L’organizzazione delle fondazioni del Terzo settore
Impostazione del problema
Al fine di conseguire la qualifica di Ente del Terzo settore è necessario non solo adottare uno dei modelli organizzativi indicati nell’art. 4 del d.lgs. 3 luglio 2017 n.117 (Codice del Terzo settore), ma anche, fra l’altro, conformarne l’organizzazione secondo le prescrizioni del medesimo Codice. In particolare, la coerenza dell’organizzazione dell’ente alle norme del Codice del Terzo settore rappresenta un requisito necessario in funzione dell’iscrivibilità dell’ente medesimo nel Registro unico nazionale del Terzo settore, iscrizione che, a sua volta, ha efficacia costitutiva della qualifica.
Ai sensi dell’art. 20 del Codice del Terzo settore, l’ordinamento e l’amministrazione delle fondazioni che aspirano all’iscrizione nel Registro suddetto dovrebbero essere conformati alle disposizioni degli artt. da 23 a 31, che disciplinano anche i medesimi profili organizzativi delle associazioni riconosciute e non riconosciute.
La soggezione a regole comuni, sancita nell’art. 20 (ai sensi del quale «le disposizioni del presente titolo di applicano a tutti gli enti del Terzo settore costituiti in forma di associazione, riconosciuta o non riconosciuta, o di fondazione») potrebbe indurre l’impressione che la fondazione che aspira alla qualifica di ente del Terzo settore debba assumere necessariamente le sembianze di una “fondazione di partecipazione”, categoria fino ad ora non giuridica, ma meramente descrittiva.
In altri termini, potrebbe inferirsi il corollario per il quale non sarebbero iscrivibili nel Registro unico nazionale del Terzo settore, e quindi non potrebbero diventare enti del Terzo settore, fondazioni che non siano organizzate secondo gli stilemi propri della fondazione a struttura associativa[[1]].
Sennonché, già un’indagine meramente letterale consente di rilevare che gli articoli 23, 24, 25 e 26, dopo aver disciplinato, in primo luogo e principalmente, l’organizzazione delle associazioni (riconosciute e non riconosciute), nell’ultimo comma,
– talora sanciscono l’applicazione delle medesime norme alle fondazioni del Terzo settore «il cui statuto preveda la costituzione di un organo assembleare o di indirizzo, comunque denominato», ma solo ed «in quanto compatibili ed ove non derogate dallo statuto» (artt. 23 e 24);
– talaltra, più che imporre, sembrano concedere una possibilità organizzativa (art. 25: «lo statuto delle fondazioni del Terzo settore può attribuire all’organo assemblea o di indirizzo, comunque denominato, di cui preveda la costituzione la competenza a deliberare su uno o più degli oggetti di cui comma 1, nel limiti in ciò sia compatibile con la natura dell’ente quale fondazione e nel rispetto della volontà del fondatore»; art. 26: «Nelle fondazioni del Terzo settore deve essere nominato un organo di amministrazione. Si applica l’articolo 2382 del codice civile. Si applicano i commi 3, 6 e 7. Nelle fondazioni del Terzo settore il cui statuto preveda la costituzione di un organo assembleare o di indirizzo, comunque denominato, possono trovare applicazione, in quanto compatibili, i commi 4 e 5»).
Il dato letterale sembra indirizzare verso conclusioni diverse da quella prima ipotizzata, per l’esplicito e reiterato riferimento, da un lato, alle scelte dell’autonomia privata («... il cui statuto preveda la costituzione di un organo assembleare o di indirizzo, comunque denominato ...»), dall’altro, alla necessità di operare una preventiva valutazione di compatibilità delle norme richiamate con la “natura” della fondazione.
Di qui l’esigenza di comprendere a quali condizioni, ed in quale misura, le regole organizzative dettate per le associazioni debbano essere applicate anche alla fondazione, con lo scopo di definire quali siano le caratteristiche organizzative che quest’ultimo ente deve possedere per essere iscritto al Registro unico nazionale del Terzo settore.
Il nucleo essenziale dell’organizzazione della fondazione del Terzo settore
Le norme contenute nell’ultimo comma degli articoli 23, 24, 25 e 26 del Codice del Terzo settore legittimano un ricavo interpretativo difficilmente contestabile: la previsione di un organo assembleare o di indirizzo, comunque, denominato, è una opzione statutaria, quindi una scelta dell’autonomia privata. Si tratta di un’eventualità organizzativa, non di una necessità[[2]].
Nessuna norma ne impone la costituzione; una serie di norme ne considerano la previsione statutaria come creativa della fattispecie alla quale devono trovare applicazione.
Ne consegue che la presenza, nella struttura organizzativa, di un organo assembleare o di indirizzo non è necessaria in funzione dell’iscrizione della fondazione nel Registro unico nazionale del Terzo settore, e quindi in funzione della sua qualificazione come ente del Terzo settore[[3]].
Dall’art. 26 ultimo comma e dall’art. 30 primo comma del Codice del Terzo settore emerge che gli unici organi necessari sono quello di amministrazione («Nelle fondazioni del Terzo settore deve essere nominato un organo di amministrazione») e quello di controllo («Nelle fondazioni del Terzo settore deve essere nominato un organo di controllo, anche monocratico»).
Sembra allora coerente, alla luce di tali dati normativi, concludere che il modello di riferimento del Codice del Terzo settore non sia necessariamente quello noto alla prassi come fondazione di partecipazione, caratterizzato dalla presenza di organi che consentono il coinvolgimento diretto dei partecipanti nell’amministrazione, e che pertanto valorizzano l’elemento personalistico in misura maggiore rispetto al modello tratteggiato nel Codice civile, che non gli assegna alcuna rilevanza.
In altri termini, definito negli articoli 26 e 30 il nucleo essenziale della struttura organizzativa dell’ente, il Codice prende atto (e si limita a prendere atto) che possono legittimamente sussistere più tipologie di fondazione, alcune delle quali connotate da una rilevante ibridazione strutturale con i fenomeni associativi, e si preoccupa di porre regole funzionali ad assicurarne la coerenza ai principi che animano il Terzo settore, come meglio vedremo. Non altera, tuttavia, le caratteristiche tipologiche del modello espresso dal Codice Civile, rintracciabili nella destinazione di un patrimonio allo scopo, nell’immutabilità dello scopo una volta intervenuto il riconoscimento, e nella presenza di un organo amministrativo in posizione servente.
Prende atto, in altri termini, della prassi statutaria di forgiare fondazioni a struttura associativa, e, prendendone atto, la legittima in termini generali[[4]].
La ratio del richiamo della disciplina delle associazioni prevista negli articoli 23 e 24 del Codice del Terzo settore
Il materiale normativo che compone il Codice del Terzo settore consente di concludere che può aspirare alla qualifica di ente del Terzo settore una fondazione conformata organizzativamente secondo il modello storico-ideologico tradizionale, caratterizzato dalla presenza di un organo servente per l’attuazione dello scopo (organo amministrativo) e dalla posizione di terzietà, e quindi di estraneità, del fondatore (o dei fondatori), con l’unico arricchimento costituito dalla necessità dell’istituzione di un organo di controllo interno. In tale modello la componente patrimoniale, che caratterizza e distingue la fondazione dall’associazione, assume rilevanza esclusiva.
Atteso ciò, mi pare che, prima ancora di addentrarsi nell’analisi del contenuto precettivo e delle condizioni di applicazione, sia doveroso interrogarsi sul fine delle norme contenute nell’ultimo comma degli articoli 23, 24, 25 e 26 del Codice del Terzo settore.
Muoverei dal dato per cui la fattispecie alla quale si applicano è rappresentata dalla fondazione a struttura associativa, nota alla prassi come “fondazione di partecipazione”, espressione dell’autonomia statutaria.
Acclarata la ricorrenza della fattispecie, le quattro norme richiamate non sembrano puntare ad un obiettivo univoco.
Il precetto principale dell’ultimo comma sia dell’art. 23, sia dell’art. 24 consiste nel dovere di applicare le norme contenute nei commi che precedono (come reso palese dall’uso dell’indicativo, tempo di comando nel linguaggio legislativo).
Negli ultimi commi degli articoli 25 e 26 il dovere si tramuta in potere, in facoltà.
Per cogliere la ratio delle prime due norme occorre osservare quelle richiamate. Le une (contenute nell’art. 23) impongono e disciplinano la procedura di ammissione di nuovi partecipanti all’iniziativa ideale con il fine di assicurare il rispetto del principio della “porta aperta”, e quindi il rispetto del valore dell’inclusione (art. 2, Codice del Terzo settore); le altre (racchiuse nell’art. 24) regolano il diritto di voto e di partecipazione ai processi decisionali degli associati. Insieme attuano quanto prescritto nell’art. 4, lett. d) della l. 6 giugno 2016, n. 106, che delegava il legislatore a definire forme e modalità di organizzazione e amministrazione degli enti del Terzo settore ispirate ai principi di democrazia, eguaglianza, pari opportunità e partecipazione degli associati.
In virtù del richiamo delle norme ricordate, la fondazione, se connotata per scelta dell’autonomia privata da una struttura associativa, dovrà sottomettersi alle regole stabilite per le associazioni che intendono assumere la qualifica di enti del Terzo settore, almeno in linea di principio.
Sembra evidente l’intento di evitare che l’ibridazione dei modelli organizzativi possa rappresentare la via per eludere l’attuazione dei valori ai quali la legge subordina l’appartenenza al Terzo settore.
Dunque, ascriverei alle norme in esame una funzione antielusiva.
Condizioni e limiti di applicabilità alla fondazione della disciplina delle associazioni prevista negli articoli 23 e 24 del Codice del Terzo settore
Identificate la fattispecie (fondazione a struttura associativa) e le regole (richiamo della disciplina dettata per le associazioni nei commi precedenti), occorre interrogarsi sulle condizioni per l’applicazione di queste ultime.
Gli articoli 23 e 24 del Codice ne contemplano due: la preventiva valutazione di compatibilità e l’assenza di deroghe statutarie.
Non si può nascondere che quest’ultima condizione lascia perplessi, soprattutto se relazionata alla ratio che si è ritenuto di poter ascrivere al richiamo della disciplina delle associazioni, salvo non proporne un’interpretazione riduttiva, ma sistematicamente coerente, del suo raggio di estensione.
Volendo tuttavia muoversi in consonanza con la progressione stabilita dalle norme, non si può fare a meno di denunciare, in primo luogo, la difficoltà di decodificare la prima delle condizioni di applicabilità di quelle stesse norme, rappresentata dalla valutazione di compatibilità.
Non è chiaro, infatti, quale sia il termine di relazione rispetto al quale misurare la compatibilità.
Dal momento che si tratta di regole afferenti l’ordinamento della fondazione, il riferimento naturale dovrebbe essere costituito dal nucleo essenziale delle norme che segnano il tipo e lo distinguono dall’associazione.
Secondo un noto studio «in sintesi, le costanti normative che storicamente (e comparisticamente) si abbinano allo schema fondazionale possono essere identificate nella destinazione di un patrimonio allo scopo – che con il riconoscimento esce definitivamente dalla disponibilità del fondatore – attraverso la mediazione di una vicenda organizzativa assistita dal rilievo reale»[[5]].
Assunto il citato approdo ermeneutico come presupposto concettuale, non mi pare che una valutazione di compatibilità delle regole contenute negli artt. 23 e 24 del Codice del Terzo settore rispetto ai tratti tipologici della fondazione, e rispetto finanche alla disciplina del Codice Civile, possa condurre a qualche esito significativo ai fini della presente indagine.
A ben vedere, infatti, le caratteristiche connotanti la fondazione sul piano tipologico risultano indifferenti sia alle regole sul reclutamento dei partecipanti, sia alle regole sulle modalità di esercizio del diritto di voto e delle altre prerogative partecipative da parte dei “fondatori”, originari o sopravvenuti. Tant’è che nulla è previsto in merito nel Codice Civile e che si è ritenuto ammissibile introdurre statutariamente regole in tal senso senza “uscire” dal tipo[[6]].
Il ragionamento può forse prendere una piega diversa e divenire più efficace se si condividono alcuni presupposti concettuali.
In primo luogo, occorre tenere presente che nell’ambito del tipo fondazione sono identificabili diverse tipologie, connotate, fra l’altro, dalle modalità organizzative dell’attività[[7]].
In secondo luogo, la disciplina sul reclutamento dei partecipanti e sulle modalità di esercizio dei diritti di partecipazione è disciplina dell’attività, strumentale all’attuazione dello scopo che, fra quelli possibili, il fondatore (unico o plurimo) ha selezionato.
Se si accettano tali presupposti, si può pervenire all’affermazione per la quale il giudizio di compatibilità deve essere espresso non rispetto al “tipo fondazione”, ma rispetto alla “tipologia di fondazione” concretamente forgiata dal fondatore e connotata dalle regole di organizzazione dell’attività che lui stesso ha determinato, nell’esercizio dell’autonomia che in tal senso l’ordinamento giuridico gli consente.
In altri termini, si tratterebbe di una valutazione di compatibilità da condurre, casisticamente, rispetto alla specifica tipologia di fondazione che emerge dal disegno statutario.
Il giudizio dovrebbe essere formulato ponendo la seguente domanda: preso atto che il fondatore ritiene che la struttura associativa rappresenta la modalità che più efficacemente consente di esercitare l’attività da lui scelta fra quelle previste nell’art. 5 del Codice del Terzo settore, è necessario, proprio in ragione delle modalità concretamente scelte per esercitare l’attività (e quindi in ragione della fattispecie), rispettare anche la disciplina delle associazioni, in funzione antielusiva?
Si deve quindi verificare se le norme previste per le associazioni siano compatibili con le modalità di esercizio dell’attività fissate dall’autonomia privata tramite lo statuto della specifica fondazione.
Definito l’oggetto della valutazione ed il parametro di riferimento (struttura organizzativa della fattispecie concreta di fondazione da un lato, disciplina delle associazioni dall’altro) occorre stabilire il criterio da adottare per elaborare il verdetto.
Muoverei dalla constatazione che il tratto giuridico distintivo essenziale fra associazione e fondazione è rappresentato dalla disponibilità dello scopo.
Fermo questo tratto discretivo, tipologicamente determinante, si nota che le regole di produzione dell’azione, se collettiva, possono essere sostanzialmente equivalenti fra i due enti, stante la neutralità della disciplina delle fondazioni sotto tale profilo, come già ricordato.
Ne discende che se i fondatori scelgono, nell’esercizio dell’autonomia privata, di svolgere l’attività con modalità sostanzialmente equivalenti a quelle proprie di un’associazione, dovranno applicare le medesime regole volte ad assicurare il rispetto dei valori fondamentali di cui il Codice si fa portatore.
Il ragionamento rischia di peccare di astrattismo se non riesce a reperire un criterio applicativo giuridicamente fondato, quantomeno sul piano sistematico.
In tal senso muoverei dalla constatazione per la quale l’associazione è il modello organizzativo tramite il quale un’attività è esercitata, in via prevalente, tramite la partecipazione di più persone; l’adesione ed il coinvolgimento diretto sono fattori essenziali di produzione dell’attività orientata ad uno scopo non lucrativo[[8]].
Nella fondazione prevale l’elemento patrimoniale, poiché si connota tipologicamente tramite la destinazione di un patrimonio ad uno scopo, al punto che il modello organizzativo tradizionale ricavabile dal Codice Civile non prende nemmeno in considerazione la possibilità della ricorrenza di una base associativa.
Dato atto di tali tratti caratterizzanti, desumerei che se l’autonomia privata conferma, tramite la disciplina statutaria, di assegnare rilevanza prevalente al “fattore” patrimoniale, tale per cui il reclutamento di partecipanti è funzionale alla raccolta di capitali da investire idealmente per consentire alla fondazione di svolgere l’attività, non possono – né devono – trovare applicazione nel norme degli art. 23 e 24 dettate per le associazioni, perché il giudizio di compatibilità, condotto rispetto alla fattispecie concreta, è negativo.
Qualora, di contro, lo statuto dimostri di ascrivere rilevanza prevalente all’elemento personale, che diviene “strumento” di esercizio dell’attività a prescindere dall’apporto, torna la necessità di conformare la disciplina organizzativa a quella delle associazioni, ispirate alla tutela dei valori di democrazia, eguaglianza, pari opportunità e partecipazione degli associati.
Se si condivide la lettura proposta, mi pare che in consonanza con l’esito del giudizio di compatibilità vada letta anche alla facoltà di deroga concessa nell’inciso finale dell’ultimo comma dell’art. 23 e dell’art. 24.
Qualora l’elemento patrimoniale rappresenti il fattore determinante per lo svolgimento dell’attività, seppur organizzata con una struttura associativa, non sussistono limiti al potere di derogare alla disciplina dell’associazione prevista negli stessi articoli. In tal senso, per esempio, e con riferimento all’art. 24, riterrei che la prevalenza dell’elemento patrimoniale giustifichi l’adozione nelle fondazioni di un criterio plutocratico di commisurazione del peso del voto, in deroga al criterio capitario imposto nelle associazioni.
Qualora, di contro, il giudizio di compatibilità sia positivo, mi pare che la facoltà di deroga in parola debba essere coerentemente ridimensionata, nel senso che non può essere intesa come potere di escludere l’applicazione della disciplina dei commi precedenti (stante la logica antielusiva del richiamo il cui valore, anche sistematico, verrebbe totalmente azzerato) ma come facoltà di disporre diversamente rispetto alla disciplina legale nei limiti in cui tale possibilità è concessa alle associazioni. Di fatto, una replica dell’inciso «se l’atto costitutivo o lo statuto non dispongono diversamente» con il quale si apre ogni comma che precede, “replica” che consente di evitare che la disciplina richiamata risulti in definitiva più rigorosa per le fondazioni rispetto alle associazioni.
Va da sé, peraltro, che la possibilità di nuove adesioni comporta la necessità di stabilire anche i requisiti di partecipazione, l’organo chiamato a vagliare le domande, la misura e la natura degli apporti, i diritti e gli obblighi spettanti ai nuovi conferenti.
I rinvii alla disciplina delle associazioni contenuti negli artt. 25 e 26 del Codice del Terzo settore e il giudizio di compatibilità
Come già segnalato, tenore completamente diverso deve ascriversi all’ultimo comma degli articoli 25 e 26 del Codice del Terzo settore, che sembrano non rispondere alla logica antielusiva di cui si è discusso, ma limitarsi ad offrire frammenti di disciplina delle fondazioni di partecipazione.
La prima delle norme citate consente di attribuire all’organo assembleare o di indirizzo, comunque denominato, la competenza a deliberare su di una o più materie che in un’associazione del Terzo settore sono attribuite alla competenza inderogabile dell’assemblea.
Consente, non impone: scelta che mi pare ponga una pregiudiziale significativa anche rispetto alla valutazione di compatibilità da condurre ai sensi dell’art. 24 ultimo comma. Infatti, se all’organo assembleare o di indirizzo non sono attribuite le competenze decisionali che necessariamente spettano all’assemblea degli associati, e che pertanto rappresentano nelle associazioni, per scelta legislativa, momenti necessari di espressione del principio di democraticità, che rilevanza effettiva può avere il rispetto delle regole, strumentali a quelle decisioni, contenute nell’art. 24?
A prescindere da tale valutazione, l’ultimo comma dell’art. 25 subordina l’esercizio dell’autonomia privata a due limiti potenziali: la compatibilità con la natura dell’ente quale fondazione, ed il rispetto della volontà del fondatore.
Se ci limitassimo a leggere le indicazioni del primo comma dell’art. 25 con la lente della consolidata prassi statutaria delle fondazioni di partecipazione, il giudizio di compatibilità si concluderebbe con esito positivo.
Una riflessione più approfondita induce a chiedersi se quel giudizio non debba avere piuttosto ad oggetto la definizione della misura massima, tipologicamente sostenibile, dell’ingerenza del fondatore (o dei fondatori) nella vita della fondazione, ingerenza attuata tramite gli organi assembleari o di indirizzo, al fine di evitare forme di abuso del modello organizzativo.
Mi pare che la questione debba porsi soprattutto con riferimento alla previsione del punto i) del primo comma dell’art. 25, ai sensi della quale l’assemblea può deliberare sugli oggetti attribuiti dall’atto costitutivo o dallo statuto alla sua competenza, diversi da quelli già elencati nella medesima norma.
In tale prospettiva, si può osservare che la figura della fondazione a struttura associativa (o di partecipazione) nasce nella prassi per l’intenzione di adottare schemi organizzativi atti a consentire ai fondatori, e in generale ai “conferenti”, di partecipare alla fase attuativa dello scopo, da cui anche la genesi del nome. La soddisfazione dell’esigenza di “immanenza” del fondatore o dei fondatori rappresenta una delle costanti storiche nella metamorfosi dell’istituto, e per essa la prassi statutaria ha disatteso, con sempre maggior frequenza, la regola dogmatica, ma non normativa, del distacco del fondatore dalle sorti dell’ente, a favore di una progressiva stabilizzazione delle sue facoltà di interferenza sui procedimenti attuativi dello scopo[9]. Si sono diffuse clausole statutarie che consentono ai fondatori di nominare i componenti dell’organo amministrativo-esecutivo, e di revocarli; di decidere o esprimere pareri in ordine alle linee di azione da seguire per attuare al meglio lo scopo.
La norma dell’ultimo comma dell’art. 25 costringe forse l’interprete a interrogarsi con più attenzione sui confini alla legittimità dell’interferenza dei fondatori o partecipanti sull’amministrazione della fondazione: questione che, in definitiva, si traduce in quella della compatibilità dell’attribuzione di competenze decisionali in materie gestionali all’organo (assembleare o di indirizzo) dagli stessi partecipato.
Se è certamente incompatibile la possibilità di disporre dello scopo anche da parte degli stessi fondatori, come già in precedenza rilevato sul piano della connotazione tipologica dell’ente (e come indirettamente confermato dalle disposizioni dell’art. 2500-octies c.c., che consente la trasformazione in società di capitali solo per effetto di un provvedimento amministrativo, e non in forza di una decisione (ma solo sulla base di una mera proposta) dell’organo competente[[10]]) meno nitida, e forse anche più labile, risulta la linea di confine insuperabile sul piano della distribuzione statutaria di competenze fra organi.
Il percorso interpretativo può forse essere messo a fuoco in maniera più nitida tramite la constatazione di due dati normativi: i) ai sensi dell’art. 26, ultimo comma, del Codice del Terzo settore, l’organo amministrativo è necessario; ii) ai sensi dell’art. 28 del medesimo Codice, gli amministratori sono gli unici responsabili dell’amministrazione dell’ente.
Ne discende che secondo il modello organizzativo disegnato nella legge l’organo assembleare o di indirizzo non può risultare assegnatario di poteri decisionali in ordine agli atti amministrativi da compiere, ma può essere legittimato, al massimo, a concedere autorizzazioni, alla stregua di quanto previsto nell’art. 2364, n.5 c.c., o ad assolvere a compiti di “alta amministrazione”, sulla falsariga di quanto concesso nell’art. 2409-terdecies, let. f -bis) c.c.
Ulteriore condizione di applicabilità della norma è rappresentata dal rispetto della volontà del fondatore.
Il riferimento può certamente essere ricollegato al potere discrezionale di decidere la trasformazione, la fusione e la scissione dell’ente, visto quanto disposto negli artt. 42-bis e 2500-octies del Codice civile, anche se così, proprio in virtù delle disposizioni richiamate, il valore interpretativo di quel riferimento risulterebbe assai ridotto.
Maggior valenza avrebbe se – come mi sembra – dovesse venir in gioco allorchè si intendono apportare modifiche alla struttura organizzativa della fondazione già costituita, unica nella quale è “percepibile” la volontà del fondatore.
In tal caso la valutazione di legittimità dei nuovi assetti e della nuova distribuzione di competenze dovrebbe tenere conto del modello organizzativo originariamente scelto dal fondatore, la cui volontà non può essere travisata al punto tale da rendere a struttura associativa una fondazione a geometria organizzativa tradizionale.
Occorre infine tentare di decifrare il contenuto del giudizio di compatibilità che ai sensi dell’art. 26 ultimo comma deve essere espresso qualora lo statuto della fondazione voglia accogliere, in primo luogo, le previsioni del quarto comma del medesimo articolo, ai sensi del quale «l’atto costitutivo o lo statuto possono prevedere che gli amministratori siano scelti tra le diverse categorie di associati».
Si tratta di disposizione che agisce, per scelta dell’autonomia privata, sul piano dei criteri di scelta dei componenti dell’organo amministrativo, rispetto ai quali non sussiste alcun problema di compatibilità sul piano tipologico con la fondazione.
Il giudizio va allora espresso solo sul piano della coerenza con il modello organizzativo concretamente forgiato dallo statuto dell’ente, fermo restando che si tratta di opzione anche per le associazioni, e quindi di disposizione non servente l’attuazione del principio di democraticità.
Più complessa sembra la valutazione da compiere qualora l’autonomia statutaria voglia applicare anche in una fondazione la norma del quinto comma dell’art. 26; applicazione, peraltro, sempre discrezionale e mai necessaria.
La fattispecie è sempre rappresentata dalla fondazione organizzata in senso partecipativo, in virtù della previsione statutaria di un organo di natura assembleare o di indirizzo.
Ancora una volta giova, per maggior chiarezza, muovere dal dato normativo di cui si autorizza l’applicazione alla fondazione, previo giudizio di compatibilità. Ai sensi dell’art. 26, quinto comma, «la nomina di uno o più amministratori può essere attribuita dall’atto costitutivo o dallo statuto ad enti del Terzo settore o senza scopo di lucro, ad enti di cui all’art. 4, comma 3, o a lavoratori o utenti dell’ente. In ogni caso, la nomina della maggioranza degli amministratori è, salvo quanto previsto nell’art. 25, comma 2, riservata all’assemblea».
Non sembra di immediata evidenza la ragione dell’autorizzazione concessa all’autonomia privata nell’ultimo comma dell’art. 26.
Come reso evidente dall’inciso finale del quinto comma richiamato (“In ogni caso, la nomina della maggioranza degli amministratori è, salvo quanto previsto nell’art. 25, comma 2, riservata all’assemblea.”), nell’ambito della disciplina delle associazioni la norma va letta in primo luogo alla luce della disposizione del primo comma dell’art. 25, che fra le «competenze inderogabili dell’assemblea» comprende la nomina dei componenti degli organi sociali, e secondariamente in correlazione logica e sistematica con quella recata dalla seconda parte del primo comma del medesimo art. 26, laddove è sancito, come regola generale di principio, che «la nomina degli amministratori spetta all’assemblea».
La lettura coordinata delle norme citate palesa che il quinto comma in esame introduce una deroga eccezionale alla competenza assembleare con riferimento alla nomina degli amministratori, e tale sembra essere la sua funzione nell’ambito della disciplina organizzativa delle associazioni. Per questo motivo, mi pare che quella facoltà di deroga debba essere “di stretta applicazione”, e quindi non suscettibile di letture estensive, e neanche di applicazione analogica.
Di contro, la disciplina organizzativa delle fondazioni dotate statutariamente di organo assembleare o di indirizzo non risulta conformata in ugual modo, né imperniata sulle medesime regole di principio: come già rilevato, l’ultimo comma dell’art. 25 prevede che lo statuto della fondazione può, e non deve, attribuire all’organo assembleare o di indirizzo, «la competenza a deliberare su uno o più degli oggetti di cui al comma 1», fra i quali è compresa la nomina degli organi sociali.
In altri termini, stante il tenore letterale dell’ultimo comma dell’art. 25, lo statuto di una fondazione “di partecipazione” non deve attribuire alla competenza assembleare o dell’organo di indirizzo la nomina degli amministratori. Nomina che pertanto può essere assegnata ad altri soggetti, anche esterni alla fondazione medesima, secondo la configurazione tradizionale dell’ente.
Se tale premessa è vera, ne consegue che non risulta facilmente spiegabile la ragione della concessa possibilità di applicazione del quinto comma dell’art. 26 nelle fondazioni a struttura associativa, salvo che non si accetti di leggerla e spiegarla nell’ambito di una sequenza normativa che poggia integralmente su opzioni statutarie, e che potrebbe essere espressa come segue: qualora lo statuto della fondazione attribuisca alla competenza dell’assemblea o dell’organo di indirizzo la nomina dei componenti dell’organo amministrativo, in virtù di quanto concesso nell’ultimo comma dell’art. 25, con una chiara, seppur volontaria, scelta a favore della conformazione dell’organizzazione dell’ente secondo il principio di partecipazione democratica, allora quello stesso statuto può prevedere che la nomina di parte dei componenti avvenga ai sensi di quanto disposto nel quinto comma dell’art. 26, che rappresenta una deroga all’operatività di detto principio.
Se così è, ne deriva che, anche nella circostanza, il giudizio di compatibilità deve essere condotto alla luce dell’effettiva organizzazione statutaria della fondazione, e non in relazione alle sue caratteristiche tipologiche.
[1] Secondo parte della dottrina nel Codice del Terzo settore «la fondazione riceve dall’associazione profili di disciplina che ne sconvolgono l’antico modello, assegnandogli tratti sempre più “aperti”. Alle fondazioni sono infatti estese disposizioni che il Codice del Terzo settore detta per le associazioni, soprattutto in tema di assetto partecipativo e organizzativo, oltre che di composizione degli organi e di sistema di controlli … Vengono in questo modo chiaramente assegnati alle fondazioni i tratti di un ente di tipo partecipativo, in altre termini, la fondazione assume le sembianze di una fondazione di partecipazione …». Si potrebbe dedurre quanto evidenziato nel testo, soprattutto alla luce della conclusione per la quale «per la costituzione della categoria degli enti del Terzo settore assumono rilevanza centrale non solo l’elemento teolologico e l’attività espletata, ma anche quelle modalità di organizzazione, amministrazione e controllo che la legge delega (art. 4, comma 1, lett. d) voleva ispirate ai principi di democrazia, eguaglianza pari opportunità, partecipazione degli associati e dei lavoratori…» Quindi – e pare l’approdo della riflessione – sul piano sistematico, tutto ciò consegna all’interprete un’ulteriore riduzione della tradizionale dicotomia tra associazioni e fondazioni e conferma la sostanziale neutralità delle forme che gli studiosi avevano già evidenziato. Così D. POLETTI, Costituzione e forme organizzative, in GORGONI (a cura di), Il Codice del Terzo settore, Commento al decreto legislativo 3 luglio 2017, n.117, Pisa, 2018, 208.
[2] In tal senso, C. AMATO, Ordinamento e amministrazione, in GORGONI (a cura di), Il Codice del Terzo settore, cit., 230.
[3] Secondo C. AMATO, Ordinamento e amministrazione, cit., 231, «le norme dedicate all’ordinamento degli enti del Terzo settore confermano la non assimilabilità delle due forme, associativa e fondazionale: la prima saldamente ancorata alla pluralità di soggetti uniti dalle finalità comuni e sovra individuali previste dalla legge; la seconda pur sempre legata all’interesse individuale del/dei fondatori, per quanto esso debba nel Codice del Terzo settore realizzarsi attraverso una delle finalità (civiche, solidaristiche, e di utilità sociale) tipizzate dal legislatore».
[4] Come noto, il fenomeno della fondazione definita “di partecipazione” traeva legittimazione dall’importante attività interpretativa svolta dalla dottrina più autorevole, oltre che dalla legislazione speciale. In proposito D. VITTORIA, Le fondazioni culturali e il consiglio di amministrazione. Evoluzione della prassi statutaria e prospettive di tecnica fondazionale, in Riv. dir. comm., 1975, I, 298; A. ZOPPINI, Le fondazioni. Dalla tipicità alle tipologie, Napoli, 1995; G. PONZANELLI, La fondazione tra autonomia dei privati ed intervento del legislatore, in Nuova giur. civ. comm., 2006, 419 ss; E. BELLEZZA – F. FLORIAN, Le fondazioni di partecipazione, Piacenza, 2006. È sufficiente ricordare che esperienze organizzative analoghe a quella della fondazione di partecipazione sono state vissute dalle fondazioni culturali, e ritornano in una pluralità di fondazioni sorte per effetto di leggi di settore, e che la dottrina ha riconosciuto la generica compatibilità di una fondazione «amministrata da un organo composto su base associativa o assemblearmente nominato, in quanto si tratta di un carattere non solo causalmente, ma anche strutturalmente neutro e quindi indifferente. Infatti, nella fondazione l’assemblea designa esclusivamente il procedimento statutariamente rilevante di designazione degli amministratori ovvero è organo amministrativo essa stessa che potrà delegare ad un consiglio più ristretto i propri poteri, che rimangono tuttavia poteri amministrativi. In entrambi i casi si tratta di attività contrassegnata dal rilievo meramente attuativo …» Così A. ZOPPINI, op. cit, 102; nello stesso senso G. PONZANELLI, op. cit., 421. Si è notato, infine, che, la fondazione di partecipazione è aperta al reclutamento di “nuovi fondatori” desiderosi di apportare mezzi per il conseguimento dello scopo.
Il fenomeno è già promosso legislativamente in alcune fondazioni a partecipazione pubblica, quali le fondazioni liriche (D.lgs. n. 367 del 1996), le Ipab trasformate in fondazioni (art. 17, primo comma, lett. c) d.lgs. n. 207 del 2001), le fondazioni universitarie (art. 2, comma 3, d.P.R. n. 254 del 2001).
[5] A. ZOPPINI, Le fondazioni. Dalla tipicità alle tipologie, cit., 83.
[6] Le norme del codice civile dedicate specificamente alla fondazione (artt. 16, 25, 26, 27, 28, e 2500-octies) non ci consegnano alcuna soluzione strutturale, ma intervengono tutte sul momento funzionale, ovvero sulla destinazione del patrimonio allo scopo. Filtra dal tessuto normativo solo la necessità di amministratori, ovvero gestori del patrimonio; ma nessuna indicazione sulle possibili regole di azione a cui devono attenersi. Ciò che rileva, dunque, non è la forma della struttura organizzativa, ma la coerenza dell’azione degli organi alle caratteristiche funzionali dell’ente: destinazione del patrimonio allo scopo; immodificabilità dello scopo medesimo. Sulla base di tali coordinate fondamentali della fattispecie legale, è stato possibile concludere nel senso della possibilità di ricondurre ad essa la fattispecie empirica nota come “fondazione di partecipazione”. Non vi alcun è dubbio, infatti, che tre delle principali caratteristiche descrittive di quest’ultima (perseguimento di uno scopo generalmente di utilità sociale, e comunque non lucrativo; vincolo di destinazione del patrimonio al perseguimento dello scopo; articolazione dell’organizzazione in funzione attuativa e di controllo del rispetto del vincolo di destinazione del patrimonio) ripropongono i tratti tipologici della fondazione. La prevalenza sia del momento patrimoniale sia della destinazione di esso ad uno scopo è considerata dalla letteratura specialistica il tratto emblematico della fondazione di partecipazione. Gli ulteriori aspetti descrittivi del modello empirico non risultano apprezzabili in chiave di qualificazione in quanto da un lato tendenziali e non necessitati e dall’altro affetti da poliformismo dovuto alla necessità di adeguarsi alle diverse istanze dell’autonomia privata. In tal senso A. ZOPPINI, Le fondazioni. Dalla tipicità alle tipologie, cit., 16 e ss.
[7] Così, A. ZOPPINI, Le fondazioni. Dalla tipicità alle tipologie, cit., 83.
[8] In tal senso pare orientarsi anche C. AMATO, Ordinamento e amministrazione, cit., 220, la quale, commentando l’art. 23 del Codice del Terzo settore e muovendo dal rilievo dell’importanza dell’elemento personale negli enti senza scopo di lucro di tipo associativo come anche nella fondazione di partecipazione, evidenzia che la partecipazione personale del singolo all’attività dell’ente si iscrive all’interno dell’organizzazione, e pertanto le regole dell’art. 23 e degli articoli seguenti dello stesso Codice «possono essere definite regole sull’attività, più che sul contratto associativo. In effetti, la partecipazione personale alla realizzazione in comune di uno scopo ideale è momento fondamentale nelle forme associative; che sia semplice unione intorno ad un’idea, o piuttosto una partecipazione che dipende dall’esecuzione di prestazioni individuali, la regola organizzativa è costruita in funzione della realizzazione di tali interessi individuali e collettivi, tenendo conto che la partecipazione individuale non è commisurata ... al conferimento patrimoniale, ma ad un interesse personale».
[9] D. VITTORIA, Le fondazioni culturali e il consiglio di amministrazione …, cit., 309; A. ZOPPINI, Le fondazioni. Dalla tipicità alle tipologie, cit., 64.
[10] Ma in senso maggiormente possibilistico G. PONZANELLI, La fondazione tra autonomia dei privati ed intervento del legislatore, cit., 421, secondo il quale «sicuramente legittima sarebbe, invece, la modifica parziale delle finalità originarie, soprattutto quando queste rinviano a una più ampia categoria all’interno del quale è possibile e legittima una variazione».