Le Comunità Energetiche Rinnovabili: nuovi modelli di partecipazione e di sviluppo sostenibile del territorio
Desidero innanzitutto esprimere le mie più sincere congratulazioni agli organizzatori di questo incontro per la scelta del tema generale, così trasversale e poliedrico e di grande attualità; ma anche un più specifico ringraziamento per avere tenuto conto, nelle connessioni tra l’attività notarile e gli strumenti di tutela del territorio, delle Comunità energetiche (di seguito CER), argomento ancora relativamente nuovo.
Una Comunità energetica rinnovabile (di seguito “CER”) è un’organizzazione che nasce dalla cooperazione tra cittadini, imprese ed enti pubblici e che mira a realizzare una transizione verso un modello sostenibile di produzione e consumo di energia rinnovabile a livello locale.
Attraverso questo meccanismo innovativo, una comunità territoriale è in grado di organizzare la produzione ed il consumo di energia a livello locale, dando vita a schemi di condivisione e utilizzo sostenibile delle risorse, secondo modelli già adoperati in altri paesi. Si tratta di forme di cooperazione già conosciute e sperimentate in passato anche in Italia, proprio nel campo della produzione di energia (soprattutto idroelettrica) ed oggi riproposte dal legislatore europeo, con l’obiettivo di organizzare in autonomia la produzione e il consumo di beni o servizi di utilità comune e, per questo tramite, di contribuire allo sviluppo sostenibile del territorio.
Mediante una CER, infatti, le comunità locali, dotandosi di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, possono produrre, consumare, immagazzinare e condividere energia rinnovabile, generando benefici ambientali, economici e sociali per il territorio ed innescando così processi di crescita e di sviluppo economico e culturale, nel contesto socio-economico di riferimento.
In particolare, attraverso una CER, si contribuisce alla riduzione delle emissioni climalteranti attraverso la promozione di impianti a fonti rinnovabili, consentendo di partecipare attivamente alla transizione ecologica anche a quei soggetti che non hanno la possibilità di realizzare impianti. Nello stesso tempo, i ricavi derivanti dalla condivisione di energia possono contribuire a ridurre i costi dell’approvvigionamento energetico e possono essere altresì impiegati per finalità sociali o ambientali nell’ambito della comunità locale di riferimento.
Le CER compaiono per la prima volta nella direttiva UE 2018/2001 sulla promozione dell’uso di energia rinnovabile. La direttiva segna il passaggio da forme di autoproduzione cd. one-to-one – in cui l’energia prodotta poteva essere utilizzata da un unico consumatore finale e l’eventuale eccesso di produzione veniva immessa in rete, beneficiando dei vantaggi del cd. “scambio sul posto” – a nuove forme di autoproduzione e condivisone di energia rinnovabile, rappresentate dall’autoconsumo collettivo e, appunto, dalle CER.
La prima figura esaurisce la sua rilevanza nell’ambito dei rapporti di tipo condominiale (e non suscita, in quanto tale, interesse dei notai).
Le CER, viceversa, danno vita ad un nuovo soggetto giuridico. Il legislatore europeo (così come quello interno, in sede di trasposizione della direttiva), non specifica di che tipo, ponendo unicamente l’accento sul fatto che tale soggetto, oltre a poter agire in nome proprio ed essere titolare di diritti ed obblighi, possa godere di piena autonomia rispetto ai propri stessi membri o agli altri attori del mercato tradizionali (considerando 71 dir. RED 2) e precisando una serie di requisiti, sotto il profilo strutturale organizzativo.
La CER, infatti:
- si basa sulla partecipazione volontaria di cittadini, imprese e autorità locali, comprese le amministrazioni comunali. La partecipazione è aperta a tutti i consumatori, compresi – si dice espressamente – quelli appartenenti a famiglie a basso reddito o vulnerabili. L’unica condizione che la direttiva pone riguarda le imprese poiché, oltre a doversi trattare di PMI, la partecipazione di queste ultime non deve rappresentare la loro attività commerciale o professionale principale (art. 22, comma 1): si pensi, a titolo di esempio, ad imprese produttrici di pannelli fotovoltaici o di altri mezzi di produzione di energia rinnovabile;
- ha una struttura aperta, sia in entrata che in uscita. In particolare, la direttiva precisa che i clienti domestici hanno diritto a partecipare ad una iniziativa CER, senza essere soggetti a condizioni o procedure ingiustificate o discriminatorie, mantenendo al contempo i loro diritti e doveri di clienti finali (art. 22, comma 1). Tale ultima previsione – è bene precisare subito – nasce dal fatto che i partecipanti condividono l’energia prodotta utilizzando la rete di distribuzione esistente, mantenendo i propri punti di connessione e i diritti e gli obblighi di cui sono titolari come consumatori;
- può essere controllata solo da quei soggetti che sono situati “nelle vicinanze” degli impianti di produzione (art. 2, comma 16, lett. a). Un principio, quest’ultimo, da leggersi in continuità con quello sopra riportato relativo alla struttura aperta e che intende dare concretezza a quella esigenza di autonomia sopra richiamata, sul presupposto che la prossimità territoriale sia indice e misura del coinvolgimento della comunità locale;
- persegue come obiettivo principale quello di fornire benefici ambientali, economici o sociali a livello di comunità ai suoi azionisti o membri o alle aree locali in cui opera, piuttosto che profitti finanziari (art. 2, comma 16, lett. c). Di particolare interesse, sotto tale profilo, il riferimento alla comunità locale, come beneficiaria di un risultato che, pur non escludendo del tutto il profitto di chi opera, può in concreto assumere diverse forme: da quello mutualistico in favore dei partecipanti alla CER a quello altruistico in favore del territorio e/o dei suoi abitanti (o, naturalmente, una combinazione di entrambi).
Già a partire da queste basilari considerazioni si comprende il senso del titolo della mia relazione: le CER infatti rappresentano infatti una forma organizzata complessa, che vede insieme cittadini, imprese e P.A., dando vita ad un sistema virtuoso la cui rilevanza va oltre la questione energetica. Si tratta, infatti, di un modello di organizzazione innovativo che richiama alla mente forme di gestione comune, a partire da un bene essenziale per l’intera comunità.
Se poi si considera che la legge impone alle CER di non perseguire in via prioritaria fini di lucro ma finalità di interesse generale (v. supra, lett. d), il quadro si compone con ulteriori profili di interesse: sia rispetto al principio di sussidiarietà orizzontale, trattandosi di iniziative provenienti in senso lato dalla società civile; sia rispetto alla sperimentazione di nuove forme di collaborazione pubblico/privato, in grado di dar vita a meccanismi virtuosi di amministrazione condivisa, in cui tutti i soggetti interessati provvedono allo sviluppo sostenibile del proprio territorio, valorizzandone l’autonomia e le caratteristiche locali. Non è un caso che il PNRR preveda misure di sostegno per la realizzazione di CER nei piccoli comuni, in risposta all’esigenza di recupero delle aree interne del paese.
Inoltre, assumono rilevanza in questa materia le novità introdotta dalla dir. UE 2019/944, relativa a norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica (cd. Iemd). All’interno del nuovo quadro normativo, grazie soprattutto alle significative novità rese possibili dall’innovazione tecnologica, si va sempre più verso il riconoscimento di un ruolo attivo dei consumatori/clienti finali (cd. empowerment). Nel caso (come quello in esame) in cui si tratti di energia prodotta da fonti rinnovabili, essi possono consumare, immagazzinare e/o vendere l’energia partecipando a tutti i mercati dell’energia, anche in forma associata. In tale rinnovato contesto è evidente che anche le CER acquistano un loro specifico significato, come nuovi attori del mercato che concorrono a far acquistare allo stesso una nuova fisionomia, ben diversa da quella che ha visto fino ad oggi protagoniste le grandi compagnie del settore energetico.
Ciò, tuttavia, non deve far perdere di vista la ratio essenziale del ricorso a tali figure, che è quella di favorire la diffusione dell’uso di energia rinnovabile, in linea con gli obiettivi più generali relativi alla neutralità climatica, ma anche al non secondario fine di ridurre la dipendenza nella importazione di altre fonti di energia.
La presenza di un soggetto giuridico, per di più connotato da tutti gli elementi di particolarità, vale a giustificare l’interesse della professione notarile, chiamata innanzitutto a misurarsi con la scelte in ordine alle forme adoperabili.
Il tema, oggetto di grande attenzione sin dall’entrata in vigore della direttiva, sembra oggi essersi attestato su alcuni punti fermi[[1]].
In particolare, rispetto a tutti gli elementi caratterizzanti una CER, può trarsi la conclusione che le forme organizzative maggiormente idonee ad assicurare il rispetto dei requisiti richiesti sono:
– nell’ambito degli enti a struttura non societaria, l’associazione e la fondazione di partecipazione;
– nell’ambito degli enti a struttura societaria, la società cooperativa.
A ciò deve aggiungersi che, da ultimo, il quadro normativo sulle CER si è arricchito di un nuovo tassello con la legge 26 luglio 2023, n. 95, che ha convertito il d.l. 29 maggio 2023, n. 57, recante, tra l’altro, “Misure urgenti [...] per il settore energetico”.
La novella è intervenuta sulla disciplina dell’Impresa sociale (d.lgs. n. 112 del 2017) e su quella degli Enti del Terzo settore (d.lgs. n. 117 del 2017) con lo scopo di includere, tra le «attività di interesse generale» che possono essere esercitate dagli enti che operano con tali qualificazioni giuridiche, anche gli «interventi e servizi finalizzati […] alla produzione, all’accumulo e alla condivisione di energia da fonti rinnovabili a fini di autoconsumo, ai sensi del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199».
Conseguentemente, ferme restando le conclusioni sin qui raggiunte in ordine alle forme giuridiche astrattamente idonee a dar vita ad una CER, per effetto della novella sarà possibile:
– per una CER costituita in forma di associazione o fondazione di partecipazione, operare con la qualifica di ente del Terzo settore ex d.lgs. n. 117 del 2017;
– per una CER costituita in forma di società cooperativa, operare con la qualifica di impresa sociale (ex d.lgs. n. 112 del 2017), che dà accesso anch'essa, di diritto, alla qualifica di ente del Terzo settore ex d.lgs. n. 117 del 2017.
In entrambi i casi, per l'accesso alla categoria giuridica di ETS sarà necessario adeguare l’ente-CER ad alcune caratteristiche minime, che consistono: (i) nello svolgimento, in via principale, di un’attività di interesse generale, (ii) nell’assenza dello scopo di lucro (totale, in caso in associazione o fondazione, mitigata, in caso di impresa sociale in forma societaria); (iii) nell'adozione di alcuni requisiti organizzativi e (iv) nell'iscrizione nel Registro unico nazionale del terzo settore (Runts). Si consolida una volta che l’attuazione della direttiva entra, per così dire, a regime: in una prima fase “sperimentale” la normativa ha consentito il ricorso alle CER con una portata ridotta – ha fatto sì che la loro attuazione prendesse prevalentemente forma attraverso associazioni non riconosciute.
In verità, a parte la questione centrale della forma giuridica, sono molteplici i profili di interesse delle CER, rilevanti per la professione notarile. Ed è questo che ha spinto il Consiglio nazionale del notariato a commissionare uno studio, redatto dall’amico e collega Emanuele Cusa[[2]].
Tale studio notarile rappresenta davvero un punto di arrivo, rispetto alle tante discussioni che hanno interessato le CER, sin dal loro ingresso nella scena giuridica. Non è un caso, infatti, che lo stesso Studio sia stato elaborato da chi, già al tempo dell’emanazione delle prime direttive europee, ha prestato particolare attenzione a queste nuove configurazioni, fornendo un prezioso e risolutivo contributo su elementi chiave quali la forma giuridica, la natura imprenditoriale, il carattere monosettoriale o plurisettoriale dell’attività svolta, e molto altro ancora.
Lo Studio, in ordine a questi profili, si rivela di indubbia utilità, così come finalizzato a fornire una vera e propria guida ai professionisti del settore che, se in una prima fase (cd. sperimentale) erano stati coinvolti in misura alquanto limitata, avendo trovato le CER principale attuazione attraverso la forma dell’associazione non riconosciuta, con l’entrata a regime del sistema e il conseguente ampliamento dell’estensione geografica e di potenza delle CER, sono sempre più spesso chiamati a dar vita a strutture giuridiche più complesse.
Vi è tuttavia un tema, tra i tanti trattati, rispetto ai quali lo Studio giunge a conclusioni a mio avviso non condivisibili e, trattandosi di un tema centrale nella utilizzazione delle CER quale strumento di tutela del territorio, nell’ambito di questa iniziativa ad esso voglio fare più specifico riferimento.
Il tema è quello del Riparto degli incentivi.
Per poterlo ben rappresentare è indispensabile, tuttavia, mettere in evidenza che, più in generale, i flussi generati da una CER sono scomponibili in tre distinte voci:
- gli incentivi in senso stretto, ovvero la cd. tariffa incentivante (o tariffa premio), corrisposta sulla base dell’energia condivisa (data dalla differenza tra l’energia immessa in rete e l’energia prelevata); La tariffa è compresa tra 60 €/MWh e 120€/MWh, in funzione della taglia dell'impianto e del valore di mercato dell'energia. Per gli impianti fotovoltaici è prevista una ulteriore maggiorazione fino a 10 €/MWh in funzione della localizzazione geografica (decreto CACER, attuativo del d.lgs. n. 199 del 2021)
- gli importi relativi alla valorizzazione dell’energia elettrica autoconsumata (cd. contributo di valorizzazione o ristoro). Tali importi consistono in una restituzione di alcune componenti tariffarie, tenuto conto di quei costi associati al vettoriamento della materia prima energia elettrica che non risultano tecnicamente applicabili all’energia elettrica condivisa, in quanto energia elettrica istantaneamente autoconsumata (dunque equiparabile all’autoconsumo fisico in situ); per comprendere questo passaggio si deve tenere presente che le CER utilizzano la rete di distribuzione esistente e che il singolo partecipante non muta il suo «contratto di fornitura, col suo partner contrattuale, che continuerà a pagare come prima salvo queste restituzioni»)
- il corrispettivo della vendita dell’energia prodotta e immessa in rete (corrispettivo), con facoltà di cessione al GSE (attraverso il ritiro dedicato).
Il GSE provvede dunque a corrispondere il prezzo della vendita/ritiro dedicato, laddove l’energia prodotta non sia destinata al libero mercato, ed è competente ad erogare la tariffa premio e i ristori, dandone separata evidenza.
Il problema al quale si fa riferimento è relativo alle suddivisioni tra i partecipanti alla CER di tali voci.
Più precisamente, mettendo da parte l’ipotesi sub lett. c) – il corrispettivo della vendita, perché questo rappresenta senza alcun dubbio un utile, che in tanto potrà essere distribuito in quanto la scelta del tipo di ente lo consenta, il problema si pone per le voci sub a) e b).
Al riguardo, con riferimento ad una Associazione non riconosciuta, una recente risoluzione dell’Agenzia delle entrate[[3]] ha ribadito una posizione che aveva già espresso in altre occasioni: tali introiti possono essere ripartiti anche nell’ambito di CER costituite in forma di ente non commerciale, poiché non si tratta di un vero e proprio riparto, ma di una restituzione di somme ai propri associati.
L’AdE dà in tal modo seguito alla cd. teoria del mandato, secondo cui tra i partecipanti alla configurazione e la CER sussiste, sostanzialmente, un rapporto di mandato senza rappresentanza e la CER, in qualità di Referente, gestisce tutti i rapporti con il GSE, compreso l’incasso degli incentivi, per conto dei membri della configurazione.
Per la medesima ragione, tali somme non si trasformano mai in utile di esercizio della CER, dal momento che sono incassate sì in nome proprio ma, come si è detto, per conto dei destinatari.
Ne consegue che, trattandosi di restituzione di somme, non si configura un aggiramento del divieto di distribuzione di utili, valevole in generale per gli enti non lucrativi ed ulteriormente ribadito dall’art. 8, comma 2, d.lgs. n. 117 del 2017 per gli Enti del terzo settore, ai sensi del quale «è vietata la distribuzione, anche indiretta, di utili ed avanzi di gestione, fondi e riserve comunque denominate a fondatori, associati, lavoratori e collaboratori, amministratori ed altri componenti degli organi sociali, anche nel caso di recesso o di ogni altra ipotesi di scioglimento individuale del rapporto associativo».
Tale impostazione, che pur muove dalla condivisibile intuizione di ritenere il riparto degli incentivi consustanziale al progetto di dar vita ad una CER, finisce tuttavia per costituire un arretramento, rispetto alle posizioni ormai consolidate, proprio in ragione del fatto che, al di là delle intenzioni, finisce con lo sminuire il ruolo delle CER, riducendole ad un mero schermo giuridico che svolgerebbe la funzione di collettore e distributore degli incentivi.
La tesi è criticata anche dallo Studio ed in effetti non appare condivisibile: in verità la CER, lungi dall’essere un mero schermo giuridico, gioca un ruolo centrale, diventando essa stessa l’indispensabile strumento per la condivisione dell’energia e, dunque, per l’accesso ai benefici di cui si tratta. In tale nuovo contesto, è proprio il “fare comunità” a giocare un ruolo essenziale. E, sotto tale profilo, particolare importanza assume anche la scelta operata dal legislatore (europeo), di dar vita attraverso le CER ad un soggetto giuridico autonomo. A tale soggetto, in ultima analisi, è imputabile tanto la produzione quanto la condivisione di energia e, conseguentemente, l’accesso all’incentivo.
Lo Studio dunque parte, a ragione, da una prospettiva ben diversa da quella dell’AdE.
Tuttavia, proprio a partire da tale premessa, giunge alla conclusione che se la tariffa premio, al pari del contributo ARERA, sono giuridicamente dovuti alla CER e non ai suoi membri, allora le predette somme sono da qualificare come ricavi o proventi per la CER.
Per conseguenza, la CER in forma di associazione o fondazione di diritto comune non potrebbe ripartire tra i propri membri detti contributi, violando altrimenti il suo necessario scopo non lucrativo.
In verità, ancora prima di giungere a tale conclusione lo Studio parte da una premessa che merita di essere riportata.
La riflessione prende infatti avvio dall’analisi di una delle novità introdotte dal decreto CACER (ovvero il decreto ministeriale che dà attuazione, sulla base del disposto normativo, ai suddetti strumenti di incentivazione), relativa al fatto che la distribuzione degli incentivi è stata sottoposta ad alcune limitazioni, al fine di rendere compatibile la normativa interna col diritto europeo in materia di aiuti.
Più precisamente, l’art. 3, comma 2, lett. g) del d.m. impone che la CER assicuri, mediante apposita previsione statutaria o pattuizione privatistica, che l’eventuale importo della tariffa premio eccedentario rispetto a quello determinato da un valore soglia specificato in allegato «sia destinato ai soli consumatori diversi dalle imprese e/o utilizzato per finalità sociali aventi ricadute sui territori in cui sono ubicati gli impianti per la condivisione».
Lo Studio parte da questa novità per ricavarne la conclusione (o, per meglio dire, per considerarla testimonianza del fatto) che la tariffa premio può essere destinata a scopi altruistici e per realizzare obiettivi sociali con ricadute sul territorio e che dunque non possa essere considerato un elemento imprescindibile la sua ripartizione tra i partecipanti alla configurazione.
Ma di tratta di una premessa che non condivido, sulla base delle seguenti considerazioni:
- il possibile impiego dei contributi del GSE (ed in particolare della tariffa premio) per scopi altruistici o di comunità non si è mai stato posto in dubbio. Ricordo il testo della norma: i benefici ambientali, economici o sociali prodotti dalla CER possano essere destinati, oltre che ai suoi soci o membri, alle aree locali in cui opera la comunità (art. 31 d.lgs. n. 199 del 2021).
È del tutto pacifico, pertanto, come del resto già emerge dalla prassi applicativa, che il patrimonio dell’ente (costituito anche, se non prevalentemente, dagli incentivi) possa essere destinato ad ogni tipo di progetto che i partecipanti alla configurazione intendano perseguire;
- a partire da tale rilievo, appare allora evidente come la novità introdotta dal decreto CACER rappresenta, semmai, un’eccezione alla regola per cui la scelta in ordine alla destinazione dei contributi è rimessa alla volontà delle parti, dal momento che in una certa misura (oltre cioè una certa soglia) e rispetto ad alcuni beneficiari (le imprese) quella scelta è imposta dalla legge;
- ma l’aspetto che importa più di tutti evidenziare è ancora un altro: proprio la circostanza che il legislatore abbia introdotto una limitazione nella destinazione degli incentivi (riferita, tra l’altro, alla sola tariffa incentivante, lasciando intendere che nessuna limitazione concerne la distribuzione del contributo di valorizzazione) sta a dimostrare che è considerato del tutto fisiologico il riparto, sì da limitarlo. Per di più, la medesima disposizione ammette che, superata una certa soglia, la tariffa incentivante possa essere destinata – oltre che a scopi altruistici – ai consumatori diversi dalle imprese, ad ulteriore testimonianza del fatto di considerare del tutto fisiologica tale destinazione;
- in ultimo, la lettera della legge (art. 31 d.lgs. n. 199 del 2021) fa chiaro riferimento – in alternativa alla realizzazione di progetti altruistici o di comunità – all’obiettivo (della CER) di fornire benefici ambientali, economici o sociali ai suoi soci o membri. Benefici che, almeno per ciò che concerne la componente economica, prendono forma proprio attraverso il riparto. Nell’indicare tale finalità, preme ulteriormente evidenziare che la legge parla di soci o membri, senza dunque distinguere tra enti a carattere commerciale e non. Corrispondentemente, la limitazione introdotta dal decreto CACER non distingue tra enti lucrativi e non ed introduce un margine al fisiologico riparto degli incentivi, valevole tanto nella prima che nella seconda ipotesi. Di ciò, del reso, si ha ulteriore conferma nel prosieguo della disposizione (art. 3, comma 2, lett. g, d.m. CACER), in cui si precisa che le CER «assicurano altresì completa, adeguata e preventiva informativa a tutti i consumatori finali […] sui benefici loro derivanti dall’accesso alla tariffa incentivante».
Per concludere sul punto, dunque, sembra a dir poco discutibile la premessa, da cui parte lo Studio, secondo cui la limitazione imposta dal decreto CACER sia dimostrativa del fatto che gli incentivi possano non essere ripartiti.
Al contrario, essa rappresenta un’ulteriore conferma del fatto che tutto il sistema normativo (di cui il decreto è attuazione) considera ben possibile il riparto, tant’è che lo regola (i consumatori devono essere informati […]) e lo limita (laddove destinatari siano le imprese), anche nel caso in cui si tratti di CER costituite in forma di enti non commerciali.
9. Mettendo ora da parte tale premessa e tornando all’opinione principale espressa dallo Studio, con riferimento al tema in questione, essa si riassume in una assunto: poiché la CER ha una propria soggettività e poiché i soggetti beneficiari degli incentivi sono le CACER (art. 3, comma 1 d.m.) la tariffa premio e il contributo Arera (il Premio e il Ristoro) sono giuridicamente dovuti alla CER e non ai suoi membri (anche quando soggetto preposto alla riscossione di tali partite sia un soggetto mandatario diverso dalla CER).
Ne deriva che tali somme sono da qualificare (civilisticamente e contabilmente) come ricavi o proventi per la CER e se quest’ultima intende distribuirli tra i suoi membri in tutto o in parte devono trasformarsi in una parte dell’utile di esercizio.
Dunque i contributi entrano prioritariamente e necessariamente nel patrimonio della CER e solo eventualmente escono da tale patrimonio per essere allocati in tutto o in parte tra i partecipanti alla configurazione. Da qui deriva la conseguenza che la CER in forma di associazione o di fondazione non potrebbe ripartire tra i propri membri i contributi del GSE, violando altrimenti il suo necessario scopo non lucrativo.
A fondamento di tale impostazione, lo Studio cita come maggioritario il pensiero della dottrina, facendo in verità riferimento solo ad uno scritto[[4]] , ben anteriore all’entrata in vigore della normativa in materia di CER e che dunque non tiene affatto conto delle novità ivi contenute.
È evidente, allora, che il pensiero maggioritario al quale si fa riferimento è relativo all’idea che la divisione di utili rappresenti un elemento causale della fattispecie societaria e che, al contrario, il divieto assoluto di lucro soggettivo costituisca elemento caratterizzante gli enti del primo libro del codice civile.
Se così intesa la citazione è, in effetti, più che completa, oltre che per la sua autorevolezza, in ragione del fatto che non si è mai formato in dottrina un convincimento contrario.
Ma il punto è un altro, ed attiene alla necessità di verificare se è proprio questa l’ipotesi che ricorre nella fattispecie in oggetto.
Al riguardo, le regole tecniche del GSE qualificano la tariffa incentivante come contributo in conto esercizio[[5]]. A partire da tale premessa, lo Studio qualifica dunque tali introiti come ricavi o profitti che, se distribuiti, si trasformano in utile di impresa. Per tale ragione, non può darsi alcun riparto allorché si tratti di enti non commerciali, in ragione dell’incompatibilità tra lo scopo della divisione degli utili e la causa non lucrativa.
Tanto si premette per dire che, sotto un profilo formale, la tesi sostenuta nello Studio è ineccepibile e, nella misura in cui se ne condivide la premessa, la conclusione è d’obbligo, non essendosi mai formato, come si è detto, un orientamento contrario all’idea dell’assoluta incompatibilità tra l’adozione di uno schema diverso da quello societario ed il perseguimento di un lucro soggettivo.
Sotto un profilo sostanziale, tuttavia, v’è da chiedersi se questa impostazione tradizionale ben si adatta alle molteplici peculiarità della disciplina CER, soprattutto in ragione del fatto:
- che non si tratta di contributi rivolti né alla copertura dei costi di gestione né all’integrazione dei ricavi, ma connessi all’esercizio di un’attività – la condivisione di energia – che non ha carattere commerciale;
- che, rispetto al loro tradursi in utili di esercizio, sembra cogliere maggiormente nel segno un obiter espresso dall’ADE[[6]], secondo cui di utile (inteso come differenziale positivo risultante dal confronto tra tutti i costi e i ricavi dell’ente) non può parlarsi laddove ci si trovi in presenza di un soggetto giuridico che, per espressa previsione normativa, non è orientato al profitto; e certamente non lo è rispetto alla sua funzione, per così dire, istituzionale, relativa alla condivisione di energia e rispetto ad un introito anch’esso previsto dalla legge e che premia quella condivisione.
Alla luce di tali peculiarità, è più corretto ritenere che l’espressione contributi in conto esercizio debba essere intesa, nel caso di specie, come riferita ad agevolazioni a fondo perduto (o, se si vuole tornare al linguaggio contabile, ad “altri proventi”, diversi dai ricavi) che in quanto tali andranno ad accrescere il patrimonio dell’ente.
Se si condivide tale premessa, allora il vero ostacolo che si frappone alla divisione consiste non tanto nel divieto di distribuzione degli utili, quanto piuttosto nell’assenza di diritti dei singoli partecipanti sul patrimonio dell’ente, sia durante la sua vita sia dopo la sua liquidazione[[7]].
Ancora una volta, tuttavia, se questa è la regola generale, nella specifica materia del soggetto giuridico CER, quale che sia la sua natura, è lo stesso legislatore a darci delle indicazioni in senso inverso e a consentire quello che normalmente non è concesso fare.
A scanso di ogni equivoco, non si vuol certo dire che lo Studio non abbia minuziosamente considerato il contenuto della disciplina.
Ciò non di meno, l’opinione che qui si contesta è espressione di una tendenza, molto comune tra gli interpreti, di guardare alle novità introdotte dal legislatore, anche quelle che visibilmente si traducono in elementi di rottura rispetto al quadro normativo consolidato, cercando di ricondurle il più possibile al sistema, considerando in ogni caso ad esse riferibili i principi generali che regolano la materia.
Così facendo, tuttavia, si rischia di non tenere nel debito conto le ragioni del nuovo, che trovano nella specie il proprio fondamento in un obiettivo non certo secondario, qual è quello della transizione energetica.
Nella prospettiva indicata, ad acquistare rilievo è il fine ultimo dei contributi: la loro funzione incentivante, volta a stimolare un’attività (la produzione e la condivisione di energia rinnovabile) che altrimenti non si svolgerebbe o non si svolgerebbe nella stessa misura. Per i partecipanti, la possibilità di accedere ai benefici altro non rappresenta, allora, che la dimensione individuale di quei benefici (di carattere, economico, sociale, ambientale) perseguiti dalla CER anche a vantaggio dei propri soci o membri (art. 31).
In concreto, privare i partecipanti della possibilità di un ritorno diretto, anche in termini economici, significa privarli di uno strumento che, nell’ottica del legislatore, non è un mero vantaggio individuale (altrimenti sarebbe un profitto, come tale considerato dal legislatore se percepito dalle imprese, oltre una certa soglia), ma l’indispensabile mezzo per realizzare quegli obiettivi più generali posti a fondamento della stessa esistenza di tali configurazioni.
Come si è detto, le indicazioni fornite in tal senso del legislatore sono univoche.
Frustrare tale possibilità equivale a frustrare lo stesso ricorso all’impiego di tali configurazioni, tradendo in ultima analisi l’obiettivo di conseguire, per loro tramite, una progressiva transizione energetica.
Di un eccesso di formalismo sembra peccare l’impostazione seguita dallo Studio, anche rispetto all’interpretazione data dell’art. 8, comma 3, lett. d, d.lgs. n. 117 del 2017 ai sensi del quale: non si considera distribuzione di utili, «neanche indiretta, le cessioni di beni e le prestazioni di servizi a soci, associati o partecipanti in genere, a condizioni più favorevoli di quelle di mercato, quando ciò costituisca l’oggetto stesso dell’attività di interesse generale svolta dall’ente».
Secondo lo studio, la CER costituita in forma di Ente del terzo settore può riconoscere ai propri membri i contributi, qualora regoli le proprie attività di produzione, accumulo e condivisione di energia (attività normativamente definita come di interesse generale) mediante appositi contratti, determinanti il prezzo in funzione degli utili generati dall’ente produttore dei beni e servizi oggetto di tali contratti (contratti parziari).
Indubbiamente, detta disposizione rappresenta un’ eccezione rispetto alla logica del sistema, interna al codice del terzo settore: la medesima disposizione, infatti, finisce per includere la mutualità di categoria, se ed in quanto di interesse generale, in un contesto che considera normalmente fuori dal proprio ambito di operatività gli enti costituiti per il perseguimento di interessi definibili come di gruppo[[8]].
Se questo è vero in termini generali, il discorso cambia radicalmente guardando al sistema CER: qui, appare evidente come la logica della mutualità, lungi dal rappresentare un’eccezione, è consustanziale alla stessa natura dell’ente[[9]].
Le CER nascono, infatti, con lo scopo di fornire benefici ai propri soci o membri, dando vita a scambi mutualistici in forza dei quali i partecipanti all’iniziativa usufruiscono senza alcun dubbio di beni e servizi prodotti dalla CER (il consumo in situ e la condivisione di energia) a condizioni più vantaggiose rispetto ai terzi (non partecipanti).
Così come riferita alle CER la disposizione in esame esprime, dunque un principio importante: trattandosi di un ente che svolge un ruolo mutualistico di interesse generale, le funzioni che assicura e che transitano attraverso «la cessione di beni o la prestazione di servizi» non possono essere considerate distribuzione di utili.
Tali funzioni, come abbiamo detto di interesse generale perché così testualmente previsto dalla novella del 2023, concernono la produzione ed il consumo di energia da fonti rinnovabili che reca, in sé, molteplici vantaggi: per i consumatori (o per le imprese partecipanti), legati al fatto di approvvigionarsi degli impianti FER (di proprietà o comunque nella disponibilità della CER), con un prezzo dell’energia inferiore a quella di mercato; per i prosumers, legati al fatto di partecipare a progetti di comunità e di ottenere una sovraremunerazione del loro impianto, traendo maggiore vantaggio dalla condivisione di energia.
Di tutto questo dovrà tenersi conto nelle regole di riparto, che guarderanno, volta per volta, alla qualità ed alla misura della partecipazione del singolo partecipante ai suddetti scambi mutualistici.
Questo è l’unico contratto che si rende necessario (un separato accordo di diritto privato), senza necessità di fare ricorso alle diverse figure di contratti parziari, ai quali fa riferimento lo studio.
Per concludere sul punto, il principio che si può dunque trarre dall’eccezione contemplata nell’art. 8, così come riferita alle CER, è quello della generale compatibilità del riparto dei flussi finanziari erogati dal GSE per gli scambi mutualistici tra i partecipanti all’iniziativa.
In conclusione, una CER che non intenda avvalersi della facoltà di perseguire uno scopo (accessorio) lucrativo potrà utilizzare lo schema degli enti del primo libro del codice civile o dar vita ad un ente del terzo settore (ovviamente in presenza dei relativi presupposti e nel rispetto della normativa applicabile), senza per ciò dover rinunziare ad una delle funzioni che tipicamente connotano le CER, ovvero il riparto degli incentivi tra i partecipanti.
Questi ultimi, come abbiamo visto, rappresentano la dimensione individuale dei benefici ambientali, economici e sociali che la legge impone alla CER di perseguire in via prioritaria e che non può essere sacrificata alla luce di un aprioristico ricorso ai principi generali che regolano la materia.
Nel dar vita a questi nuovi meccanismi di condivisione dell’autoproduzione e consumo di energia da fonti rinnovabili, il legislatore ha introdotto diversi profili di specialità della disciplina, che allontanano queste figure dal tradizionale modello imprenditoriale che ha fino ad oggi caratterizzato il mercato dell’energia.
Ne consegue che, ai fini della ricostruzione della disciplina applicabile a tali configurazioni, l’interprete deve assumere, come punto di riferimento, la nuova rotta segnata dal legislatore, nella ricerca di un nuovo equilibrio tra rigore dogmatico ed esigenze evolutive. Con la consapevolezza, peraltro, di muoversi in un settore, quello degli enti collettivi (di carattere lucrativo e non), che ha radicalmente cambiato, nel tempo, la sua fisionomia e rispetto al quale non è fuor di luogo ritenere che si aggiunge, oggi, un nuovo tassello, rappresentato dal soggetto giuridico CER.
Solo così facendo potranno valorizzarsi tutti gli elementi innovativi che la normativa contiene, finendo altrimenti per soffocarne, più che potenziarne, le potenzialità applicative.
C’è da augurarsi che, in un futuro ormai prossimo, lo stesso atteggiamento possa essere seguito dal formante giurisprudenziale, ancora quasi del tutto assente nel dibattito sulle CER; e ciò anche alla luce di un principio di effettività della tutela dei partecipanti alle configurazioni in oggetto.
NOTE:
[1] Cfr., per tutti, M. PAFUMI, Il soggetto giuridico Comunità energetica: quali soluzioni possibili?, in M. MELI (a cura di), La transizione verso nuovi modelli di produzione e consumo di energia da fonti rinnovabili, Pisa, 2023.
[2] Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 38/2024/1, Le incentivate comunità energetiche rinnovabili e il loro atto costitutivo, a cura di E.CUSA
[3] Risoluzione n. 37 del 22 luglio 2024.
[4] G. PONZANELLI, Gli enti collettivi senza scopo di lucro, Torino, 2000, 113 ss.
[5] Si tratta delle Regole operative per l’accesso al servizio per l’autoconsumo diffuso e al contributo del PNRR, pubblicate dal GSE, pubblicate il 23 febbraio 2024. Di contributi in conto esercizio si parla a più riprese. Cfr. ad esempio il titolo della parte II.
[6] Ma questo aspetto era già stato messo in evidenza da M. PAFUMI, op. cit., 131.
[7] Sul punto R. DI RAIMO, Destinazione e disciplina del patrimonio, in M.GORGONI (a cura di), Il codice del terzo settore, Pisa, 2018, 81 ss.
[8] Sul punto cfr. ancora R. DI RAIMO, op. cit., 90.
[9] Come messo bene in evidenza da M. PAFUMI, op. cit.,130 ss.