Giuffré Editore

La liquidazione giudiziale tra disciplina attuale e riforme

Relazione tenutasi nell'ambito del convegno telematico “La giustizia civile fra riforme e emergenza epidemiologica: profili di interesse notarile e possibile contributo del Notariato al superamento della crisi”, online dal 13 luglio 2020 al 31 dicembre 2020

Piervincenzo D'Adamo, Avvocato in Bologna


Prefazione

Il codice della crisi e dell’insolvenza, secondo alcuni autori[[1]], è il tratto più evidente di una vera e propria rivoluzione culturale rispetto alla “vecchia” legge fallimentare (R.d. n. 267 del 1942). Il nuovo testo normativo definisce i concetti di crisi e di insolvenza facendo attenzione ad eliminare dal nostro vocabolario giuridico i termini “fallimento” e “fallito; introduce la c.d. liquidazione giudiziale e il sistema di allerta, nel tentativo di anticipare sempre di più la fase di rilevamento sistemico delle crisi aziendali, ed infine, il nuovo codice, rivisita la struttura delle procedure di concordato, degli accordi di ristrutturazione e dei piani attestati.


1. Le ragioni della riforma del 2019 e la creazione del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza

Il codice della crisi e dell’insolvenza, sostanzialmente, ha un motore propulsivo ben definito risalente ad una comunicazione[[2]] della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo del 2 gennaio 2012 in cui si evidenziava l’esigenza di un nuovo approccio europeo al fallimento delle imprese e all’insolvenza[[3]].

In quest’ottica si enfatizza, ancora di più, rispetto a quanto era già stato fatto nella riforma del 2006/7, il concetto di “Fresh start” (di nuovo inizio). L’idea è quella di consentire agli imprenditori una seconda opportunità per ripartire con nuove iniziative imprenditoriali che siano redditizie e quindi in grado di conservare l’occupazione.

Nella già citata comunicazione la Commissione evidenza a chiare lettere che possono essere considerati più efficienti quei sistemi giuridici in cui esiste una disciplina fallimentare e dei meccanismi di pre-allarme ben funzionanti. Sempre secondo la Commissione è di primaria importanza la riduzione dei “tempi di riabilitazione” ossia il tempo intercorrente tra la dichiarazione di fallimento e il momento in cui si può riavviare una nuova attività redditizia.

Di particolare importanza è la raccomandazione approvata dalla Commissione europea che nel marzo 2014, ha ribadito con chiarezza, che appare necessario prevedere il beneficio della liberazione integrale dai debiti oggetto di fallimento nel tempo massimo di tre anni dalla data in cui il giudice ha deciso sull’apertura della procedura di fallimento o dalla data in cui è iniziata l’attuazione del piano di ammortamento concordata con il debitore e che è necessaria l’introduzione di «procedure flessibili che limitino l’intervento del giudice ai casi in cui è necessario e proporzionato, per tutelare gli interessi dei creditori e dei terzi eventuali».

Anche e forse soprattutto per dare attuazione alla raccomandazione succitata, nei primi mesi del 2015 il Ministro di giustizia ha nominato una Commissione di studio presieduta dal dott. Renato Rordorf (da cui la cd. Riforma Rordorf).

Dai lavori della Commissione ha preso vita la legge delega 19 ottobre 2017 n. 155 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 254 del 30 ottobre 2017[[4]]. Lo stesso Ministro di giustizia nello stesso 2017 nominò una seconda commissione, sempre presieduta dal dott. Renato Rordorf, per la predisposizione di uno schema di decreto legislativo delegato, che fu consegnato nel dicembre dello stesso anno. L’ultima versione della Riforma è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 14 febbraio 2019 con un’ampissima “vacatio” (18 mesi dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, successivamente posticipata al 1 settembre 2021 con il d.lgs. n. 14 del 2019)[[5]].


2. Il nuovo art. 213 e i meccanismi di verifica endoprocessuale

In questa prima parte dello studio ci si limiterà ad evidenziare che la norma contenuta nel nuovo art. 213, che sostituisce l’attuale art. 104-ter, modifica in parte i sistemi di controllo esistenti all’interno della procedura concorsuale.

Ricordiamo che l’attuale art. 104-ter l. fall. prevede un duplice sistema di controllo, attraverso l’approvazione del programma da parte del comitato dei creditori e l’approvazione del giudice delegato sui singoli atti. I controlli, volendone sintetizzare le funzioni, si sostanziano in un controllo di merito il primo e un controllo di legittimità giuridica il secondo.

La dottrina prevalente[[6]] ritiene che il controllo del G.D. sia un Controllo di legittimità; secondo questa particolare visione scientifica, il controllo del giudice è un controllo di conformità che si sostanzia in una verifica astratta della rispondenza dell’atto liquidatorio alle previsioni contenute nel programma (c.d. Controllo di denotazione), il giudice deve quindi verificare se l’atto liquidativo era previsto dal programma ed in caso contrario deve negare l’autorizzazione convocando il curatore per chiarimenti o invitandolo ad un supplemento di programma. Un secondo e più stringente contenuto del controllo di conformità concerne la verifica dei caratteri dell’atto liquidatorio, quali la tipologia, la forma giuridica, le condizioni, i parametri di stima e valutazione del bene, modalità di individuazione del contraente, attività pubblicitaria (c.d. Controllo di connotazione). È ovvio che un simile sistema di controllo richiederebbe un alto livello di dettaglio del programma di liquidazione, tanto è vero che molti autori hanno sostenuto in modo univoco, che la assenza di un adeguato livello di dettaglio del programma, soprattutto sulle modalità delle vendite competitive sia motivo di diniego dell’autorizzazione. Il controllo di conformità si estende anche al c.d. Controllo di correlazione (o di coerenza) tra atto e programma, vale a dire che il giudice delegato dovrà, altresì, valutare, se il singolo atto liquidativo è sincronico rispetto all’intero programma di liquidazione e se quel determinato atto è coerente con la strategia liquidativa generale evidenziata nel programma di liquidazione.

Lo stesso potere di controllo il giudice delegato lo mantiene quando il programma di liquidazione prevede un atto di straordinaria amministrazione o una transazione, anche in questi casi pur non potendo, il giudice, entrare nel merito e sull’opportunità del singolo atto potrà però approntare un giudizio di correlazione volto a verificare se quel determinato atto straordinario sia sincronico rispetto all’intera strategia liquidativa.

Questo meccanismo sembra essere messo in dubbio dalla nuova formulazione dell’art. 213 che al 7 comma dispone che «il programma è trasmesso al giudice delegato che ne autorizza la sottoposizione al comitato dei creditori per l’approvazione. Il giudice delegato autorizza i singoli atti liquidatori in quanto conformi al programma approvato».

Ad una primissima lettura della norma, che più di tutte affronta i sistemi di controllo endoprocedimentali sulla liquidazione, sembrerebbe che il legislatore abbia voluto porre fine ad una cattiva, ma molto diffusa, abitudine di molti uffici giudiziari, secondo la quale il curatore redatto il programma ed inviato al comitato dei creditori lo girava, poi, al giudice delegato che con un unico provvedimento approvava tutte le attività in esso contenute; ciò faceva sì che il giudice delegato con un singolo provvedimento autorizzativo legittimasse tutti gli atti liquidativi del curatore contenuti nel programma di liquidazione.

Il legislatore sembra voler ottenere un controllo più stringente, più dettagliato, più incisivo sulle attività del curatore, soprattutto su quelle che incidono sulla liquidazione e quindi sulle metodologie di monetizzazione dei diritti del debitore.

La riforma in esame sembra aver preso atto delle forti disfunzioni che in questi anni si sono avute a seguito di programmi troppo generici e modalità di controllo giudiziario troppo elastiche o addirittura miopi, che hanno dato vita a liquidazioni quanto meno irregolari se non illegittime. Ciò trova conferma in un perdurante intervento della Cassazione, ad esempio in materia di trattativa privata, disponendone la acclarata nullità, così come di tutte quelle transazioni create “ad hoc” per poter arrivare ad una alienazione senza procedura competitiva; Ciò appare chiaro dal testo del nuovo art. 213 che sembra confermare un irrigidimento del controllo giudiziario sulle attività liquidative.


2.1. Il nuovo art. 213: innovazione nei controlli dell’organo giudiziario

Il nuovo testo dell’art. 213 che sostituisce il precedente art. 104 ter l. fall. sembra recepire, nelle sue parti meno innovative, alcune esigenze tipiche della prassi operativa e delle esperienze degli operatori acquisite in questi 10 anni di vigenza della novella 2006/07.

Il precedente VIII comma dell’art. 104-ter diventa il nuovo II comma dell’art. 213 rimanendo sostanzialmente inalterato, nella parte in cui consente al curatore di non acquisire all’attivo o rinunciare ad alcuni beni del fallito, ove ritenesse antieconomica la loro liquidazione previa autorizzazione del comitato dei creditori e previa comunicazione ai creditori che possono, ove lo ritengano opportuno, iniziare procedure esecutive o cautelari individuali sui beni del debitore. 

Il nuovo art. 213, comma 2, introduce, però, rispetto al passato un elemento di novità, recependo quanto già anticipato nelle esecuzioni immobiliari con gli artt. 591 comma 1 e 164-bis disp. att. c.p.c. Le norme appena citate introducono nel procedimento esecutivo il principio di equo contemperamento del diritto di monetizzazione dei beni del debitore da parte del creditore ancora insoddisfatto, ma anche quelle di una adeguata durata del processo esecutivo e quelle del diritto del debitore stesso a non vedere sviliti i propri beni.

Le norme indicate introducono due elementi in, solo apparente, contraddizione tra loro, da un lato l’art 591-bis c.p.c. dispone che dopo la quarta diserzione il giudice può ordinare l’abbattimento fino alla metà del prezzo andato deserto, superando, quindi, il limite del 25% applicabile fino a quel momento, dall’altro l’art. 164-bis disp. att. c.p.c. prevede che quando il giudice ritenga che «… non è più possibile conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori, anche tenuto conto dei costi necessari per la prosecuzione della procedura, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo, è disposta la chiusura anticipata del processo esecutivo» introducendo, di fatto il concetto antieconomicità dell’esecuzione. Quindi che cosa si può desumere dal combinato disposto di queste norme, che il legislatore concede anche poteri straordinari, al giudice, per ottenere la monetizzazione dei beni del debitore, ma nel momento in cui nonostante i tentativi fatti, il bene non trova “appeal” nel mercato, il legislatore non consente “l’accanimento terapeutico”.

Non si può continuare a vendere, quando i costi della prosecuzione della liquidazione, i tempi e il probabile realizzo non determinano più un effettivo vantaggio per la procedura; non si può passare dall’esigenza di ristoro del creditore non soddisfatto al puro “accanimento terapeutico”. Il legislatore della riforma concorsuale, introduce, evolvendolo, questo principio anche nella liquidazione endoconcorsuale; il secondo periodo del secondo comma dell’art. 213 introduce una “presunzione di antieconomicità”, affermando che dopo la sesta diserzione la liquidazione si presume, appunto antieconomica, a meno che il giudice non autorizzi espressamente il curatore alla prosecuzione della liquidazione, in presenza di giustificati motivi. Come si vede con il nuovo art. 213 si introduce anche nella liquidazione endoconcorsuale l’attenzione al principio di economia processuale e al suo contemperamento con le esigenze del debitore e dei creditori.

Il III comma dà particolare risalto all’individuazione ed indicazione analitica delle azioni giudiziarie che il curatore intende porre in essere o le liti che intende proseguire e soprattutto, anche in questo caso i costi preventivati per il primo grado. Anche in questo caso è necessario fornire al giudice e al comminato dei creditori la quantificazione dei costi in modo che siano in grado di valutare la convenienza, per la procedura della prosecuzione della causa o della sua instaurazione ai fini dei risultati utili per l’attivo fallimentare. Si deve, consentire, al comitato dei creditori, soprattutto, di comprendere quale sia il risultato finale e quale sia il vantaggio per i creditori stessi.

Il legislatore interviene, inoltre, in modo chiaro riguardo “ai criteri e alle modalità” della liquidazione dei beni immobili, della liquidazione degli altri beni e della riscossione degli altri crediti. Il legislatore del 2019 chiarisce in modo evidente che è importante indicare in modo analitico il modo in cui si intende vendere i beni della liquidazione giudiziale. Il precedente art. 104-ter relegava questa disposizione al II comma lett. e con le parole «deve specificare … le condizioni di vendita dei singoli cespiti»; la nuova disposizione invece richiede che sia individuata un’apposita sezione del programma in cui si devono indicare i criteri e le modalità della vendita degli immobili, e separatamente degli altri beni e dei crediti.

La terminologia usata è rappresentativa di una particolare attenzione a questo argomento viste le esperienze degli ultimi 10 anni, in cui non era inusuale che i programmi di liquidazione riportassero come disciplina della vendita dei beni la semplice dicitura «secondo le vendite competitive previste dall’art. 107 l.fall.»; come si è più volte detto[[7]], la vendita competitiva è ormai assunta a principio liquidativo, più che a modalità liquidativa, il che significa che non esiste un modello precostituito di vendita competitiva, ma che essa è caratterizzata da alcuni principi cardine, chiamati «pilastri della vendita competitiva» dai quali non si può prescindere; la vendita competitiva è un modello aperto, il che significa che per disciplinarlo ai fini del programma di liquidazione bisogna fare riferimento espresso ad un modello precostituito già esistente, ad esempio riferimento espresso agli artt. 570 e ss c.p.c che disciplinano la vendita senza incanto oppure disciplinare passaggio per passaggio tutto il percorso liquidativo, stando attenti a prevedere anche gli esiti delle opposizioni in caso di patologie processuali o di opposizioni strumentali da parte di controinteressati. È necessario indicare, inoltre, anche i costi del procedimento liquidativo coerentemente con il principio di equo contemperamento tra tempi, costi e risultati. 

L’ultimo periodo del III terzo comma riporta una indicazione quasi sibillina: nel programma di liquidazione bisogna indicare «gli esiti delle liquidazioni già compiute».

Perché è sibillina questa disposizione, perché il legislatore della riforma ha chiaramente eliminato dall’art. 213 quella che era una norma di apertura prevista dal VI comma dell’art. 104-ter è cioè che il curatore poteva procedere alla liquidazione dei beni anche prima del deposito del programma di liquidazione quando dal ritardo nel poteva scaturire pregiudizio per i creditori, previa autorizzazione del giudice delegato e sentito il comitato dei creditori ove esistente; bene questa disposizione è stata eliminata, l’unico richiamo, forse, si trova proprio nella disposizione prima indicata. Se così fosse ciò vorrebbe dire che la liquidazione prima del programma è assunta a principio generale in tutti i casi in cui si configuri un probabile danno per i creditori a tal punto da non dover neanche essere disciplinata; certo è che, non indicare quale sia il percorso autorizzativo, lascia agli interpreti, ma soprattutto agli operatori spregiudicati, spazi ampissimi di discrezionalità; una ricostruzione sistematica ci porterebbe sicuramente a configurare di nuovo la necessità di una autorizzazione giudiziaria, ma è probabile che molti interpreti sosterranno un’applicazione più legata alla lettera, configurando la possibilità per il curatore di procedere senza autorizzazione confidando nella “necessità ed urgenza”. Arrivare, invece, alla conclusione che l’eliminazione del comma 6 dell’art. 104-ter significhi non poter procedere a liquidazioni prima di aver depositato il programma sarebbe un interpretazione inaccettabile ed illogica; una simile linea di lettura della norma significherebbe o aderire all’idea che in pochi giorni si debba procedere la deposito di un programma praticamente vuoto per poter procedere alle liquidazioni di urgenza o che addirittura le liquidazioni ante programma non sono proprio possibili; pensare ad un programma vuoto depositato in pochi giorni confligge con l’idea del programma di liquidazione quale atto di programmazione strategica tendenzialmente unico ed analitico che da sempre il legislatore del 2006 e la dottrina hanno elevato a cardine dell’economia processuale della fase liquidativa; è ammissibile un integrazione di programma ma in modo estremamente limitato; pensare altresì che anche in caso di perdita funzionale o economica dei beni non si possa procedere alla liquidazione prima del deposito del programma è assolutamente illogico e soprattutto confliggente con il principio del massimo realizzo a cui è volta l’intera fase di liquidazione endoconcorsuale.

Il nuovo comma quarto dell’art. 213 ripropone, apparentemente, solo in forma diversa, quanto già previsto nel precedente comma II dell’art. 104-ter l. fall. evidenziando la necessità che il programma riporti gli strumenti, gli atti e le metodologie operative necessarie alla conservazione dell’azienda e alla sua successiva liquidazione ove ciò sia ritenuto, ancora possibile, dal curatore. La norma non sembra particolarmente innovativa rispetto al passato, forse meno analitica, ma non sicuramente cambiata nello spirito; il curatore dovrà, sostanzialmente, indicare tutti gli strumenti che lui ritiene necessari poter conservare il valore dell’impresa, ove ciò sia ancora possibile, e quindi dovrà dettagliare l’eventualità dell’esercizio dell’impresa, nuova formula per indicare l’esercizio provvisorio, o attraverso un affitto d’azienda e indicare in modo analitico se è ritenuto opportuno vendere l’intera azienda , parte di essa o i beni mobili in modalità atomistica, facendo attenzione a specificare le modalità con cui , tale liquidazione avverrà.

Il nuovo comma 5 dell’art. 213 ritorna sulle esigenze previsionali della procedura concorsuale continuando a chiedere al curatore di indicare, non solo il termine entro il quale inizierà la liquidazione, ma soprattutto il termine finale della stessa.

Come si può immaginare l’inizio della liquidazione, in termini teorici è possibile anche se non in modo analitico, in quanto essa è collegata ad una molteplicità di adempimenti preliminari (redazione perizie, relazioni notarili, reperimento fondi per la liquidazione, verifiche catastali, risoluzione di controversie legate ai beni oggetto di liquidazione ecc.), ma una determinazione realistica della fine della liquidazione sfocia nella “prevegenza”. Fare previsioni su tale elemento è come giocare ai dadi; qualunque previsione è sempre e soltanto probabilistica; si continua a non comprendere che utilità possono avere i creditori o il giudice all’indicazione di un termine altamente incerto e difficilmente prevedibile. Questo legislatore và oltre, chiede che la liquidazione abbia inizio entro 12 mesi, senza, però, prevedere una effettiva sanzione, se non, probabilmente, una negativa valutazione da parte del G.D. che ne potrebbe condizionare l’assegnazione di nuovi incarichi, o nei casi più estremi la revoca dell’incarico stesso. Sembra, altresì, che lo stesso legislatore continui a dare una particolare importanza alla quantificazione delle spese necessarie alla liquidazione, Ovviamente, è chiaro lo scopo di tale attenzione; solo in base ad un adeguato rapporto tra spese e ricavato è possibile stabilire se sia utile procedere alla liquidazione di in determinato bene; ma è altresì chiaro che tali quantificazioni sono solo presunte, in quanto la sola diserzione di un bene determina una reiterazione di costi pubblicitari che possono spostare il budget anche di molte migliaia di Euro.

Attraverso la lettura della relazione allo schema di decreto attuativo si comprende chiaramente che il legislatore ha introdotto questa disposizione, che rappresenta un’assoluta novità nella materia concorsuale, al solo scopo di determinare un’accelerazione della fase liquidativa, sulla base della sola pressione psicologica sul curatore, che intimorito dall’appalesarsi di un suo comportamento inefficiente nei confronti del suo giudice delegato è spinto a velocizzare i propri adempimenti. Niente di più. Come diremo successivamente anche per la durata massima della liquidazione, queste disposizioni non hanno sanzioni; il mancato rispetto del termine dei 12 mesi non ha sanzione se non un logoramento del rapporto fiduciario con il proprio giudice che può arrivare fino alla revoca dell’incarico, cosa però che in pratica avviene solo in casi rarissimi.

Il legislatore introduce, in questo nuovo comma 5 un ulteriore elemento di programmazione cronologica della liquidazione endoconcorsuale; il legislatore richiede che la liquidazione dei beni del fallito si concluda entro 5 anni e salvo “casi di eccezionale complessità” questo termine può essere esteso, con apposita autorizzazione giudiziaria, fino a sette anni.

La disposizione appare quasi comica, se non fosse addirittura tragica. Ancora oggi la media delle procedure fallimentari in Italia supera i 7 anni con un incremento medio nei tribunali del sud e delle isole di circa 18 mesi, ci sono addirittura Tribunali che hanno una durata media vicina ai 17 anni. Il legislatore del 2019, con una riforma che poco modifica riguardo alle tecniche liquidative endoconcorsuali, dà per scontato che per il solo fatto di aver indicato un termine ultimo della liquidazione come d’incanto la media che tutti i tribunali d’Italia hanno in materia liquidativa si abbassi di colpo ai 5 anni e quindi 2 anni in meno di quella attuale. Lo stesso legislatore consente, però, in casi di particolare complessità di superare i 5 anni ed arrivare fino ai 7; ricordando che questa è l’attuale durata media di un fallimento in Italia. 

La norma appare inutile, pleonastica, per certi versi addirittura fuorviante.

Ci si chiede: che cosa succede se la liquidazione non si conclude nei termini appena indicati?

Nulla. La norma non prevede sanzioni, né appare ipotizzabile l’interruzione della liquidazione e la chiusura della procedura in presenza di beni di cui non sia acclarata l’antieconomicità. Si immagini che cosa potrebbe accadere se la liquidazione giudiziale, termine con la quale si qualifica nella riforma il fallimento, abbia ancora nel proprio attivo un immobile di grande rilievo economico di cui non si è proceduto alla liquidazione perché era necessario ottenere uno sviluppo urbanistico che ne avrebbe decuplicato il valore economico; secondo il legislatore decorsi i 5 anni o al massimo i 7 il curatore dovrebbe sospendere la liquidazione nonostante l’esistenza di un bene di grande rilievo economico ancora appartenente al patrimonio giuridico della società fallita e chiedere la chiusura della procedura. Non appare una soluzione possibile; appare più probabile che la violazione dei termini previsti dal comma 5 dell’art. 213 determinino solo una valutazione, forse, se non giustificata, negativa del curatore, ai fini di nuovi incarichi; come già detto in precedenza nelle ipotesi più estreme ove il ritardo sia chiaramente dovuto a negligenza dell’organo liquidatorio, il G.D. si potrà spingere fino alla revoca dell’incarico; non appare percorribile la tesi secondo la quale, in applicazione del principio di economia processuale e adeguata durata dei procedimenti giudiziari, enunciato nell’art. 111 Cost., gli interessi economici dei creditori vengano, autoritativamente pregiudicati in nome di un superiore interesse alla rapidità processuale arrivando a prospettare una sovraordinazione del principio di economia processuale rispetto ai diritti di credito.

Viene mantenuta l’espressa previsione della possibilità di un supplemento di programma di liquidazione “per sopravvenute esigenze”; questo a conferma che l’esigenza del legislatore è quella di un programma tendenzialmente unico, che riporti tutta la strategia liquidativa del curatore. Ovviamente si è consapevoli che molto spesso, quanto richiesto dal legislatore, non è possibile, in quanto le vicende processuali, le tempistiche riguardo alle perizie o allo sviluppo urbanistico di alcuni beni, non consentono di pianificare tutto nello stesso momento e quindi la pratica ha evidenziato che i supplementi di programma possono essere anche molti e che quindi consentire questa eventualità era praticamente un obbligo per un legislatore avveduto.

Si ritiene, unitamente a parte della dottrina[[8]], che l’art. 213 e quindi il programma di liquidazione manchi di un apposito spazio dedicato alle “cause e circostanze del dissesto”, cioè la spiegazione delle ragioni dell’insolvenza.

Tale argomento continua ad essere di particolare importanza, perché nessuna programmazione strategica di ricollocazione dell’azienda sul mercato è possibile, se non si comprendono le ragioni effettive che hanno portato l’azienda stessa allo stato di crisi e di successiva insolvenza. Come si potrà immaginare una cosa è la crisi nascente dal furto di capitali da parte degli amministratori, altra cosa è la crisi nascente da investimenti sbagliati, altra cosa ancora è la crisi nascente da contrazione del settore merceologico di appartenenza o da obsolescenza della tecnologia utilizzata o venduta.

Alla stessa maniera si ritiene che sarebbe stato opportuno prevedere uno spazio obbligatorio del programma per i rapporti pendenti, ma soprattutto l’art. 213 avrebbe dovuto affrontare le regole di base per la secretazione delle informazioni del programma, in tutte le ipotesi in cui ciò sia necessario, come ad esempio quando si pensa ad un’azione di responsabilità contro gli amministratori o i sindaci della società in liquidazione giudiziale.

Di particolare importanza è il comma 7 dello stesso art. 213[[9]]. Con la riformulazione normativa contenuta nell’art. 213 il programma deve preventivamente essere inviato al G.D., il quale deve prima autorizzare l’invio al comitato, e dopo l’approvazione del comitato dei creditori, deve autorizzare i singoli atti liquidatori contenuti nel programma stesso redigendo apposita ordinanza che dispone e disciplina la vendita stessa. Sembra quindi che il legislatore abbia voluto un doppio controllo da parte del giudice, prima un controllo sulla legittimità dell’intera strategia liquidativa del curatore e poi un controllo di dettaglio sul singolo atto. Ad una prima lettura appare probabile che si sia voluto enfatizzare il ruolo di verifica di regolarità e coerenza giuridica del documento di strategia liquidativa del giudice delegato; tale necessità nasce, forse, dalla opportunità di dare una risposta definitiva a prassi operative erronee o poco efficienti; sembra, come si diceva, che il controllo giudiziario sia stato fortemente irrigidito, quasi spingendosi ad una probabile inefficienza del sistema; è possibile che il doppio passaggio dal giudice delegato abbia lo scopo di consentire all’organo giudiziario una prima lettura d’insieme dell’atto generale di strategia liquidativa e poi una seconda di dettaglio sul singolo atto.

È plausibile che tale meccanismo di verifica consenta al G.D. di avere una visione d’insieme sulla liquidazione; con la normativa attuale tale controllo della strategia liquidativa nella sua organicità, di fatto non esiste, visto che il G.D. è tenuto all’autorizzazione del singolo atto e non del programma, il cui controllo d’insieme è sottoposto al comitato dei creditori. Sicuramente tra le ragioni della modifica vi sono anche delle esigenze di economia processuale; un passaggio anticipato del programma di liquidazione al giudice delegato prima ancora della sottoposizione dello stesso programma al comitato dei creditori, consente di evitare la circolazione di un atto processuale già viziato nel suo contenuto giuridico o processuale. Forse si è pensato che correggere in diritto il programma prima che arrivi al comitato dei creditori che ne può valutare solo in merito avrebbe fatto risparmiare tempo.

Come si vedrà successivamente, questo preventivo controllo di legittimità in capo al G.D. e la successiva trasposizione delle modalità di liquidazione in una ordinanza dello stesso, al pari di quanto avviene con il provvedimento ex art. 569 c.p.c. per il Giudice dell’esecuzione Immobiliare, non deve far pensare che il curatore abbia perso la sua centralità nella fase liquidativa; si vedrà chiaramente, che una cosa è la verifica di legittimità spettante al G.D. ed altra cosa è il merito della strategia liquidativa che permane solidamente in capo al curatore[[10]].

Sembra che la soluzione adottata, in realtà possa determinare un effetto contrario.

Come si vedrà, nel dettaglio, l’art. 216, che è la norma che disciplina le modalità liquidative prevede che la liquidazione dei beni avvenga attraverso un’ordinanza del giudice delegato. In termini semplificati si può dire che:

  1. Il G.D. in una prima fase controlla l’intero programma ed autorizza l’invio al comitato;
  2. Ricevuta l’autorizzazione del comitato dei creditori, sempre il G.D. deve autorizzare uno per volta i singoli atti liquidativi, di cui presumibilmente ha già verificato la legittimità nel precedente controllo;
  3. Successivamente, sempre il G.D., deve trasporre in un proprio provvedimento l’analitica disciplina liquidativa già contenuta nel programma di liquidazione.

Negli oltre 10 anni di applicazione dell’impianto liquidativo introdotto con la riforma del 2006, erano già venuti alla luce limiti al sistema di controllo prospettato dalla precedente riforma; l’intento era quello di evitare al G.D. una visione atomistica della fase liquidativa, che però non era variata, rispetto al passato, visto che , almeno formalmente, egli era tenuto ad un controllo di legittimità sul singolo atto della liquidazione e non sull’intero programma, quale atto di strategia generale. Pur ritenendo opportuno un irrigidimento dei sistemi di controllo e la necessità di far riacquistare centralità al controllo giudiziario sulla stessa fase di liquidazione, sembra, forse ridondante il sistema adottato con la riforma contenuta nell’art 213. A molti appare chiaro[[11]] che ci siano duplicazioni di attività; la farraginosità del controllo nascente dal combinato disposto degli artt. 213 e 216 porterà, probabilmente, nell’applicazione concreta o ad una completa omissione dei passaggi processuali richiesti o ad una loro eccessiva semplificazione, che di fatto snaturerà la loro ragione genetica; al contrario una loro applicazione pedissequa, in coerenza con quella che sembra essere la lettura più immediata della norma, darà vita ad un forte rallentamento del procedimento di attivazione delle liquidazioni endoconcorsuali.


3. Le procedure competitive, le classificazioni e le problematiche di natura dottrinale

Prima ancora di affrontare la liquidazione dei beni, così come riformata dal nuovo codice della crisi d’impresa è forse necessario fare un piccolo cenno al concetto di vendita competitiva. I primissimi autori[[12]] che avevano commentato, ormai oltre un decennio fa, il concetto di vendita competitiva introdotto dall’art. 107 vi facevano rientrare anche la trattativa privata e la licitazione privata[[13]]. Altri autori[[14]], però, si spinsero in una classificazione più evoluta delle procedure competitive distinguendo tra vendite a procedure competitive semplificate tra cui si annovera sicuramente la vendita mobiliare a offerte private, nella quale si riconosceva al giudice delegato ampi spazi di discrezionalità quanto alle modalità della vendita e alla selezione dell’acquirente[[15]], e vendite a procedure competitive rigide di cui sono l’espressione più evidente la procedura di vendita con incanto e la procedura di vendita senza incanto[[16]]. Da questo, e dalle caratteristiche intrinseche delle stesse categorie, gli autori citati fanno nascere una naturale esclusione dalle procedure competitive di tutti quei meccanismi alienativi che «non conoscano una fase competitiva tra gli offerenti, quali le procedure ad offerte chiuse, in cui si procede alla scelta in favore dell’offerta maggiore senza una ulteriore gara tra gli interessati» nonché «di tutte quelle procedure che prevedevano la possibilità che all’inadempimento dell’acquirente subentri automaticamente l’ultimo degli offerenti in aumento»[[17]]Pochi dubbi, al contrario, permangono sul fatto che le procedure competitive disciplinate dall’art. 107 l. fall. siano procedure di vendita coattiva; anche se l’impianto generale di tali procedure è cambiato, nulla è cambiato con riferimento alla loro qualificazione giuridica. Il legislatore, con la riforma del 2006/07, coerentemente con l’imperante, almeno in quei tempi, tendenza scientifica alla privatizzazione delle liquidazioni endoconcorsuali ha voluto spostare l’asse gestionale della fase di liquidazione dal giudice al curatore. 

Appare opportuno precisare che quanto scritto da una certa dottrina[[18]] sulle competitive di oltre 10 anni fa è stato assunto a parametro di rifermento per la classificazione delle modalità liquidative come competitive[[19]]. In dottrina ormai da tempo si parla dei pilastri delle vendite competitive: 

  1. Un sistema incrementale di offerte;
  2. Una adeguata pubblicità;
  3. La assoluta trasparenza endo-processuale (attraverso la comunicazione alle parti);

Regole prestabilite e non discrezionali di selezione dell’offerente[[20]].

Su questo presupposto non si può non riflettere sull’istituto della trattativa privata; a differenza di quello che riteneva gran parte della dottrina, si è dubitato, da subito, che la trattativa privata potesse essere annoverata tra le procedure competitive previste dall’art. 107 legge fallimentare[[21]]. Tale istituto per caratteristiche intrinseche è caratterizzato da una fortissima velocità di attivazione e di conclusione, ma è anche condizionata da una fortissima discrezionalità nelle scelte e da una assoluta mancanza di competizione tra le parti interessate, elemento questo sostituito, appunto, dal potere discrezionale di selezione dell’organo da cui promana la trattativa privata stessa.

L’assenza di una forte trasparenza nei criteri di selezione degli offerenti[[22]], la mancanza di un sistema incrementale di offerte, la intrinseca assenza di adeguate forme di pubblicità nei criteri di scelta degli interessati, fanno fuoriuscire, ormai è acclarato, anche nella giurisprudenza di legittimità, la trattativa privata da quelle procedure ritenute competitive che possano essere inserite dal curatore nel programma di liquidazione, ex art 104-ter l. fall., ed usata come strumento alienativo dei beni compendio della procedura fallimentare; appare ormai chiaro che la trattativa privata, al massimo, possa rientrare, in quelle formule competitive utilizzabili dal curatore, previa autorizzazione del giudice delegato e sentito il comitato dei creditori, prima ancora dell’approvazione del programma di liquidazione, quando dalla mancanza di velocità di esecuzione ne possano derivare pregiudizio all’interesse dei creditori (ex art. 104-ter comma VII l. fall., oggi non più richiamato nell’art 213) e quindi, sostanzialmente come strumento di assoluta urgenza utilizzabile in condizioni di necessità, lasciando questa ipotesi in ristrettissimi ambiti di marginalità ed eccezionalità legati sostanzialmente al rischio di repentino decadimento strutturale dei beni oggetto di liquidazione (es. vendita di beni deteriorabili con scadenza).

Appare, in conclusione, possibile una ulteriore e più estrema visione delle procedure competitive in cui, ai quattro pilastri imprescindibili che fanno dello strumento di monetizzazione scelto dal curatore uno strumento competitivo (sistema incrementale di offerte, adeguata pubblicità, trasparenza, e regole prestabilite e non discrezionali di selezione dell’offerente), se ne possa aggiungere un quinto: una completa e assoluta apertura al pubblico interessato

Una scelta operativa di questo genere, ovviamente, porterebbe a delle conseguenze radicali, in quanto si escluderebbe qualunque forma di selezione preventiva delle categorie di interessati, con risvolti economici anche di non di poco conto; si pensi, ad esempio ad una pubblicità che debba coprire solo alcuni ambienti economici o imprenditoriali ed invece ai costi di una pubblicità commerciale che debba coprire tutte le categorie di cittadini che solo potenzialmente possano partecipare ad una asta giudiziaria. 

La conseguenza più immediata di una scelta di questo genere sarebbe quella di escludere immediatamente dall’alveo delle procedure competitive praticabili nel nostro ordinamento anche la procedura a licitazione privata, che, come già evidenziato, si basa su una pre-selezione degli interessati, che possono diventare offerenti solo su espresso invito dell’organo competente.

Una scelta in questo senso se da un lato comporterebbe un dispendio economico e processuale maggiore, in quanto procedure di monetizzazione rivolte ad un maggiore bacino di utenza, richiedono tempi di organizzazione e maturazione commerciale necessariamente superiori, rispetto ad intercettazioni economiche di nicchia a cui si accende in presenza di requisiti prestabiliti e certificati, dall’altro offrirebbe una garanzia di trasparenza e di equità, che forse rappresentano gli elementi di maggior rilievo in una vendita di derivazione giudiziaria, in quanto si escluderebbe, in nuce, qualunque apporto discrezionale del curatore e qualunque possibile ombra di sospetto circa una potenziale aggiudicazione guidata.


4. Art. 216 comma 1 codice della crisi: relazioni peritali e modelli informatici

Il primo comma dell’art. 216 del codice della crisi affronta alcune problematiche ormai fortemente dibattute in dottrina già da tempo, che originano dalle esperienze ormai ventennali delle cd. best practies in materia esecutiva. I beni oggetto della liquidazione devono essere valutati da esperti nominati dal curatore, il che ci porta a pensare che questi ultimi siano ausiliari del curatore stesso e non del giudice, che in base alla norma, di fatto ne recepisce la sola indicazione, verificandone la regolarità di iscrizione negli appositi albi e valutando i costi in sede di liquidazione dei compensi del curatore.

Ciò che è più importante è che dalla lettura dell’art. 216 comma 1, appare chiaro che il legislatore del 2019 ha recepito le indicazioni già presenti nel codice di rito riformato, e dalle esperienze dei tribunali più efficienti in materia esecutiva; il legislatore richiede che le perizie siano depositate nel Portale delle vendite pubbliche, che come si vedrà successivamente, diventa a tutti gli effetti l’archivio, anche statistico, nazionale della documentazione attinente alle liquidazioni coattive.

Le perizie come più volte indicato nelle esperienze dei Tribunali virtuosi devono essere standardizzate, in modo che contengano tutte le informazioni idonee, ad un acquisto informato, che tali informazioni siano redazionalmente posizionate in modo identico, che siano conformi alla legge, e soprattutto che siano di facile lettura. Il legislatore richiama l’art. 173-bis delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, norma che indica analiticamente il contenuto minimo del documento peritale attinente ai beni immobili, determinando una completa fusione del corredo documentale ed informativo, tra procedure esecutive individuali e procedure concorsuali.

Il legislatore della riforma, coerentemente con il tentativo di rendere telematico l’accesso ai documenti della procedura richiede espressamente che il deposito avvenga tramite il PVP senza accesso alla cancelleria, fornendo i modelli di perizia che saranno presenti sullo stesso portale. L’inosservanza di tali disposizioni può interrompere il rapporto fiduciario tra curatore ed esperto fino a poter determinare la revoca dell’incarico.

Il penultimo periodo del primo comma ricorda che la valutazione peritale può essere omessa in tutti i casi in cui i beni siano di modesto valore. Onde evitare decisioni assolutamente discrezionali su tale argomento è forse possibile indicare che sono considerati di scarso valore tutti quei beni il cui presumibile valore commerciale sia inferiore ai costi complessivi di liquidazione, ricomprendendovi gli eventuali onorari per la perizia, i costi della pubblicità, ricomprendendovi anche il costo fisso del PVP, e gli onorari per la liquidazione telematica.


4.1. Art. 216 comma 2: le vendite, la liberazione degli immobili e la notificazione ai creditori iscritti

Nell’intento di velocizzare il più possibile i tempi della liquidazione, il legislatore della crisi d’impresa richiede che per i soli beni immobili, si debba procedere ad almeno tre esperimenti di vendita all’anno; la disposizione sembra ingenua se non utopistica. La liquidazione di un bene immobile all’interno di una procedura coattiva e soprattutto le tempistiche della liquidazione, sono sicuramente legate all’efficienza dell’ufficio giudiziario, ma ancor di più dalla capacità del mercato immobiliare di un determinato territorio di assorbire le offerte. Una spasmodica reiterazione delle vendite potrebbe non ottenere i risultati in termini di tempistica, ma sicuramente otterrà una forte svalutazione di quei beni che non siano dotati di un forte “appeal” commerciale. La reiterazione spasmodica degli esperimenti di vendita, se non corredata da una analitica e ponderata esposizione pubblicitaria, che raggiunga l’intero bacino di utenza dell’ufficio giudiziario, non determinerà altro che una repentina svalutazione dei beni messi in vendita.

Il legislatore avrebbe dovuto agire attraverso una regolamentazione idonea delle esposizioni pubblicitarie e non limitarsi a richiedere una molteplicità di esperimenti di vendita. Si pensi a tutti quegli uffici giudiziari che fino a ieri facevano un solo esperimento di vendita all’anno; si può pensare davvero che improvvisamente diventeranno virtuosi e venderanno i beni con maggiore facilità, a mercato immobiliare invariato; la reiterazione repentina della vendita determina soltanto una svalutazione dei beni più veloce.

Ci si chiede, inoltre, che cosa succede se il curatore non esperisce almeno tre tentativi di vendita all’anno dello stesso bene, quale è la sanzione? La norma non lo dice. Probabilmente non c’è una vera e propria sanzione se non, come già detto in precedenza, una alterazione del rapporto fiduciario tra curatore e giudice delegato.

Sempre la stessa norma, riprendendo la diposizione contenuta nell’art. 591, II comma, prevede che dopo il terzo tentativo di vendita andato deserto l’abbattimento potrà essere fino al 50% dell’ultimo prezzo base d’asta e non più del 25%[[23]].

Per quanto attiene alla liberazione dei beni immobili, il legislatore rimanda direttamente alle norme del codice di rito e quindi si dispone la liberazione in tutti i casi non vi sia un titolo opponibile alla procedura a meno che l’immobile oggetto di vendita non rientri in uno dei casi previsti dall’art. 147 comma 2 dello stesso codice della crisi, ovvero in tutti i casi in cui l’immobile, oggetto di vendita, sia l’abitazione primaria del debitore. Sulle modalità di liberazione il legislatore rinvia alla norma centrale in materia di custodia in sede esecutiva ossia l’art. 560 c.p.c. ai commi terzo e quarto. Si rileva solo in via incidentale, che nell’ultimo anno l’art. 560 ha subito due revisioni radicali, che ne hanno determinato dapprima una vera e propria inversione di rotta rispetto alle conquiste di efficienza ottenute in circa un ventennio e successivamente un tentativo, parzialmente riuscito di ritornare all’efficienza perduta.

Per quanto riguarda l’ultimo periodo del comma 2 si può solo riscontrare la esatta riproposizione dell’art. 107 III comma l. fall. ; come già rilevato dalla dottrina[[24]], uno degli elementi essenziali di una vendita competitiva è proprio rappresentata dalle comunicazioni endo-processuali, di cui la notifica i creditori iscritti rappresenta, forse, il baluardo più importante; in questa sede ci si limita solo a ricordare che l’omessa notifica dell’avvenuto espletamento della liquidazioni del bene ipotecato o assistito da privilegio speciale, renderebbe inopponibile la vendita e/o la purgazione dei gravami agli stessi creditori.


4.2. Art. 216 comma 3; vendite secondo il codice di rito e poteri del giudice

Il terzo comma dell’art. 216 prevede che «Il giudice delegato può disporre che le vendite dei beni mobili, immobili e mobili registrati vengano effettuate secondo le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili».

Questo piccolo periodo, lascia aperto ai primi interpreti alcuni spiragli di riflessione soprattutto se raffrontato all’art. 107, II comma l. fall. che affrontava la stessa necessità ma con modalità diverse: «Il curatore può prevedere nel programma di liquidazione che le vendite dei beni mobili, mobili e mobili registrati vengano effettuate dal giudice delegato secondo le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili».

Come si noterà l’impostazione è completamente diversa, innanzi tutto perché nell’art. 216 è il giudice che dispone, mentre nell’art. 107 è il curatore che, nel programma di liquidazione, prevede di far ricorso al codice di rito.

Ma i veri dubbi vengono se si fa attenzione alle parole: «Il giudice delegato può disporre che le vendite …».

Tale sequenza linguistica potrebbe portare a pensare che il giudice delegato può sicuramente prevedere che le vendite dei beni mobili, immobili e mobili registrati vengano effettuate secondo il codice di procedura civile, ma che da tale possibilità è esclusa la vendita aziendale. Tale affermazione potrebbe sembrare banale, visto che nel codice di rito non è prevista la vendita d’azienda, ma allora ci si chiede, perché fare espresso riferimento al principio di compatibilità processuale[[25]]?

Proprio il principio di compatibilità processuale che consente di adeguare la procedimentalizzazione di una vendita prevista per un’esecuzione individuale ad una vendita concorsuale, avrebbe potuto consentire l’applicazione della stessa procedimentalizzazione del codice di rito ad un istituto giuridico ampiamente disciplinato dal codice civile.

Altri dubbi vengono quando si pone l’accento sui termini “può disporre”. 

La terminologia usata potrebbe portare a pensare che il giudice delegato non abbia più il potere di effettuare personalmente le vendite, ma che con la propria ordinanza possa, soltanto, “disporre” che, queste, vengano effettuate secondo le regole stabilite nel codice di procedura civile. Questa interpretazione, d’altronde, sarebbe coerente con la nuova formulazione dell’art. 591-bis c.p.c.; quest’ultima è la norma che ha introdotto nel codice di rito la delega delle operazione di vendita, prima ai notai e poi ad avvocati e commercialisti; la stessa norma ha avuto un’evoluzione durata 20 anni; nel 1998 quando fu introdotta dalla legge 302 la delega ai notai era solo una possibilità utilizzabile se non c’era il parere contrario dei creditori e se non fosse stato di ostacolo al decorso regolare della procedura, successivamente, però, visti gli ottimi risultati ottenuti con la moltiplicazione dei soggetti delegati alla vendita , rispetto al solo giudice, il 591-bis è stato modificato allargando i delegabili anche ad avvocati e commercialisti , ma soprattutto rendendo obbligatoria la delega, con la riforma del 2005. Ad oggi nelle esecuzioni immobiliari il giudice dell’esecuzione, non può più espletare le gare personalmente, ma deve necessariamente indicare un delegato alla vendita.

La formulazione linguistica del comma 3 dell’art. 216 potrebbe portare ad interpretazione che sia avvicini al percorso evolutivo dell’art. 591-bis.

D’altro canto, però, se invece si vuole leggere la norma in esame come una semplice riformulazione dell’art. 107, II comma, in cui è il giudice delegato che dispone e non più il curatore che propone l’utilizzo del codice di procedura civile, allora resterebbero inalterate le potenzialità liquidative del GD, in coerenza con l’eventuale, espressa richiesta contenuta nel programma di liquidazione da parte dello stesso curatore.


4.3. Art. 216 commi 4, 5 e 6; vendite telematiche e PVP; centralità del market place, limiti e praticabilità di un’unica piattaforma operativa

I commi 4, 5 e 6 disciplinano la compatibilità del Portale delle vendite Pubbliche con le nuove modalità liquidative previste dal codice della crisi d’impresa. Come si è più volte chiarito il portale delle Vendite pubbliche (cd. PVP) è nato per scopi diversi, innanzitutto per centralizzare i rilievi statistici legati alle vendite coattive, ai fini di una esatta identificazione dei flussi economici e di valorizzazione finanziaria dei beni sottoposti a coazione, ma poi quale “market place” nazionale in cui tutti gli interessati potessero trovare – tutte – le informazioni relative ai beni sottoposti a liquidazione forzata. Sul PVP. dovranno, dunque, essere pubblicizzate tutte le vendite endoconcorsuali e tutta la documentazione idonea ad una adeguata informazione dell’utente; ma la novità contenuta nel codice della crisi è che il PVP diventa o forse, diventerà, l’unica piattaforma nazionale su cui verranno espletate le aste telematiche.

Alla luce delle prime esperienze avute in questi anni con la sola pubblicità sul portale, l’obbiettivo appare assai problematico. Chiunque si sia confrontato con il PVP ha potuto saggiare la complessità di un sistema anelastico; i grandi ritardi di operatività e la lentezza di applicazione hanno reso, per adesso, il PVP poco efficiente e molto dispendioso. Pensare che la stessa piattaforma debba gestire, in futuro tute le vendite coattive del nostro ordinamento giuridico sembra un obbiettivo molto lontano. Partendo dall’assunto che tutte le vendite devono essere telematiche non si ravvisano particolari criticità se i modelli scelti sono quelli previsti dal codice di procedura civile (sincrona mista, pura o asincrona); ma se il portale deve gestire tutte le vendite telematiche su base coattiva del nostro ordinamento e si vuole scegliere una modalità diversa da quelle previste dal c.p.c., il PVP come fa a regolamentarle?

Ci si chiede, appunto, come si fa a disciplinare, in termini informatici, modalità liquidative ideate in modo sartoriale per il caso specifico?

Una simile molteplicità e complessità di meccanismi liquidatori sarebbero gestibili solo immaginando una diversa funzione del portale; il PVP potrebbe diventare solo lo strumento di identificazione degli offerenti, rimandando la selezione dell’aggiudicatario, attraverso la gara, a piattaforme informatiche non ministeriali ma sottoposte a sua autorizzazione.

Il V comma si conclude ricordando, quanto già previsto nel precedente art. 107 ossia che la pubblicità della vendita è obbligatoria, che essa non può essere inferiore a 30 giorni e che solo per motivi di “assoluta urgenza” può essere derogato tale limite minimo.

A conferma che il portale delle vendite pubbliche sia destinato a diventare il centro funzionale e gestionale di tutte le vendite coattive d’Italia il comma 6 della norma in esame evidenzia chiaramente che tutte le offerte di acquisto devono essere effettuate tramite il portale delle vendite pubbliche, a meno che, ricorda il comma 4, le modalità di vendita telematica non siano di pregiudizio per gli interessi dei creditori o per il sollecito svolgimento della procedura, al pari di quanto già previsto, con la riforma delle esecuzioni immobiliari del 2015, nell’art. 569 comma 5 c.p.c.

È il caso di concludere questa parte dello studio facendo riferimento ad una norma che ha trovato conferma nel nuovo testo dell’art. 216; ci si riferisce all’attuale art. 107 comma 6.

Viene eliminata la possibilità di far pervenire offerte che siano del 10 % più alte del prezzo di aggiudicazione nei giorni successivi all’aggiudicazione stessa, che l’attuale art 107 disciplina al comma 4. Questa eliminazione è probabilmente giustificata dallo scarsissimo livello redazionale della norma in esame. Come si è già detto in altri studi[[26]] il 107 comma 4 oggi eliminato dall’art. 216 rappresentava un potere di veto posto in capo al curatore, al pari dello stesso potere attribuito al G.D. dall’art. 108 I comma e oggi dall’art. 217 comma 1 nella normativa in esame. Il comma 4 dell’art. 107, oggi eliminato dall’art. 216, aveva in passato creato grossi dubbi interpretativi oltre ad aver minato la stabilità delle vendite concorsuali, che con tanto sforzo si era cercato di razionalizzare, passando ad un nuovo concetto di vendita che non avesse appendici successive alla gara, come ancora accade oggi nella vendita con incanto che conserva arcaico istituto dell’aumento di quinto. Il quarto comma avevo lo scopo di creare una sorta di sistema di adeguamento, del curatore, all’eventuale inefficienza del sistema liquidatorio adottato dalla stessa procedura. Si rileva, per mera curiosità scientifica, che giustifica la scarsissima opinione che gli interpreti hanno di tale scelta normativa, che: a) non è previsto nella norma un termine in cui tali offerte in aumento del 10% possano pervenire, il che, ovviamente, ha spinto dottrina e giurisprudenza a scelte interpretative non sempre adeguate; b) si attribuisce al curatore una facoltà di adeguamento che è già attribuita al giudice delegato; ovviamente i due soggetti esercitano tale potere di adeguamento in modo diverso e avendo obbiettivi diversi; nella pratica appare evidente che il curatore tende ad accogliere sempre tale offerta incrementale che aumenterebbe l’attivo fallimentare, al contrario il giudice è molto più attento all’utilizzo del suo potere, prendendo in considerazione l’aspetto temporale e la maggior durata del procedimento liquidativo oltre che l’evidente influenza sulla instabilità delle vendite concorsuali; è chiaro che un largo utilizzo di tali strumenti di adeguamento economico porterebbero ad un effetto di dissuasione nei confronti delle vendite giudiziali o alla creazione di strumenti di pressione illecita nei confronti dell’aggiudicatario, così come si è verificato, per 50 anni, per l’istituto dell’aumento di sesto e poi di quinto previsto dall’art. 584 c.p.c.; c) non si può, infine, non evidenziare, che il comma 4 dell’art. 107 l. fall. oggi sparito, aveva riaperto tutta quella dialettica dottrinale che aveva accompagnato per tanti anni l’istituto dell’aumento di sesto; a tale riguardo ci si era chiesti per molti decenni se la gara suppletiva, prevista, fosse una gara aperta anche a soggetti che non avevano partecipato alla precedente gara o ai soli soggetti che invece erano presenti alla prima gara, oltre all’aumentante. Il 107 comma 4 aveva riaperto tali problematica dividendo gli interpreti tra coloro che prediligevano l’aumento del valore incrementale del bene configurando una nuova gara aperta a tutti e quindi con una nuova esposizione pubblicitaria secondo i termini previsti dello stesso art. 107 e coloro che, coerenti con l’esigenza di speditezza della liquidazione endoprocessuale, ritenevano che la gara fosse limitata all’aumentante e all’aggiudicatario, in una gara chiusa senza la necessità di una nuova esposizione pubblicitaria da effettuarsi in termini estremamente rapidi.


4.4. Art. 216 comma 7; deposito dell’offerta; termine di deposito e coerenza dell’ordinanza con il programma approvato; introduzione del generale principio dell’offerta inferiore al prezzo base d’asta; PVP quale unico strumento di deposito offerte

Il comma 7 dell’art. 216 nella sua prima parte, e riprendendo identiche tecniche redazionali già presenti nel codice di rito, riconferma la perentorietà dei termini per il deposito delle offerte, pena l’inefficacia delle stesse, al pari di quanto accade per il rispetto dei valori cauzionali così come stabilito dall’ordinanza del giudice delegato. Appare più interessante il secondo periodo di questa norma che introduce anche nella liquidazione giudiziale la possibilità di ricevere offerte che siano inferiori al prezzo base d’asta del 25 %; tale disposizione è chiaramente mutuata dagli art. 571 e 572 comma 3 c.p.c. nella parte in cui prevedono, appunto la possibilità di ricevere offerte al ribasso.

Il legislatore, probabilmente, ha ritenuto necessario introdurre tale esplicita indicazione anche nel codice della crisi per legittimare una diffusissima prassi che prevedeva tale possibilità, in via di interpretazione analogica già oggi nella procedura fallimentare. Molti tribunali avevano esteso l’applicazione degli articoli suindicati alle vendite concorsuali facendo riferimento alla compatibilità dell’art. 572 comma 3 con le modalità competitive soprattutto se riferite al modello della vendita senza incanto. 

La perentorietà della disposizione pone alcuni dubbi però.

Innanzitutto, per come è scritto il secondo periodo del comma 7 sembra estendere la possibilità di offerte al ribasso anche ai complessi aziendali, cosa che invece non è prevista per glia artt. 571 e 572 comma 3, che anche in termini di applicazione estensiva non potevano essere applicati alle vendite aziendali; ma soprattutto ci si chiede se quello previsto dal secondo periodo del comma 7 dell’art. 216 sia un obbligo. Ci si chiede infatti se la possibilità di ricevere offerte al ribasso possa essere esclusa esplicitamente dal provvedimento che dispone la vendita. Al pari di quanto previsto per le norme del codice di procedura civile si protende maggiormente per la obbligatorietà dell’applicazione; tale considerazione scaturisce essenzialmente dalla stessa procedimentalizzazione della norma; il fatto che si consenta la partecipazione con un offerta al ribasso non significa che l’aggiudicazione debba avvenire obbligatoriamente ad un prezzo inferiore al valore di partenza; nell’ipotesi in cui a seguito della presentazione di offerte al ribasso, durante la gara non si raggiunga il prezzo base d’asta il giudice o il delegato alla vendita, se appositamente autorizzato, potrà sempre non convalidare l’aggiudicazione e rifissare una nuova gara, ritenendo il prezzo raggiunto non congruo in quanto inferiore al prezzo base d’asta, individuato come soglia minima di commerciabilità del bene posto in vendita.


4.5. Art. 216 comma 8, applicazione estensiva della disciplina del codice di rito relativa al pagamento rateale; limiti di applicazione ai compendi aziendali; dubbi sull’applicazione letterale; principio di compatibilità

Il legislatore del 2019 con il codice della crisi oltre al tentativo di ammodernare la disciplina relativa alla gestione delle situazioni di insolvenza, ne ha anche cercato una uniformità osmotica, cercando di rendere omogenee o quanto meno più vicine possibili alle normative nate per regolamentare situazioni diverse tra di loro. Questo tentativo di uniformità è ancora più evidente nel comma 8 dell’art. 216.

La norma in esame introduce nel codice della crisi di impresa alcune novità già sperimentate nel codice di procedura civile attraverso un semplice richiamo ad alcune norme introdotte nel codice di rito con la riforma del 2015; all’applicazione di tali norme sovraintende il generale principio di compatibilità, che consente, nell’attuale ordinamento giuridico l’estensione di norme nate per particolari esigenze in contesti e realtà normative diverse da quelle per cui avevano avuto la loro genesi. La prima osmosi giuridica si ha con il riferimento all’art. 569 terzo comma terzo periodo: «quando ricorrono giustificati motivi, il giudice dell’esecuzione può disporre che il versamento del prezzo abbia luogo ratealmente ed entro un termine non superiore a dodici mesi».

Questo vuol dire che ove possibile alla liquidazione concorsuale è applicabile la rateazione prevista dal c.p.c.; ma a tale riguardo devono farsi subito alcuni rilievi:

a) la norma citata si trova all’interno della disciplina delle esecuzioni immobiliari ed è quindi rivolta alla vendita di beni immobili; la stessa norma si può applicare anche alle vendite aziendali?

b) Che significa “in quanto compatibili”? La compatibilità è riferita ad un raffronto tra la norma e la tenuta del sistema, ossia che tale norma (l’art. 569) si applica solo ed in quanto ciò non confligga con altre norme della legge fallimentare, il cui impatto disfunzionale non è prevedibile nell’immediato dal legislatore, oppure che tale norma si applica solo ed in quanto ciò non sia in conflitto con il caso specifico?

Poiché la disciplina della liquidazione giudiziale si rivolge a beni che non sono contemplati nella disciplina del codice di procedura civile, come ad esempio i complessi aziendali prevedere una rateizzazione, in caso di vendita aziendale, di soli 12 mesi così come previsto nella norma richiamata, è puro esercizio di stile. Vista la fortissima illiquidità che caratterizza il mondo della imprenditoria del nostro paese, una rateizzazione così breve, che ovviamente deve essere seguita da adeguate forme di garanzia (es. fideiussione a prima richiesta) non risolve il problema della liquidità dei potenziali interessati. Nella pratica non è raro che i complessi aziendali abbiano valori di partenza molto alti; rateizzare in 12 mesi un’azienda il cui valore complessivo è di decine di milioni di Euro non raggiungerebbe in nessun modo l’obbiettivo che si era prefisso il legislatore ovvero sopperire alla illiquidità dell’acquirente.

Se al contrario il concetto di compatibilità fosse riferita al caso specifico, non si capirebbe perché, il legislatore, abbia dovuto citare la norma del c.p.c. e non stabilire semplicemente che era ammesso il pagamento rateale la cui determinazione era rimessa agli organi della procedura.  Così come ideata questa norma potrà creare diverse analisi interpretative nonché comportamenti divergenti tra i diversi uffici giudiziari.

Forse la strada che si doveva percorrere non era questa o almeno non era solo questa. 

Forse il legislatore avrebbe potuto finalmente “sdoganare” il concetto di “saldo prezzo”, ancora legato a concezioni arcaiche e mai mutato, nonostante le diverse novelle intervenute.

Il pagamento del prezzo, per come è scritto, anche nella riforma, è ancora ancorato al concetto di pagamento attraverso la moneta corrente, da nessuna parte è previsto che il saldo, ad esempio, possa aversi con fideiussione bancaria, che invece, dal codice di rito viene, solo, utilizzata, come garanzia per un saldo futuro a brevissimo raggio.

Una formalizzazione, in tal senso del nuovo concetto di “saldo prezzo”, da parte del codice della crisi, avrebbe consentito di superare tutte quelle ritrosie dottrinali e i timori di alcuni giudici, che ancora non riescono ad accettare che il saldo effettivo del prezzo possa non avvenire con “moneta corrente”. 

Si sarebbe potuto pensare ad un più largo utilizzo, formalizzato in apposite norme, delle fideiussioni, con particolari clausole di garanzia di immediata escussione (es. con clausola “solve et repete”, con clausola a prima richiesta rimossa ogni eccezione). Ci si sarebbe potuti spingere ancora oltre, ad esempio prospettando quale modalità di pagamento, la stessa rinuncia dei creditori insinuati al passivo senza alterazione della par conditio creditorum; in concreto l’aggiudicatario avrebbe potuto, in luogo di un abituale versamento di somme nel conto corrente, depositare rinunce dei creditori insinuati al passivo in ordine progressivo di graduazione, determinando lo stesso effetto, sullo stato passivo, del pagamento dei creditori stessi attraverso il piano di riparto, ma il tutto sotto il controllo dell’organo giudiziario.

In coerenza con quanto già disposto dall’art. 569 terzo comma terzo periodo, l’art. 216 comma 7, richiama l’art. 574 comma 1 secondo periodo c.p.c. L’art. 574 c.p.c., richiede, appunto, che per ottenere la rateizzazione di soli dodici mesi, è necessario prestare una fideiussione bancaria a prima richiesta di società assicuratrici o intermediari finanziari di assoluta stabilità economica. Come si può vedere, l’orizzonte a cui ci si rivolge è sempre lo stesso; per ottenere un dilazionamento di dodici mesi sarà necessario sopportare un costo aggiuntivo per ottenere la fideiussione richiesta, per il solo fatto che si resta ancorati ad un vetusto concetto di “saldo prezzo” versato in moneta corrente.

Il richiamo dell’ottavo comma dell’art. 216, all’art 585 introduce argomenti già stabilizzati in dottrina[[27]] come l’accollo del debito da parte dell’aggiudicatario (art. 585 comma 2, c.p.c.) e l’erogazione del finanziamento di scopo con versamento diretto delle somme dal soggetto erogante al conto corrente della procedura. Anche in questo caso, persistendo il principio di compatibilità delle norme, si è portati ad interrogarsi sull’effettiva estensione della norma anche a beni diversi dai soli immobili. Certo è che una limitata applicabilità restringerebbe di molto il respiro dell’art. 216 e poi non spiegherebbe la necessità di un richiamo esplicito, nell’art. 216 corredato dal riferimento al principio di compatibilità; se si fosse voluto applicare le norme del codice di rito nella liquidazione giudiziale non sarebbe stato necessario richiamarle, poiché, nell’ordinamento giuridico attuale vige ancora il principio di “interpretazione analogica delle norme” contenuto nell’art. 12 comma 2 delle disposizioni sulla legge in generale del codice civile[[28]]; il principio enunciato in questa norma avrebbe consentito agli interpreti della legge, ed in assenza di un’esplicita norma contenuta nel codice della crisi, di applicare istituti simili esistenti normative similari.

Appare probabile che il richiamo esplicito all’art. 585 c.p.c., contenuto nell’art. 216 del codice della crisi, senza un espressa limitazione ai soli beni immobili, debba essere visto come un allargamento delle facoltà consentite dal codice di rito a tutti i beni liquidabili in sede concorsuale.

Infine, il richiamo all’art. 587 comma 1 secondo periodo c.p.c., introduce nella liquidazione giudiziale un’apposita sanzione prevista in caso di inadempimento, anche parziale, del pagamento rateale concesso dall’organo giudiziario. Nell’ipotesi in cui sia stato autorizzato un pagamento rateale e l’aggiudicatario non abbia pagato una rata o ne abbia ritardato il pagamento oltre 10 giorni dal termine previsto, l’organo giudiziario dispone la perdita a titolo di multa di tutte le rate già versate. In questo caso, però, a differenza di quanto previsto dal comma 1 dell’art. 587 c.p.c., il giudice delegato non fa decadere l’acquirente dall’aggiudicazione, ma essendo in possesso di una fideiussione a garanzia dell’intero prezzo, escuterà la stessa e provvederà al trasferimento del bene aggiudicato, allo scopo di conservare l’attività liquidativa svolta e non pregiudicare gli interessi dei creditori ad una rapida monetizzazione dei beni del debitore sottoposto a liquidazione giudiziale.


4.6. Art. 216 commi 9, 10 e 11; trasparenza endoprocedimentale; comunicazione del trasferimento agli organi della procedura, subentro e dichiarazione di improcedibilità delle procedure esecutive individuali già esistenti, rilievi statistici ed acquisizioni del corredo informativo interno alla procedura da parte del Ministero della giustizia

I commi 9, 10 e 11 sono rimasti sostanzialmente immutati rispetto ai propri omologhi esistenti nell’art. 107 legge fallimentare.

Il comma 9 dell’art. 216 nel pieno rispetto del principio di trasparenza endoprocessuale[[29]] richiede al curatore che entro 5 giorni dal trasferimento del bene venduto provveda a comunicare la liquidazione stessa del bene agli organi della procedura mediante deposito della documentazione nel fascicolo telematico; il comma 5 dell’art. 107 disponeva, sostanzialmente, gli stessi adempimenti prevedendo, però, il deposito in cancelleria senza indicarne un termine, elemento questo che poteva portare a dimenticanze o disfunzioni informative.

Il comma 10 relativo alle insinuazioni, del curatore, in procedure esecutive già pendenti o alla dichiarazione di improcedibilità da parte del giudice delegato ripercorre integralmente il dettato dell’art. 107 comma 6 l.fall.

In conclusione il comma 11 dell’art. 216 («I dati delle relazioni di stima di cui al comma 1 sono estratti ed elaborati, a cura del Ministero della giustizia, anche nell’ambito di rilevazioni statistiche nazionali e pubblicati sul Portale delle vendite pubbliche») conferma quanto già evidenziato in precedenza e cioè che il Portale delle vendite pubbliche prima ancora che un vero e proprio “market place” era stato pensato come uno strumento di rilevamento statistico finalizzato ad un più ampio progetto, quello del cd. “Moneta fallimentare” o “Common”, che però, pur essendo stato analizzato nella “Commissione Rordorf” non ha visto la luce ed è stato espunto dal Codice della crisi d’impresa.


NOTE

[1] Si veda G. BONFANTE, Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Giur. it., 2019, 8-9, 1943.

[2] Nella comunicazione si precisava a chiare lettere «un diritto fallimentare moderno negli stati membri dovrebbe aiutare le società a sopravvivere e incoraggiare gli imprenditori a cogliere una seconda opportunità; dovrebbe assicurare la rapidità e l’efficienza delle procedure, nell’interesse tanto dei debitori che dei creditori, contribuire a salvaguardare i posti di lavoro, aiutare i fornitori a mantenere la clientela e gli azionisti a preservare il valore delle società economicamente solide».

[3] Si veda A. DIDONE, Breve storia del Codice della crisi di impresa e dell'insolvenza, in Riv. es. forz., 2019, 3, 497.

[4] Un primo esperimento di riforma del codice fallimentare è individuabile nel cd. progetto “Fassino” (allora Ministro della Giustizia) a cui si può far risalire una prima idea di rivisitazione ed unificazione di tutte le procedure concorsuali (fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione controllata); il progetto si era concretizzato nel d.d.l. n. 5478 del 2000.

[5] Come ricorda A. DIDONE (membro della Commissione Rordorf) in Breve storia del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, cit., 497: «ad ogni modo i principali obbiettivi della legge delega sono stati attuati, in particolare, quanto: a) al superamento del concetto di fallimento con quella di liquidazione giudiziale; b) alla introduzione di una fase preventiva di “allerta” finalizzata all’emersione precoce della crisi d’impresa e ad una sua risoluzione assistita; c) all’istituzione di un procedimento giudiziale unitario per la soluzione della crisi d’impresa, una sorta di “contenitore processale” unico nel quale dovranno essere (se del caso contestualmente) inserite tutte le domande aventi ad oggetto un accordo di ristrutturazione, di concordato preventivo, o la liquidazione giudiziale, affinché, all’esito del procedimento, si dia ingresso alla procedura che i creditori ed il tribunale riterranno più idonea alla soluzione della crisi d’impresa; d) alla previsione , per le insolvenze di minore portata, di una esdebitazione di diritto, che dunque non richiede la pronuncia di un apposito provvedimento del giudice, conseguente alla chiusura della procedura di liquidazione giudiziale, fatta salva la possibilità di una eventuale opposizione da parte dei creditori; e) all’introduzione di una disciplina della crisi del gruppo societario, con disposizioni volte a consentire lo svolgimento di una procedura unitaria per la trattazione dell’insolvenza delle plurime imprese del gruppo; f) all’istituzione di un albo nazionale dei professionisti specializzati nella materia dell’insolvenza, ai quali viene richiesta un’elevata specializzazione, acquisibile anche attraverso percorsi formativi dedicati».

[6] Si veda M. FABIANI, Gli effetti della liquidazione giudiziale sul debitore e sui creditori, in Il Fallimento, 2019, 10, 1161.

[7] Si veda: P. D’ADAMO, Le procedure competitive all’interno della riforma della liquidazione dell’attivo, in Studi e Materiali, 2008.

[8] Si veda A. PALUCHOWSKI, La liquidazione dell’attivo nella liquidazione giudiziale, in Fallimento, 2019, 10, 1217.

[9] Art. 213 VII comma: «Il programma è trasmesso al giudice delegato che ne autorizza la sottoposizione al comitato dei creditori per l’approvazione. Il giudice delegato autorizza i singoli atti liquidatori in quanto conformi al programma di liquidazione».

[10] Si veda A. PALUCHOWSKI, La liquidazione dell’attivo nella liquidazione giudiziale, cit., 1217; si veda anche A. CRIVELLI, La liquidazione giudiziale, in Commento al codice della Crisi e dell’insolvenza, in Quaderni di in executivis, 2019, 3, 239; S. LEUZZI, Esercizio dell’impresa e liquidazione dell’attivo, in Commento al codice della Crisi e dell’insolvenza, in Quaderni di in executivis, 2019, 3, 242.

[11] Si veda G. LO CASCIO, Legge fallimentare attuale, legge delega di riforma e decreti attuativi in fieri, in Il Fallimento, 2018, 5, 525.

[12] Per tutti si veda C. FERRI, La Liquidazione dell’attivo fallimentare, in Riv. dir. proc., N. 3, 2006, nonché G. SCHIANO DI PEPE, Diritto fallimentare riformato, Padova, 2006, S. BONFATTI – P.F. CENSONI, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2006.

[13]La Licitazione privata, in quanto istituto di diritto amministrativo, consiste in una gara non aperta a chiunque vi abbia interesse e possegga i requisiti, ma soltanto a coloro che siano stati invitati dalla P.A., o nel caso delle procedure concorsuali, dal curatore, in base ad una valutazione seria ed imparziale, a partecipare. È consentito ricorrere alla licitazione privata in alternativa al pubblico incanto, a giudizio discrezionale della pubblica amministrazione.

La licitazione privata può aver luogo adottando soprattutto il metodo delle offerte segrete .

La giurisprudenza ha chiarito che la P.A. deve motivare il mancato invito di un’impresa alla licitazione solo quando questa abbia formulato richiesta di partecipazione alla gara (Cons. Stato, sez. V, 28 gennaio 1998, n. 101).

Al contrario con il sistema della trattativa privata la Pubblica Amministrazione dopo aver interpellato (separatamente e riservatamente) più ditte o persone ed aver raccolto le diverse offerte, sceglie quella ritenuta più vantaggiosa ed affida alla ditta prescelta i lavori o le forniture o comunque l’oggetto del contratto passivo o attivo essenza della trattativa, previa stipulazione di un contratto. La trattativa privata non è dunque una vera e propria gara e lascia all’amministrazione piena discrezionalità nel preferire l’uno all’altro contraente, sia in relazione al prezzo offerto sia in relazione alle altre condizioni (quali la qualità dell’oggetto, i termini di consegna ecc. ecc.). Per maggiore analisi e approfondimenti degli istituti di diritto amministrativo applicabili alle procedure concorsuali si veda F. CARINGELLA, Il diritto amministrativo, tomo I, Milano, 2005, 842.

[14] Si veda LICCARDO – FEDERICO, op. cit.

[15] La vendita in esame si distingue notevolmente dalla trattativa privata, per l’esistenza preponderante di una gara, ma ancor meglio per una serie incrementale di offerte, che come abbiamo già detto in precedenza è presupposto ineludibile di una procedura competitiva.

[16] La vendita con o senza incanto quale esempio di una vendita a procedura competitiva rigida è calzante in quanto portatrice di alcuni elementi essenziali come il termine prefissato per il versamento del prezzo, la misura minima delle cauzioni, il prezzo base d’asta, la forma scritta per la conferma alla partecipazione ecc.

[17]Si veda, con particolare attenzione, la posizione di Sandulli che in alcune osservazioni consultabili sul sito www.iudicium.it, dal titolo “Esecuzioni” fallimentari e terzi, distingue tra vendita forzata e vendita effettuata da organo pubblico, escludendo la natura di esecuzione forzata alla liquidazione dell’attivo.

[19] A tale riguardo si veda: A. PALUCHOWSKI, L’applicazione delle norme sulle espropriazioni individuali alla vendite fallimentari, in AA.VV., Espropriazioni individuali e fallimento, atti del convegno S.I.S.CO, del 6 novembre 1999, Milano, 2001. Si veda anche FERRO, Problemi e casi nelle vendite mobiliari ed immobiliari, in Dir. fall., 1999; C. FERRI, La Liquidazione dell’attivo fallimentare, in Riv. dir. proc., 3, 2006; ma in particolare, P. D’ADAMO, Le procedure competitive all’interno della riforma …, cit.

[20] Riassumendo con chiarezza tutti i tratti essenziali dei procedimenti di monetizzazione nascenti dalla richiamata riforma della procedura fallimentare, a cui abbiamo appena fatto cenno, si può arrivare ad individuare i caratteri tipo delle cd. Procedure competitive; queste, ad una prima lettura della norma sembrano essere caratterizzate da:

1) un sistema incrementale di offerte, che ponga in competizione tutti gli offerenti; sistema finalizzato al raggiungimento del prezzo più alto possibile nel minor tempo possibile;

2) un funzionamento procedimentale altamente trasparente in cui tutte le parti della procedura concorsuale siano sempre a conoscenza dei passaggi e dei risultati. Ciò è garantito, anche, da un adeguato sistema di pubblicità, che ha garantito e garantisce, anche nelle procedure individuali, da ogni rischio di discrezionalità degli organi della procedura stessa.

3) da meccanismi alienativi volti al risparmio processuale, quindi gare altamente informali, modalità di partecipazione facilitate, strumenti di versamento del prezzo altamente efficienti, strumenti di sganciamento dalla vendita altamente velocizzati e non burocraticizzati.

[22] Si veda A. SALETTI, Tecniche ed effetti delle vendite forzate immobiliari, in Riv. dir. proc., 2003.

[23] In realtà l’art. 591 comma 2 c.p.c. prevede la possibilità di abbattimento fino al 50 % solo dopo il quarto tentativo di vendita andato deserto.

[24] Si veda: P. D’ADAMO, Le procedure competitive all’interno della riforma …, cit., nonché P. D'ADAMO, I diversi possibili ruoli nel notaio nella fase di liquidazione …, cit.

[25] La parte finale del comma 3 recita espressamente «secondo le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili».

[26] Si veda: P. D’ADAMO, Le procedure competitive all’interno della riforma …, cit. nonché P. D'ADAMO, I diversi possibili ruoli nel notaio nella fase di liquidazione …, cit.

[27] Si veda P. D’ADAMO, Art. 585 comma 3 c.p.c. “Tra riforma normativa ed esigenze operative”, studio n. 29-2018/E, approvato dal Gruppo di studi sulle esecuzioni immobiliari e attività delegate il 4 marzo 2019.

[28] «Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato».

[29] Si veda: P. D’ADAMO, Le procedure competitive all’interno della riforma …, cit. nonché P. D'ADAMO, I diversi possibili ruoli nel notaio nella fase di liquidazione …, cit., in cui la trasparenza endoprocessuale è elevata ad elemento cardine del concetto di vendita competitiva.