dubbio, se optare per l’una o l’altra forma, resta. 

Dubbi, poi, emergono circa la definizione di “dichiarazione ricevuta” e quindi, conseguentemente, del significato da attribuirsi alla espressione “atto ricevuto”: anche una scrittura privata autenticata se tenuta “a raccolta” dal notaio autenticante è un atto ricevuto. Nonostante ciò, le Co.Re.Di. perseguono la loro strana strada richiedendo la forma dell’atto pubblico, sanzionando i notai (seppur solo in via deontologica ex art. 136 l. not), dal momento che “ricevuta”, a logica per noi notai ormai di lungo corso, vuol dire solamente “a raccolta” e non può superarsi il dato alternativo – atto pubblico o scrittura privata autenticata – che richiede la semplice forma scritta dell’art. 1350 c.c. 

L’ambito rinunciativo interessa tutti gli istituti ed i settori del nostro ordinamento, e anche nel diritto del lavoro troviamo discusse forme di rinuncia. Ne è un esempio la disciplina ex art. 2113 c.c., in cui non vi è parità fra le diverse parti della rinuncia (datore di lavoro e lavoratore): ma in quell’ambito c’è il sindacato che riequilibra le disparità fra le parti in causa e, differentemente dai notai, non rischia gravi sanzioni. 

Ci si auspica che il legislatore urgentemente possa porre fine ai tanti dubbi ed incertezze che nascono in tema di rinuncia, e ciò anche alla luce dell’ultima riforma della volontaria giurisdizione. Ai sensi del recentissimo d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, spetterà ai notai la competenza in materia di autorizzazioni per la stipula di atti pubblici o scritture private da parte di minori, interdetti, inabilitati o amministrati. E vista la delicatezza dell’istituto rinunciativo non possiamo che aspettarci un nuovo carico di dubbi e perplessità. 

Ad oggi, però, spetta agli interpreti fare chiarezza.


2. La regolamentazione della materia di rinuncia nel codice civile e l’interpretazione dottrinale

Nel nostro ordinamento non vi è disciplina circa la rinuncia in generale e così pure per la rinuncia abdicativa, tuttavia la dottrina e giurisprudenza hanno affermato l’ammissibilità soprattutto in ambito dei diritti reali e mortis causa, essendo cruciale la rinuncia in relazione a certi diritti, soprattutto in ambito immobiliare. 

Addentrandosi nel testo normativo del codice civile, è possibile rinvenire alcune disposizioni[[2]] disseminate riguardanti la rinuncia per singoli casi particolari, ove filo conduttore sembra esser l’effetto abdicativo o dismissivo, ma trattasi pur sempre di riferimenti incompleti e insufficienti che necessitano di integrazioni. 

Che si tratti di una dimenticanza o di una scelta del legislatore di non definire questo istituto giuridico, ciò ha portato la dottrina a ricostruire in via interpretativa i caratteri essenziali di tale istituto, soprattutto in relazione alla sua natura, causa, forma ed oggetto.

La rinuncia viene definita quale atto unilaterale, non recettizio, la cui esistenza combacia con l’esatto momento in cui il titolare del diritto esprime la propria volontà di voler rinunciare a questo senza alcun effetto obbligatorio nei suoi confronti, a differenza dei terzi verso cui si producono gli effetti della rinuncia, siano essi riflessi, mediati o indiretti.

La dottrina prevalente[[3]] ritiene che si tratti di un negozio giuridico dalla forma variabile, non revocabile e dalla causa, quale oggetto di differenti interpretazioni e teorie, tipica[[4]], consistente detto atto nella mera dismissione di un diritto da parte del titolare al solo scopo di separare il proprio patrimonio da un diritto di cui si vuole liberare.

Per quanto concerne gli effetti[[5]] della rinuncia, questi vengono definiti immediati, difatti la dottrina ascrive la rinuncia fra le fattispecie estintive, in particolare, nella categoria dei negozi di disposizione dei diritti, comportando una diminuzione patrimoniale in capo al disponente. Trattasi, dunque, di un negozio giuridico con effetti dismissivi[[6]].


3. Oggetto della rinuncia e problematiche in ambito notarile

Un’attenzione particolare merita l’oggetto di questo diritto di rinuncia. Sebbene si concordi sulla possibile rinunciabilità al diritto di proprietà ed a tutti i diritti reali in generale, dal momento che questi diritti hanno una natura disponibile e, dunque, saranno suscettibili di rinuncia[[7]], problematiche emergono in ambito notarile. E ciò perché il dettato giuridico impone ai notai determinati obblighi a cui si devono attenere e soprattutto, in relazione a taluni diritti, formalità tipicamente notarili, ostacoli questi che non si presentano per avvocati ed altri operatori del diritto che risultano esser così più liberi in quest’ambito[[8]]. Ma naturalmente i loro atti non sono assunti dai pubblici registri (delle imprese, immobiliari o delle successioni).

Come già anticipato, non è presente una norma ad hoc, essendo, tuttavia, possibile individuare disposizioni normative che indirizzino ed orientino i notai chiamati a confrontarsi ed a costituire atti di rinuncia[[9]]. Sotto il profilo operativo, è evidente un certo disagio della classe notarile nel trovare soluzioni coerenti con l’istituto in questione.

Dovendo procedere così ad un’attenta analisi per ogni caso che si presenti, il notaio deve valutare quando sia possibile redigere l’atto di rinuncia in relazione ad un determinato diritto, come la proprietà di un immobile, cosicché siano informati l’autore, i terzi comproprietari o Stato, evitando eventuali rischi in merito alla circolazione del bene. 

Dubbi emergono in merito al limite di utilizzo della rinuncia da parte del notaio, poiché un possibile abuso del diritto[[10]] che sfoci in una rinuncia redatta contra legem, con conseguente applicazione dell’art. 28 l. not., deve interfacciarsi con la libertà di forma ai sensi dell’art. 1325, n. 4 c.c. 

La forma dell’atto risulta esser elemento rilevante, in quanto l’atto di rinuncia rientra in quella categoria di atti richiamati e dall’art. 1350, n. 5 c.c., che richiedono la forma scritta, e dall’art. 2643 c.c., n. 5 ove è prevista la trascrizione. 

Ne discende così che, qualora il diritto di rinuncia abbia ad oggetto un bene immobile, detto atto avrà forma scritta, sia essa atto pubblico o scrittura privata autenticata, prescritta ad substantiam e pertanto sarà soggetta alla disciplina della trascrizione, così come richiesto dall’art. 2657 c.c. che prevede questa tipologia di pubblicità per atti pubblici, le scritture private autenticate o accertata giudizialmente. 

La forma della rinuncia è, dunque, strettamente collegata all’oggetto della stessa ed è questo il fulcro principale del problema affrontato dai notai: durante la redazione degli atti rinunciativi, e di qualsiasi altro atto in realtà, deve essere proprio la forma il punto di partenza. 


4. La rinuncia alla proprietà ed agli ulteriori diritti reali c.d. minori

Come si è già affermato, la rinuncia concerne i soli diritti rinunciabili e non anche quelli irrinunciabili. Argomento molto dibattuto e di attuale interesse è il rapporto fra il diritto di rinuncia e il diritto di proprietà e degli altri diritti reali minori, soprattutto nelle realtà notarili ove la rinuncia in merito a diritti di proprietà di immobili si è sempre più presentata a fronte della crisi economica degli ultimi anni, tale per cui la proprietà di immobili è indice di spese per i titolari[[11]]. 

Sebbene nella realtà quest’istituto sarebbe una soluzione al caso dei proprietari di determinati immobili, purtroppo, nella prassi, si registra ancora oggi una certa riluttanza nella sua applicazione, rappresentando un istituto “atipico” e di natura unilaterale di non facile attuazione, risultando così necessario optare per soluzioni alternative e più frequentemente riconosciute rispetto alla rinuncia.

Di fronte ad un quadro normativo incompleto e farraginoso, il notaio deve affrontare con prudenza caso per caso e valutare la soluzione che più si addice alla fattispecie concreta. 

Secondo la dottrina notarile, la ragion per cui il codice civile non presenta alcuna norma che disciplini l’istituto della rinuncia in merito ai diritti reali è da trovarsi nel principio generale per cui la rinuncia è sempre possibile per i diritti soggettivi[[12]], spettando così al legislatore la competenza a determinare quali i diritti a cui non è possibile rinunciarvi[[13]]. 

La disciplina espressa dal testo normativo dell’art. 832 c.c. prevede che il titolare del diritto di proprietà ne possa godere e disporre in modo pieno ed esclusivo, da cui discende la tesi della dottrina maggioritaria[[14]] secondo cui la rinuncia sia intrinseca in questa norma giuridica, risultando in tal modo quale massima espressione del potere dispositivo del titolare del diritto di proprietà.

La rinuncia a detto diritto si rivela una figura dal carattere generale in seguito alla lettura di alcuni articoli del codice civile che possono trovarsi qua e là, quali l’art. 1104 comma 1 c.c. secondo cui è ammessa rinuncia abdicativa nel caso in cui il comproprietario che voglia non contribuire alle spese per il godimento della cosa deve ricorrere ad un atto dismissivo, non avendo alcun effetto liberatorio la rinuncia di chi ha precedentemente approvato le spese; l’art. 1350 n. 5 c.c. impone l’atto pubblico o scrittura privata per tutti gli atti di rinuncia ai diritti reali su immobili; l’art. 2643 n. 5 c.c. prevede l’istituto della trascrizione per la pubblicità degli atti di rinuncia relativi ai beni immobili. 

A seguito dell’atto di rinuncia del diritto di proprietà il bene rinunciato diverrà proprietà di beneficiari “occasionali”, fra cui in ultima seduta vi è lo Stato, il quale diviene proprietario di un bene definito nullius, ai sensi dell’art. 827 c.c., non per titolo derivativo, bensì ex lege. In ossequio a ciò è di facile comprensione il motivo per cui è stato attribuito il ruolo di “clausola di chiusura” allo Stato. 

Differentemente, nel caso di rinuncia degli altri diritti reali si vede riespandersi la nuda proprietà, ritornando in capo al titolare la proprietà nella sua interezza, non essendo coinvolto lo Stato e, dunque, la disciplina ai sensi dell’art. 827 c.c.  

4.1. Elementi sostanziali dell’atto notarile rinunciativo

Avendo esaminato la natura della rinuncia, interrogativi emergono circa le menzioni notarili dell’atto. In particolare, ci si è chiesti se le discipline in materia di regolarità urbanistiche e di prestazione energetica dovessero trovare applicazione di fronte a questa fattispecie. 

Contraddizione nasce fra teoria e pratica, in quanto a livello teorico dette menzioni non risultano necessarie ai fini della validità dell’atto, rimanendo così affine agli effetti abdicativi e non acquisitivi propri della rinuncia, mentre nella pratica, secondo la teoria prevalente[[15]], è opportuno inserirle a fini prudenziali.   Giustificazione di questa teoria prevalente è da ritrovarsi nella ratio delle stesse disposizioni[[16]] e nella disciplina dettata dall’art. 46 comma 1 d.P.R. n. 380 del 2001 secondo cui non sono soggetti alla disciplina urbanistica gli atti pubblici o scritture private autenticate costitutivi, modificativi o estintivi dei diritti di garanzia o servitù, risultando quindi soggette alla disciplina gli atti di rinuncia. Medesima conclusione deve trarsi per le menzioni inerenti all’identificazione catastale attraverso la planimetria depositata in Catasto. Non trova invece applicazione la disciplina circa la prestazione energetica, ciò poiché la rinuncia è un atto neutro, pertanto incompatibile con gratuità e onerosità, ma si riconosce analogia con la disciplina degli atti a titolo gratuito per i quali non v’è obbligo né di allegazione né di informativa del certificato energetico. 

Ulteriore elemento degno di attenzione è la pubblicità, dunque la trascrizione dell’atto notorio rinunciativo, per la quale si deve fare riferimento alla disciplina ex artt. 1350 n. 5 c.c., 2643 n. 5 c.c. e 2659 c.c., secondo cui l’atto in questione è soggetto a pubblicità. Nella trascrizione dell’atto di rinuncia ci si imbatte in un solo effetto negativo, quale quello della perdita del diritto dismesso, essendo mediato, indiretto o riflesso il momento acquisitivo. Essendo la rinuncia un atto unilaterale, i classici effetti contestuali non risultano esserci, pertanto la trascrizione di quest’atto crea dubbi in merito.

Il notaio deve ottemperare alla trascrizione di cui all’art. 2643 n.5, risultando nei soli confronti del soggetto rinunciante, così come confermato dalla dottrina maggioritaria. Ulteriore accortezza che dovrà esser presa dal notaio sarà quella inerente all’applicazione di normativa speciale ai singoli atti di rinuncia, adottando soluzioni fondate sulla natura giuridica, effetti prodotti dall’atto e le tesi seguite in relazione alla causa[[17]]. 


5. Rinuncia alla quota di comproprietà ed in condominio

Trattasi di un negozio formale che richiede la forma scritta ab sustantiam, pena, dunque, la nullità se aventi per oggetto beni immobili. 

La Cassazione[[18]] si è espressa in merito alla tematica di rinuncia nei casi di comproprietà. La sentenza n. 23691/2009 stabilisce che la partecipazione alla comunione ordinaria comporta contitolarità di un diritto e non già di una singola porzione di esso suscettibile di rinuncia abdicativa, pertanto, qualora per mezzo di una dichiarazione rinunciativa venisse meno una partecipazione alla comunione, ciò comporterebbe un ricalcolo pro quota dell’entità della partecipazione dei comunisti superstiti con conseguente accrescimento delle proprie quote ipso iure e non per volontà del disponente, avendo efficacia il principio di elasticità della proprietà.

Il legislatore nel testo normativo del codice civile ha previsto espressamente la rinuncia alla quota, ne è un esempio l’art. 1104 c.c. secondo cui la rinuncia al diritto reale comporta dismissione della situazione debitoria. 

L’effetto derivante dalla rinuncia di quota, ossia l’accrescimento delle quote dei comproprietari, deriva dalla natura della comunione quale diritto sull’intera cosa che limita il concorrente diritto degli altri contitolari, dunque non è un effetto diretto della rinuncia, ma indiretto e mediato così come l’effetto espansivo delle altre quote della comunione. Non appare possibile in tal caso rinuncia all’accrescimento da parte dei contitolari, mancando una diretta alterazione della sfera giuridica altrui, ed essendo l’effetto espansivo dipeso non dalla natura delle quote residue, bensì dalla natura abdicativa dell’atto di rinuncia. Resta salva la possibilità degli altri comproprietari di poter rinunciare alle rispettive quote.

Ne discende da ciò che l’atto di rinuncia in esame è un negozio unilaterale non recettizio. Non si ha un effetto liberatorio, né la possibilità di rifiuto, e quindi non si sente la necessità della conoscenza altrui ai fini dell’efficacia del negozio, seppur appare sicuramente conveniente metter a conoscenza i contitolari superstiti dell’avvenuto negozio abdicativo, cosicché siano edotti circa la situazione giuridica mutata.

Infine, per quanto attiene l’ambito delle rinunce nel settore condominiale, la norma di riferimento è quella espressa dall’art. 1118 comma 2 c.c., modificata dalla riforma in tema di condominio con la Legge 11 dicembre 2012, n. 220. Il testo normativo, prima di detta riforma, prevedeva che il condominio non potesse, come regola, sottrarsi al contributo nelle spese per la conservazione delle parti comuni, rinunziando al diritto su queste.  Era, dunque, ammesso un atto di rinuncia al diritto sulle parti comuni dell’edificio, nonostante gli effetti limitati, permanendo i contributi per le spese di conservazione delle parti.

In seguito alla riforma, l’attuale disposizione prevista nell’art. 1118 comma 2 c.c. prevede che il condomino non possa rinunciare al proprio diritto sulle parti comuni, escludendo in tal modo quella precedente possibilità di rinuncia al diritto sulle parti comuni del comune edificio prima riservata al singolo condomino.

Il nuovo divieto, tuttavia, è l’eccezione espressa, non la regola.  


6. Le scelte del chiamato all’eredità: l’accettazione e la rinuncia all’eredità

L’oggetto di detto istituto rinunciativo risulta esser particolarmente rilevante, poi, in ambito successorio, in quanto chi è chiamato alla successione ha diritto alla rinuncia della qualità di chiamato all’eredità, anche se di vera e propria rinuncia non si tratta. 

Viene impiegato il termine in modo improprio, questo poiché la rinunzia è quell’atto che prevede la rinuncia al diritto espressa dal titolare, cosa non ammessa in ambito successorio poiché espressamente vietato poter rinunciare prima dell’apertura della successione, ai sensi dell’art. 458 c.c., articolo questo che detta divieto dei patti successori. La dicitura fuorviante è dettata dal fatto la rinuncia riguarda la sola qualifica di chiamato all’eredità e non di erede, essendo quest’ultima qualifica mai rivestita dal soggetto[[19]].

Pure la giurisprudenza si è espressa in merito, affermando che la rinuncia riguarda la sola chiamata all’eredità e non la qualità di erede che sussiste solamente dopo l’accettazione di eredità[[20]] e successivamente non più rinunciabile, in forza del principio semel heres, semper heres[[21]], pertanto essa riguarda il mero diritto del chiamato all’eredità di poter adire questa. Anche in tal settore la forma è rilevante, essendo il legislatore stesso ad indicare nel testo normativo dell’art. 519 c.c. le forme utilizzabili per poter ricorrere a questo istituto giuridico che deve esser manifestato con dichiarazione ricevuta dal notaio o dal Cancelliere del Tribunale competente per territorio o del luogo ove vi sia stata apertura della successione. 

In ambito notarile, trattasi di atto solenne per il quale non viene espressamente richiesto dalla legge notarile la presenza dei testimoni[[22]]. Ciò mette in rilievo la differente formalità richiesta per l’accettazione e la rinuncia all’eredità, in quanto la prima può esser espressa in forma espressa o tacita, mentre la seconda solamente espressa, in quanto atto solenne. 

E proprio in merito a ciò emerge la discrasia fra il dettame giuridico dell’art. 2699 c.c. e dell’art. 519 c.c. oltre alla disciplina ex art. 1350 c.c., ove viene sempre e solo fatto riferimento alla forma scritta, dovendosi ribadire ulteriormente il fatto che non sia presente alcuna legge e/o giurisprudenza che contesti la forma pubblica e, dunque, alcuna nullità supportata dalla giurisprudenza della Cassazione. 

Risulta esser ancor più evidente come nell’ambito mortis causa la forma della rinuncia sia semplice prassi, essendo ritenuta, fra l’altro, non necessaria dal Tribunale in sede di inserzione nel registro delle successioni. E il fatto stesso che tanti notai siano stati sanzionati per aver autenticato delle rinunce all’eredità può essere visto proprio come un segno che nella prassi notarile si sia sempre indifferentemente optato per l’una o per l’altra forma.

6.1. La giurisprudenza circa le rinunce all’eredità

Tutto quanto suddetto in merito alla forma dell’atto di rinuncia trovava conferma nel costante orientamento della Cassazione che dalla mancanza dell’atto pubblico non faceva dipendere la nullità dell’atto[[23]]. In tutti i casi sottoposti al vaglio dei giudici è stato deciso che la rinuncia all’eredità per scrittura privata è valida tra le parti, ma inefficace (rectius inopponibile) ai terzi[[24]].

Sennonché l’opponibilità ai terzi non dipende dalla natura dell’atto, ma dalla sua inserzione nel registro delle successioni[[25]]. 

Ogni qual volta il legislatore richieda la forma dell’atto pubblico lo impone espressamente, senza utilizzare espressioni equivoche.  Ubi lex voluit dixit.

Così l’art. 782 c.c. sulle donazioni, l’art. 768-ter c.c. sui patti di famiglia, gli artt. 2328, 2463 e 2521 c.c. sugli atti costitutivi delle Società di capitali e cooperative, l’art. 14 sulla costituzione di associazioni e fondazioni e così pure ancora molti altri esempi possono essere rinvenuti all’interno del nostro codice civile.

In particolare, la giurisprudenza sulle rinunce all’eredità, fin dagli anni quaranta e cinquanta[[26]], considerava valida inter partes la rinuncia all’eredità per atto privato: «è questo un punto di vivo contrasto tra la giurisprudenza, la quale, anche sotto l’imperio del codice vigente, ha più volte affermato la validità inter partes della cosiddetta “rinuncia contrattuale”[[27]]; e la dottrina, specie la più recente, quasi unanime nel sostenere la tesi opposta, su uno spunto della relazione ministeriale».

«A giudizio della Corte il testo dell’art. 519 non offre argomenti decisivi, perché se è vero che il secondo comma, con una disposizione di cui è inutile attardarsi ad illustrare, sotto altri aspetti, la problematicità, stabilisce che “la rinuncia fatta gratuitamente a favore di tutti coloro ai quali sarebbe devoluta la quota del rinunciante, non ha effetto finché, a cura di alcuna delle parti, non siano osservate le forme di cui al presente comma”, rimane tuttavia aperto il problema se quella inefficacia riguardi soltanto i terzi, o se invece debba essere intesa in senso oggettivo».

«La Corte si è orientata per la prima soluzione, considerando che le forme indicate nel primo comma dell’art. 519, debbano intendersi predisposte esclusivamente a tutela dei terzi».

E ancora, si sostiene[[28]] che l’atto ricevuto dal Notaio «non rappresenta un requisito di sostanza, ma assolve una funzione meramente strumentale rispetto al sistema di pubblicità; altro non è che una formalità propedeutica imposta[[29]] dall’esigenza di garantire l’autenticità della dichiarazione da iscriversi nel registro delle successioni».

La Cassazione prosegue, poi, tale orientamento per obiter dicta sostenendo che è solo ai fini della validità ed efficacia nei confronti dei terzi che l’atto di rinunzia all’eredità deve essere rivestito di forma solenne[[30]]. 

Dunque, sia il termine «validità» che il termine «efficacia» devono essere legati alla locuzione «di fronte ai terzi».

Che senso avrebbe, infatti, menzionare l’inefficacia dopo aver indicato l’invalidità: ciò che è invalido è comunque inefficace, per cui anche il termine «validità» è da riferirsi, come «efficacia», rispetto ai terzi. Se questo orientamento avesse voluto riferirsi alla validità si sarebbe fermato a quella in quanto comprende anche ciò che è colpito da inefficacia: pertanto è logico riferire entrambe agli effetti nei confronti dei terzi.

Le considerazioni appena esposte ci paiono sufficienti per ribadire che la imperatività, della norma invocata, quale art. 519 c.c., non sia sufficientemente “espressa”, “manifesta” ed “inequivoca”, come da noto orientamento della Cassazione per le nullità non espresse partite dalle Cassazioni del 1998, quindi bisogna ritenere che non possa essere comminata la sanzione richiesta per difetto del presupposto. Inoltre, giova ripetere, tutte le rinunce fatte nella forma della scrittura privata hanno avuto regolare pubblicità, dunque l’effetto ha riguardato pure la posizione dei terzi. 

In ossequio a ciò, sarebbe opportuno che la legge si esprimesse in merito e dichiarasse espressamente se optare per l’atto pubblico od anche per la scrittura privata autenticata. Dottrina e giurisprudenza dominanti ritengono che l’atto di rinuncia sia un atto pubblico ove la forma sia requisito essenziale, la cui mancanza comporterebbe nullità dell’atto[[31]], anche se la forma della scrittura privata autenticata arriderebbe al periodo pandemico, non essendo necessaria la compresenza delle parti ed essendo dalle tempistiche minori rispetto all’atto pubblico. 

Ulteriore caratteristica rilevante è l’inserimento della dichiarazione di rinuncia nel registro delle successioni, presente presso il Tribunale del luogo di apertura della successione. Detto adempimento per alcuna dottrina[[32]] risulta esser essenziale fra le varie formalità essenziali per la validità della rinunzia, mentre altra dottrina[[33]] e parte della giurisprudenza nella mancanza di questo elemento vede un solo ostacolo all’opponibilità verso i terzi. 

Ulteriore elemento richiesto dall’ordinamento affinché venga prodotto l’atto di rinuncia è la capacità di agire del soggetto rinunciante, pertanto soggetti minori, interdetti, emancipati ed inabilitati possono compier quest’atto solo a mezzo di rappresentanza dei genitori, tutori ovvero curatori su autorizzazione del giudice cautelare, ai sensi del disposto normativo degli artt. 320, 374, 394, 424 c.c.  La rinuncia è un atto appartenente alla sfera degli atti di straordinaria amministrazione, incidendo sul patrimonio del soggetto che la effettua, oltre che personalissimo, potendo esser eseguito dal solo rinunciante o dal rappresentante legale o volontario. 

Dato che non è possibile porre alcuna condizione, termine e/o elemento accidentale, l’atto di rinuncia ha natura di atto legittimus, ai sensi dell’art. 520 c.c., con effetto retroattivo fino al giorno dell’apertura della successione, ex art. 521 c.c. 


7. E dunque…

Alla luce di quanto detto, il notaio, dunque, svolge una vera e propria funzione formativa ed integrativa rispetto alla normativa di riferimento rinvenibile in tema di rinuncia, poiché chiamato ad elaborare nella pratica lo schema giuridico più rispondente alla volontà del privato. 

Nonostante l’interesse suscitato dall’istituto della rinuncia ed i relativi studi e tesi espresse dalla dottrina in merito, persistono le difficoltà nel configurare e confezionare l’atto in questione come atto negoziale tipico, oltre che quelle inerenti alla convivenza dello stesso in relazione ai vari diritti a cui di volta in volta si affianca.

Il notaio, pertanto, si troverà ad operare oltre la previsione legale tipica: dovrà cercare la migliore soluzione per il caso prospettato, nel pieno rispetto della legalità, e motivare le ragioni, la struttura e la convenienza dello schema prescelto così da sopperire agli aspetti non disciplinati espressamente dalla legge.

In questo ruolo, dunque, “formativo ed integrativo”, i notai, quali interpreti qualificati, sono anche legislatori altrettanto qualificati, come costante orientamento notarile e, infine, come legislatori che sanno funzionalizzare l’interpretazione creativa alle esigenze proprie e tipiche dell’ordinamento giuridico. 


NOTE:

[1] Si v. Co.Re.Di. Emilia Romagna, 5 marzo 2009, n. 733 e ancora 28 gennaio 2015, n. 11115; Co.Re.Di. Campania e Basilicata, 18 febbraio 2011, n. 1380; Co.Re.Di. Marche, 5 maggio 2014, n. 10306; Co.Re.Di. Lombardia, 25 giugno 2015, n. 10560, Co.Re.Di. Liguria, 27 ottobre 2015, n. 10548; Co.Re.Di. Friuli Venezia Giulia, Veneto e Trentino Alto Adige, 3 novembre 2017, n. 10098 e ancora 12 febbraio 2019, n. 11464; Co.Re.Di. Sardegna, 29 ottobre 2020, n. 11773.

[2] Così, per es., F. MACIOCE, Il negozio di rinuncia nel diritto privato, Napoli, 1990, 77; M. ALLARA, Le fattispecie estintive dei rapporti obbligatori, Torino, 1952, 223.

[3] Cfr. S. PIRAS, La rinuncia nel diritto privato, in Annali Università Camerino, Napoli, 1940; L. FERRI, Della trascrizione immobiliare, in Comm. cod. civ.; E BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, Napoli, 1994; F. MACIOCE, Il negozio di rinuncia nel diritto privato, Napoli, 1992.

[4] Alcuni sostengono che la rinuncia abbia una causa astratta. Così si v. G. GORLA, L’atto di disposizione di diritti, in Ann. Della facoltà di giurisprudenza della R. Università di Perugia, 1936, 72 ss. Più recentemente R. QUADRI, La rinuncia al diritto reale immobiliare. Spunti di riflessione sulla causa dell’atto unilaterale, Napoli, 2018, 58 ss., nonché 114 ss., in cui ha sostenuto la tesi secondo cui la rinuncia ha causa variabile. Per un approfondimento sulla causa della rinuncia, si v. G. IACCARINO, La rinuncia nel diritto italiano, in Quaderni di Studi Notarili, Napoli, 2020, 13 ss.

[5] Si v. M. ALLARA, Le nozioni fondamentali del diritto civile, Torino, 1958, 28. 

[6] Sul punto, si v. l’ampia trattazione di T. MONTECHIARI, I negozi unilaterali a contenuto negativo, Milano, 1996, 237 ss. 

[7] Così G. GIACOBBE, La superficie, in Tratt. dir. civ. e comm., 2003, 148; A. GUARNIERI, La superficie, in Cod. civ. Comm., 2007,185.

[8] Cfr. anche quanto detto in A. TROISI, La rinuncia nel nostro ordinamento: per atto notarile?, in Notariato, 4, 2021, 380. 

[9] S. v. L. BOZZI, La negozialità degli atti di rinuncia, Milano, 2008, 228 ss.

[10] Si v. N. BELLINVIA, La rinunzia alla proprietà e ai diritti reali di godimento, Studio CNN 216-2014/C; R. MATERI, Negoziazione assistita e autentica notarile: responsabilità disciplinare se mancano i requisiti formali dell’art. 2703 c.c., in Notariato, 2020, 3, 316 ss.

[11] Cfr. R. QUADRI, La rinuncia al diritto reale immobiliare. Spunti di riflessione sulla causa dell’atto unilaterale, in Cultura giuridica e rapporti civili, Napoli, 2018; C. BONA, L’abbandono mero degli immobili, Napoli, 2017; R. FRANCO, La rinunzia alla proprietà (immobiliare): ripensamenti sistematici di (antiche e recenti) certezze, in Il Foro nap., Quaderni, 34, Napoli, 2019.

[12] Si v. M. BELLINVIA, La rinunzia alla proprietà e ai diritti reali di godimento, Studio CNN 216-2014/C; R. MATERI, Negoziazione assistita e autentica notarile: responsabilità disciplinare se mancano i requisiti formali dell’art. 2703 c.c., cit., 316 ss.

[13] Relazione del Ministro Guardasigilli sul codice civile, n. 485.

[14] Si v. B. BIONDI, Le donazioni, Torino 1961, 402; F. MACIOCE, Rinuncia (dir. priv.), in Enc. dir., Milano, 1989, 930.

[15] Si v. C. CARBONE, Formulario notarile commentato, Milano, 2016, 1565. 

[16] Sul punto F. REGINE, Il rifiuto del legato immobiliare, in Riv. not., 2014, 3, 241.

[17] Così G. IACCARINO, La rinuncia nel diritto italiano, I, in Quaderni di Studi Notarili, Napoli, 2020, 364.

[18] Cass., sez. II, 9 novembre 2009, n. 23691.

[19] Sul punto si v. ancora G. IACCARINO, La rinuncia nel diritto italiano, I, in Quaderni di Studi Notarili, Napoli, 2020, 32 ss. 

[20] Si v. Cass. civ., 23 novembre 1967, n. 2875, in Rep. giust. civ., 1967, Successioni in genere, n. 35.

[21] Si v. M. DI MARZIO, L’accettazione e la rinuncia all’eredità, in Teoria e pratica del diritto, Milano, 2019.

[22] Art. 47, l. 16 febbraio 1913, n. 89, così come modificato dall’art. 12, comma 1, lett. c), l. 28 novembre 2005, n. 246. 

[23] Sul punto si v. quanto già dissi in P. ZANELLI, La nullità “inequivoca”, in Contratto d’Impresa, 3, Padova, 1998. 

[24] Da ult. si v. Cass., sez. I, 27 settembre 2006, n. 21019, in Giust. civ. mass., 2006, 9; e già in precedenza Cass., sez. I, 15 marzo 1988, n. 2446, in Giust. civ. Mass., 1988, fasc. 3. Contra si v. Cass., sez. VI, 4 luglio 2016, n. 13599, in Giust. civ. mass., 2016, secondo cui la rinuncia all’eredità deve «rivestire forma solenne, ovvero, si deve trattare di una dichiarazione resa davanti al notaio o al cancelliere, con successiva iscrizione nel registro delle successioni, senza possibilità di equipollenti (Cass., 29 marzo 2003, n. 4846; Cass., 12 ottobre 2011, n. 21014; Cass., 20 febbraio 2013, n. 4274). Ne consegue che non è possibile dar seguito ad un atto di rinunzia all’eredità nella forma della scrittura privata con sottoscrizioni autenticate e ciò siccome la fattispecie sarebbe contraria a quanto prescritto negli articoli 519 e 525 c.c.».

[25] In merito si v. Cass., 2 marzo 1950, n. 505, in Giur. it.,1951, I, 1, 442.

[26] Cfr. App. Firenze, 31 marzo 1958, in Giur. Toscana, 1958, 730.

[27] Cfr. Cass., 21 maggio 1945, n. 704, in Giur. it., 1946, I, 1, 20; Cass., 26 settembre 1946, n. 1292, in Foro it., 1947, I, 12; Cass., 2 marzo 1950, n. 505, in Giur. it., 1951, I, 1, 442.

[28] App. Firenze, sopra cit., a 734.

[29] Come nel caso della trascrizione; cfr. art. 2657 c.c.

[30] Così Cass., sez. II, 30 ottobre 1991, n. 11634, in Giust. civ. mass., 1991, 10.

[31] Cass. civ., 20 febbraio 2013, n. 4274; Cass. civ., 11 gennaio 2011, n. 444. 

[32] Così G. AZZARITI, La sostituzione fedecommissaria, in P. RESCIGNO (diretto da), Tratt. dir. priv., 6, II, Torino, 1997, 196.

[33] Così A. CICU, Successioni per causa di morte. Parte generale, Delazione e acquisto dell’eredità. Divisione ereditaria, in A. CICU – F. MESSINEO (diretto da), Tratt. dir. civ. comm., II, Milano, 1961, 208; G. PRESTIPINO, Delle successioni in generale, in Comm. cod. civ., 1981, 430.