Giuffré Editore

La nullità urbanistica alla luce della sentenza delle sezioni unite n. 8230/2019

Gaetano Petrelli

Notaio in Verbania


Premessa

Con sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite in data 22 marzo 2019, n. 8230, è stato deciso che «La nullità comminata dall’art. 46 d.P.R. n. 380 del 2001 e dagli art. 17 e 40 l. n. 47 del 1985 va ricondotta nell’ambito del 3° comma dell’art. 1418 c.c., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità «testuale», con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell’immobile; pertanto, in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato»[[1]].

La sentenza accoglie, nei suddetti termini, un’interpretazione innovativa delle disposizioni (art. 40 della legge n. 47 del 1985; art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001) che prescrivono, a pena di nullità degli atti traslativi o costitutivi di diritti reali su fabbricati, l’indicazione degli estremi dei titoli abilitativi edilizi. La delimitazione delle ipotesi in cui può, effettivamente, ravvisarsi nullità degli atti è di estrema importanza per l’attività notarile: ciò sia per l’attività di consulenza che il notaio può essere chiamato a fornire (anche in relazione alla validità dei titoli di provenienza), sia per la valutazione in ordine alla ricevibilità o meno degli atti aventi ad oggetto fabbricati, sia infine ai fini della necessità o meno – e della validità – degli atti di conferma[[2]].

È perciò necessario analizzarne in dettaglio la motivazione, alla luce dell’evoluzione storica della disciplina in esame, della relativa ratio e della complessa casistica della contrattazione immobiliare.


Evoluzione storica della disciplina della nullità

La prima disposizione a prevedere la nullità degli atti negoziali aventi ad oggetto fabbricati, in assenza di titolo abilitativo edilizio, è quella contenuta nell’art. 15, comma 7, della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (c.d. legge Bucalossi), a norma del quale «Gli atti giuridici aventi per oggetto unità edilizie costruite in assenza di concessione sono nulli ove da essi non risulti che l’acquirente era a conoscenza della mancanza della concessione». La norma non imponeva in atto la menzione del titolo abilitativo edilizio, ove questo fosse effettivamente esistente, ma si preoccupava unicamente di tutelare l’affidamento dell’acquirente nell’eventualità di acquisto di immobile abusivo, richiedendo la menzione in atto della sua conoscenza dell’abuso (mancanza della concessione edilizia)[[3]]. Si trattava, in definitiva, di una disciplina che – nell’ammettere espressamente la contrattazione su immobili abusivi – comminava la nullità dell’atto giuridico (prevalentemente ritenuta di tipo «relativo») avente ad oggetto gli stessi nel solo caso in cui dall’atto non risultasse la consapevolezza dell’acquirente circa il suddetto abusivismo.

Da evidenziare che nella suddetta disposizione si faceva menzione unicamente dell’«assenza» della concessione edilizia, senza che avesse alcun rilievo l’eventuale difformità – totale o parziale – della costruzione eseguita sulla base della concessione eventualmente rilasciata. La giurisprudenza di legittimità ha ribadito in più occasioni questa interpretazione[[4]], in linea del resto sia con il principio di tassatività delle cause di nullità, sia con l’esigenza di sicurezza dei traffici giuridici, che sarebbe stata pregiudicata ove si fosse fatta conseguire la nullità alla difformità dell’edificio realizzato rispetto alla concessione edilizia, causa le diverse tipologie di difformità e le incertezze che possono presentarsi in pratica[[5]].

Non che, ovviamente, al di là dei limiti della sanzione di nullità gli abusi edilizi fossero privi di conseguenze. Lo stesso art. 15 della legge n. 10 del 1977 irrogava, nei suoi diversi commi, sanzioni amministrative (in particolare, sanzioni pecuniarie e, nei casi più gravi, la demolizione) che si estendevano – oltre che al caso dell’assenza della concessione – anche alle ipotesi di difformità totale o parziale; e l’art. 17 contemplava sanzioni penali per i casi di «esecuzione dei lavori in totale difformità o in assenza della concessione». In tal modo si reprimeva l’abuso edilizio, senza però incidere in modo intollerabile sulla sicurezza della circolazione giuridica.

La legge 28 febbraio 1985, n. 47, ha innovato rispetto alla suddescritta disciplina, introducendo – agli articoli 17 e 40 – una nuova tipologia di nullità, che non consegue più alla mancata menzione della conoscenza dell’assenza di concessione in capo all’acquirente, ma deriva invece dalla mancata menzione in atto, per dichiarazione dell’alienante o dei condividenti, degli estremi del titolo abilitativo edilizio (o della circostanza che la costruzione sia iniziata in data anteriore al 1° settembre 1967), salva possibilità di conferma dell’atto nullo «se la mancanza delle dichiarazioni o dei documenti, rispettivamente da indicarsi o da allegarsi non sia dipesa dalla insussistenza della licenza o della concessione o dalla inesistenza della domanda di concessione in sanatoria al tempo in cui gli atti medesimi sono stati stipulati, ovvero dal fatto che la costruzione sia stata iniziata successivamente al 1° settembre 1967». La disposizione quindi – a differenza di quella già dettata dall’art. 15, comma 7, della legge n. 10 del 1977 – non è più formulata «in negativo» (ossia in contemplazione del caso patologico e con riferimento all’ipotesi della circolazione di immobili abusivi), bensì «in positivo» (richiedendo la menzione del titolo abilitativo, postulato come esistente). D’altra parte, altre disposizioni della legge n. 47 del 1985 contemplano l’ipotesi di difformità, totale o parziale, della costruzione eseguita, ovvero della sua realizzazione con variazioni essenziali, comminando però per tali ipotesi soltanto sanzioni amministrative (cfr. in particolare l’art. 7) e penali (art. 20).

La disciplina suesposta è stata riproposta con il nuovo testo unico dell’edilizia (d.P.R. n. 380 del 2001), il cui art. 46 ha sostituito l’art. 17 della legge n. 47 del 1985: detto art. 46 richiede unicamente l’indicazione in atto, per dichiarazione dell’alienante o dei condividenti, degli estremi del titolo abilitativo edilizio, senza occuparsi espressamente – agli effetti della previsione di nullità – dell’eventualità di costruzione difforme dal titolo; eventualità invece contemplata dagli artt. 31 e seguenti del T.U. ai fini delle sanzioni amministrative, e dall’art. 44 per ciò che concerne le sanzioni penali[[6]].

Merita inoltre rilevare che l’art. 46 del T.U., nella sua versione attuale, equipara – agli effetti della disciplina della nullità – al permesso di costruire la segnalazione certificata di inizio attività (Scia): a norma del comma 5-bis dell’art. 46, aggiunto dall’art. 1, comma 1, lett. s), del d.lgs. 27 dicembre 2002, n. 301 e, successivamente, modificato dall’ art. 3, comma 1, lett. u), del d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222, «Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi realizzati mediante segnalazione certificata di inizio attività ai sensi dell’articolo 23, comma 01, qualora nell’atto non siano indicati gli estremi della stessa»[[7]]. Tra gli interventi rilevanti agli effetti della sanzione di nullità sono contemplate, in tal modo, espressamente le ristrutturazioni edilizie.

Già questo sommario esame dell’evoluzione normativa non evidenzia, perciò, particolari differenze di disciplina tra la legge n. 10 del 1977 da un lato, e la legge n. 47 del 1985 e il d.P.R. n. 380 del 2001 dall’altro lato, tali da giustificare un capovolgimento dell’interpretazione in ordine ai presupposti della sanzione civilistica di nullità.


La prima interpretazione della legge n. 47 del 1985, e la distinzione tra nullità formale e sostanziale

In sede di prima interpretazione della disciplina, il Consiglio Nazionale del Notariato si pose il problema di individuare il regime civilistico applicabile in presenza di totale difformità – o di variazioni essenziali rispetto al progetto approvato – e, argomentando dall’equiparazione di tali eventualità a quella dell’assenza di titolo abilitativo agli effetti delle sanzioni amministrative e penali, concluse in via prudenziale nel senso della stessa equiparazione (della totale difformità rispetto a quello dell’assenza di concessione edilizia) anche ai fini del regime di nullità[[8]]. Una conclusione, si diceva, prudenziale, che tuttavia non appariva giustificata nel confronto con la precedente disciplina, dettata dalla legge n. 10 del 1977: posto che anche in quest’ultima assenza di concessione edilizia e totale difformità dalla stessa erano equiparate agli effetti delle sanzioni penali (e di alcune sanzioni amministrative), ma non agli effetti civilistici.

In ogni caso, quella suesposta è divenuta interpretazione prevalente nella prassi delle contrattazioni immobiliari. Essa ha ricevuto numerose conferme giurisprudenziali[[9]], e ha indotto i notai – nella difficoltà di distinguere tra le diverse tipologie di difformità – ad atteggiamenti anch’essi prudenziali, ancorché la responsabilità delle dichiarazioni da rendersi in atto sia esclusivamente della parte a cui carico la legge pone l’obbligo di dichiarazione.

Più di recente, la giurisprudenza ha tuttavia radicalizzato le proprie posizioni, dividendosi in due orientamenti opposti[[10]]. Secondo una prima corrente interpretativa, la nullità di cui trattasi ha natura squisitamente formale, e può essere comminata esclusivamente nel caso in cui nell’atto non sia indicato alcun estremo del titolo abilitativo edilizio; per contro, l’atto sarebbe valido non solo nel caso di difformità totale della costruzione eseguita, ma perfino nell’ipotesi di assenza del titolo, ossia quando in atto siano falsamente o erroneamente indicati gli estremi di un titolo edilizio in realtà inesistente[[11]]. In definitiva, il caso della dichiarazione mendace è stato da queste sentenze espressamente contrapposto a quello dell’assenza di dichiarazione.

Secondo l’opposto orientamento, invece, la nullità in oggetto avrebbe natura sostanziale, mirando a reprimere il fenomeno dell’abusivismo edilizio: da ciò si è fatta conseguire la nullità, pur in presenza di regolare menzione degli estremi del titolo abilitativo in atto, ove la costruzione risulti da esso difforme (in diverse sentenze non si distingue neanche tra difformità totali e parziali)[[12]]; oltre a far conseguire la nullità all’ipotesi in cui gli estremi del titolo abilitativo edilizio siano falsamente indicati in atto.

Questo, quindi, lo scenario nel quale è intervenuta la Corte di Cassazione a sezioni unite con la sentenza in commento, con l’obiettivo di dirimere il contrasto sorto nell’ambito della giurisprudenza di legittimità.


L’interpretazione delle sezioni unite: nullità testuale e rilevanza della disciplina della conferma

La Corte di Cassazione parte, nella sua disamina della questione interpretativa, dall’inquadramento della nullità nel contesto dell’art. 1418 del codice civile, che contempla tre distinte categorie:

a) la nullità per contrasto con norme imperative (comma 1);

b) la nullità per mancanza di requisiti essenziali o per illiceità della causa, dell’oggetto o dei motivi (comma 2);

c) la nullità «testuale», espressamente prevista da norme di legge (comma 3).

La Corte esclude che la nullità in esame possa farsi rientrare in una delle due tipologie per prima elencate (commi 1 e 2 dell’art. 1418), e in particolare che essa sia comminata per la violazione di una norma imperativa, o per illiceità dell’oggetto o della causa. Induce ad escluderlo innanzitutto la circostanza che le stesse disposizioni esaminate contemplano la possibilità di stipulare alcuni negozi giuridici, ai quali le prescrizioni in oggetto non trovano applicazione (atti di ultima volontà; atti costitutivi di diritti reali di garanzia o di servitù); e che d’altra parte l’ambito di applicazione della disciplina non si estende ai negozi ad effetti obbligatori (come il contratto preliminare, o la locazione). Non esiste, in altri termini, una norma imperativa che vieti la circolazione degli immobili abusivi, altrimenti pure i negozi appena menzionati dovrebbero essere nulli in mancanza di indicazione in essi degli estremi del titolo abilitativo edilizio. Per la stessa ragione, non può ipotizzarsi una illiceità dell’oggetto, o della causa negoziale.

Non rimane, quindi, che la nullità «testuale», contemplata dall’art. 1418, comma 3, c.c., la quale però – per pacifica ammissione di dottrina e giurisprudenza – è applicabile nei soli casi espressamente previsti dalla legge: non è, cioè, estensibile al di fuori delle ipotesi normativamente contemplate. La c.d. «nullità virtuale» trova, infatti, applicazione solo nelle fattispecie rientranti nei primi due commi dell’art. 1418 c.c. Ciò significa che l’ambito della sanzione di nullità non può estendersi all’ipotesi in cui sia stato menzionato in atto il titolo abilitativo edilizio, ma la costruzione sia difforme rispetto a quanto autorizzato.

Nel senso suesposto milita, del resto, un importante argomento sistematico, lucidamente evidenziato dalla Suprema Corte. La finalità di contrasto dell’abusivismo edilizio, unitamente a quella di protezione dell’affidamento dell’acquirente, deve essere contemperata con l’esigenza di tutela dei traffici giuridici: la quale risulterebbe irrimediabilmente compromessa ove si sanzionasse con la nullità anche la difformità della costruzione rispetto al titolo. Le incertezze conseguenti alla spesso difficile definizione dei confini tra difformità totale, variazioni essenziali, difformità parziali renderebbe del tutto aleatoria la circolazione degli immobili[[13]], e ciò oltretutto in assenza di un fondamento positivo di tale interpretazione. L’abusivismo edilizio è piuttosto contrastato con l’irrogazione delle sanzioni penali e amministrative (le quali, del resto, sono testualmente comminate anche per le suddette difformità); non, invece, a mezzo della sanzione civilistica della nullità. In tal modo, perciò, i diversi interessi sono adeguatamente bilanciati, in applicazione dei canoni di ragionevolezza e proporzionalità che costituiscono presupposto di legittimità costituzionale della disciplina.

A ciò la Cassazione aggiunge un’ulteriore considerazione in merito alla ratio delle menzioni e dichiarazioni prescritte dalla disciplina in esame: la cui finalità consisterebbe – oltre che nel contrasto all’abusivismo edilizio, quantomeno della forma più eclatante rappresentata dall’assenza dei prescritti titoli abilitativi – nell’informazione dell’acquirente (non diversamente, aggiungiamo, da quanto avveniva – sia pure sotto diverso profilo – nel vigore della legge n. 10 del 1977, la cui disciplina si è già sommariamente rammentata): questi è messo in condizione, alla luce della dichiarazione resa dall’alienante, di svolgere ogni opportuna indagine – il cui onere secondo la Cassazione è a suo esclusivo carico – al fine di verificare l’effettiva conformità della costruzione realizzata rispetto al titolo abilitativo indicato in atto, e così tutelare il proprio interesse ad evitare l’acquisto di un manufatto in tutto o in parte abusivo. È, questo, un punto centrale nella motivazione della sentenza, che merita qualche ulteriore riflessione.

Innanzitutto, la configurazione dell’onere di informazione in capo all’acquirente (in conformità al principio del caveat emptor) controbilancia in modo adeguato la natura assoluta della sanzione di nullità, e la relativa imprescrittibilità: è vero che l’alienante potrebbe far valere tale nullità anche dopo che si è prescritto il diritto dell’acquirente ad ottenere la ripetizione del prezzo già pagato, ma ciò presuppone che l’acquirente stesso sia stato negligente nell’effettuare l’accertamento posto a suo carico.

D’altra parte, l’acquirente che sia disposto a rischiare la sanzione amministrativa (eventualmente anche demolitoria) può acquistare validamente un edificio realizzato (anche) in totale difformità rispetto al progetto assentito: ad esempio, perché intende demolirlo e ricostruirlo totalmente, o perché ritiene contestabile la qualificazione in termini di abusività e vuole far valere le proprie ragioni in giudizio. In un’ottica realmente attenta alla complessità degli interessi in presenza e alle relative dinamiche non vi è ragione per precludere la stipulabilità degli atti in questi casi, ferma la doverosità dell’informazione dell’acquirente da parte del notaio, come si dirà a breve.

Il contrasto all’abusivismo edilizio – pur rappresentando anch’esso, almeno entro certi limiti, ragione centrale della disciplina legislativa – è perciò oggetto solo in via mediata della tutela apprestata dalle norme civilistiche che comminano la nullità per assenza delle richieste menzioni e dichiarazioni; mentre oggetto immediato di tale tutela è piuttosto la protezione dell’acquirente (pur se i relativi connotati pubblicistici hanno indotto a prevedere una nullità assoluta e non soltanto relativa, oltre alle eventuali sanzioni amministrative e penali). 

L’insieme delle superiori conclusioni farebbe, perciò, propendere per la caratterizzazione in senso formale della nullità di cui trattasi. Senonché, una tale conclusione – la quale, portata alle estreme conseguenze, implicherebbe la validità dell’atto pur in caso di (falsa) indicazione in esso degli estremi di un titolo abilitativo, in realtà inesistente – deve essere temperata, ad avviso (condivisibile) delle Sezioni unite, con la disciplina della conferma degli atti nulli, contenuta nell’art. 40, comma 3, della legge n. 47 del 1985, e nell’art. 46 del d.P.R. n. 380/2001: disciplina da cui si ricava che la conferma è possibile solo se la mancanza delle dichiarazioni o dei documenti, rispettivamente da indicarsi o da allegarsi all’atto, non sia dipesa dalla insussistenza del titolo abilitativo edilizio o dalla inesistenza della domanda di titolo abilitativo in sanatoria al tempo in cui gli atti medesimi sono stati stipulati, ovvero dal fatto che la costruzione sia stata iniziata successivamente al 1° settembre 1967. Da questa disciplina si desume allora che:

a) se il titolo abilitativo edilizio – non indicato in atto – esisteva al momento dell’atto stesso, ovvero – sempre in assenza di dichiarazione dell’alienante – la costruzione era effettivamente iniziata anteriormente al 1° settembre 1967, la nullità è confermabile, e quindi rimediabile, a iniziativa anche di una sola parte dell’atto stipulato;

b) se il titolo abilitativo – non indicato in atto – invece non esisteva al momento dell’atto, e la costruzione era stata iniziata a partire dal 1° settembre 1967, la nullità non è confermabile, ed è perciò irrimediabile;

c) da quanto sopra le sezioni unite ricavano a livello interpretativo l’ulteriore conclusione, secondo cui in caso di inesistenza del titolo abilitativo, e quindi di indicazione dei relativi estremi in modo falso o erroneo, si è comunque in presenza di una nullità non confermabile.

È vero che la legge contempla unicamente, agli effetti della conferma, l’ipotesi della «mancata indicazione in atto degli estremi», ma a questa non può non essere equiparata quella della «falsa o erronea indicazione», in assenza di un titolo abilitativo, pena l’instaurazione di un sistema del tutto irragionevole, che consentirebbe la circolazione degli immobili abusivi rendendo una dichiarazione falsa, e la precluderebbe invece in caso di omessa dichiarazione. In altri termini, un’interpretazione come quella propria delle tesi «formalistiche», che fanno salva la validità dell’atto in presenza di una dichiarazione mendace degli estremi del titolo abilitativo, dovrebbe condurre all’incostituzionalità della disciplina per manifesta irragionevolezza. Conseguenza che viene evitata mediante un’opportuna interpretazione estensiva della disciplina della conferma, con la quale la dichiarazione mendace viene equiparata alla falsa dichiarazione. 

Il percorso logico della motivazione delle Sezioni unite, a questo punto, si completa: se è valido solo l’atto in cui sia citato un titolo abilitativo realmente esistente[[14]], ne consegue la nullità – pur in presenza di dichiarazione dei relativi estremi – ove invece il titolo non esista. La nullità, ex art. 1418, comma 3, c.c., non è quindi una nullità puramente «formale», poiché essa sanziona anche il caso in cui l’atto sia formalmente regolare (contenendo l’indicazione degli estremi richiesti), ma sia commercializzato un edificio privo nella realtà di titolo abilitativo. Sotto questo profilo, il dato normativo relativo alla confermabilità degli atti nulli – come sopra interpretato – consente di impedire la circolazione degli immobili radicalmente abusivi (perché privi del titolo abilitativo edilizio, ancorché falsamente indicato); con una modalità che però, escludendo l’incidenza sulla validità degli atti delle difformità costruttive, di qualsiasi natura, non sacrifica eccessivamente la sicurezza dei traffici giuridici.

In questa direzione, la Suprema Corte individua, correttamente, un preciso requisito – implicito nelle previsioni della legislazione urbanistica in commento – che è quello della «riferibilità» del titolo abilitativo edilizio, menzionato in atto, all’immobile di cui trattasi, in concreto e non in astratto[[15]]. Solo in presenza di tale riferibilità può ritenersi concretizzato il presupposto – desunto dalla disciplina della conferma – dell’indicazione di un titolo edilizio realmente esistente, essenziale ai fini della validità dell’atto.

È però necessario collocare quest’ultima affermazione della Corte nel contesto sistematico in cui essa si inserisce: contesto nel quale la stessa Corte evidenzia, nel contempo, l’irrilevanza delle difformità costruttive ai fini della validità dell’atto, senza distinguere tra difformità totali o parziali o variazioni essenziali[[16]]. È questo un punto di importanza centrale ai fini della reale comprensione dell’intervento nomofilattico in esame: non è possibile, cioè, affermare che affinché l’atto sia valido la costruzione non debba essere totalmente difforme (con l’argomento che, diversamente, il titolo non sarebbe «riferibile» ad essa costruzione), perché ciò condurrebbe a fraintendere completamente il significato della pronuncia, e a demolire quel bilanciamento tra contrasto all’abusivismo edilizio e salvaguardia della sicurezza dei traffici, che invece la Suprema Corte ha limpidamente evidenziato[[17]]: laddove, infatti, si configurasse la nullità anche in caso di difformità totale dell’edificio rispetto al titolo abilitativo, si sacrificherebbe non solo l’interesse dell’acquirente, ma anche quello dei successivi subacquirenti, senza alcuna ragionevole giustificazione.

La «riferibilità» deve essere perciò intesa in senso essenzialmente «topografico»: il titolo abilitativo deve, cioè, riferirsi a quella porzione di suolo (e di volume edificabile) su cui è stato realizzato l’edificio[[18]]. Ovvero, detto in altri termini, la dichiarazione da rendersi in atto deve essere «riferibile» non tanto al «bene giuridico» (inteso, secondo l’insegnamento pugliattiano, come sintesi tra l’interesse tutelato dall’ordinamento e la res che ne costituisce oggetto), bensì alla «cosa immobile», quale porzione fisica dello spazio terrestre nell’ambito della quale è stata realizzata la costruzione oggetto dell’atto giuridico.

Il tutto da intendersi, ovviamente, cum grano salis: è ovvio che eventuali sconfinamenti o differenze di ubicazione, che non investano volumi edilizi del tutto autonomi, non pregiudicano la riferibilità suddetta (come si avrà modo di chiarire nel prosieguo del discorso). In ogni caso, la suesposta interpretazione del requisito della riferibilità è coerente con l’esigenza – che emerge dall’argomentazione della Suprema Corte – di non creare eccessiva incertezza nella circolazione immobiliare: è, infatti, abbastanza agevole – non solo per l’acquirente, ma anche, successivamente, per i subacquirenti – accertare la riferibilità del titolo abilitativo a una determinata particella catastale, e/o a un determinato volume edificabile.

Si tratta, ora, di scendere più in dettaglio e – partendo dalla ricostruzione operata dalle Sezioni unite, di cui si è constatata la sostanziale correttezza – di verificarne l’impatto sulla contrattazione immobiliare, alla luce della complessa casistica che può presentarsi nella prassi.


Costruzione iniziale e interventi edilizi successivi

Il caso esaminato dalle sezioni unite, come può evincersi dall’esposizione iniziale del fatto oggetto di giudizio, si caratterizzava per l’esecuzione – successivamente alla costruzione iniziale – di importanti lavori di ristrutturazione, realizzati abusivamente. Le lucide argomentazioni della Corte hanno condotto a escludere la rilevanza di tali abusi ai fini della validità dell’atto, nel quale era stato citato il titolo abilitativo iniziale: a questa conclusione deve indubbiamente aderirsi, ferma restando l’applicabilità delle sanzioni amministrative e penali comminate dalla legge, ricorrendone i relativi presupposti.

Quid iuris, però, nel caso in cui si tratti di intervento di ristrutturazione eseguito successivamente alla costruzione iniziale, per il quale sia stato rilasciato un regolare titolo abilitativo, i cui estremi non siano stati però indicati in atto? A questa domanda può darsi agevolmente risposta, solo che si esamini il combinato disposto dell’art. 46, comma 5-bis, dell’art. 23, comma 01, e dell’art. 10, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001: da cui si ricava che devono essere indicati in atto, a pena di nullità, anche gli estremi del titolo abilitativo edilizio (permesso di costruire, o Scia), relativo a «interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni». In altri termini, la legge impone l’indicazione in atto, a pena di nullità, non solamente degli estremi del titolo iniziale, ma anche di quelli del titolo successivamente rilasciato, ove si tratti di una ristrutturazione «importante», sulla base dei parametri sopra citati.

Ciò significa che se la ristrutturazione è stata eseguita abusivamente, l’atto è valido nella misura in cui citi il titolo abilitativo iniziale; se invece la ristrutturazione è stata eseguita in base a un regolare titolo edilizio, l’atto è nullo se di esso non sono citati gli estremi. Sembrerebbe, questa, una vistosa contraddizione, che però non è realmente tale, solo che si entri nella logica dell’interpretazione delle sezioni unite: il sistema della legge – a tutela della sicurezza dei traffici giuridici e quindi anche dell’affidamento dei subacquirenti – è imperniato sul dato «formale» dell’obbligatoria indicazione in atto degli estremi dei titoli abilitativi, nei casi e nei termini testualmente previsti (tra cui rientrano anche quelli di cui al comma 5-bis dell’art. 46 del T.U.[[19]]), e quindi in tali casi l’alienante è obbligato a indicare, a pena di nullità, gli estremi di tutti i titoli abitativi esistenti. Trattandosi, invece, di ristrutturazione abusiva, in assenza cioè di un titolo edilizio che possa essere menzionato in atto, trovano applicazione – ai fini del contrasto all’abusivismo – unicamente le sanzioni amministrative e penali, in mancanza di una disposizione che «testualmente» commini in tale ipotesi la nullità dell’atto. Il differente trattamento delle due ipotesi è, perciò, coerente con l’esigenza di sicurezza dei traffici giuridici: una volta che per la ristrutturazione sia rilasciato o presentato un titolo edilizio, è possibile reperirne agevolmente gli estremi e confrontarli con quelli indicati dall’alienante, mentre nel caso di ristrutturazione abusiva si tratterebbe per i suddetti subacquirenti di assolvere all’onere – ben più gravoso, e con ben maggiori margini di incertezza – di verificare nei fatti la conformità del manufatto al titolo originario nel momento in cui l’atto di provenienza era stato perfezionato. D’altra parte, il progressivo assottigliamento – anche a seguito delle recenti modifiche legislative – delle differenze tra nuova costruzione e ristrutturazione (leggasi, al riguardo, quanto disposto dall’art. 3, lett. d) ed e), del d.P.R. n. 380 del 2001) renderebbe in molti casi non decisiva la distinzione tra i due tipi di intervento edilizio, e sicuramente irragionevole una interpretazione che distinguesse tra di essi al fine di ricollegare ad uno solo di essi la sanzione di nullità di cui trattasi.

Occorre, del resto, tener conto – nell’ottica dell’equilibrato bilanciamento degli interessi, realizzato con l’interpretazione delle sezioni unite – anche della responsabilità civile dell’alienante, il quale alieni un fabbricato realizzato o ristrutturato abusivamente: in questi casi l’acquirente è, evidentemente, tutelato anche a mezzo delle azioni di garanzia, risolutorie e risarcitorie allo stesso riconosciute dal codice civile.


Residui profili di rilevanza delle difformità costruttive ai fini della validità dell’atto, dopo le sezioni unite

Un esame più accurato della possibile casistica rivela, peraltro, l’esistenza di ipotesi in cui la presenza di difformità costruttive è in grado di incidere sulla validità dell’atto.

Si è già accennato al fatto che, nella corretta ricostruzione delle Sezioni unite, il titolo abilitativo edilizio, i cui estremi sono indicati in atto, deve essere «riferibile» all’edificio oggetto dell’atto stesso, ai fini della relativa validità. Approfondendo tale concetto, possono però presentarsi dei casi in cui la difformità edilizia incide proprio sul requisito della riferibilità.

Si consideri, innanzitutto, l’ipotesi in cui sia rilasciato un titolo abilitativo per costruire un edificio condominiale con quattro appartamenti, e ne venga realizzato abusivamente un quinto. In tale ipotesi, possono verificarsi diverse situazioni. Il quinto appartamento può non essere affatto contemplato dal progetto (es., sopraelevazione abusiva): in tale eventualità, non sembra dubbio che il titolo abilitativo non sia ad esso «riferibile», e che quindi l’indicazione in atto degli estremi del permesso rilasciato per la costruzione dell’edificio condominiale equivalga – per tale unità immobiliare – all’indicazione di un titolo inesistente, a cui consegue come già visto la nullità dell’atto. La situazione non cambia in relazione alla circostanza che la realizzazione del suddetto appartamento abusivo abbia avuto luogo contestualmente, o successivamente alla realizzazione delle parti regolari dell’edificio. La conclusione può, allora, sintetizzarsi affermando che la difformità edilizia non rileva, agli effetti della validità dell’atto, quando non dà luogo alla creazione di una unità immobiliare autonoma, ossia di un volume edilizio indipendente da quelli regolarmente assentiti, e suscettibile di separata utilizzazione; determina invece la nullità dell’atto quando comporta la nascita di una siffatta autonoma unità immobiliare.

Potrebbe, perciò, darsi il caso in cui in luogo di quattro appartamenti ne vengano realizzati cinque, senza tuttavia che uno di essi possa ritenersi del tutto abusivo (perché almeno parzialmente rientrante all’interno delle superfici e dei volumi assentiti): in tale ipotesi sono senz’altro applicabili le conclusioni delle sezioni unite, e quindi è certamente sostenibile la validità dell’atto, senza che possa attribuirsi rilevanza alle «dimensioni» della difformità realizzata: l’unico presupposto indispensabile ai fini della validità è che il titolo sia «riferibile» alla costruzione, il che si realizza anche se, ad esempio, in luogo di un volume edilizio di 100 ne è realizzato uno pari a 1.000, sempreché la riferibilità – intesa in senso «topografico», come già chiarito, sussista.

Va anche puntualizzato che, in presenza di unità immobiliari autonome realizzate abusivamente, la nullità va affermata sia nel caso in cui tali unità siano commercializzate separatamente, sia che siano alienate unitamente alle unità regolarmente assentite. Non rileva neanche, sotto questo profilo, la distinzione – elaborata ad altri fini, in particolare agli effetti della prelazione urbana – tra vendita cumulativa e vendita in blocco: nel contesto della disciplina urbanistica, a rilevare è esclusivamente la circostanza che il titolo abilitativo edilizio, eventualmente indicato in atto, non è riferibile alle suddette unità immobiliari, conseguendo a ciò pianamente l’applicazione delle previsioni di nullità con esclusione della possibilità di conferma.


I fabbricati la cui costruzione è iniziata in data anteriore al 1° settembre 1967

Un caso particolare – ma comunque riconducibile alla disciplina sopra descritta – è quello della costruzione iniziata in data anteriore al 1° settembre 1967. Ci si riferisce, qui, all’ipotesi in cui sia resa in atto una dichiarazione in tal senso, ma in realtà la costruzione sia iniziata successivamente alla suddetta data.

La disciplina dettata dall’art. 40 della legge n. 47 del 1985 si basa, essenzialmente, sulla difficoltà di reperire licenze edilizie rilasciate in anni remoti, spesso irreperibili anche a causa della non diligente conservazione degli archivi comunali, e anche perché prima della legge «ponte» del 1967 il fenomeno dell’abusivismo edilizio era molto più diffuso e meno efficientemente sanzionato. Di conseguenza, di tali licenze edilizie non è richiesta la menzione in atto, essendo sufficiente dichiarare l’anteriorità dell’inizio dei lavori di costruzione alla suddetta data. Ciò nondimeno, l’art. 40, comma 3, della legge n. 47 del 1985 subordina la confermabilità degli atti nulli alla circostanza che la dichiarazione di inizio lavori ante ’67 sia veritiera: il che implica che in caso di dichiarazione mendace o erronea l’atto è nullo, e la nullità non è sanabile mediante conferma.

Né quanto sopra può ritenersi pregiudicare la sicurezza della circolazione giuridica, e l’affidamento dei subacquirenti, in modo sensibilmente più grave rispetto a quanto avviene nei casi in cui nell’atto sia indicato un titolo abilitativo edilizio rilasciato a partire dal 1° settembre 1967: pure, infatti, nell’ipotesi di falsa dichiarazione di inizio costruzione ante ’67, possono essere rinvenuti negli archivi comunali – anche da parte dei successivi subacquirenti – gli eventuali titoli abilitativi successivi a tale data, e la restante documentazione idonea a comprovare l’effettivo inizio della costruzione eseguita.

In queste ipotesi, ovviamente, non ha senso parlare di «riferibilità» di un titolo edilizio – che non viene citato in atto – alla costruzione eseguita. Ciò significa che le problematiche sopra esaminate non hanno, con riferimento ai lavori edilizi eseguiti anteriormente al 1° settembre 1967, alcuna ragion d’essere.

Perciò, nonostante qualsiasi abuso, di qualsivoglia genere e gravità, in presenza di una dichiarazione (veritiera) di inizio lavori anteriormente alla suddetta data l’atto è sempre e comunque valido. Ciò vale anche nell’ipotesi in cui siano realizzate, inizialmente o successivamente (purché entro il 31 agosto 1967) unità immobiliari autonome completamente abusive. Le uniche sanzioni applicabili saranno quelle penali e amministrative, ricorrendone i presupposti.

Ovviamente, per gli eventuali interventi di ristrutturazione «importanti», eseguiti in data successiva è invece richiesta la menzione degli estremi dei relativi titoli abilitativi, con tutte le conseguenze di disciplina sopra evidenziate.


L’informazione dell’acquirente. Ruolo e responsabilità del notaio

Occorre, a questo punto, sottoporre a ulteriore verifica l’affermazione – contenuta nella motivazione della sentenza delle sezioni unite – secondo cui la dichiarazione in atto degli estremi del titolo abilitativo edilizio è funzionale all’informazione dell’acquirente, il quale – su tali basi – può svolgere le opportune indagini al fine di verificare l’effettiva riferibilità del titolo all’edificio e la conformità del secondo al primo, tutelando così il proprio interesse a non acquistare un manufatto abusivo.

A prima vista, l’affermazione sembrerebbe infondata: la legge, infatti, non richiede né una comunicazione all’acquirente – anteriore al momento della stipula – delle informazioni relative al titolo edilizio, né la relativa menzione nel contratto preliminare, a seguito della cui (eventuale) conclusione il promissario acquirente avrebbe tutto il tempo per esperire le necessarie verifiche e – in caso di esito negativo di esse – potrebbe rifiutarsi di stipulare il contratto definitivo, oltre ad esperire gli ulteriori rimedi contrattuali e risarcitori. La dichiarazione degli estremi del titolo abilitativo è richiesta unicamente nel contratto traslativo (definitivo): a seguito della cui conclusione, e dell’esecuzione della prestazione di pagamento del prezzo, all’acquirente non rimarrebbe – in caso di abusivismo edilizio – se non l’azione di risoluzione del contratto, e l’azione di risarcimento dei danni subìti. Una tutela, quindi, di natura essenzialmente obbligatoria – considerata anche l’inopponibilità ai terzi della risoluzione (art. 1458 c.c.) – che comunque non potrebbe giovarsi, come sostiene la Cassazione, di indagini preliminari ad opera dell’acquirente, perché nel sistema della legge gli estremi del titolo abilitativo sono resi noti all’acquirente al momento stesso della conclusione del contratto traslativo della proprietà, o costitutivo di diritti reali. Per tacere del fatto che la ratio cui fa cenno la sentenza in commento appare totalmente insussistente nel contratto di divisione, ove tutti i condividenti-comunisti sono teoricamente, o devono essere, a pari titolo informati in relazione agli interventi edilizi che hanno riguardato le unità immobiliari oggetto di divisione.

È, tuttavia, possibile una interpretazione delle norme in esame che tenga conto della ratio individuata dalle sezioni unite, e che appare in grado di ricondurre a coerenza il sistema. È noto, infatti, che la stragrande maggioranza delle contrattazioni immobiliari è perfezionata con l’intervento del notaio, richiesto dalla legge ai fini della trascrizione degli atti di alienazione e di divisione (art. 2657 c.c.)[[20]]. Ed è altresì noto come tra i doveri gravanti sul notaio vi sia quello, fondamentale, di informazione e chiarimento alle parti in ordine alle conseguenze dell’atto che le stesse vanno a stipulare[[21]]. Tenuto conto del fatto che la Suprema Corte, correttamente (in applicazione dell’antica regola del caveat emptor), pone a carico dell’acquirente l’onere di verificare – anche sotto il profilo urbanistico – la bontà del suo acquisto, esperendo le opportune indagini anche di natura urbanistica, è necessario che il notaio informi l’acquirente stesso (il quale, presumibilmente, il più delle volte sarà ignaro) di tale onere a suo carico, nonché delle possibili conseguenze dell’eventuale scoperta di abusi edilizi successivamente al perfezionamento dell’acquisto. In tal modo, l’acquirente – debitamente avvertito nel corso dell’istruttoria dell’atto notarile – potrà effettivamente tutelare i propri interessi, esperendo gli opportuni accertamenti (eventualmente a mezzo di tecnico di propria fiducia) come suggerito nella sentenza delle sezioni unite[[22]]. Lo stesso può dirsi con riferimento alle parti del contratto di divisione: a parte l’eventualità in cui un intervento edilizio sia stato effettuato sulla base di un titolo abilitativo richiesto da uno soltanto dei comunisti (magari relativo a un immobile assegnato, in sede di divisione, ad altro condividente), va tenuto presente il caso – non raro nella prassi – in cui le parti condividenti non abbiano contezza della disciplina urbanistica e della gravità delle conseguenze della relativa violazione: ciò rende, anche in questa ipotesi, essenziale e imprescindibile il ruolo del notaio e del relativo dovere di informazione.

Nella medesima direzione può farsi ancora un passo ulteriore. L’art. 47, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, riprendendo la disposizione già contenuta nell’art. 21, comma 1, della legge n. 47 del 1985, dispone che «Il ricevimento e l’autenticazione da parte dei notai di atti nulli previsti dagli articoli 46 e 30 e non convalidabili costituisce violazione dell’articolo 28 della legge 16 febbraio 1913, n. 89, e successive modificazioni, e comporta l’applicazione delle sanzioni previste dalla legge medesima». È evidente che l’applicazione della sanzione disciplinare, comminata per violazione dell’art. 28 l.not., presuppone l’imputabilità dell’illecito al notaio, il quale però – per costante giurisprudenza – non è tenuto ad effettuare indagini in ordine alla regolarità urbanistica dei fabbricati che formano oggetto degli atti dallo stesso ricevuti o autenticati[[23]]. L’art. 47 suddetto ricollega, d’altra parte, la sanzione unicamente al ricevimento o autenticazione di atti non convalidabili: di atti, cioè, che sulla base di quanto già visto non menzionino il titolo abilitativo – o ne menzionino uno inesistente – nei casi in cui detto titolo effettivamente non sussista. Se ne desume che la responsabilità disciplinare del notaio è configurabile sia nell’ipotesi in cui non vengano menzionati, per sua colpa, gli estremi del titolo abilitativo (peraltro inesistente nella realtà); sia nell’eventualità in cui, sempre per sua colpa, vengano menzionati estremi erronei o inesistenti di un titolo, parimenti nella realtà inesistente. Il notaio ha, dunque, l’obbligo di sollecitare la parte alienante a farsi parte diligente al fine di dichiarare gli estremi (corretti) di titoli abilitativi realmente esistenti, e quando possibile di produrne copia all’acquirente, il quale avrà così modo, tra l’altro, di verificare – oltre alla conformità al titolo rilasciato della costruzione – la riferibilità del titolo abilitativo all’immobile oggetto dell’atto (riferibilità il più delle volte evidente, per l’indicazione nel titolo abilitativo edilizio dei dati catastali delle particelle su cui insiste il fabbricato di cui trattasi)[[24]]. Ove ometta tali cautele, contribuendo in tal modo a creare i presupposti per l’indicazione in atto di estremi inesistenti o erronei, in presenza di titolo realmente inesistente si configura la suddescritta responsabilità disciplinare del notaio ex art. 28 l.not.: responsabilità che trova quindi il suo principale fondamento nel mancato adempimento dell’onere informativo nei confronti delle parti dell’atto.

In definitiva, con le precisazioni appena effettuate la ratio informativa della disciplina delle nullità urbanistiche assume una sua coerenza rispetto al sistema, e giustifica pienamente la posizione assunta dalle sezioni unite, nel distinguere tra sanzione civilistica da un lato, e sanzioni amministrative e penali dall’altro: demandando esclusivamente a queste ultime la finalità diretta e immediata di contrasto all’abusivismo edilizio, e rendendo per contro irrilevanti le difformità, totali o parziali, della costruzione rispetto al progetto approvato ai fini della sanzione di nullità.

Quanto sopra pone l’ulteriore problema della prova dell’assolvimento, da parte del notaio, dell’obbligo di informazione e chiarimento; prova che è a carico del medesimo notaio, in conformità ai princìpi generali (art. 1218 c.c.). A tal uopo, può essere opportuna la dichiarazione in atto della parte acquirente di essere edotta dell’onere posto a suo carico dalla legge, e delle conseguenze del relativo inadempimento. Questa non deve, però, trasformarsi in una clausola di stile, la quale come tale non avrebbe, del resto, alcuna efficacia[[25]]: l’informazione all’acquirente deve essere resa tempestivamente, e comunque in tempo utile da consentirgli di effettuare i necessari accertamenti, e non sarebbe idonea a tal fine un’informativa resa al momento della stipula dell’atto notarile.


Riflessi sistematici dell’interpretazione delle sezioni unite – La nullità per assenza di conformità catastale

Va infine affrontato un problema, che l’approfondimento effettuato dalle sezioni unite ha fatto emergere.

La sentenza in commento trae dalla disciplina in tema di conferma delle nullità urbanistiche – conferma possibile solo nel caso in cui il titolo abilitativo edilizio fosse realmente esistente al momento dell’atto sprovvisto delle menzioni di legge – la conclusione secondo cui anche in presenza di tali menzioni è indispensabile la sussistenza del titolo – e quindi la veridicità delle dichiarazioni delle parti – ai fini della validità dell’atto. La dichiarazione falsa o erronea, quindi, determina al pari dell’omessa dichiarazione la nullità dell’atto. Si è visto come questa lettura risulti assolutamente condivisibile.

La questione, che qui si intende discutere in relazione alla c.d. conformità catastale – ossia, alla dichiarazione circa la conformità della situazione di fatto alla planimetria e ai dati catastali, imposta dall’art. 29, comma 1-bis, della legge 27 febbraio 1985, n. 52 – nasce dall’introduzione nel suddetto art. 29, ad opera dell’art. 8, comma 1-bis, del d.l. 24 aprile 2017, n. 50, inserito in sede di conversione dalla l. 21 giugno 2017, n. 96, del nuovo comma 1-ter, a norma del quale, «Se la mancanza del riferimento alle planimetrie depositate in catasto o della dichiarazione, resa dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie, ovvero dell’attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato non siano dipese dall’inesistenza delle planimetrie o dalla loro difformità dallo stato di fatto, l’atto può essere confermato anche da una sola delle parti mediante atto successivo, redatto nella stessa forma del precedente, che contenga gli elementi omessi»[[26]].

Quest’ultima disposizione – come quelle in materia urbanistica, di cui si è già discusso – subordina perciò la possibilità di conferma alla circostanza che al momento del perfezionamento dell’atto da confermare la planimetria realmente esistesse, e fosse conforme allo stato di fatto (nonché, implicitamente, che i dati catastali fossero anch’essi esistenti e conformi). Seguendo il ragionamento, condivisibile, delle sezioni unite, allora, alla mancanza del riferimento in atto alle planimetrie e/o della dichiarazione di conformità allo stato di fatto di dati catastali e planimetrie deve essere equiparata quella del riferimento e/o dichiarazione falsa o erronea, in assenza cioè di planimetria e/o di conformità. In altri termini, se fino al 23 giugno 2017 – non essendo allora in alcun caso possibile la conferma – poteva fondatamente affermarsi che la falsità della dichiarazione di conformità catastale non determinava nullità dell’atto (salve le responsabilità civili e penali dell’alienante)[[27]], dopo l’introduzione del nuovo comma 1-ter dell’art. 29 la situazione appare radicalmente mutata: la dichiarazione falsa o erronea, in assenza di conformità catastale al momento della stipula dell’atto, ne determina la nullità (insanabile).

In questo caso, comunque, si tratta di nullità che non è né «sostanziale» né «formale», bensì «documentale»: essa, cioè, non riguarda il negozio giuridico (come nei casi succitati), bensì unicamente il «documento autentico», e l’effetto di detta nullità si esaurisce sostanzialmente nel privare il medesimo documento dell’attributo dell’autenticità[[28]]. Un po’ come avviene, mutatis mutandis, per l’atto estero sprovvisto di legalizzazione o di apostille, che non è per ciò solo nullo, ma che risulta privo nell’ordinamento interno del carattere dell’autenticità. Questa figura della «nullità documentale» non è, d’altra parte, sconosciuta nel nostro ordinamento: vi rientrano, in particolare, le nullità comminate riguardo all’atto pubblico dall’art. 58 della legge n. 89 del 1913 (legge notarile), a cui non consegue la nullità del negozio giuridico: tant’è vero che ne è possibile la c.d. conversione formale a norma dell’art. 2701 c.c. in scrittura privata, anche autenticata: l’art. 58, comma 1, richiama al riguardo espressamente la corrispondente norma del codice civile del 1865 («L’atto notarile è nullo, salvo ciò che è disposto dall’art. 1316 del codice civile»), ed il richiamo oggi va pacificamente riferito a detto art. 2701 c.c. Nel caso in esame, si è ritenuto quindi che l’atto nullo ai sensi dell’art. 29, comma 1-bis, della legge n. 52 del 1985 debba essere senz’altro «convertito» in scrittura privata (non autenticata), ove non sussistano altre cause di nullità (formale o sostanziale)[[29]]. Ragion per cui deve ritenersi, tra l’altro, che in presenza di una nullità siffatta non ricorrano comunque i presupposti per l’applicazione, nei confronti del notaio, dell’art. 28 della legge notarile.

Vale, per il resto, quanto sopra affermato in relazione alla materia urbanistica, quanto ai doveri di informazione e chiarimento del notaio, e alla documentazione del relativo adempimento.



[1] Cfr., per i primi commenti alla sentenza, G. PETRELLI, Natura e disciplina della nullità urbanistica dopo le sezioni unite, in Riv. not., 2019, 671; C. CICERO – A. LEUZZI, Le nullità delle menzioni urbanistiche negli atti traslativi, in Riv. not., 2019, 341; E. AMANTE, Le sezioni unite compongono il contrasto sulla nullità formale o sostanziale dell’art. 46, d.P.R. n. 380 del 2001, in Urb. app., 2019, 503; C. NATOLI, La natura «testuale» della nullità urbanistica, in Nuova giur. civ., 2019, 717; F. MAGLIULO, Le menzioni urbanistiche negli atti traslativi: quale nullità?, in Notariato, 2019, 273; M. MONEGAT, L’assenza di dichiarazione del venditore degli estremi del titolo urbanistico costituisce nullità «testuale», in Imm. propr., 2019, 319; M. LEO, Difformità tra titolo abilitativo e costruzione realizzata: le sezioni unite pongono fine al contrasto giurisprudenziale tra nullità formale e sostanziale (Cass. sez. un. 22 marzo 2019, n. 8230), in CNN Notizie del 25 marzo 2019; G. RIZZI, Considerazioni sulla nullità degli atti negoziali per violazione delle norme in materia urbanistica ed edilizia alla luce della Sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione, 2019, in www.federnotizie.it. Cfr. anche, sul tema, S. MONTICELLI, Sulla natura «equivoca» della nullità degli atti traslativi di immobili abusivi, in Jus civile, 2019, 1, 27; C. NATOLI, Sulla natura giuridica della cd. nullità urbanistica, in Nuova giur. civ., 2018, I, 1739; I. PICCIANO, Sui profili di invalidità della compravendita di immobili abusivi, in Notariato, 2019, 292; R. PESCARA – A. PRESOTTO, D’ora in avanti compravendite più semplici e sicure, in Guida dir., 2019, 21, 41; A. BUSANI, Se c’è titolo edilizio l’immobile abusivo è commerciabile, in Il Sole 24 Ore del 23 marzo 2019; A. BUSANI, Un titolo edilizio qualsiasi salva la vendita della casa abusiva, in Il Sole 24 Ore del 1° aprile 2019; G. INZAGHI – T. FIORENTINO, Volumi, tipologia, utilizzazione: quando l’edificio è del tutto diverso, in Il Sole 24 Ore del 1° aprile 2019; A. DI SAPIO – D. MURITANO, Immobili abusivi, rischia chi acquista, in Il Sole 24 Ore del 26 marzo 2019.

[2] Nell’ipotesi in cui un atto traslativo o costitutivo di diritti reali su un fabbricato, costruito in tutto o in parte abusivamente, non sia nullo (anche sulla base della decisione delle sezioni unite in commento), l’eventuale atto di conferma ricevuto o autenticato dal notaio potrebbe, a sua volta, essere nullo in quanto privo di causa. La questione della nullità degli atti di provenienza deve essere, perciò, valutata con la massima attenzione, evitando di stipulare «prudenzialmente» atti di conferma in realtà privi di una reale funzione.

[3] Cfr. al riguardo C. DONISI, La nullità prevista dall’art. 15 della legge sulla edificabilità dei suoli, in Riv. giur. ed., 1977, 238.

[4] Cfr., in particolare, Cass., 17 gennaio 1998, n. 374 («In base all’art. 15, 7º comma, l. 28 gennaio 1977, n. 10, non può essere dichiarata la nullità di un atto avente ad oggetto la compravendita di un immobile costruito non in «assenza» di concessione, ma in «difformità», totale o parziale, dalla stessa (nella specie, si trattava di ristrutturazione abusiva o, comunque, in difformità dalla licenza) »); Cass., 31 ottobre 1989, n. 4554 («L’art. 15, 7º comma, l. 28 gennaio 1977, n. 10, che sancisce la nullità degli atti giuridici aventi per oggetto immobili costruiti senza concessione edilizia ove da essi non risulti che l’acquirente era a conoscenza della mancanza della concessione stessa, sia per il suo carattere innovativo, sia perché contenuta in una normativa speciale ispirata alla tutela di interessi pubblici legati all’ordinato assetto e sviluppo urbanistico del territorio, è norma di stretta interpretazione, non applicabile oltre i casi ed i tempi in essa considerati (art. 14 disp. prel. c.c.), con la conseguenza che non può, in base alla detta norma, essere dichiarata la nullità di un atto avente ad oggetto la compravendita di un immobile costruito non in assenza di concessione ma in difformità – totale o parziale – della stessa»); Cass., 29 maggio 1995, n. 6036, in Arch. loc., 1995, 825.

[5] Come precisato da Cass., 17 gennaio 1998, n. 374, cit., «Con tale disposizione il legislatore per la prima volta intese perseguire le violazioni al regime edilizio non solo mediante strumenti di natura penale ed amministrativa, ma anche attraverso una sanzione civilistica (quella della nullità degli atti giuridici) che rendesse incommerciabile il bene realizzato mediante quelle violazioni. Furono così tradotti in norma quella serie di tentativi adottati, in precedenza, dalla giurisprudenza (con decisioni che prestarono il fianco a varie critiche di ordine teorico e pratico), la quale aveva ipotizzato che la nullità di quegli stessi atti potesse derivare dalla loro contrarietà a norma imperativa, dalla illiceità del bene che ne era oggetto o, addirittura, dalla contrarietà al buon costume. Una volta entrato in vigore l’art. 15 l. n. 10 del 1977, la giurisprudenza di legittimità si attestò, quindi, sul principio secondo cui esso, sia per il suo carattere innovativo, sia perché contenuto in una normativa speciale ispirata alla tutela di interessi pubblici legati all’ordinato assetto e sviluppo urbanistico del territorio, è norma di stretta interpretazione, non applicabile oltre i casi ed i tempi in essa considerati (art. 14 disp. prel. c.c.); sicché, non è possibile, in base ad essa, dichiarare la nullità di un atto avente ad oggetto la compravendita di un immobile costruito non in assenza di concessione, bensì in difformità totale o parziale della stessa».

[6] Cfr., tra le altre, Cass., 24 settembre 2015, n. 49669, in Foro it., rep. 2015, voce Edilizia e urbanistica, 335; Cass., 18 giugno 2014, n. 40541, in Foro it., rep. 2014, voce Edilizia e urbanistica, 423; Cass., 9 febbraio 2011, n. 7241, in Foro it., rep. 2011, voce Edilizia e urbanistica, 379; Cass., 22 dicembre 2010, n. 11956, in Foro it., rep. 2011, voce Edilizia e urbanistica, 629.

[7] Ai sensi dell’art. 23, comma 01, del D.p.r. n. 380 del 2001:

«In alternativa al permesso di costruire, possono essere realizzati mediante segnalazione certificata di inizio di attività:

a)   gli interventi di ristrutturazione di cui all’articolo 10, comma 1, lettera c);

b) gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica qualora siano disciplinati da piani attuativi comunque denominati, ivi compresi gli accordi negoziali aventi valore di piano attuativo, che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, la cui sussistenza sia stata esplicitamente dichiarata dal competente organo comunale in sede di approvazione degli stessi piani o di ricognizione di quelli vigenti; qualora i piani attuativi risultino approvati anteriormente all’entrata in vigore della legge 21 dicembre 2001, n. 443, il relativo atto di ricognizione deve avvenire entro trenta giorni dalla richiesta degli interessati; in mancanza si prescinde dall’atto di ricognizione, purché il progetto di costruzione venga accompagnato da apposita relazione tecnica nella quale venga asseverata l’esistenza di piani attuativi con le caratteristiche sopra menzionate;

c) gli interventi di nuova costruzione qualora siano in diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche».

L’art. 10, comma 1, lett. c), del T.U., richiamato dal comma 01 dell’art. 23, contempla a sua volta «gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni».

[8] Cfr. al riguardo gli studi raccolti nel volume del Consiglio Nazionale del Notariato, Condono edilizio, Milano 1999.

[9] Cfr. Cass., 7 aprile 2014, n. 8081, in Riv. not., 2014, 528, e in Vita not., 2014, 866; Cass., 18 settembre 2009, n. 20258, in Foro it., 2010, I, 2148, in Giust. civ., 2010, I, 335, e in Vita not., 2010, 265; Cass., 4 dicembre 2003, n. 18535, in Foro it., rep. 2003, voce Vendita, n. 78.

[10] Per le posizioni della dottrina al riguardo, è ancora attuale l’accurata disamina di A. LUMINOSO, Contrattazione immobiliare e disciplina urbanistica, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, spec. 982 ss. Cfr. anche, sulla configurazione della nullità di cui trattasi, N. IRTI, La nullità come sanzione civile, in Contr. impr., 1987, 543; G. ALPA, Abusi edilizi e categorie civilistiche, in Contr. impr., 1986, 139.

[11] Cass., 5 luglio 2013, n. 16876, in Foro it., rep. 2013, voce Edilizia e urbanistica, 495; Cass., 7 dicembre 2005, n. 26970, in Foro it., rep. 2005, voce Contratto in genere, n. 548; Cass., 24 marzo 2004 n. 5898, in Riv. not., 2005, 301.

[12] Cfr. soprattutto Cass., 17 ottobre 2013, n. 23591, in Riv. not., 2013, 1198, in Nuova giur. civ., 2014, I, 181, in Contratti, 2014, 660, e in Corr. giur., 2014, 1221; Cass., 17 settembre 2015, n. 18261; Cass., 5 dicembre 2014, n. 25811, in Contratti, 2016, 27; Cass., 17 dicembre 2013, n. 28194, in Vita not., 2014, 269; Cass., 7 gennaio 2010, n. 52, in Giust. civ., 2010, I, 590, e in Vita not., 2010, 797.

[13] La fondamentale esigenza di tutela della sicurezza giuridica – correttamente evidenziata nella motivazione elaborata da parte delle sezioni unite – deve essere posta soprattutto in relazione con l’interesse dei terzi subacquirenti, il cui affidamento verrebbe gravemente pregiudicato dà un’interpretazione di tipo sostanzialista, che ricollegasse la sanzione di nullità anche alle ipotesi in cui – a fronte di un atto formalmente perfetto, e contenente le prescritte menzioni e dichiarazioni – la costruzione fosse realizzata in sostanziale difformità rispetto a quanto assentito con il titolo abilitativo edilizio. Anche perché qualsiasi verifica da parte del subacquirente non potrebbe che riguardare lo stato di fatto esistente nel momento in cui egli acquista, senza poter riscontrare invece lo stato di fatto dell’edificio nel momento in cui il precedente titolo di acquisto del suo dante causa si è perfezionato.

[14] Al «titolo abilitativo edilizio» deve essere equiparata, agli effetti della sanzione di nullità, la domanda di condono edilizio – corredata degli estremi del pagamento di oblazione e oneri concessori, e della richiesta di parere all’autorità preposta alla tutela dell’eventuale vincolo, in quanto prescritti – ai sensi dell’art. 40 della legge n. 47 del 1985, e dell’art. 2, comma 58, della legge 23 dicembre 1996, n. 662.

[15] Nella motivazione della sentenza (al punto 7.1), si afferma infatti testualmente che «poiché la presenza o la mancanza del titolo abilitativo non possono essere affermate in astratto, ma devono esserlo in relazione al bene che costituisce l’immobile contemplato nell’atto (cfr. Cass. 20258 del 2009 cit.), la dichiarazione oltre che vera, deve esser riferibile, proprio, a detto immobile». Affermazione, questa, dalla quale si evince chiaramente come il concetto di «riferibilità», espresso dalle sezioni unite, riguardi l’immobile inteso come «cosa» oggetto dell’atto, ossia come porzione di suolo (e di volume edificabile) occupata dalla costruzione.

[16] Appare opportuno riprodurre, per la loro estrema rilevanza i punti 7.2 e seguenti della motivazione della sentenza delle sezioni unite:

«7.2. La distinzione in termini di variazioni essenziali e non essenziali, elaborata dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di contratto preliminare ed alla quale si riferisce l’ordinanza di rimessione, non è pertanto utile al fine di definire l’ambito della nullità del contratto, tenuto conto, peraltro, che la moltiplicazione dei titoli abilitativi, cui si è sopra accennato al p. 2.4., previsti in riferimento all’attività edilizia da eseguire (minuziosamente indicata), comporterebbe, come correttamente rilevato dal PG nelle sue conclusioni, un sistema sostanzialmente indeterminato, affidato a graduazioni di irregolarità urbanistica di concreta difficile identificazione ed, in definitiva, inammissibilmente affidato all’arbitrio dell’interprete. Il che mal si concilia con le esigenze di salvaguardia della sicurezza e della certezza del traffico giuridico e spiega la cautela dalla prevalente giurisprudenza di questa Corte, da ultimo ricordata da Cass. n. 111659 del 2018, all’uso dello strumento civilistico della nullità quale indiretta forma di controllo amministrativo sulla regolarità urbanistica degli immobili.

7.3. La tesi qui adottata non è, peraltro, dissonante rispetto alla finalità di contrasto al fenomeno dell’abusivismo edilizio, cui pure tende la disposizione in esame, e che è meritevole di massima considerazione. Pare infatti che la ricostruzione nei termini di cui si è detto della nullità concorra a perseguirlo, costituendo uno dei mezzi predisposti dal legislatore per osteggiare il traffico degli immobili abusivi: per effetto della prescritta informazione, l’acquirente, utilizzando la diligenza dovuta in rebus suis, è, infatti, posto in grado di svolgere le indagini ritenute più opportune per appurare la regolarità urbanistica del bene, e così valutare la convenienza dell’affare, anche, in riferimento ad eventuale mancata rispondenza della costruzione al titolo dichiarato.

In tale valutazione, potrà, ben a ragione, incidere la sanzione della demolizione che il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 31, commi 2 e 3, prevede nei confronti sia del costruttore che del proprietario in caso d’interventi edilizi eseguiti non solo in assenza di permesso, ma anche in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell’art. 32. Tale sanzione, come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa (Ad Plenaria Cons. Stato n. 9 del 2017), ha, infatti, carattere reale e non incontra limiti per il decorso del tempo e ciò in quanto l’abuso costituisce un illecito permanente, e l’eventuale inerzia dell’Amministrazione non è idonea né a sanarlo o ad ingenerare aspettative giuridicamente qualificate, né a privarla del potere di adottare l’ordine di demolizione, configurandosi, anzi, la responsabilità (art. 31 cit., comma 4 bis) in capo al dirigente o al funzionario responsabili dell’omissione o del ritardo nell’adozione di siffatto atto, che resta, appunto, doveroso, nonostante il decorso del tempo.

7.4. In conclusione, mentre la nullità del contratto è comminata per il solo caso della mancata inclusione degli estremi del titolo abilitativo, che abbia le connotazioni di cui si è detto, l’interesse superindividuale ad un ordinato assetto di territorio resta salvaguardato dalle sanzioni di cui si è dato conto al p. 3.1. e, nel caso degli abusi più gravi, dal provvedimento ripristinatorio della demolizione.

Tale approdo ermeneutico, che ha il pregio di render chiaro il confine normativo dell’area della non negoziabilità degli immobili, a tutela dell’interesse alla certezza ed alla sicurezza della loro circolazione, appare, quindi, al Collegio quello che meglio rappresenta la sintesi tra le esigenze di tutela dell’acquirente e quelle di contrasto all’abusivismo: in ipotesi di difformità sostanziale tra titolo abilitativo enunciato nell’atto e costruzione, l’acquirente non sarà esposto all’azione di nullità, con conseguente perdita di proprietà dell’immobile ed onere di provvedere al recupero di quanto pagato, ma, ricorrendone i presupposti, potrà soggiacere alle sanzioni previste a tutela dell’interesse generale connesso alle prescrizioni della disciplina urbanistica».

[17] In relazione a quanto precisato nel testo, non può affermarsi l’applicabilità della sanzione di nullità sulla base dell’affermazione che la totale difformità renderebbe il manufatto così realizzato totalmente altro rispetto a quello assentito. Va innanzitutto ribadito che non è possibile argomentare da casi limite (es., permesso di costruire per la costruzione di un’autorimessa, ed effettiva costruzione di un capannone), essendo questo procedimento metodologicamente scorretto (v. in tal senso W. BIGIAVI, Normalità e anormalità nella costruzione giuridica, in Riv. dir. civ., 1968, I, 519).

Né è vero, d’altra parte, che le fattispecie di difformità totali siano agevolmente individuabili rispetto alle variazioni essenziali e alle difformità parziali, cosicché non sarebbe possibile la confusione tra le diverse tipologie di abusi, con la conseguente incertezza nella circolazione giuridica. Un sia pur sommario esame della giurisprudenza evidenzia, al contrario, come siano spesso inquadrate tra le difformità totali fattispecie di abuso che non rappresentano, propriamente, casi limite; e che spesso la distinzione tra le diverse categorie di violazioni è tutt’altro che agevole. A titolo esemplificativo, si consideri l’equiparazione delle variazioni essenziali alla difformità totale in relazione agli immobili vincolati, a norma dell’art. 32 della legge n. 47 del 1985 (Cass., 6 maggio 2014, n. 37169; Cass., 10 luglio 2013, n. 3676). Si considerino, inoltre, Cass., 21 giugno 2011, n. 30045 (secondo la quale configurano interventi in totale difformità la realizzazione di una maggiore superficie al piano terra del fabbricato, con suddivisione in due vani non previsti in progetto e la creazione di un terzo locale mediante la chiusura di una veranda); Cass., 9 febbraio 2011, n. 7241 (integra il reato di esecuzione dei lavori in totale difformità dal permesso di costruire la realizzazione di interventi edilizi su di un preesistente manufatto, comportanti modifiche della sagoma ed incrementi di superficie o volumetrici); Cass., 22 dicembre 2010, n. 11956 (che ha qualificato come totale difformità la trasformazione di locali, autorizzati come sottotetti costituenti volumi tecnici in unità immobiliari residenziali, di altezza più elevata rispetto alle previsioni progettuali e di superficie corrispondente al piano sottostante, divise in ambienti separati, muniti di aperture finestrate, dotati di impianti elettrico ed idrico); Cass., 24 settembre 2009, n. 47279 (qualificazione come totale difformità della realizzazione di parcheggi in aree libere, anche non di pertinenza del lotto ove insistono gli edifici, ovvero nel sottosuolo di fabbricati o al pianterreno di essi); Cass. pen., 13 giugno 2007 (qualificazione come opere in totale difformità dal permesso di costruire di quelle in cui il mutamento della destinazione d’uso prevista in progetto venga realizzato durante l’attività costruttiva del fabbricato attraverso l’esecuzione dei lavori che globalmente conferiscono all’organismo edilizio diverse caratteristiche di utilizzazione); Cass. pen., 16 aprile 2008 (qualificazione come totale difformità della realizzazione di una tettoia al posto di un pergolato regolarmente assentito); Cass. pen., 23 maggio 1997 (la totale difformità può derivare o dalla esecuzione di un corpo autonomo o dall’effettuazione di modificazioni con opere interne o esterne, tali da comportare un aumento di volumetria, a nulla rilevando che l’accesso avvenga attraverso lo stabile principale).

[18] Non può perciò dirsi riferibile all’edificio realizzato sulla particella catastale n. 300 il titolo abilitativo rilasciato per costruire la stessa sulla particella n. 400. Leggasi, al riguardo, il punto 7.1 della motivazione della sentenza in commento: «poichè la presenza o la mancanza del titolo abilitativo non possono essere affermate in astratto, ma devono esserlo in relazione al bene che costituisce l’immobile contemplato nell’atto (cfr. Cass. 20258 del 2009 cit.), la dichiarazione oltre che vera, deve esser riferibile, proprio, a detto immobile. In costanza di una dichiarazione reale e riferibile all’immobile, il contratto sarà in conclusione valido, e tanto a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo in esso menzionato, e ciò per la decisiva ragione che tale profilo esula dal perimetro della nullità, in quanto, come si è esposto al p. 6.5., non è previsto dalle disposizioni che la comminano, e tenuto conto del condivisibile principio generale, affermato nei richiamati, precedenti, arresti della Corte, secondo cui le norme che, ponendo limiti all’autonomia privata e divieti alla libera circolazione dei beni, sanciscono la nullità degli atti debbono ritenersi di stretta interpretazione, sicché esse non possono essere applicate, estensivamente o per analogia, ad ipotesi diverse da quelle espressamente previste».

[19] In realtà, anche il primo comma dell’art. 46 del T.U., nel richiedere gli estremi del titolo abilitativo edilizio, non circoscrive la portata della disposizione ai soli titoli abilitativi iniziali; già da esso è perciò desumibile la conclusione – resa poi inoppugnabile dal comma 5-bis – sostenuta nel testo.

[20] Il trasferimento della proprietà, come pure il trasferimento o la costituzione di diritti reali e lo scioglimento della comunione su di essi può essere perfezionato con scrittura privata, la cui trascrizione può aver luogo previo accertamento giudiziale delle sottoscrizioni (art. 2657 c.c.). È vero che anche le scritture private non autenticate sono soggette alle previsioni dell’art. 40 della legge n. 47 del 1985, e dell’art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001; ma è altresì vero che si tratta di modalità del tutto anomala, in relazione alla quale il legislatore non ha, evidentemente, ritenuto di dettare disposizioni particolari proprio per la sua rarità ed eccezionalità nella prassi. In questi casi particolari, sarà ovviamente a carico dell’acquirente l’onere di ottenere dall’alienante – con congruo anticipo rispetto al momento della sottoscrizione del contratto di acquisto – le necessarie informazioni al fine di provvedere alle opportune indagini presso gli uffici comunali.

[21] Cfr. al riguardo A. FUSARO, I doveri di consiglio del notaio (nota a Cass., 18 maggio 2017, n. 12482), in GRANELLI (a cura di), I nuovi orientamenti della Cassazione civile, Milano, 2018, 230; M. RIZZUTI, Le responsabilità del notaio e il «dovere di consiglio» (nota a Cass., 18 maggio 2017, n. 12482), in Corr. giur., 2018, 1391; M. TICOZZI, Gli obblighi informativi del professionista sono obbligazioni di risultato (nota a Cass., 23 marzo 2017, n. 7410), in Giur. it., 2018, 330; G. VOTANO, Il dovere di consiglio del notaio e la connessa responsabilità (nota a Cass., 18 maggio 2017, n. 12482), in Contratti, 2018, 49; S. MONTICELLI, Vendita immobiliare ed obblighi d’informazione dei professionisti incaricati, in Rass. dir. civ., 2017, 937, ed in Scritti in onore di Vito Rizzo. Persona, mercato, contratto e rapporti di consumo, II, Napoli 2017, 1351; M. NAGAR, Obblighi di diligenza e buon consiglio del Notaio (nota a Cass., 11 maggio 2016, n. 9660), in Notariato, 2017, 327; R. LENZI, La metamorfosi della funzione notarile nella lente del dovere di informazione, in Nuove leggi civ., 2015, 761; E. MENGA, Responsabilità civile del notaio per mancata osservanza degli obblighi di informazione (nota a Cass., 27 novembre 2014, n. 25202), in Danno e resp., 2015, 375; E. BUDA, Palese violazione dell’obbligo di informazione e di consulenza del notaio o difficile bilanciamento di interessi contrapposti? (nota a Trib. Milano, 29 aprile 2014), in Contratti, 2014, 1098; M. COCCA, Gli obblighi di informazione del notaio, in Riv. not., 2013, 1339; G. CASU, Obblighi del notaio in relazione alle dichiarazioni di parte (nota a Cass., 29 marzo 2007, n. 7707), in Riv. not., 2008, 165; V. AMENDOLAGINE, L’accertamento della colpa professionale del notaio nei confronti dell’acquirente di bene immobile per violazione degli obblighi di informazione (nota a Trib. Bari, 11 luglio 2005, Trib. Pescara, 27 giugno 2005 e Trib. Verona 20 gennaio 2005), in Giur. mer., 2005, 2564; S. TONDO, Dovere per il notaio di informazione e consulenza, in Studi e materiali, 2002, 1, 315.

[22] Va comunque sottolineato che, de iure condendo, sarebbe più razionale un sistema che imponesse la menzione degli estremi dei titoli abilitativi edilizi anche nel contratto preliminare, in modo da anticipare il momento in cui la parte promissaria acquirente sia posta in grado di effettuare gli accertamenti necessari a verificare la regolarità urbanistica del fabbricato oggetto di acquisto. Oggi la giurisprudenza richiede l’indicazione di tali estremi agli effetti dell’esecuzione forzata in forma specifica dell’obbligo di contrarre (art. 2932 c.c.), ma ammette che essi possano essere prodotti anche nel corso del relativo giudizio.

[23] Cass., 19 settembre 2008, n. 35999, in Foro it., rep. 2009, voce Falsità in atti, n. 60; Cass., 12 dicembre 2017, n. 5178; Cass., 30 novembre 2011, n. 11628; Cass., 17 giugno 1999, n. 6018, in Riv. not., 2000, 445.

[24] Limitatamente al profilo della riferibilità del titolo abilitativo edilizio all’immobile, identificato con i relativi dati catastali, può ritenersi che lo stesso notaio – al quale il titolo abilitativo stesso sia esibito, debba eseguire la relativa verifica. Mentre nessuna verifica può o deve essere eseguita dal notaio – esulando, tra l’altro, dalla sua competenza tecnica e dalle sue possibilità – in ordine alla validità del titolo abilitativo, come pure alla conformità dell’edificio realizzato alle prescrizioni del titolo medesimo.

Quanto sopra non esclude che – nei casi in cui l’irregolarità urbanistica emerga, direttamente o indirettamente, dalla documentazione esibita al notaio – questi risponda civilmente e disciplinarmente per non aver evidenziato alle parti l’abusivismo e, eventualmente, per non aver rifiutato il ricevimento o l’autenticazione dell’atto contenente una dichiarazione mendace dell’alienante. Si pensi all’ipotesi in cui sia prodotto al notaio un titolo di provenienza posteriore al 1967, da cui risulti il trasferimento della proprietà di un terreno (area nuda), mentre l’alienante dichiari in atto che la costruzione è iniziata in data anteriore al 1° settembre 1967.

[25] Sull’inefficacia delle clausole di stile v., limitatamente ai contributi più recenti, R. SACCO, Clausola di stile, in Dig. civ., Aggiornamento, Torino 2010, 258; E. CARBONE, Le clausole di stile nei negozi giuridici: interpretazione utile e vizio oggettivo, in Nuova giur. civ., 2015, II, 68; F. TOSCHI VESPASIANI, «Nello stato di fatto e diritto»: le clausole di stile nella prassi immobiliare (nota a Cass., 11 giugno 2014, n. 13223), in Contratti, 2014, 1085; G. IORIO, Clausole di stile, volontà delle parti e regole interpretative. La prassi contrattuale, in Riv. dir. civ., 2009, I, 49; G. IORIO, Clausole di stile, volontà delle parti e regole interpretative. Profili generali, in Riv. dir. civ., 2008, I, 657; R. TRIOLA, Le clausole di stile, in Vita not., 2003, 648.

[26] Sulla disciplina della conferma delle nullità in tema di conformità catastale, cfr. G. PETRELLI, Conformità catastale – Confermabilità degli atti nulli, in Rassegna delle recenti novità normative di interesse notarile, primo semestre 2017, in www.gaetanopetrelli.it.

[27] In tal senso, v. infatti, nell’interpretazione della disciplina originaria, G. PETRELLI, Conformità catastale e pubblicità immobiliare, Milano 2010, 64 ss.

[28] Per tale ricostruzione, cfr. G. PETRELLI, Conformità catastale e pubblicità immobiliare, cit., 56 ss.

[29] G. PETRELLI, Conformità catastale e pubblicità immobiliare, cit., 58 ss.