Il regolamento del Ramo dell’ente religioso.
Disciplina e prospettive *
Relazione tenutasi nell'ambito del convegno “Il Terzo Settore nella prospettiva degli enti ecclesiastici”, online dal 3 luglio 2020 al 31 dicembre 2020
Don Lorenzo Simonelli
Introduzione
La Riforma del Terzo Settore, operata con i decreti legislativi n. 112 e 117 del 3 agosto 2017[[1]], consente anche agli enti religiosi civilmente riconosciuti di avvalersi della nuova disciplina introdotta per il mondo del no profit, ma solo “limitatamente” allo svolgimento delle attività di interesse generale che sono indicate all’articolo 5 (e dagli artt. 6 e 7) del Codice del Terzo Settore[[2]], nonché all’articolo 2 del Decreto sull’impresa sociale.
«Agli enti religiosi civilmente riconosciuti le norme del presente decreto si applicano limitatamente allo svolgimento delle attività di cui all'articolo 5, a condizione che per tali attività adottino un regolamento, in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata, che, ove non diversamente previsto ed in ogni caso nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, recepisca le norme del presente Codice e sia depositato nel Registro unico nazionale del Terzo Settore. Per lo svolgimento di tali attività deve essere costituito un ‘patrimonio destinato’ e devono essere tenute separatamente le scritture contabili di cui all'articolo 13» (d.lgs. n. 117 del 2017, art. 4, comma 3).
«Agli enti religiosi civilmente riconosciuti le norme del presente decreto si applicano limitatamente allo svolgimento delle attività di cui all'articolo 2, a condizione che per tali attività adottino un regolamento, in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata, che, ove non diversamente previsto ed in ogni caso nel rispetto della struttura e delle finalità di tali enti, recepisca le norme del presente decreto. Per lo svolgimento di tali attività deve essere costituito un ‘patrimonio destinato’ e devono essere tenute separatamente le scritture contabili di cui all'articolo 9» (d.lgs. n. 112 del 2017, art. 1, comma 3).
Si tratta di una condizione assolutamente particolare in quanto permette agli enti religiosi civilmente riconosciuti di rientrare nella sfera di applicazione della Riforma, pur non potendo acquisire a tutto tondo la qualifica di “enti non profit”. Diversamente da questi, gli enti religiosi civilmente riconosciuti devono infatti necessariamente svolgere almeno un’attività “religiosa” che, in quanto tale, non rientra nel novero di quelle di interesse generale che il legislatore riconduce al Terzo Settore.
Il diritto riconosciuto solo agli enti religiosi di entrare nel mondo del Terzo Settore non in toto ma «limitatamente alle attività socialmente rilevanti» (da qui: Ramo di Terzo Settore o di Impresa Sociale)[[3]] si pone peraltro in continuità con la scelta operata dal legislatore oltre vent’anni fa, quando ha previsto per gli enti ecclesiastici[[4]] la possibilità di dar vita ad un Ramo Onlus (art. 10, comma 9, d.lgs. n. 460del 1997). La ratio di quella scelta era stata opportunamente evidenziata – seppur in modo sintetico – nel paragrafo 1.11 della circolare MEF n. 168 del 26 giugno 1998 che offriva una prima presentazione della nuova disciplina:
«La norma introduce due eccezioni al principio sancito alla lettera c), comma 1, del medesimo articolo 10, secondo il quale è vietato alle Onlus di svolgere attività diverse da quelle relative agli undici settori tassativamente elencati alla lett. a), comma 1, dello stesso articolo. Gli enti ai quali è consentito derogare all’anzidetto principio sono i seguenti:
1) enti ecclesiastici delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese;
2) associazioni di promozione sociale ricomprese tra gli enti di cui all’articolo 3, comma 6, lettera e), della legge 25 agosto 1991, n. 287, le cui finalità assistenziali sono riconosciute dal Ministero dell’Interno.
Gli enti sopra elencati hanno facoltà di svolgere anche attività non riconducibili fra quelle proprie dei settori elencati all’articolo 10, comma 1, lettera a), come definiti nei paragrafi precedenti, e di configurarsi come Onlus solo parzialmente cioè limitatamente alle attività svolte nell’esclusivo perseguimento di finalità di solidarietà sociale nei settori espressamente indicati nell’anzidetta disposizione. Ciò comporta che i soggetti di cui trattasi possono accedere al regime tributario previsto in favore delle Onlus dagli articoli 12 e seguenti del decreto legislativo n. 460 del 1997 limitatamente ai settori di cui al comma 1, lettera a), articolo 10 …». Oggi, come allora, non si tratta di una norma che introduce un privilegio[[5]], ma di una disposizione che intende evitare una discriminazione a danno di quei soggetti giuridici che, per disposizione legislativa, devono necessariamente svolgere anche attività religiose[[6]] come tali, si diceva, diverse da quelle di interesse generale.
Al fine di consentire che gli enti religiosi possano applicare la disciplina prevista dalla Riforma del Terzo Settore, evitando al contempo di estenderla alle attività che esulano dal cosiddetto ’Ramo’, il legislatore ha prescritto tre adempimenti:
1) adottare un regolamento[[7]],
2) costituire il ‘patrimonio destinato’ e
3) applicare la ‘contabilità separata’[[8]].
Prima di affrontare il tema del regolamento occorre segnalare due ulteriori facoltà che discendono dal diritto[[9]] riconosciuto agli enti religiosi di avvalersi della disciplina introdotta dalla Riforma solo per (alcune del) le attività di interesse generale:
(i) anzitutto spetta all’ente religioso decidere quali delle proprie attività di interesse generale inserire nel cosiddetto Ramo[[10]]; (ii) in secondo luogo l’ente religioso può anche decidere di costituire due diversi Rami, uno di Terzo Settore (non commerciale o commerciale) e uno d’Impresa Sociale[[11]].
In sintesi, tenuto conto della disciplina concordataria e delle possibilità offerte dalla Riforma, un ente ecclesiastico della Chiesa cattolica potrebbe così articolare le proprie opere e attività:
Tipo di attività | Norma di riferimento | Note | d.lgs. n. 112 del 2017 e n. 117 del 2017 |
Attività di religione o culto | L. n. 121 del 1985 e art. 16, lett. a), l. n. 222 del 1985 | Non possono mai essere considerate attività di Terzo Settore o d’Impresa Sociale. | Non hanno alcuna rilevanza fiscale per l’ordinamento giuridico italiano, ex art. 7, comma 3, l. n. 121 del 1985[[12]]. |
Attività diverse | Art. 16, lett. b), l. n. 222/1985 | Non sono inserite nel Ramo di Terzo Settore o d’Impresa Sociale:
oppure
socialmente rilevanti. | Non si applica né il d.lgs. n. 112, né il d.lgs. n. 117. Si applicano le norme del TUIR sugli enti non commerciali e il dpr n. 633 del 1972, qualora la loro natura sia commerciale. |
Attività diverse (per es. opere di beneficienza, educative, sociali, sanitarie, scolastiche) | Art. 16, lett. b), l. n. 222 del 1985 | Per scelta dell’ente sono inserite nel Ramo Terzo Settore in quanto incluse nell’elenco dell’art. 5 del d.lgs. n. 117 del 2017. | Si applicano le norme del d.lgs. n. 117 del 2017 ed in via residuale quelle del TUIR. |
Attività diverse (per es. opere sanitarie, sociali, sanitarie, scolastiche) | Art. 16, lett. b), l. n. 222 del 1985 | Per scelta dell’ente sono inserite nel Ramo Impresa Sociale in quanto incluse nell’elenco dell’art. 2 del d.lgs. n. 112 del 2017. | Si applicano le norme del d.lgs. n. 112 del 2017 e del d.lgs. n. 117 del 2017 (ove applicabile anche all’Impresa Sociale) ed in via residuale quelle del TUIR. |
tabella 1
Il fine del regolamento ne orienta il contenuto
La necessità (utilità) di adottare un apposito regolamento per identificare il Ramo Onlus dell’ente ecclesiastico trovava la sua origine non direttamente nel decreto legislativo n. 460/1997 ma nella prima circolare esplicativa sulle Onlus: «Tali enti [sia gli enti ecclesiastici delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese, sia le associazioni di promozione sociale di cui alla legge n. 287 del 1991] devono, tuttavia, comunque predisporre un regolamento, nella forma della scrittura privata registrata, che recepisca le clausole dell’articolo 10, comma 1, del decreto legislativo n. 460 del 1997»[[13]]. Come detto, questo strumento è stato ritenuto adatto (e sufficiente) a identificare a priori le attività che l’ente ecclesiastico intendeva gestire avvalendosi della normativa Onlus, nonché per vincolare il medesimo ente alle norme del decreto legislativo n. 460 del 1997 «limitatamente all'esercizio delle attività elencate alla lettera a) del comma 1» (art. 10, comma 9). Sulla base di questa esperienza il legislatore della Riforma ha ritenuto opportuno ricorrere alla medesima soluzione anche per gli enti religiosi civilmente riconosciuti che intenderanno gestire alcune delle loro attività avvalendosi della disciplina promozionale del Codice del Terzo Settore e del Decreto sull’impresa sociale. Questa volta, però, il legislatore ha previsto la necessità di adottare un regolamento e ha precisato che tale adempimento deve essere accompagnato dalla costituzione del ‘patrimonio destinato’ (novità rispetto al Decreto Onlus). L’articolo 4, comma 3 del decreto legislativo n. 117 del 2017 e l’articolo 1, comma 3 del decreto legislativo n. 112 del 2017, laddove subordinano la possibilità per l’ente religioso di avvalersi delle norme promozionali della Riforma, offrono però anche uno spunto utile a individuare la ratio di questo istituto: come già per il Ramo Onlus, il regolamento è infatti lo strumento che permette innanzitutto di perimetrare[[14]] le attività e le opere (oltre che i beni ad esse destinati) che l’ente religioso intende assoggettare alla disciplina del Terzo Settore o dell’Impresa Sociale.
Che la ratio del Ramo e, dunque, del regolamento, sia la necessità di poter definire a priori e con la maggior precisione possibile il novero delle attività di un ente religioso che saranno disciplinate dai decreti della Riforma non esclude,perchè vi possano essere ulteriori ragioni che giustificano la sua necessità nonchè quella del patrimonio destinato e della contabilità separata[[15]].
Inoltre, la necessità di redigere il regolamento offre all’ente religioso anche l’opportunità per far conoscere a tutti gli stakeholder: (i) gli elementi che lo costituiscono e lo caratterizzano; (ii) il proprio modus operandi; (iii) la struttura organica e le diverse funzioni che lo governano e, infine, (iv) il rapporto che esiste tra l’amministrazione dell’ente e quella del suo Ramo.
Per questo motivo potrebbe essere opportuno che un ente ecclesiastico della Chiesa Cattolica valutasse se e come inserire nel regolamento anche altri elementi/clausole ulteriori rispetto a quelli obbligatoriamente previsti dalla Riforma, in primis le norme canoniche che continuano a disciplinare l’ente e le sue attività anche se inserite nel Ramo di Terzo Settore o d’Impresa Sociale. Si tratta, però, di una valutazione che esige cautela e lungimiranza in quanto è necessario far precedere alla redazione del regolamento una puntuale riflessione volta a far chiarezza in merito alle modalità operative del Ramo, nonché ad alcuni profili relativi alla amministrazione e alla gestione delle opere inserite.
A titolo di esempio si segnalano alcuni elementi della struttura e della gestione dell’ente ecclesiastico – nel suo complesso e del Ramo – che, se adeguatamente menzionati all’interno del regolamento, potrebbero garantire una maggior efficienza e trasparenza nella conduzione delle opere:
1) la struttura organica degli enti ecclesiastici della Chiesa Cattolica è del tutto peculiare e non molto conosciuta; per questo motivo potrebbe essere utile esplicitare quali siano e come operano gli organi/uffici cui competono i poteri amministrativi canonici, la legale rappresentanza e la funzione di controllo interno e/o esterno[[16]];
2)l'ordinamento canonico condiziona la validità degli atti che eccedono l'ordinaria amministrazione (can. 1281) e degli atti peggiorativi del patrimonio stabile (cann. 1291-1295) alla previa autorizzazione canonica[[17]]; data la rilevanza anche in sede civile dell'invalidità conseguente alla mancata osservanza della predetta normativa canonica, potrebbe essere opportuno, richiamare tali canoni all'interno del regolamento al fine di prevenire equivoci e malintesi[[18]];
3) in molti enti ecclesiastici l’amministrazione è affidata a funzioni (uffici) unipersonali
– per es. il vescovo, il parroco, il superiore religioso – ma oggi la complessità delle opere economiche richiede specifiche competenze e una dedizione più intensa e continuativa che possono essere meglio garantite da organi collegiali[[19]]; il regolamento potrebbe, pertanto, prevedere la possibilità di assegnare la funzione amministrativa e di controllo interno sulle opere del Ramo a nuovi organismi collegiali[[20]].
L’opportunità di dotare gli enti ecclesiastici (soprattutto quelli privi di statuto[[21]]) di un documento funzionale anche a raccogliere, a beneficio dei terzi ed in modo immediato e semplice, le norme canoniche che li disciplinano è stata peraltro esplicitamente riconosciuta dalla Conferenza episcopale italiana che già vent’anni fa aveva elaborato una traccia del cosiddetto ‘attestato sostitutivo dello statuto’ per le parrocchie, i seminari e gli istituti di vita consacrata (circolare n. 26 del 12 giugno 1998 del Comitato per gli enti e i beni ecclesiastici).
La scelta di avvalersi di tale opportunità e arricchire le norme del regolamento con queste e altre clausole non immediatamente richieste dalla Riforma esige tuttavia, come anticipato, prudenza per evitare conflitti tra il regolamento dell’ente ecclesiastico della Chiesa Cattolica e le altre norme canoniche che lo riguardano, in primis quelle codiciali e, poi, quelle statutarie[[22]]. In altri termini, occorre prestare attenzione affinché la redazione del regolamento non introduca, per esempio, previsioni incompatibili con il diritto canonico universale o con quello particolare, soprattutto con riguardo alle ipotesi formulate al punto 3). L’introduzione di disposizioni concernenti gli organi di amministrazione e/o di controllo, deve dunque da un lato rispettare le prescrizioni del diritto canonico, dall’altro osservare le disposizioni dell’ordinamento statale rilevanti in materia (per esempio attraverso il conferimento di una procura o di una specifica delega[[23]]).
Profili formali del regolamento
L’articolo 3 del Codice del Terzo Settore e l’articolo 1 del Decreto sull’impresa sociale prescrivono le medesime condizioni per adottare il regolamento:
1) occorre la forma dell’atto pubblico[[24]] o della scrittura privata autenticata[[25]],
2) «ove non diversamente previsto ed in ogni caso nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti» il regolamento deve recepire le norme del Codice del Terzo Settore o del Decreto sull’impresa sociale e
3) deve essere depositato nel Registro unico nazionale del Terzo Settore oppure, per il Ramo d’impresa sociale, nel Registro delle imprese.
Pur non essendo identici gli effetti dell’atto pubblico e della scrittura privata autenticata, occorre segnalare che il notaio è comunque tenuto a svolgere le medesime verifiche in ordine all’adeguatezza del contenuto del regolamento rispetto a quanto prescritto dalla normativa[[26]]; di contro, poiché la scrittura privata autenticata consente che il regolamento sia redatto dall’ente religioso – e non necessariamente dal notaio – è almeno probabile che sarà quest’ultima la via preferita[[27]].
Al pari dell’atto costitutivo e dello statuto degli enti civili che assumono la qualifica di ente di Terzo Settore o d’Impresa Sociale, anche l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata che contengono il regolamento del Ramo godono delle agevolazioni tributarie previste dal comma 3, dell’articolo 82 del Codice del Terzo Settore:
«Agli atti costitutivi e alle modifiche statutarie … posti in essere da enti del Terzo Settore di cui al comma 1, le imposte di registro, ipotecaria e catastale si applicano in misura fissa. Le modifiche statutarie di cui al periodo precedente sono esenti dall’imposta di registro se hanno lo scopo di adeguare gli atti a modifiche o integrazioni normative. Gli atti costitutivi e quelli connessi allo svolgimento delle attività delle organizzazioni di volontariato sono esenti dall’imposta di registro». In merito all’organo dell’ente religioso civilmente riconosciuto che può adottare il regolamento di un Ramo di Terzo Settore o d’Impresa Sociale il legislatore nulla (giustamente) dispone in quanto si tratta di materia di esclusiva competenza – nel caso degli enti ecclesiastici della Chiesa Cattolica – dell’ordinamento canonico. Considerato che il regolamento determina la possibilità di gestire le opere e i relativi beni (materiali ed immateriali) applicando la normativa della Riforma – senza dover generare un nuovo soggetto giuridico (civile o canonico[[28]]) – la decisione di dar vita ad un Ramo di Terzo Settore o d’impresa sociale compete a colui che esercita la funzione amministrativa, e per gli enti della Chiesa cattolica tale funzione spetta «… a chi regge immediatamente la persona cui gli stessi beni appartengono, a meno che non dispongano altro il diritto particolare, gli statuti o la legittima consuetudine …» (can. 1279 § 1).
Alla luce di questa norma generale, è possibile così schematizzare la funzione di amministratore e di legale rappresentante in riferimento alle principali tipologie di soggetti giuridici canonici:
Soggetto canonico (ente ecclesiastico) | Organo/ufficio canonico cui compete la funzione di amministratore | Organo/ufficio canonico cui compete la funzione di legale rappresentante | Fonte |
Diocesi | Vescovo diocesano | Vescovo diocesano (e l’economo, se dotato di procura) | Cann. 381 e 1277 |
Parrocchia | Parroco | Parroco | Cann. 519 e 532 |
Fondazione di Culto | Consiglio Direttivo | Presidente | Statuto |
Associazione pubblica di fedeli | Consiglio Direttivo | Presidente | Statuto |
Istituto di vita consacrata (e sue articolazioni: provincie e case religiose) | Superiore/superiora | Superiore/superiora (e il legale rappresentante, se previsto dalle Costituzioni, e l’economo, se dotato di procura) | Costituzioni (o altro documento del diritto proprio) e cann. 622 e 638 |
tabella 2
Chiarito a quale ufficio canonico compete adottare il regolamento, occorre verificare se, ai sensi del canone 1281 (e del canone 638 per quanto riguarda gli istituti di vita consacrata), l’adozione del regolamento sia un atto di amministrazione straordinaria per il fatto di oltrepassare «i limiti e le modalità dell’amministrazione ordinaria»[[29]]. Non vi è dubbio che la decisione di dar vita ad un Ramo di Terzo Settore o d’Impresa Sociale incida in modo significativo sulle modalità di gestione e di amministrazione delle opere ecclesiali in quanto (i) determina una significativa modifica della struttura organizzativa del soggetto canonico, (ii) permette di godere di nuovi ed indubbi vantaggi[[30]] ma, anche, (iii) di dover sottostare a nuovi e stringenti vincoli[[31]]. Anche solo per questi motivi l’adozione del regolamento non può che essere considerato un atto che oltrepassa i limiti e le modalità tipiche dell’amministrazione ordinaria. Questa valutazione si colloca peraltro in continuità con l’analoga scelta operata dall’Istruzione in Materia Amministrativa 2005 della CEI che aveva ritenuto atto di amministrazione straordinaria la decisione di istituire il Ramo Onlus (si veda il n. 12 dell’allegato C[[32]]).
A tal proposito è utile osservare che laddove l’adozione del ‘regolamento del Ramo Onlus’ sia stata inclusa tra gli atti di amministrazione straordinaria, oggi è lecito leggere/interpretare ‘regolamento del Ramo di Terzo Settore o d’Impresa Sociale’ in quanto la Riforma del 2017 intende sostituire integralmente la disciplina delle Onlus con una nuova e più strutturata normativa sul non profit (d.lgs. n. 112 e n. 117). Similmente, anche qualora le Costituzioni degli istituti di vita consacrata[[33]] avessero previsto tra gli atti di amministrazione straordinaria l’adozione del regolamento del Ramo Onlus, ora di dovrebbe leggere ‘regolamento di Terzo Settore o d’Impresa Sociale’.
La questione è più delicata qualora nulla sia stato previsto nell’elenco definito dal vescovo diocesano (can. 1281), oppure nel diritto proprio degli istituti di vita consacrata, oppure nello statuto di una fondazione di culto o di un’associazione pubblica di fedeli. In questi casi è auspicabile che ciascuna autorità competente (vescovo diocesano o superiore religioso) provveda a chiarire se l’adozione del regolamento debba essere considerato un atto di amministrazione straordinaria[[34]] al fine di evitare incertezze in merito alla validità del relativo atto canonico[[35]].
Trattandosi, di regola, di un atto di amministrazione straordinaria, colui che ha la legale rappresentanza dell’ente potrà sottoscrivere (dinanzi al notaio) l’atto canonico che adotta il regolamento solo esibendo la decisione assunta dall’organo amministrativo e l’autorizzazione canonica prevista dal canone 1281 (e, per gli istituti religiosi, dal canone 638)[[36]]. Su tema rimane da esaminare un’ultima questione, nell’ipotesi che tra i beni inseriti nel Ramo (e, dunque, assoggettati ai vincoli della Riforma) vi fossero anche beni appartenenti al cosiddetto ‘patrimonio stabile’[[37]]; in tal caso, tenuto conto dei vincoli che si creano su tali beni in forza della loro destinazione alle sole attività di Terzo Settore o d’impresa sociale, si deve riconoscere che l’adozione del regolamento e la costituzione del ‘patrimonio destinato’ non possono che essere considerati anche ‘atti peggiorativi del ‘patrimonio stabile’[[38]] e, pertanto, è necessario acquisire anche la licenza della Santa Sede qualora il valore di questi beni sia superiore ad un milione di euro oppure si tratti di beni di rilevante valore storico-artistico (cann. 1291-1295).
Profili sostanziali del regolamento
I contenuti essenziali del regolamento sono indicati dal legislatore che prescrive di recepire le norme del Codice del Terzo Settore o del Decreto sull’Impresa Sociale, salvo che (i) non sia diversamente previsto dalla stessa normativa della Riforma e (ii) comunque, sempre nel «rispetto della struttura e della finalità di tali enti»[[39]].
Dunque, stando alla lettera della norma, si deve precedere con ordine:
1) anzitutto, occorre prendere atto che per scelta esplicita del legislatore alcune norme della Riforma non si applicano all’ente religioso che costituisce il Ramo o si applicano in modo particolare[[40]];
2) in secondo luogo, è necessario riconoscere le clausole del Codice del Terzo Settore o del Decreto sull’impresa sociale che devono essere recepite nel regolamento, in quanto non derogabili;
3) infine, si deve verificare che il recepimento delle clausole di cui al punto precedente non incida sulla struttura e sulle finalità degli enti religiosi civilmente riconosciuti.
Le norme della Riforma che non si applicano agli enti religiosi
Il primo step è il più semplice da affrontare in quanto è sufficiente scorrere il testo dei due decreti.
Riguardo alla disciplina dell’impresa sociale:
a) per la verifica dell’attività principale svolta dall’ente religioso e per il rispetto del rapporto numerico tra lavoratori e persone svantaggiate, occorre tener conto delle sole attività inserite nel Ramo e unicamente del personale impiegato nelle attività di cui all’articolo 2 (art. 2, comma 6)[[41]];
b) l’ente religioso è tenuto a depositare nel Registro delle imprese solo il regolamento e le sue modifiche (art. 5, comma 4) e non anche il suo (eventuale) statuto;
c) non vi è l’obbligo[[42]] di inserire nella denominazione dell’ente l’indicazione ‘Impresa Sociale’ (art. 6, comma 2);
d) le scritture contabili separate riguardano esclusivamente quella parte di opere dell’ente religioso che sono inserite nel Ramo d’Impresa Sociale (art. 9, comma 3);
e) gli enti religiosi che hanno istituito il Ramo d’Impresa Sociale (art. 11, comma 5)[[43]] non sono tenuti a garantire il coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e degli altri stakeholder;
f) le norme sulla trasformazione, fusione, scissione, cessione dell’azienda e devoluzione del patrimonio si applicano limitatamente ai beni dell’ente religioso (il cosiddetto ‘patrimonio destinato’) inseriti nel Ramo d’Impresa Sociale (art. 12, comma 1);
g) in caso di scioglimento volontario dell’ente o perdita volontaria della qualifica di Impresa Sociale i vincoli per il ‘patrimonio destinato’ non si applicano ai beni dell’ente religioso (il cosiddetto ‘patrimonio destinato’) inseriti nel Ramo d’Impresa Sociale (art. 12, comma 5)[[44]];
h) per determinare il numero massimo di volontari che possono essere impiegati nelle attività inserite nel Ramo d’Impresa Sociale non devono essere conteggiati i membri degli enti religiosi (art. 13, comma 2)[[45]];
i) all’ente religioso si applicano le norme comuni sulle procedure concorsuali e non solo quelle relative alla liquidazione coatta, come, invece, accade per gli enti che hanno assunto a tutto tondo la qualifica di Impresa Sociale (art. 14, comma 6)[[46]].
Per quanto riguarda invece la disciplina del Codice del Terzo Settore:
a) non vi è l’obbligo di inserire nella denominazione dell’ente l’indicazione ‘Terzo Settore’ o l’acronimo ETS (art. 12, comma 2);
b) non si applica all’ente religioso la previsione dell’art. 29; pertanto i soci o gli aderenti di un ente religioso che ha costituito il Ramo di Terzo Settore non hanno il diritto di consultare i libri sociali (art. 15, comma 4) e neppure possono denunciare al Tribunale o all’organo di controllo i fatti e le situazioni indicate all’articolo 29 (art. 29, comma 3)[[47]].
Le norme della Riforma che si applicano agli enti religiosi, se compatibili
Anche se l’articolo 4, comma 3 del Codice del Terzo Settore lo evoca come terzo elemento, il vincolo del «rispetto della struttura e della finalità» degli enti religiosi merita di essere affrontato in principio.
Pur trattandosi di una clausola che nasce in sede di revisione del Concordato Lateranense, al fine di garantire la tutela della natura canonica degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti[[ 48]], il legislatore l’ha estesa unilateralmente a tutti gli enti religiosi civilmente riconosciuti che decidono di accedere alla Riforma[[49]]. Per il legislatore si tratta di una previsione “di garanzia” mediante la quale intende assicurare la tutela dell’autonomia dell’ordinamento della confessione religiosa; autonomia che si esprime anche nella possibilità di configurare/strutturare in modo peculiare i propri soggetti giuridici e di assegnare a ciascuno di essi determinate finalità. Qualora, dunque, l’applicazione di una norma della Riforma avesse come effetto la modifica della struttura e/o della finalità dell’ente religioso, non sarà necessario recepirla all’interno del regolamento.
Anche se la lettera della Riforma esplicita la necessità di rispettare la struttura e le finalità di ciascun ente religioso civilmente riconosciuto solo in riferimento alla recezione delle sue norme (inderogabili) nel regolamento, si potrebbe ritenere, più in generale, che la stessa applicazione dei diversi articoli della Riforma dovrebbe essere posta in discussione qualora implicasse una modifica della struttura e delle finalità dell’ente in esame[[50]].
Ciò premesso, la questione di quali norme della Riforma debbano essere recepite nel regolamento è complessa; ancor più se si considera che alcune di esse riguardano tutti gli enti[[51]], mentre altre sono state elaborate solo per alcuni: di volta in volta, le fondazioni, le associazioni, le organizzazioni di volontariato (OdV), oppure le associazioni di promozione sociale (APS).
Riguardo quelle che si rivolgono a tutti gli enti dovrebbe essere esclusa (o, almeno, moderata) la loro applicazione qualora, si diceva, dovesse rivelarsi non compatibile con la struttura e la finalità dell’ente religioso[[52]]. Si veda, ad esempio, l’articolo 4, comma 1 del Codice del Terzo Settore che prescrive di evidenziare nello statuto il vincolo di svolgere una o più delle attività di interesse generale «in via esclusiva o principale». Nel caso di costituzione del Ramo dell’ente religioso tale limite non può che riguardare solo il novero delle attività svolte all’interno del Ramo. Anche l’obbligo di inserire nello statuto «le norme sulla devoluzione del patrimonio residuo in caso di scioglimento o di estinzione» (artt. 9 e 21 del Codice[[53]]) dovrà essere osservato in caso di scioglimento del Ramo e solo per quanto riguarda il patrimonio ad esso destinato. Occorre procedere invece con maggior attenzione quando si tratta delle norme della Riforma dettate per particolari tipologie di enti; in questo caso è, infatti, necessario verificare di volta in volta l’an e il quomodo della loro precettività per gli enti religiosi che costituiscono un Ramo. In via generale non dovrebbero essere assunte nei regolamenti dei Rami degli enti religiosi le norme specificamente rivolte alle OdV, alle APS e agli enti filantropici (artt. 32-39) in quanto il contenuto di tali disposizioni dipende in modo essenziale dalle caratteristiche tipiche del soggetto cui sono rivolte[[54]]. Si deve anche escludere che al Ramo istituito da un ente religioso di natura associativa[[55]] si debbano applicare le norme del Codice del Terzo Settore dettate per le OdV o le APS in quanto, come detto, tali norme sono elaborate prestando attenzione ai tratti peculiari delle associazioni di volontariato e di promozione sociale e non agli elementi comuni a tutte le associazioni[[56]]. Al contrario, le norme dettate per le fondazioni (artt. 20, 27, 28, 30, 31) dovrebbero essere recepite anche dai regolamenti dei Rami promossi dagli enti religiosi (fatti salvi, come anticipato, i casi in cui la loro inclusione avrebbe come effetto la lesione del principio che impone il rispetto della «struttura e della finalità degli enti religiosi») in quanto si tratta di norme che non originano dalla natura fondazionale dell’ente ma intendono assicurare la buona amministrazione dei beni e delle opere delle universitas bonorum e a sollecitare il retto comportamento dei loro amministratori.
Gli elementi necessari del regolamento del Ramo di Terzo Settore
Alla luce di quanto sopra esposto, si ritiene che anche al Ramo di Terzo Settore dell’ente religioso si possa applicare – mutatis mutandis – quanto previsto:
a) dal comma 1 dell’articolo 21 del Codice del Terzo Settore – che detta il contenuto essenziale dello statuto – in riferimento agli elementi che permettono ai terzi di individuare il Ramo e l’ente religioso che ne è titolare (a titolo esemplificativo e non esaustivo: la denominazione del Ramo e dell’ente religioso, incluso il numero di iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, l’assenza dello scopo di lucro e le finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale perseguite gestendo le attività di interesse generale e quelle degli artt. 6 e 7 del Codice del Terzo Settore, la sede legale e, se prevista, la durata del Ramo)[[57]];
b) dal comma 2 dell’articolo 22 che affida al notaio l’iscrizione del Ramo nel Registro unico del Terzo Settore;
c) dal comma 6 dell’articolo 22 che disciplina l’efficacia temporale delle modifiche statutarie (nel caso, del regolamento)[[58]];
d) dai commi 6 e 7 dell’articolo 26 che prescrivono di iscrivere nel Registro unico i nominativi degli amministratori e gli eventuali limiti ai poteri di rappresentanza[[59]];
e) dall’articolo 27 che estende l’applicazione dell’articolo 2475-ter (prevenzione del conflitto di interessi)[[60]] anche agli enti diversi dalle società che assumono la qualifica di enti di Terzo Settore;
f) dall’articolo 28 che istituisce una specifica responsabilità patrimoniale degli amministratori, dei direttori generali, dei componenti l’organo di controllo,del revisore legale dei conti, nei confronti (i) dell’ente religioso che ha istituito il Ramo; (ii)
dei creditori sociali e dei terzi[[61]];
g) dal comma 1 e dai commi da 5 a 8 dell’articolo 30 che impongono l’istituzione della funzione di controllo interna all’ente di Terzo Settore (nel caso, al Ramo) e ne disciplinano le competenze e l’attività[[62]];
h) dall’articolo 31 che istituisce l’obbligo della revisione legale dei conti qualora l’attività del Ramo superi le dimensioni definite dal legislatore[[63]].
Inoltre, come previsto dagli articoli iniziali del Codice del Terzo Settore, il regolamento deve anche permettere di individuare, anche in forza di un rinvio ad altro specifico documento, i beni che costituiscono il ‘patrimonio destinato’[[64]] per le attività inserite nel Ramo di Terzo Settore.
Questa ultimo istituto è del tutto nuovo in quanto la normativa sulle Onlus non prevedeva nulla di simile e, per tale motivo, la dottrina sta ancora riflettendo in riferimento:
a) all’ipotesi che si tratti non solo di un istituto che concorre a definire il perimetro dei beni del Ramo utile per assicurare che l’avanzo di gestione non sia distribuito, ma che implichi anche la cosiddetta segregazione patrimoniale (o, anche, l’autonomia patrimoniale perfetta) in forza della quale sui beni di tale patrimonio (e del Ramo) possono rivalersi solo i creditori delle opere inserite nel Ramo e, di contro, che ad essi è preclusa la possibilità di rivendicare alcunché sul restante patrimonio dell’ente religioso[[65]];
b) alla necessità che il valore del ‘patrimonio destinato’ non sia inferiore ad una somma minima, analogamente a quanto previsto dall’articolo 22 del Codice del Terzo Settore per gli enti che conseguono la personalità giuridica;
c) alla qualità/natura dei beni e dei diritti che possono essere imputati a ‘patrimonio destinato’ (solo gli immobili – in piena proprietà o anche solo posseduti – oppure anche gli strumenti finanziari, i crediti e i beni mobili);
d) alle modalità che devono essere osservate per procedere alla costituzione del ‘patrimonio stabile’; in particolare in merito alla necessità di produrre una perizia qualora il valore del bene non sia evidentemente certo;
e) alla sua variabilità, tipica del patrimonio dell’impresa (la cui quantità/valore muta in seguito alle perdite o agli avanzi di gestione conseguiti, e che può essere trasformato per la cessione/acquisizione dei cespiti che lo costituiscono) oppure se, in via ordinaria, debba ritenersi non modificabile.
Probabilmente alcuni di questi interrogativi non potranno essere risolti solo dalla dottrina o dalla prassi amministrativa in quanto sussistono altre norme di pari rango (legislativo) e per questo motivo potrebbe essere necessario un intervento del legislatore[[66]].
In prima battuta, e fatta salva la riflessione ancora in corso, la costituzione del ‘patrimonio destinato’ non dovrebbe comportare di per sé una reale segregazione patrimoniale dei beni in esso inclusi a favore delle ragioni dei creditori delle attività del Ramo in quanto tale effetto è escluso dall’articolo 2740[[67]] del codice civile. Per questo motivo e tenuto conto che la prima[[68]] ratio del ‘patrimonio destinato’ (come pure quella del regolamento) intende permettere la perimetrazione delle attività e dei beni del Ramo in vista (i) del loro utilizzo e (ii) della loro destinazione in caso di estinzione o perdita della qualifica, l’obbligo di costituire tale patrimonio potrebbe essere assolto anche solo allegando al regolamento un documento che ricalca la forma e i contenuti dello stato patrimoniale (inventario), integrato con le indicazioni utili a individuare i beni di cui si tratta (per es. i riferimenti catastali), la loro quantità e il modo con cui è stato determinato il loro valore (per es. una perizia, laddove sia necessaria).
Soprattutto quando l’opera è già attiva, e con la costituzione di un Ramo si intende solo far acquisire ad essa la qualifica di Terzo Settore, lo stato patrimoniale potrebbe anche includere componenti negativi/passivi (per es. operazioni di finanziamento bancario e varie posizioni a debito) e ciò determina un minor valore contabile del ‘patrimonio destinato’ iniziale[[69]]. Infine, come prescritto dagli articoli 5 e 6 è necessario che nel regolamento siano precisate le attività (anche quelle ‘diverse’) che si intendono gestire all’interno del Ramo[[70]].
Gli elementi necessari del regolamento del Ramo di Impresa Sociale
Per quanto riguarda il regolamento del Ramo d’Impresa Sociale, premesse le medesime questioni generali già illustrate riguardo al Ramo di Terzo Settore, occorre considerare che l’articolo 5 del decreto legislativo n. 112 del 2017 prevede che gli atti costitutivi (nel caso, il regolamento) includano le clausole rese obbligatorie anche dal decreto legislativo n. 117 del 2017 per ciascuna tipologia di ente:
«Oltre a quanto specificamente previsto per ciascun tipo di organizzazione, secondo la normativa applicabile a ciascuna di esse, gli atti costitutivi devono esplicitare il carattere sociale dell’impresa in conformità alle norme del presente decreto e in particolare indicare: a) l’oggetto sociale, con particolare riferimento alle disposizioni di cui all’articolo 2, commi 1, 2 e 3 o le condizioni di cui all’articolo 2, commi 4 e 5; b) l’assenza di scopo di lucro, di cui all’articolo 3».
Pertanto, anche il regolamento d’Impresa Sociale di un ente religioso deve recepire – mutatis mutandis – queste prescrizioni (in particolare, l’art. 21, comma 1 e gli artt. 27 e 28 del Codice).
Riguardo, invece, al decreto legislativo n. 112 del 2017 si applicano:
a) l’articolo 5 che chiede il deposito del regolamento (e le sue modificazioni) nel Registro delle imprese;
b) l’articolo 9 che tratta delle scritture contabili e dell’obbligo di depositare il bilancio nel Registro delle imprese e di pubblicarlo sul proprio sito internet;
c) l’articolo 10 che dispone l’istituzione di un organo di controllo interno (con le relative competenze), nonché – qualora siano superati i limiti ivi previsti – di provvedere alla revisione legale (esterna o interna);
d) l’articolo 12 che disciplina le operazioni di trasformazione, fusione, scissione, cessione dell’azienda e la devoluzione del patrimonio del Ramo;
e) il comma 2 dell’articolo 13 che definisce i limiti per il coinvolgimento dei collaboratori volontari nelle attività del Ramo.
Infine, anche il regolamento del Ramo d’Impresa Sociale deve indicare il ‘patrimonio destinato’ (con le medesime modalità ed avvertenze già indicate in riferimento al Ramo di Terzo Settore).
Altri elementi del regolamento
Considerato che le diocesi e le parrocchie non sono dotate di statuto e che gli istituti di vita consacrata sono retti dalle loro (ampie) Costituzioni, Regole o Statuti è opportuno che il regolamento di questi enti ecclesiastici includa anche gli elementi tipici dell’ ‘attestato sostitutivo dello statuto’ di cui trattano i paragrafi 2 e 5 della circolare n. 26 del 12 giugno 1998 del Comitato per gli enti e i beni ecclesiastici della Conferenza Episcopale Italiana[[71]]. Questa soluzione consente, infatti, di rendere più immediata la conoscenza delle peculiarità dell’ente e del suo Ramo a tutti coloro che potranno accedere a tale documento[[72]]. In sintesi, il regolamento di un ente ecclesiastico che intende attivare un Ramo di Terzo Settore o d’Impresa Sociale potrebbe essere così articolato:
1) un preambolo, per descrivere la tipologia dell’ente ecclesiastico, la finalità di “religione o culto” e la sua iscrizione del Registro delle Persone Giuridiche;
2) una premessa per richiamare l’iter delle autorizzazioni canoniche acquisite per adottare il regolamento del Ramo;
3) la prima sezione dedicata alla istituzione del Ramo (denominazione, sede, natura non lucrativa e relativi obblighi, scopi, settori ed opere gestite);
4) la seconda sezione che allarga lo sguardo verso la configurazione e il funzionamento dell’ente ecclesiastico (organi/uffici, funzioni canoniche – legale rappresentanza, amministrazione e vigilanza – e poteri conferiti dal diritto universale e particolare, requisiti per la validità degli atti di amministrazione straordinaria e per gli atti peggiorativi del ‘patrimonio stabile’, limiti alla responsabilità patrimoniale dell’ente);
5) la terza sezione che definisce e disciplina gli organismi e i servizi amministrativi delle opere inserite nel Ramo (rapporto tra gli organi istituzionali e gli organismi/consigli istituiti specificamente per la gestione del Ramo, rispettive competenze e regole di funzionamento, responsabilità delle persone che partecipano agli organismi/consigli, atti di amministrazione straordinaria e peggiorativi del ‘patrimonio stabile’ relativi alle opere inserite nel Ramo, organismi deputati alla vigilanza interna e/o alla revisione legale del Ramo);
6) la quarta sezione dedicata al ‘patrimonio destinato’ (descrizione quantitativa e qualitativa dei beni), ai collaboratori volontari e/o gratuiti, alle rilevazioni contabili, al budget e al bilancio consuntivo del Ramo;
7) la quinta sezione che conclude il regolamento indicando le modalità per modificarlo e, se del caso, per rinunciare alla qualifica di Terzo Settore o d’Impresa Sociale.
L’iscrizione del Ramo al RUNTS o al Registro delle imprese
L’adozione del regolamento e la costituzione del ‘patrimonio destinato’ sono il presupposto che consente ad un ente religioso civilmente riconosciuto di gestire le sue attività di interesse generale avvalendosi della normativa di favore del Terzo Settore o dell’Impresa Sociale.
Nonostante il comma 3, articolo 4 del Codice del Terzo Settore e il comma 1, articolo 1 del decreto dichiarino che «le norme del presente decreto si applicano limitatamente allo svolgimento delle attività di cui all'articolo 5 [per l’impresa sociale il riferimento è all’art. 2], a condizione che per tali attività adottino un regolamento, in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata …» la normativa del Codice del Terzo Settore o del decreto sull’Impresa Sociale potrà essere applicata solo a far data dalla iscrizione del Ramo di Terzo Settore o d’Impresa Sociale (meglio: del regolamento) rispettivamente nel RUNTS o nell’apposita sezione del Registro delle imprese.
La necessità dell’iscrizione nel RUNTS o nel Registro delle imprese è, infatti, prevista in modo esplicito dal comma 1, articolo 4 del Codice del Terzo Settore («Sono enti del Terzo Settore [quelli] iscritti nel registro unico nazionale del Terzo settore») e dal comma 3, articolo 11 del Codice del Terzo Settore («Per le imprese sociali, l’iscrizione nell’apposita sezione del registro delle imprese soddisfa il requisito dell’iscrizione nel registro unico nazionale del Terzo settore»). Così anche il Ramo dell’ente religioso potrà dirsi di Terzo Settore o d’Impresa Sociale solo quando il suo legale rappresentante[[73]] avrà provveduto ad iscriverlo nel RUNTS o nel Registro delle Imprese, depositando il regolamento adottato nella forma della scrittura privata autenticata o dell’atto pubblico.
La sezione del RUNTS alla quale può essere iscritto il Ramo dell’ente religioso dovrebbe essere quella denominata “Altri enti del Terzo Settore”, in quanto le altre sezioni sono riservate a tipologie di soggetti del tutto diversi dagli enti religiosi.
Per quanto riguarda, invece, l’iscrizione nel Registro delle imprese del Ramo d’Impresa Sociale, il comma 3 dell’articolo 2 del decreto del Ministero dello sviluppo economico, di concerto con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, del 16 marzo 2018 ha precisato che: «3. Per gli enti religiosi civilmente riconosciuti di cui all’articolo 1, comma 3, del decreto legislativo n. 112 del 2017, l’adempimento di cui al comma 1, lettera a), si esegue mediante deposito del regolamento e delle sue successive modificazioni di cui al citato articolo 1, comma 3, e dell’atto di costituzione del ‘patrimonio destinato’. Per i medesimi enti, gli adempimenti di cui al comma 1, lettere b), c) e d), si eseguono limitatamente alle attività indicate nel regolamento»[[74]].
Nel RUNTS/Registro delle imprese devono essere depositate anche le modifiche delle situazioni e delle notizie che riguardano il Ramo[[75]]. Per quanto riguarda gli enti ecclesiastici della Chiesa cattolica e delle confessioni religiose che hanno concluso patti, accordi o intese con lo Stato occorre anche considerare che tali enti devono comunque essere già iscritti al Registro delle persone giuridiche tenuto dalle Prefetture del luogo ove hanno sede[[76]]. Poiché il Ramo di Terzo Settore o d’Impresa Sociale non è un autonomo e distinto soggetto giuridico rispetto all’ente ecclesiastico – neppure qualora al relativo ‘patrimonio destinato’ fosse riconosciuta esplicitamente l’efficacia di piena segregazione patrimoniale – l’ente deve comunque rimanere iscritto al RPG. Considerato poi che l’articolo 18 della legge n. 222 del 1985 prevede l’opponibilità ai terzi delle notizie che sono iscritte nel RPG potrebbe essere opportuno che il regolamento del Ramo (e la costituzione del ‘patrimonio destinato’) venisse depositato o almeno menzionato anche in questo registro[[77]]. A far data dal deposito del regolamento nel RUNTS o nel Registro delle imprese decorrono i termini previsti dai Decreti della Riforma per la verifica dell'adeguatezza dei documenti e della sussistenza dei requisiti legali per accedere al mondo del Terzo Settore[[78]] o dell'Impresa Sociale[[79]]. Nell'ipotesi che le verifiche non diano esito negativo, gli effetti dell'iscrizione decorrono dalla data di deposito dell'istanza iniziale.
Il diritto transitorio: il temine 31 ottobre 2020 e la risoluzione n. 89/E
La Riforma entra in vigore in modo graduale: alcune norme sono già operative a far data dal 3 agosto 2017[[80]], mentre altre – anzitutto quelle che introducono le agevolazioni fiscali più significative e che comportano il venir meno definitivo e completo delle leggi istitutive delle Onlus, OdV e APS – lo saranno con l’inizio del «periodo di imposta successivo all'autorizzazione della Commissione europea di cui all'articolo 101, comma 10, e, comunque, non prima del periodo di imposta successivo di operatività del predetto Registro» (comma 2, art. 104 del Codice).
Pertanto, affinché anche le norme che prevedono agevolazioni fiscali abbiano vigore occorre il verificarsi di due condizioni:
a) l’operatività del RUNTS e
b) l’autorizzazione della Commissione europea di cui all’articolo 101, comma 10.
Art. 104, d.lgs. n. 117 del 2017 | Art. 18, co. 9, d.lgs. n. 112 del 2017 |
1. Le disposizioni di cui agli articoli 77, 78, 81, 82, 83 e 84, comma 2, 85 comma 7 e dell'articolo 102, comma 1, lettere e), f) e g) si applicano in via transitoria a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2017 e fino al periodo d'imposta di entrata in vigore delle disposizioni di cui al titolo X secondo quanto indicato al comma 2, alle Organizzazioni non lucrative di utilità sociale di cui all'articolo 10, del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460 iscritte negli appositi registri, alle organizzazioni di volontariato iscritte nei registri di cui alla legge 11 agosto 1991, n. 266, e alle associazioni di promozione sociale iscritte nei registri nazionali, regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano previsti dall'articolo 7 della legge 7 dicembre 2000, n. 383. 2. Le disposizioni del titolo X, salvo quanto previsto dal comma 1, si applicano agli enti iscritti nel Registro unico nazionale del Terzo settore a decorrere dal periodo di imposta successivo all'autorizzazione della Commissione europea di cui all'articolo 101, comma 10, e, comunque, non prima del periodo di imposta successivo di operatività del predetto Registro. | 9. L'efficacia delle disposizioni del presente articolo e dell'articolo 16 è subordinata, ai sensi dell'articolo 108, paragrafo 3, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, all'autorizzazione della Commissione europea, richiesta a cura del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. |
Questo (lungo) periodo transitorio è caratterizzato da una certa complessità del quadro normativo in quanto, ai sensi dell’articolo 102, comma 2[[81]], sono ancora in vigore le più importanti agevolazioni fiscali che sin dalla loro origine hanno accompagnato e sostenuto le OdV (parte dell’art. 8 della l. n. 266 del 1991), le APS (artt. 20 e 21 della l. n. 383 del 2000) e le Onlus (artt. 10 – 29 del d.lgs. n. 460 del 1997).
Anche gli enti ecclesiastici che hanno istituito un Ramo Onlus sono, dunque, tenuti a confrontarsi con la seguente disciplina transitoria (e composita)[[82]]:
a) la disciplina delle Onlus ancora (e solo temporaneamente) in vigore è quella degli articoli da 10 a 29 del decreto legislativo n. 460 del 1997 che riguardano, anzitutto, il loro ordinamento interno, i vincoli a tutela della non lucratività soggettiva, il funzionamento dell’anagrafe, le agevolazioni fiscali[[83]] e le sanzioni;
b) sono entrate in vigore in via transitoria alcune norme del Codice del Terzo Settore che delineano la nuova fiscalità e le nuove misure a sostegno degli enti di Terzo Settore[[84]] e che riguardano non solo le Onlus ma anche le OdV, le APS, gli enti filantropici,le Imprese Sociali, le Reti associative, le Societàdi mutuo soccorso e gli altri enti del Terzo Settore[[85] ]; in specie:
– l’articolo 77 relativo ai Titoli di solidarietà,
– l’articolo 78 che disciplina i Social Lending,
– l’articolo 81 che tratta del Social Bonus,
– l’articolo 82 che elenca le agevolazioni relative alle imposte indirette e ai tributi locali;
– l’articolo 83 che ha riscritto le nuove detrazioni/deducibilità per le erogazioni liberali;
c) non sono, invece, ancora in vigore né l’articolo 79 del Codice del Terzo Settore, che rielabora in modo radicale il concetto di attività e di ente (Ramo) di Terzo Settore «non commerciale»[[86]] e rappresenta una delle principali novità della Riforma, né l’articolo 18 del Decreto sull’Impresa Sociale che sottrae all’IRES la quota dell’eventuale avanzo di gestione a condizione che sia reinvestito nell’attività di interesse generale[[87]];
d) infine, non è ancora operativo il RUNTS la cui iscrizione è conditio sine qua non per essere considerati soggetti del Terzo Settore[[88]]; per questo motivo il comma 3 dell’articolo 101 ha previsto che «Il requisito dell'iscrizione al Registro unico nazionale del Terzo settore previsto dal presente decreto, nelle more dell'istituzione del Registro medesimo, si intende soddisfatto da parte delle reti associative e degli enti del Terzo settore attraverso la loro iscrizione ad uno dei registri attualmente previsti dalle normative di settore».
In questo contesto si colloca la previsione del comma 2 dell’articolo 101 del Codice del Terzo Settore che riconosce agli enti iscritti all’anagrafe Onlus ed ai registri OdV e APS di poter applicare le norme previgenti purché entro il 31 ottobre 2020[[89]] provvedano a adeguare gli statuti (ed i regolamenti Onlus) alle disposizioni inderogabili del Codice del Terzo Settore[[90]].
Questa norma riguarda, dunque, anche gli enti ecclesiastici che hanno istituito un Ramo Onlus; tutti i soggetti interessati devono, però, prestare attenzione a due profili:
a) in merito agli eventuali effetti del mancato adeguamento del regolamento la risoluzione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali n. 13 del 31 maggio 2019 e la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 89/E del 25 ottobre 2019[[91]] hanno precisato che le previgenti agevolazioni previste per le Onlus continuano a poter essere applicate anche agli enti che non provvedessero tempestivamente all’adeguamento richiesto[[92]], fatto salvo il diritto delle autorità preposte al controllo dei registri/anagrafe di verificare l’adeguatezza degli enti iscritti[[93]];
b) le modifiche sono quelle prescritte dalle norme inderogabili del Codice del Terzo Settore[[94]].
In riferimento a questo quadro normativo un ente (o il Ramo) Onlus può applicare (i) le agevolazioni previste dal decreto legislativo n. 460 del 1997 e (ii) le sole agevolazioni fiscali della Riforma elencate nel comma 1 dell’articolo 104 del Codice del Terzo Settore a condizione che rimanga iscritto all’anagrafe delle Onlus.
Quando, invece, avrà inizio il periodo d'imposta successivo all'autorizzazione della Commissione europea e il medesimo ente (o il Ramo) si sarà; iscritto[[95]] al RUNTS o al Registro delle imprese, qualora voglia acquisire la qualifica di Impresa Sociale[[96]], potrà applicare tutte e sole le agevolazioni della Riforma in quanto:
– per la lett. a) del comma 2 dell’articolo 101 del Codice del Terzo Settore sarà definitivamente e completamente abrogata l’intera sezione II del decreto legislativo n. 460 del 1997 che ha istituto e fino a quel momento retto le Onlus, e
– per il combinato disposto del comma 1 dell’articolo 5 e del comma 8 dell’articolo 101, sarà un soggetto (o un Ramo) del Terzo Settore.
Dunque, per poter applicare – ora – le agevolazioni Onlus e – in futuro – le agevolazioni del Codice del Terzo Settore o del Decreto dell’Impresa Sociale è necessario che l’ente (o il regolamento) sia iscritto, rispettivamente, all’anagrafe delle Onlus o al RUNTS/Registro delle Imprese; ma ciò può/potrà avvenire a condizione che disponga di uno statuto (o di un regolamento) compatibile, rispettivamente, con il dettato normativo del decreto legislativo n. 460 del 1997 e con il Codice del Terzo Settore o con il Decreto sull’Impresa Sociale. Per assicurare che non si verifichino pericolose soluzioni di continuità in questo tempo di diritto transitorio, il cronoprogramma per il passaggio dal mondo Onlus al mondo del Terzo Settore o dell’Impresa Sociale deve essere predisposto e osservato con attenzione. Infatti, come già illustrato, occorre verificare che la cancellazione dall’anagrafe delle Onlus avvenga solo «a seguito dell’iscrizione nel Registro unico nazionale degli enti del terzo settore» (comma 8, art. 101) perché questo è l’unica ipotesi che non causa la cosiddetta perdita di qualifica. In altri termini, qualora un Ramo Onlus dell’ente ecclesiastico dovesse essere cancellato dall’anagrafe delle Onlus senza essere contemporaneamente iscritto nel RUNTS o nel Registro delle imprese si troverebbe nella condizione (i) di non poter più applicare (anche in corso d’anno) la normativa di vantaggio delle Onlus e (ii) perderebbe la qualifica di Onlus (parziale), con tutte le nefaste conseguenze del caso. Per questo motivo è decisivo che fino a quando un ente è iscritto nell’anagrafe delle Onlus il solo statuto (o regolamento) vigente sia compatibile solo con il decreto legislativo n. 460 del 1997; al contrario, quando potrà/vorrà applicare le agevolazioni previste dalla Riforma – che saranno ormai entrate in vigore a seguito dell’autorizzazione della Commissione europea – dovrà essere iscritto al RUNTS o al Registro imprese e ciò potrà avvenire solo se lo statuto (o il regolamento) in vigore sarà conforme solo al Codice del Terzo Settore o al Decreto sull’Impresa Sociale. Coerentemente la Riforma presuppone la vigenza di uno statuto (o regolamento) Onlus e la necessità di adottare un nuovo e del tutto diverso statuto (o regolamento) di Terzo Settore o d’Impresa Sociale; alla vigenza del primo deve far seguito l’entrata in vigore del secondo senza soluzione di continuità (e senza sovrapposizioni). Per questo motivo, ed in attesa di conoscere le modalità ed i tempi per procedere all’iscrizione nel RUNTS (cfr. comma 1, art. 53 del Codice), è necessario che qualora l’organo competente voglia già adottare il nuovo statuto o regolamento – conforme al solo Codice del Terzo Settore o al Decreto sull’Impresa Sociale – deliberi anche che la sua vigenza sia sospesa in attesa che sia possibile iscriversi al RUNTS e sia cominciato il periodo d’imposta successivo all’autorizzazione della Commissione europea. Occorre, dunque, distinguere il momento della delibera del nuovo statuto (o regolamento) rispetto al tempo della sua entrata in vigore. Il comma 2 dell’articolo 101 del Codice del Terzo Settore ora prevede che non sia successivo al 31 ottobre 2020 solo il momento della delibera e non anche la sua entrata in vigore. Tuttavia, a seguito della circolare n. 13 e della risoluzione n. 89/E anche il momento della adozione potrà essere successivo al 31 ottobre 2020[[97]] senza che ciò comporti automaticamente il venir meno del diritto ad applicare le agevolazioni previste dal decreto legislativo n. 460 del 1997. Se la questione della perentorietà della (nuova) data del 31 ottobre 2020 pare essere, almeno di fatto, superata alla luce di quanto precisato dalla circolare e dalla risoluzione, la delibera del nuovo statuto (o del nuovo regolamento) di Terzo Settore o d’Impresa Sociale dovrebbe comunque essere assunta in tempo per poter presentare la domanda di iscrizione al RUNTS e godere le nuove agevolazioni della Riforma quando esse saranno in vigore (e saranno state abrogate quelle previste dal Decreto Onlus). Se ciò non avvenisse, il Ramo dell’ente ecclesiastico – già Onlus – si troverebbe nella condizione di non poter godere della decommercializzazione delle attività già Onlus e neppure godere delle agevolazioni fiscali previste per le attività di interesse generale (anzitutto la defiscalizzazione degli avanzi di gestione dell’Impresa Sociale e la nuova qualifica di attività/ente non commerciale di Terzo Settore)[[98]]. Nel tempo del diritto transitorio l’ente ecclesiastico che ha già istituito un Ramo Onlus potrebbe anche ritenere opportuno procedere ad una revisione dell’attuale regolamento Onlus al fine, per esempio, di includere altre attività o anche solo meglio precisare quali siano le attività incluse. In tal caso la delibera di modifica del regolamento deve essere assunta solo tenendo conto del decreto legislativo n. 460 del 1997 e del paragrafo 1.11 della circolare Mef n. 168/E/1998[[99]]. Nel medesimo tempo un ente ecclesiastico potrebbe anche decidere di dar vita ex novo ad un Ramo Onlus in vista del transito, poi, nel mondo del Terzo Settore o dell’Impresa Sociale. Analogamente potrebbe decidere di far venir meno il Ramo Onlus (cosiddetta perdita di qualifica volontaria) osservando le sole norme Onlus ancora in vigore[[100]]. Sarebbe, invece, inopportuno procedere alla scissione del Ramo Onlus in un Ramo di Terzo Settore e in un Ramo di Impresa Sociale. Pur essendo possibile per un ente ecclesiastico dar vita ad un duplice Ramo quando saranno pienamente in vigore, rispettivamente, le agevolazioni per il Terzo Settore ed il RUNTS e quelle per l’Impresa Sociale, procedere alla divisione quando non è ancora operativo il RUNTS e non ha avuto inizio il periodo d’imposta successivo all’autorizzazione della Commissione europea significherebbe far perdere alle attività scisse dal Ramo Onlus qualsiasi agevolazione fiscale[[101]]. Da ultimo, nell’ipotesi che il RUNTS fosse operativo prima dell’inizio del periodo d’imposta successivo all’autorizzazione della Commissione europea, l’ente ecclesiastico potrebbe dar vita ad un Ramo di Terzo Settore[[102]] iscrivendolo direttamente al suddetto Registro: in tal caso, però, l’iscrizione nel RUNTS non permette alle attività del Ramo di avere un inquadramento fiscale diverso e più agevolato rispetto a quello previsto dal decreto legislativo n. 917 del 1986 per gli enti ecclesiastici e le loro attività.
Focus: una nuova e adeguata struttura organica all’interno del regolamento dell’ente ecclesiastico della Chiesa cattolica
Il regolamento del Ramo di Terzo Settore o d’Impresa Sociale di un ente religioso civilmente riconosciuto non solo non può coincidere con lo statuto ma, più radicalmente, lo presuppone e se ne differenzia. Già in occasione della istituzione delle Onlus la circolare del MEF n. 168/1998 distingueva i due documenti, richiamando le conclusioni della Commissione Italo-Vaticana del 1997 che aveva affrontato la questione: «In particolare, con riferimento agli enti ecclesiastici della Chiesa cattolica, va tenuto presente il documento conclusivo della Commissione paritetica italo-vaticana, pubblicato nel supplemento ordinario n. 210 alla Gazzetta Ufficiale del 15 ottobre 1997, n. 241 con il quale è stato precisato che agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti “non sono ... applicabili ... le norme, dettate dal codice civile in tema di costituzione, struttura, amministrazione ed estinzione delle persone giuridiche private. Non può dunque richiedersi ad essi, ad esempio, la costituzione per atto pubblico, il possesso in ogni caso dello statuto, né la conformità del medesimo, ove l'ente ne sia dotato, alle prescrizioni riguardanti le persone giuridiche private”. Tali enti devono, tuttavia, comunque predisporre un regolamento, nella forma della scrittura privata registrata, che recepisca le clausole dell'articolo 10, comma 1, del decreto legislativo n. 460 del 1997». La soluzione di esigere l’adozione di un regolamento si fonda, dunque, sul fatto che, per il principio del rispetto dell’autonomia ordinamentale riconosciuto alle confessioni religiose, il legislatore statale non può esigere la modifica dello statuto di un ente religioso. D’altro canto, l’ordinamento statale ritiene necessario che anche l’azione amministrativa degli enti delle confessioni religiose – per quanto riguarda le attività che intendono godere della disciplina di favore della normativa Onlus e ora del Terzo Settore – rispetti alcune norme dettate dal legislatore civile.
L’adozione di uno specifico regolamento è, dunque, una valida soluzione che consente di custodire due fondamentali esigenze:
1) da un lato, la Chiesa Cattolica tiene fermo il principio concordatario per cui sia il riconoscimento della personalità giuridica civile dei suoi enti, sia altri adempimenti richiesti dalla normativa statale, si realizzino rispettando la ‘riserva di giurisdizione canonica’, cioè senza apportare modifiche allo statuto dell’ente ecclesiastico[[103]];
2) dall’altro, lo Stato italiano ottiene che anche l’ente ecclesiastico sia tenuto ad osservare le norme statali inderogabili, al pari degli enti civili che acquisiscono in toto la qualifica di Terzo Settore o di Impresa Civile, quando intende godere della disciplina di favore della Riforma per le sue opere inserite nel Ramo.
L’ente ecclesiastico che istituisce un Ramo Onlus o di Terzo Settore/Impresa Sociale è retto, al contempo, dallo statuto (o dalle norme di funzionamento degli enti Religiosi[[104]]) e – limitatamente a determinate opere/attività – anche dal regolamento che ha volontariamente adottato. Come visto il contenuto essenziale del regolamento è precisato dalla normativa italiana, prima dal decreto legislativo n. 460 del 1997 per le Onlus e ora dai decreti della Riforma del Terzo Settore, che indica le clausole che devono necessariamente essere inserite affinché anche l’ente religioso le osservi relativamente all’amministrazione dei beni e delle opere inserite nel Ramo. Dunque, non qualsiasi regolamento consente all’ente ecclesiastico di avvalersi della disciplina di favore del Terzo Settore o dell’Impresa Sociale, ma solo quello che ha recepito le clausole inderogabili volute dal legislatore.
All’origine di questo regolamento vi sono pertanto entrambi gli ordinamenti:
a) quello statuale per quanto riguarda il suo contenuto essenziale,
b) quello della confessione religiosa per quanto riguarda la sua esistenza.
Analogamente anche gli effetti giuridici conseguenti alla sua esistenza/osservanza derivano da entrambi gli ordinamenti:
a) da quello statuale per quanto riguarda (i) la possibilità di godere delle agevolazioni riconosciute agli enti di Terzo Settore e (ii) i vincoli sull’azione dell’azione amministrativa dell’ente,
b) da quello della confessione religiosa per quanto riguarda la possibilità di modificarlo e anche abrogarlo.
Occorre prestare attenzione al fatto che il legislatore italiano riconosce all’ente religioso il diritto di rinunciare volontariamente alla qualifica Onlus/Terzo Settore ma ciò non implica anche il venir meno dei vincoli circa l’utilizzo e la destinazione finale del patrimonio accumulato. L’ente religioso può, infatti, decidere di non continuare a gestire un’attività all’interno della qualifica di Onlus o Terzo Settore/Impresa Sociale, ma tale decisione implica obblighi sulla destinazione del patrimonio accumulato che derivano esclusivamente dall’ordinamento statale: «Si precisa che la perdita di qualifica equivale, ai fini della destinazione del patrimonio, allo scioglimento dell'ente. A tale conclusione si perviene in considerazione della ratio della disposizione in argomento intesa ad impedire all'ente, che cessa per qualsiasi ragione di esistere come Onlus, la distribuzione del patrimonio, costituito anche in forza di un regime fiscale privilegiato, o la sua destinazione a finalità estranee a quelle di utilità sociale tutelate dal decreto legislativo in esame. Non si ritiene, infatti, di poter consentire all'ente vincolato quale Onlus nella distribuzione e nella destinazione degli utili o avanzi di gestione di vanificare tali vincoli attraverso il libero utilizzo del patrimonio a seguito della perdita della qualifica di Onlus. Pertanto, in caso di perdita della qualifica, la Onlus dovrà devolvere il patrimonio ad altra organizzazione non lucrativa di utilità sociale o a fini di pubblica utilità, sentito il menzionato organismo di controllo» (circolare MEF n. 168/1998)[[105]]. Una disciplina del tutto simile è presente nell’articolo 9 del Codice del Terzo Settore e nell’articolo 12 del decreto sull’Impresa Sociale. Anche se il contenuto essenziale del regolamento adottato dall’ente religioso civilmente riconosciuto è dettato dall’ordinamento statale, non vi sono ragioni per impedire che in esso possano essere inserite anche altre clausole ulteriori rispetto a quelle inderogabili richieste dalla Riforma.
Il regolamento potrebbe opportunamente evidenziare almeno anche le regole che disciplinano (i) la struttura organica dell’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto e (ii) le regole di funzionamento (incluse le norme sulla vigilanza canonica) dettate dal diritto canonico universale e dal diritto particolare. Si tenga, però, presente che il regolamento non può introdurre norme inconciliabili con lo statuto dell’ente ecclesiastico, essendo ad esso subordinato; per questo motivo gli uffici/organi attraverso i quali la persona giuridica canonica pubblica “decide e agisce” sono di norma gli unici ad aver competenza anche in riferimento all’amministrazione delle opere inserite nel Ramo di Terzo Settore o d’Impresa Sociale (fatto salvo, come anticipato, la possibilità di utilizzare l’istituto della delega/procura):
Funzione/competenze | Diocesi | Parrocchia | Fondazione di Culto | Istituto di vita consacrata |
Funzione di amministratore | Vescovo diocesano | Parroco | Consiglio Direttivo (e Presidente per l’ordinaria amministrazione) | Superiore/a locale |
Funzione di legale rappresentante | Vescovo diocesano (ed economo se dotato di procura) | Parroco | Presidente (ed eventuale procuratore) | Superiore/a locale e legale rappresentate se previsto dalle Costituzioni |
Supporto a colui che è l’amministratore | Consiglio per gli affari economici diocesano | Consiglio per gli affari economici parrocchiale | --- | Consiglio del/la Superiore/a |
Economo | Amministra i beni sotto l’autorità del Vescovo | --- | --- | Amministra i beni sotto l’autorità del/la Superiore/a |
Funzione di vigilanza e controllo esterno | Consiglio per gli affari economici diocesano | Vescovo diocesano ed Ordinario del luogo | Vescovo diocesano ed Ordinario del luogo | Superiore/a Maggiore e Santa Sede |
Funzione di amministratore delle Opere del Ramo | Vescovo diocesano | Parroco | Consiglio Direttivo (e Presidente per l’ordinaria amministrazione) | Superiore/a locale (ed Economo, se dotato di procura, nonché ‘legale rappresentate’ previsto dalle Costituzioni) |
Legale rappresentanza per le Opere del Ramo | Vescovo diocesano (ed economo se dotato di procura) | Parroco | Presidente(ed eventuale procuratore) | Superiore/a locale e legale rappresentate (Costituzioni) |
Funzione di vigilanza e controllo esterno per le Opere del Ramo | Consiglio per gli affari economici diocesano | Consiglio per gli affari economici parrocchiale | --- | Superiore/a Maggiore e Santa Sede |
tabella 3
Questa soluzione di base potrebbe, però, presentare alcuni limiti in ordine alla buona ed efficiente gestione delle attività inserite nel Ramo qualora queste avessero dimensioni significative e presentassero una struttura operativa più che minima.
Si deve infatti considerare che qualora l’amministratore e l’organo di controllo delle attività del Ramo non possano che essere quelli previsti dall’ordinamento canonico:
1) la funzione di amministratore resterebbe affidata ad un ufficio personale (vescovo, parroco, superiore religioso);
2) l’eventuale presenza dell’ufficio di economo, anche se dotato di ampie procure, non permetterebbe di superare la ‘solitudine’ e, dunque, una insufficiente dotazione di competenze tecniche in colui che è chiamato ad assumere le decisioni;
3) rimarrebbe assente la funzione di controllo interno al Ramo, in quanto l’ordinamento canonico conosce l’istituto (solo simile) della vigilanza affidata ad un soggetto/ufficio canonico esterno (al vescovo o al superiore maggiore, oltre che alla Santa Sede)[[106]].
Per questo motivo potrebbe essere opportuno utilizzare l’occasione offerta dall’adozione del regolamento per affidare a nuovi organismi collegiali la gestione ed il controllo interno delle opere inserite nel Ramo[[107]].
Occorre subito segnalare che questa soluzione non implica la sottrazione delle funzioni/competenze amministrative e di vigilanza a coloro che ne sono dotati dal diritto canonico universale e/o particolare (si tenga presente che la normativa canonica non consente di rinunciare in modo assoluto alle proprie funzioni/compiti e neppure di trasferirli in modo esclusivo a nuovi organismi) e permette all’ente ecclesiastico di operare all’interno di un perimetro giuridico certamente più ordinato e sicuro rispetto alla scelta di affidare in modo informale la gestione di alcune attività economiche complesse ad un gruppo di ‘consiglieri’ individuati dall’amministratore naturale al di fuori di un quadro disciplinare preciso e di qualsiasi percorso autorizzativo formalizzato.
Certamente questa ipotesi di istituire degli organismi collegiali ai quali affidare competenze e poteri amministrativi e di controllo sulle opere del Ramo attraverso, per esempio, lo strumento del mandato con rappresentanza (artt. 1387 ss. c.c.) richiede di essere approfondita e verificata; tuttavia non sembra presentare evidenti profili di incompatibilità con l’ordinamento canonico universale, dato che a determinate condizioni e con le debite autorizzazioni canoniche è già consentito delegare alcune funzioni attraverso l’istituto della procura civile.
La possibilità di assegnare i poteri di amministrazione sui beni a soggetti diversi rispetto all’amministratore naturale è peraltro già esplicitamente contemplata:
1) dal diritto canonico universale al canone 1278 («Oltre ai compiti di cui al can. 494, §§ 3 e 4, all’economo possono essere affidati dal Vescovo diocesano i compiti di cui al cann. 1276, § 1 e 1279, § 2») e al § 1 del canone 1279 («§ 1. L’amministrazione dei beni ecclesiastici spetta a chi regge immediatamente la persona cui gli stessi beni appartengono, a meno che non dispongano altro il diritto particolare, gli statuti o la legittima consuetudine, e salvo il diritto dell’Ordinario d’intervenire in caso di negligenza dell’amministratore»), nonché
2) dal diritto particolare degli istituti di vita consacrata, laddove è istituita la funzione del ‘legale rappresentate’ o del ‘procuratore’ (cfr. n. 65, Orientamenti. Economia al servizio del carisma e della missione, CIVCSVA, Roma, 2018).
L'introduzione degli organismi collegiali consentirebbe di esercitare in modo condiviso (con il voto favorevole della maggioranza dei membri) funzioni e poteri assai delicati: in primis quelli di amministratore delle opere e dei beni e quelli – esplicitamente prevista dalla Riforma – del controllo interno. È indubbio il beneficio assicurato da un organismo collegiale rispetto ad un ufficio unipersonale per una buona ed efficiente gestione delle attività; inoltre, questa soluzione potrebbe rendere più praticabile il principio di trasparenza che la Riforma esige da tutti coloro che entreranno nel mondo del Terzo Settore: infatti, qualora l’esercizio delle funzioni amministrative apicali rimanessero affidate ad una sola persona fisica (e, magari, in presenza di una debole o solo apparente alterità tra chi gestisce e chi deve esercitare la vigilanza esterna) sarebbe più arduo garantire la trasparenza dell’azione amministrativa ed il controllo interno[[108]]. Qualora si volesse procedere istituendo organismi collegiali, la tabella 2 potrebbe essere così modificata:
Funzione/competenze | Diocesi | Parrocchia | Fondazione di Culto | Istituto di vita consacrata |
Funzione amministrativa | Vescovo diocesano | Parroco | Consiglio Direttivo (e suo Presidente per l’ordinaria amministrazione) | Superiore/a locale (ed Economo se dotato di procura) |
Legale rappresentanza | Vescovo diocesano (ed economo se dotato di procura) | Parroco | Presidente (ed eventuale procuratore) | Superiore/a locale e legale rappresentate (Costituzioni) |
Supporto all’amministratore | Consiglio per gli affari economici diocesano | Consiglio per gli affari economici parrocchiale | --- | Consiglio del/la Superiore/a |
Economo | Amministra i beni sotto l’autorità del Vescovo | --- | --- | Amministra i beni sotto l’autorità del/la Superiore/a |
Funzione di vigilanza e controllo esterno | Consiglio per gli affari economici diocesano | Vescovo diocesano ed Ordinario del luogo | Vescovo diocesano ed Ordinario del luogo | Superiore/a Maggiore e Santa Sede |
Funzione amministrativa per le Opere del Ramo | Consiglio Direttivo (descritto nel regolamento) | Consiglio Direttivo (descritto nel regolamento) | Consiglio Direttivo (descritto nel regolamento) | Consiglio Direttivo (descritto nel regolamento) |
Legale rappresentanza per le opere del Ramo | Presidente del Consiglio Direttivo (dotato di procura) | Presidente del Consiglio Direttivo (dotato di procura) | Presidente del Consiglio Direttivo (dotato di procura) | Presidente del Consiglio Direttivo (dotato di procura) |
Funzione di vigilanza e controllo esterno per le opere del Ramo | Organo di controllo (descritto nel regolamento) | Organo di controllo (descritto nel regolamento) | Organo di controllo (descritto nel regolamento) | Organo di controllo (descritto nel regolamento) |
tabella 4
Conclusioni
La Riforma dell’ente di Terzo Settore e dell’Impresa Sociale permette anche agli enti religiosi civilmente riconosciuti che istituiscono un ‘Ramo’ di poter beneficiare della disciplina di favore. Si tratta di una soluzione che richiama la ben consolidata esperienza offerta dai ‘rami Onlus’ che il legislatore aveva previsto quando aveva creato la figura delle Organizzazioni non lucrative di utilità sociale (d.lgs. n. 460 del 1997). Tuttavia, l’articolo 4, comma 3, d.lgs. n. 117 del 2017 (Codice del Terzo Settore) e l’articolo 1, comma 3, d.lgs. n. 112 del 2017 (Impresa Sociale) hanno ulteriormente sviluppato quell’esperienza iniziale e ora consentono di dar vita al Ramo di Terzo Settore o d’Impresa Sociale solo a condizione che (i) siano tenute scritture contabili separate, (ii) il regolamento sia adottato nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata e (iii) sia costituito il ‘patrimonio destinato’. Quest’ultima prescrizione è una assoluta novità la cui portata attende di essere approfondita e precisata in quanto, stante il testo della norma, (i) non avrebbe come effetto la segregazione di questa parte del patrimonio a beneficio delle sole attività del Ramo e, dunque, (ii) non dovrebbe essere prescritta la necessità di una dotazione minima come, invece, accade quando si crea un ente con autonomia patrimoniale perfetta, ai sensi dell’articolo 22, comma 4 del Codice del Terzo Settore.
Poiché il legislatore ha inteso promuovere “la cittadinanza attiva” (art. 1 del Codice) e la libera iniziativa delle persone, gli statuti degli enti di Terzo Settore e dell’Impresa Sociale devono essere redatti tenendo presente che solo alcune clausole sono prescritte dalla Riforma, altre si applicano se lo statuto non prevede diversamente, mentre in altre situazioni ancora è lasciata ampia discrezionalità a coloro che danno vita agli enti di Terzo Settore. Analogamente, anche in sede di redazione del regolamento del Ramo si deve prestare attenzione a tale tripartizione: alcune clausole sono inderogabili (o ne è esclusa l’applicazione), altre si applicano solo qualora il regolamento non provveda in modo difforme, altre clausole ancora possono essere inserite per libera scelta dell’ente religioso. Riguardo alla redazione del regolamento occorre, però, prestare attenzione anche ad un altro vincolo esplicitamente assunto dal legislatore della Riforma, volto a tutelare l’autonomia ordinamentale delle confessioni religiose; per questo motivo le norme del Codice del Terzo Settore o del Decreto sull’Impresa Sociale si applicano al Ramo dell’ente religioso solo se rispettano la loro struttura e le loro finalità.
L’occasione offerta dalla redazione di un regolamento – il cui fine è quello di perimetrare le attività svolte dall’ente religioso quando si vuole godere della normativa promozionale della Riforma – potrebbe anche consentire di dotare queste opere (talvolta assai articolate e complesse) di un adeguato apparato organico – una funzione amministrativa collegiale e un organismo di controllo – che potrebbe non coincidere con l’amministratore naturale previsto dall’ordinamento canonico universale e particolare. Questa possibilità merita di essere approfondita anzitutto in ordine alla necessità di conservare comunque i poteri in capo a colui cui spetta naturalmente l’amministrazione dell’ente religioso e, contemporaneamente, di dotare di veri e propri poteri e funzioni amministrative un collegio; in secondo luogo occorre precisare e distinguere le funzioni proprie dell’organo di controllo (previsto dalla stessa Riforma) rispetto alle funzione della vigilanza canonica attribuita dall’ordinamento ecclesiale all’Ordinario e al Superiore.
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NOTE:
[1] Per Riforma si intendono i provvedimenti legislativi adottati in esecuzione della legge delega n. 106 del 6 giugno 2016, Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell'impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale.
[2] Se non diversamente specificato, per Codice del Terzo Settore si intende la disciplina introdotta con il d.lgs. n. 117 del 2017.
[3] Per gli altri soggetti (escluse le OdV e le APS che sono di diritto enti di Terzo Settore, e le cooperative sociali che sono di diritto Imprese Sociali) la scelta di avvalersi della nuova disciplina implica il divieto di svolgere attività che non siano incluse nell’elenco delle attività di interesse generale o riconducibili alle attività diverse, come prescritto dall’art. 6 del Codice del Terzo Settore («1. Gli enti del Terzo Settore possono esercitare attività diverse da quelle di cui all’articolo 5, a condizione che l’atto costitutivo o lo statuto lo consentano e siano secondarie e strumentali rispetto alle attività di interesse generale, secondo criteri e limiti definiti con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali …») o – in termini meno immediati – dall’art. 2 del d.lgs. n. 112 del 2017.
[4] La riforma introduce e utilizza la nuova categoria soggettiva dell’ente religioso civilmente riconosciuto (cfr. Consiglio di Stato, parere n. 01405 del 14 giugno 2017); il presente contributo tratta dell’ente religioso nelle parti introduttive a commento della nuova disciplina della Riforma, mentre in altre parti concentra l’attenzione sull’ente ecclesiastico della Chiesa Cattolica, alla luce della normativa concordataria che lo disciplina. Circa la peculiarità degli enti ecclesiastici concordatari e la sussistenza della “finalità di religione o di culto” per riconoscere l’ecclesiasticità di un ente che è espressione di una confessione religiosa si veda C. CARDIA, Manuale di diritto ecclesiastico, Bologna, 1996, 344-351. Sul tema della nuova e ampia categoria dell’ente religioso civilmente riconosciuto si veda A. PEREGO, Enti religiosi, Terzo settore e categorie della soggettività tributaria, Jus online, 3, 2019 «Anche gli studiosi del diritto ecclesiastico si sono trovati, a seguito della Riforma, a doversi confrontare con una categoria soggettiva che, se non può dirsi inedita nel panorama testuale del nostro ordinamento giuridico, assurge per la prima volta ad un ruolo di così significativa rilevanza per i soggetti religiosamente connotati nel contesto della disciplina degli enti non lucrativi: quella degli «enti religiosi civilmente riconosciuti». In merito alla corretta collocazione dell’ente ecclesiastico concordatario all’interno dei provvedimenti legislativi a favore del mondo non profit e del dibattito che hanno preceduto la recente Riforma del Terzo Settore si veda L. PILON, L’ente ecclesiastico ed il Terzo Settore, in P. CLEMENTI – L. SIMONELLI (a cura di), L’ente ecclesiastico a trent’anni dalla revisione del Concordato, Milano, 2015, 439-453.
[5] Si tratterebbe di un privilegio qualora un ente religioso civilmente riconosciuto potesse applicare la normativa dei due decreti legislativi anche alle proprie attività religiose (o, per gli enti della Chiesa cattolica, anche alle attività di religione o culto ma, come detto, i decreti del 3 agosto 2017 escludono in radice tale eventualità. Sul tema si veda: G. CHIZZONITI, Gli enti tra diritto della Chiesa e diritto dello Stato. Problemi e prospettive degli enti ecclesiastici anche alla luce della Riforma del Terzo Settore, in Il diritto ecclesiastico, 3 - 4, 2017, 444: Tanto il d.lgs. n. 112 del 2017 quanto il n. 117 del 2017 incidono su un pregresso ampio complesso normativo. In questo panorama che andava ad interessare gran parte delle attività che la legge n. 222 del 1985 aveva collocato alla lettera b) dell’art. 16 (diverse da quelle di religione e di culto), gli enti ecclesiastici venivano chiamati in causa con un sistema che aveva prodotto ibridi, quali ad esempio il ramo onlus dell’ente ecclesiastico … Ovviamente in questa dinamica, centrare era e rimane la determinazione dei limiti del trattamento diverso consentita, nella contrapposizione tra possibili discriminazioni e privilegi accordati G. DALLA TORRE, Enti ecclesiastici e Terzo Settore: annotazioni prospettiche, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 16 del 2018, 4: «A ben vedere, si è dinnanzi ad un processo che, come giustamente è stato notato, appare comune a molti Paesi, in particolare quelli di tradizione cattolica, in cui si determina la progressiva uscita [degli enti ecclesiastici] da un regime speciale, esclusivo e privilegiato ma sempre più soffocante, e la loro graduale (e volontaria) sottoposizione a un regime di diritto comune di carattere premiale, che implica però anche accresciuti profili di responsabilità per le attività extra ecclesiastiche svolte». Si tratta di «una linea di tendenza indotta anche dall’osservanza della normativa dell’Unione europea, cui sono tenuti a conformarsi gli ordinamenti degli Stati membri, ove il concetto di impresa e il relativo regime giuridico, fondato sulprincipio di libera concorrenza, comprende qualsiasi ente che eserciti un’attività economica – ovvero un’attività di produzione e/o scambio di beni o servizi con tendenziale copertura dei costi con i ricavi – a prescindere dal suo status soggettivo, e quindi anche l’ente ecclesiastico, ammesso a operare nel mercato come qualsiasi altro operatore economico ma destinato, per tali attività, a conformarsi alle leggi civili e a perdere una serie di benefici connessi al suo peculiare status giuridico». Il Codice del Terzo Settore, apparso nel luglio 2017, è al momento per l’Italia il frutto più evidente e maturo del processo accennato per spunti» (Relazione al convegno promosso dall’Osservatorio Giuridico Legislativo Regionale della Conferenza Episcopale Lombarda); A. PERRONE – V. MARANO, La riforma del Terzo settore e gli enti ecclesiastici: un rischio, un costo, un’opportunità, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, (www.statoechiese.it), 35, 2018, 3: «Al fine di preservare le caratteristiche proprie dell’ente ecclesiastico, salvaguardando, nel contempo, la necessaria parità di trattamento tra ETS, la riforma del Terzo settore ripropone, con alcune rilevanti modifiche, il modello adottato dalla disciplina sulle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (art. 10, nono comma, d.lgs. 4 dicembre 1997, n. 460) e dal previgente regime dell’impresa sociale (art. 1, terzo comma, d. lgs. 24 marzo 2006, n. 155)»; M. GRECO – P. RONCHI, Gli enti religiosi civilmente riconosciuti nel Codice del Terzo Settore: problemi e prospettive, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2, 2018, 373: «Dovendo l’ente religioso civilmente riconosciuto perseguire, invece, in via prevalente finalità di culto o religione, ne deriva l’impossibilità di svolgere in via esclusiva o prevalente le attività di interesse generale. Né a diversa conclusione avrebbe potuto giungere il legislatore della riforma a pena di una modifica unilaterale della configurazione giuridica degli enti religiosi civilmente riconosciuti così come definita dalle norme pattizie».
[6] Tra gli enti religiosi evocati dal Codice del Terzo Settore e dal Decreto sull’impresa sociale vi sono gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti della Chiesa Cattolica, la cui natura e disciplina sono ‘custoditi’ dalla normativa concordataria (prima i Patti Lateranensi e, dal 1984, l’Accordo di Revisione dei medesimi Patti cui si è stata data attuazione con la l. n. 121 del 1985) e dall’art. 2 della l. n. 222/1985: «Sono considerati aventi fine di religione o di culto gli enti che fanno parte della costituzione gerarchica della Chiesa, gli istituti religiosi e i seminari. Per altre persone giuridiche canoniche, per le fondazioni e in genere per gli enti ecclesiastici che non abbiano personalità giuridica nell’ordinamento della Chiesa, il fine di religione o di culto è accertato di volta in volta, in conformità alle disposizioni dell’articolo 16. L’accertamento di cui al comma precedente è diretto a verificare che il fine di religione o di culto sia costitutivo ed essenziale dell’ente, anche se connesso a finalità di carattere caritativo previste dal diritto canonico». In altri termini, l’ente promosso da una confessione religiosa – nel caso della l. n. 121 del 1985 la Chiesa Cattolica – per acquisire la natura di ente ecclesiastico non può che svolgere almeno una delle attività riconosciute di ‘religione o culto’ ai sensi dell’art. 16, lett. a), l. n. 222 del 1985: «Agli effetti delle leggi civili si considerano comunque: a) attività di religione o di culto quelle dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all'educazione cristiana». Ope legis il fine di religione o culto è riconosciuto anche agli Istituti per il sostentamento del clero dal titolo II della l. n. 222 del 1985. La medesima condizione giuridica è riconosciuta anche agli enti delle altre confessioni religiose che hanno concluso patti, accordi o intese con lo Stato italiano (sul tema di veda anche il parere del Consiglio di Stato n. 1405/2017 del 14 giugno 2017 attorno al comma 3 dell’art. 4 del Codice del Terzo Settore, che tratta degli enti religiosi che possono applicare la Riforma solo ‘limitatamente’).
[7] Il regolamento evocato dal Codice del Terzo Settore e dal Decreto sull’impresa sociale è del tutto differente (nei contenuti) e distinto (nella forma) rispetto ad “altri” regolamenti che da alcuni anni interessano gli enti religiosi (o, meglio, gli enti ecclesiastici delle confessioni religiose che hanno concluso patti, accordi o intese con lo Stato): anzitutto il regolamento prescritto dalla risoluzione MEF n. 1/DF del 3 febbraio 2012 relativa all’Imu e necessario per poter applicare le relative esenzioni qualora un immobile sia (anche solo parzialmente) destinato «allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive» (art. 7, comma 1, lett. i), d.lgs. n. 504 del 1992): «Pertanto, seppur agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti non possono essere richiesti né la predisposizione né l’adeguamento dello statuto, si ritiene che questi ultimi debbano, comunque, conformarsi alle disposizioni di cui all’articolo 3 del regolamento n. 200 del 2012, nelle stesse forme previste nel citato punto 1.11 della circolare n. 168/E del 1998, vale a dire con scrittura privata registrata». Si veda anche la dichiarazione contenuta nel modello A allegato al d.m. Miur che viene adottato ogni anno per determinare i criteri per l’erogazione dei contributi alle scuole paritarie.
[8] In sintesi: per gli enti religiosi la Riforma del Terzo Settore pone un divieto e apre a due possibilità: se da un lato (i) impedisce agli enti religiosi di entrare in toto nella Riforma, dall’altro consente ad essi (ii) di avvalersi di questa normativa di favore limitatamente alle attività di interesse generale, oppure (iii) di continuare a gestire le loro attività ed opere restando del tutto estranei al nuovo mondo del Terzo Settore (tanto in relazione alle agevolazioni, quanto ai vincoli).
[9] Come in un gioco di specchi, il diritto di avvalersi della Riforma solo limitatamente alle attività di interesse generale corrisponde al divieto di avvalersi della Riforma per tutte le attività svolte che non sono tra quelle riconosciute dal legislatore di interesse generale (in primis quelle di religione o di culto).
[10] Anche sulla base dell’esperienza dei ‘rami Onlus’ non vi sono ragioni ermeneutiche cogenti che possano imporre agli enti religiosi che decidono di dar vita ad un Ramo di Terzo Settore o di Impresa Sociale di imputarvi tutte le loro attività di interesse generale. Pertanto, un ente ecclesiastico che gestisce anche attività scolastiche potrebbe inserire nel Ramo di Terzo Settore solo alcune opere scolastiche; analogamente un ente ecclesiastico che svolge attività di interesse generale appartenenti a diversi numeri dell’art. 5 del Codice del Terzo Settore potrebbe inserire nel Ramo di Terzo Settore – per esempio – solo le opere socio-sanitarie e non anche quelle scolastiche. Di per sé nulla impedisce che in futuro l’ente religioso possa aggiungere al Ramo altre attività.
[11] Potrebbe rimanere solo un esempio di scuola, tuttavia non appare essere incompatibile con il Codice del Terzo Settore o con il Decreto sull’Impresa Sociale la seguente articolazione delle diverse opere/attività gestite da un ente religioso civilmente riconosciuto: (i) attività di religione o di culto, (ii) attività diverse ex lett. b), art. 16, l. n. 222 del 1985 che non sono inserite in alcun Ramo perché così deciso dall’organo amministrativo oppure perché non riconducibili alle attività di interesse generale, (iii) attività – per es. di carità e beneficienza e attività scolastiche – inserite in un Ramo di Terzo Settore che può essere commerciale o non commerciale, (iv) attività – per es. alcune opere socio-sanitarie – inserite in un Ramo d’Impresa Sociale.
[12] P. CLEMENTI, La fiscalità dell’ente ecclesiastico, in P. CLEMENTI – L. SIMONELLI (a cura di), L’ente ecclesiastico a trent’anni dalla revisione del Concordato, cit., 306-310. Per una prima comparazione dell’attuale fiscalità dell’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto con la nuova fiscalità (non ancora del tutto in vigore) degli enti religiosi che istituiscono un Ramo di Terzo Settore o d’Impresa Sociale si veda P. CLEMENTI, Il regime tributario del Ramo di Terzo settore e di impresa sociale alla luce della fiscalità ordinaria dell’ente ecclesiastico, in Terzo Settore, non profit, cooperative, 2019, 3, luglio/settembre, 60-75.
[13] Circolare del Ministero delle finanze, Dipartimento entrate, n. 168 del 26 giugno 1998.
[14] Mentre gli enti di Terzo Settore o l’Impresa Sociale sono assoggettati totalmente alla disciplina del Codice del Terzo Settore o del d.lgs. n. 112 del 2017 (e, dunque, non si pone la questione di quali siano le attività e i beni disciplinati da tale normativa), per gli enti religiosi che decidono di avvalersi della normativa della Riforma limitatamente ad alcune attività vi è l’esigenza di tracciare un perimetro che possa distinguere le attività e i beni assoggettati alla Riforma da quelli che rimangono del tutto estranei a tale normativa. Tale distinzione interessa non solo l’ente religioso ma anche l’ordinamento giuridico perché il regolamento permette di identificare, come si vedrà, anche le norme della Riforma che si applicano a tutto ciò che è incluso nel Ramo grazie al binomio contabilità separata – ‘patrimonio destinato’. Questa lettura è coerente con il fatto che l’adozione del regolamento non sia solo una facoltà (nell’interesse dell’ente religioso) ma anche un obbligo (nell’interesse dell’ordinamento giuridico e deiterzi).
[15] Una ulteriore ragione potrebbe essere l’effetto della reale segregazione patrimoniale dei beni inseriti nel ‘patrimonio destinato’. Ad oggi, a parere di chi scrive, la costituzione del ‘patrimonio destinato’ non dovrebbe essere accompagnata da tale effetto (la questione è affrontata in un successivo paragrafo); tuttavia se un intervento legislativo dovesse affermare che i beni del ‘patrimonio destinato’ sono riservati ai creditori delle attività inserite nel Ramo, vi sarebbe anche una seconda ragione che giustifica la necessità del regolamento e della contabilità separata, senza che essa possa far venir meno quella che è stata alla base del Ramo Onlus ed ora è alla base del Ramo di Terzo Settore e d’Impresa Sociale.
[16] Per controllo esterno si intende il sistema della cosiddetta vigilanza canonica, disciplinata dal libro V del Codice di diritto canonico, anzitutto ai cann. 1281 e 1291-1295. Sul tema si veda: V. DE PAOLIS, in A. PERLASCA (a cura di), I beni temporali della Chiesa, Bari, 2011, 187-224; L. SIMONELLI, L’amministrazione dei beni ecclesiastici e la vigilanza dell’autorità competente, in P. CLEMENTI – L. SIMONELLI (a cura di), L’ente ecclesiastico a trent’anni dalla revisione del Concordato, cit., 175- 220.
[17] J-P. SCHOUPPE, Elementi di diritto patrimoniale canonico, Milano, 2008, 138-166; C. BEGUS, Diritto patrimoniale canonico, LUP, 2007, 151-190; (a cura del Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico), Corso istituzionale di diritto canonico, Ancona, 2005, 463-467; A. INTERGUGLIELMI, Gli atti di amministrazione straordinaria. Normativa canonica e rilievi civilistici, in P. CLEMENTI – L. SIMONELLI (a cura di), L’ente ecclesiastico a trent’anni dalla revisione del Concordato, cit., 111- 133.
[18] Circa la delicata questione della rilevanza in sede civile dell’invalidità canonica si veda G. CASUSCELLI, Nozioni di diritto ecclesiastico, Torino, 2015, 299 laddove sottolinea una delle particolarità della normativa concordataria: «L’Accordo del 1984 dispone che l’amministrazione dei beni appartenenti agli enti ecclesiastici è soggetta ai controlli previsti dal diritto canonico (art. 7, n. 5), che acquistano dunque rilevanza civile in forza di un rinvio formale (ad avviso di Cass. sez. III, n. 5418 del 1993). La mancanza dell’autorizzazione canonica richiesta può essere fatta valere solo dall’ente interessato (Cass., sez. un., n. 6918 del 1993), perché tale sistema di autorizzazioni vale esclusivamente ad assicurare esigenza di tutela dell’ente ecclesiastico».
[19] Di natura del tutto differente è l’apporto che può essere assicurato dai consulenti e da professionisti dotati di particolari conoscenze, competenze ed esperienza; il nomen già sottolinea il diverso servizio svolto in ordine alla buona gestione di un’opera: il collegio, infatti, ha il compito di assumere decisioni di natura gestionale, il consulente quello di dare il necessario supporto nella progettazione delle stesse.
[20] Qualsiasi soluzione deve, però, rispettare il principio che i poteri amministrativi conferiti ope legis dall’ordinamento canonico non possono essere eliminati o “svuotati” attraverso un utilizzo poco accorto, se non anche spregiudicato, delle deleghe/procure.
[21] Sono del tutto prive di statuto le diocesi (cann. 369 e ss.) e le parrocchie (cann. 515 e ss.); invece gli istituti religiosi (cann. 573-709) sono retti dal ‘codice fondamentale’ o costituzioni che «… devono contenere, oltre a ciò che è stabilito da osservarsi nel can. 578, le norme fondamentali relative al governo dell’istituto e alla disciplina dei membri, alla loro incorporazione e formazione, e anche l’oggetto proprio dei sacri vincoli»; considerata la loro ampiezza, si è ritenuto opportuno poter disporre di un testo più breve ed essenziale che contenga solo le norme relative al funzionamento dell’ente.
[22] Il regolamento di un ente ecclesiastico della Chiesa Cattolica, pur essendo prescritto dalla normativa statale, è un provvedimento che mantiene natura canonica e che, pertanto, deve essere assunto in modo conforme al diritto canonico universale e particolare. Il fatto che per essere efficace nell’ordinamento statale debba avere la forma della scrittura privata autenticata o dell’atto pubblico non fa in altri termini venir meno la sua natura canonica.
[23] Si veda, per esempio, il caso di un istituto religioso che intende attribuire la gestione di una grande opera ad un vero e proprio consiglio direttivo; tale organismo – non previsto dal diritto canonico universale, né dalle Costituzioni – potrà svolgere la propria funzione e assumere le relative responsabilità giuridiche se riceve i poteri in forza di una apposita delega/procura (collegiale, se del caso) concessa dal superiore, che è e rimane l’amministratore naturale dell’ente e, dunque, anche dell’opera. Sempre per meri fini didattici, potrebbe rivelarsi utile e adeguato che il Ramo di Terzo Settore di un istituto religioso sia amministrato direttamente da uno specifico Consiglio Direttivo, la cui disciplina essenziale potrebbe essere così articolata: 1. L’amministrazione ordinaria e straordinaria dei beni e delle attività del Ramo, nonché il potere di alienare e di porre atti che possono risultare peggiorativi del patrimonio stabile, sono attribuiti con apposita delega conferita nelle forme previste dall’ordinamento canonico e civile al Consiglio Direttivo delle Opere (d’ora in poi Consiglio Direttivo). 2. Il Consiglio Direttivo è costituito da membri (che possono essere scelti anche tra coloro che non appartengono all’Istituto), è nominato dal Superiore, sentiti il Consiglio di cui all’art. 4 e l’Economo, e resta in carica fino all’approvazione del quinto bilancio consuntivo delle attività del Ramo. 3.L’Economo può essere nominato membro del Consiglio Direttivo senza che vengano meno i poteri affidatigli dal diritto canonico universale e particolare. 4. L’atto di nomina del Consiglio Direttivo deve essere depositato nel Registro delle Persone Giuridiche e nella Sezione Speciale del Registro Imprese. 5. Il Superiore dell’Istituto conserva comunque la funzione di amministratore ed i relativi poteri ai sensi del diritto canonico universale e particolare e può dimettere/revocare il Consiglio Direttivo con provvedimento che, per avere efficacia, deve essere depositato nel Registro delle Persone Giuridiche e nella Sezione Speciale del Registro Imprese. 6. In caso di dimissioni o cessazione della maggioranza dei membri, decade l’intero Consiglio Direttivo. La rinuncia deve essere presentata al Superiore nelle forme e con gli effetti previsti dal diritto canonico universale e proprio. 7. L’amministrazione ordinaria spetta anche a colui che presiede il Consiglio Direttivo e, se nominati, ai Direttori delle Opere.
[24] Art. 2699 c.c.: «L’atto pubblico è il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato».
[25] Art. 2703 c.c.: «Si ha per riconosciuta la sottoscrizione autenticata dal notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato. L’autenticazione consiste nell’attestazione da parte del pubblico ufficiale che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza. Il pubblico ufficiale deve previamente accertare l’identità della persona che sottoscrive». Rispetto al regolamento del Ramo Onlus non è più ammessa la forma della scrittura privata registrata. Pertanto, i regolamenti dei Rami di Terzo Settore o d’Impresa Sociale potranno prender vita solo grazie all’intervento di un notaio.
[26] La questione delle differenze/similitudini tra l’atto pubblico e la scrittura privata autenticata è delineata a partire dal n. 47, Principi di deontologia professionale dei notai (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 177 del 30 luglio 2008): «L’atto pubblico costituisce la forma primaria e ordinaria di atto notarile, che il notaio deve generalmente utilizzare nella presunzione che ad esso le parti facciano riferimento quando ne richiedono l’intervento, se non risulti una loro diversa volontà e salvo la particolare struttura dell’atto. 48. L’atto di autenticazione delle firme della scrittura privata, comporta in ogni caso per il notaio l’obbligo di tenere i seguenti comportamenti e di osservare le seguenti prescrizioni: a) controllare la legalità del contenuto della scrittura e la sua rispondenza alla volontà delle parti, di regola anche mediante la sua lettura alle stesse prima delle sottoscrizioni; b) indicare nell’autentica e nel repertorio il luogo del comune nel quale l’atto è autenticato. 49. Negli atti conservati a raccolta, pubblici o autenticati, deve essere indicata l’ora di sottoscrizione». Il fatto che l’ente religioso ritenga opportuno inserire nel regolamento anche elementi ulteriori rispetto a quelli esplicitamente richiesti o proposti dalla Riforma, in primis il richiamo di norme legislative canoniche e/o ecclesiastiche, non dovrebbe impedire al notaio di procedere al perfezionamento dell’atto, non trattandosi di norme vietate.
[27] Per praticità il testo del regolamento potrebbe essere predisposto dalla struttura amministrativa canonica della Diocesi o dell’Istituto di vita consacrata e, dopo averlo anticipato al notaio per la verifica del contenuto, essere sottoscritto dall’autorità canonica competente alla presenza del notaio.
[28] Qualora si trattasse di un atto costitutivo di un nuovo soggetto canonico (di natura privata o pubblica, con o senza personalità giuridica canonica) dovrebbe essere assunto dall’ufficio canonico o dal soggetto canonico collegiale che ne ha la competenza (cfr. n. 11, Istruzione in Materia Amministrativa della Cei, 2005).
[29] Can. 1281: «§ 1. Ferme restando le disposizioni degli statuti, gli amministratori pongono invalidamente atti che oltrepassano i limiti e le modalità dell’amministrazione ordinaria, a meno che non abbiano ottenuto prima permesso scritto dall’Ordinario».
[30] In primis le agevolazioni fiscali riconosciute sia al Ramo, sia ai benefattori.
[31] È sufficiente considerare il divieto di distribuire utili previsto tanto dal Codice del Terzo Settore quanto dal Decreto sull’impresa sociale.
[32] L’allegato C è un modello dell’atto che il vescovo diocesano deve adottare ex can. 1281 per definire gli atti di amministrazione straordinaria per le persone giuridiche a sé soggette.
[33] Ai sensi del can. 638 la definizione degli atti di amministrazione straordinaria può essere operata da documenti diversi dalle Costituzioni (per es. i Direttori), purché tecnicamente riconducibili al cosiddetto ‘diritto proprio’.
[34] Tale precisazione sarebbe opportuna anche nell’ipotesi (scolastica) che l’autorità competente non intenda qualificare l’adozione del regolamento come atto di amministrazione straordinaria.
[35] Si tenga conto che l’invalidità – se accertata – avrebbe effetto anche nell’ordinamento giuridico italiano, ai sensi dell’art. 18 della l. n. 222 del 1985.
[36] Di per sé è sufficiente esibire l’autorizzazione canonica qualora tale provvedimento segnali con puntualità anche la decisione assunta dall’organo amministrativo (per es. indicando la denominazione dell’organo, la data ed il luogo della decisione).
[37] Si tratta dell’istituto canonico evocato nei cann. 1291-1295 e del tutto differente, nonostante la definizione sia simile, rispetto al ‘patrimonio destinato’ della Riforma e degli artt. 2447-bis del codice civile. Si veda V. DE PAOLIS, in A. PERLASCA (a cura di), I beni temporali della Chiesa, cit., 256-260; D. MILANI, Il patrimonio stabile, in A. GIANFREDA– M. ABU SALEM (a cura di), Enti religiosi e riforma del Terzo Settore), Roma, 2018, 223-242.
[38] L’inclusione di un bene ecclesiastico nel ‘patrimonio destinato’ lo assoggetta, infatti, ai vincoli previsti dalla Riforma circa l’uso e la destinazione dei beni. A maggior ragione deve essere considerato atto peggiorativo qualora la costituzione del ‘patrimonio destinato’ dovesse essere seguita dall’effetto – ope legis – della segregazione patrimoniale a favore dei soli creditori delle opere del Ramo.
[39] G. FELICIANI, Gli enti ecclesiastici e il sostentamento del clero. Il ruolo della Conferenza Episcopale Italiana, in L. MISTÒ (a cura di), Il nuovo Concordato, LDC, 1986, 65; è interessante la sintesi offerta circa le aspettative che le parti concordatarie avevano risposto nelle nuove disposizioni sull’ente ecclesiastico: «In linea di massima le disposizioni riguardanti gli enti ecclesiastici appaiono coerenti con i principi ispiratori improntati – come avverte la Relazione – a “un indirizzo sostanzialmente innovativo, adeguato alle recenti dinamiche dei rapporti tra strutture ecclesiastiche e società civile”. Non risultano, infatti, né discriminatorie rispetto alle altre persone giuridiche che agiscono nell’ambito dell’ordinamento statale, né privilegiare nei riguardi degli enti di altre confessioni religiose. Mentre impegnano l’ente ecclesiastico a “garantire lo Stato circa la sussistenza di determinati requisiti formali e sostanziali”, gli riconoscono il diritto di “fruire di tutti gli strumenti necessari per il raggiungimento delle proprie finalità e lo svolgimento delle sue diverse attività”. Salvaguardando specificamente le sue caratteristiche originarie e il suo collegamento con la struttura e l’ordinamento della Chiesa, anche se in più circostanze ne uniformano la disciplina al diritto comune, soprattutto per quanto riguarda l’espletamento delle attività diverse da quelle di religione o di culto, i momenti salienti dell’amministrazione patrimoniale, la tutela dei diritti dei terzi che entrano in rapporti negoziali con l’ente».
[40] Come si vedrà oltre, il legislatore esclude che alcune clausole della Riforma debbano essere
inserite nel regolamento elaborato dall’ente religioso che ha istituito il Ramo.
[41] Art. 2, comma 6: «Per gli enti di cui all’articolo 1, comma 3, le disposizioni di cui ai commi 3 e 5 si applicano limitatamente allo svolgimento delle attività di cui al presente articolo» («3. Ai fini di cui al comma 1, si intende svolta in via principale l’attività per la quale i relativi ricavi siano superiori al settanta per cento dei ricavi complessivi dell'impresa sociale, secondo criteri di computo definiti con decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali … 5. Ai fini di cui al comma 4, l’impresa sociale impiega alle sue dipendenze un numero di persone di cui alle lettere a) e b) non inferiore al trenta per cento dei lavoratori. Ai fini del computo di questa percentuale minima, i lavoratori di cui alla lettera a) non possono contare per più di un terzo e per più di ventiquattro mesi dall’assunzione. La situazione dei lavoratori di cui al comma 4 deve essere attestata ai sensi della normativa vigente»).
[42] Non vi è l’obbligo ma resta, comunque, una opzione possibile la cui valutazione è lasciata all’ente religioso.
[43] Art. 11, comma 5: «Il presente articolo non si applica alle imprese sociali costituite nella forma di società cooperativa a mutualità prevalente e agli enti di cui all’articolo 1, comma 3» (c. 1: «Nei regolamenti aziendali o negli statuti delle imprese sociali devono essere previste adeguate forme di coinvolgimento dei lavoratori e degli utenti e di altri soggetti direttamente interessati alle loro attività»; comma 2: «Per coinvolgimento deve intendersi un meccanismo di consultazione o di partecipazione mediante il quale lavoratori, utenti e altri soggetti direttamente interessati alle attività siano posti in grado di esercitare un’influenza sulle decisioni dell’impresa sociale, con particolare riferimento alle questioni che incidano direttamente sulle condizioni di lavoro e sulla qualità dei beni o dei servizi»; comma 3: «Le modalità di coinvolgimento devono essere individuate dall'impresa sociale tenendo conto, tra gli altri elementi, dei contratti collettivi di cui all'articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, della natura dell’attività esercitata, delle categorie di soggetti da coinvolgere e delle dimensioni dell’impresa sociale, in conformità a linee guida adottate con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sentito il Consiglio nazionale del Terzo settore. Delle forme e modalità di coinvolgimento deve farsi menzione nel bilancio sociale di cui all’articolo 9, comma 2»; comma 4: «Gli statuti delle imprese sociali devono in ogni caso disciplinare: a) i casi e le modalità della partecipazione dei lavoratori e degli utenti, anche tramite loro rappresentanti, all’assemblea degli associati o dei soci; b) nelle imprese sociali che superino due dei limiti indicati nel primo comma dell’articolo 2435-bis del codice civile ridotti della metà, la nomina, da parte dei lavoratori ed eventualmente degli utenti di almeno un componente sia dell’organo di amministrazione che dell’organo di controllo»).
[44] Si segnala che tra la previsione del comma 1 e quella del comma 5 dell’art. 12 non vi è perfetta coerenza; infatti il comma 1 dispone che la cessione di azienda «deve essere realizzata … in modo da preservare il perseguimento delle attività e delle finalità del cessionario» per mantenere la sua finalità sociale definita dall’art. 4 del Codice del Terzo Settore e declinata dall’art 8 del medesimo Codice (in relazione alla destinazione del patrimonio e all’assenza di scopo di lucro), mentre il comma 5 esclude che l’ente religioso civilmente riconosciuto sia obbligato a devolvere «il patrimonio residuo … ad altri enti del Terzo Settore» qualora proceda allo scioglimento volontario del Ramo (non altrettanto in caso di perdita di qualifica non volontaria). La questione circa la corretta individuazione degli elementi (e del valore) che costituiscono il patrimonio utilizzato da un ente-impresa sociale e che devono essere destinati ad altri soggetti del Terzo Settore, qualora l’ente rinunci volontariamente alla qualifica d’Impresa Sociale, è stata puntualmente affrontata dalla nota del Ministero del lavoro e delle politiche sociali n. 3979 del 4 maggio 2020: «Per tali ragioni e in riscontro ai quesiti formulati, ogni qualvolta un’impresa sociale deliberi di perdere volontariamente la qualifica posseduta senza contestualmente sciogliersi dovrà devolvere il proprio patrimonio residuo attenendosi al combinato disposto dell’art. 12 comma 5 del d.lgs. n. 112 del 2017 e dell’art. 6 del decreto ministeriale attuativo n. 50 del 2018; inoltre, alla luce delle considerazioni sopra svolte, le indicazioni fornite nel richiamato atto di indirizzo del 2008 dell’ex Agenzia delle Onlus con riferimento a un vincolo devolutivo parziale non possono ritenersi applicabili per analogia alle imprese sociali, il cui ammontare di patrimonio residuo ai fini della devoluzione dovrà essere determinato secondo i soli criteri forniti dall’art. 12 comma 5 d.lgs. n. 112 del 2017». Il Ministero ha escluso che all’impresa sociale si possa applicare il principio per cui dalla parte di patrimonio vincolato deve essere esclusa quella preesistente l’acquisizione della qualifica di Impresa Sociale, come invece ammesso per le Onlus (circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 50 del 31 ottobre 2007 e atto di indirizzo dell’Agenzia per il Terzo settore del 7 maggio 2008) ed esplicitamente previsto per gli enti di Terzo Settore (comma 2, art. 50, d.lgs. n. 117 del 2017).
[45] Si tratta, anzitutto, dei membri degli istituti di vita consacrata e degli associati delle associazioni pubbliche di fedeli che prestano servizio nelle attività/opere dell’ente religioso non in forza di un rapporto di lavoro (subordinato o autonomo) o di altro vincolo contrattuale.
[46] Art. 14, comma 1: «In caso di insolvenza, le imprese sociali sono assoggettate alla liquidazione coatta amministrativa, di cui al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni». Questa esclusione potrebbe comportare per l’ente religioso l’applicazione dell’intero corpus delle procedure concorsuali, incluso il fallimento (procedimento meno “delicato” rispetto alla liquidazione coatta amministrativa).
[47] Ai sensi dell’art. 29, almeno un decimo degli associati può agire ai sensi dell’articolo 2409 del codice civile e ogni associato può «denunziare i fatti che ritiene censurabili all’organo di controllo». Il mancato riconoscimento di questi diritti potrebbe essere giustificato dal fatto che le associazioni pubbliche di fedeli sono soggette ad una particolare vigilanza dell’Ordinario, funzione che dovrebbe assicurare una giusta tutela anche alle ragioni dei soci dissenzienti.
[48] Questa clausola appare per la prima volta in occasione della Revisione del Concordato lateranense (art. 7, comma 3, l. n. 121 del 1985: «3. Agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto, come pure le attività dirette a tali scopi, sono equiparati a quelli aventi fine di beneficenza o di istruzione. Le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime») ma, successivamente, è stata inserita in altri patti, accordi od intese conclusi dallo Stato italiano con altre confessioni religiose (si vedano, l’art. 23, l. n. 516 del 1988 per le Chiese Avventiste del 7° giorno; l’art. 16, l. n. 126 del 2012 per la Sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia ed Esarcato per l’Europa meridionale; l’art. 17, l. n. 128 del 2012 per la Chiesa apostolica in Italia).
[49] Di seguito le confessioni religiose cha hanno concluso con lo Stato italiano, patti, accordi o intese: la Chiesa Cattolica (l. 25 marzo 1985, n. 121), la Tavola Valdese (l. 11 agosto 1984, n. 449 e l. 5 ottobre 1993, n. 409), l’Unione Italiana delle Chiese Cristiane Avventiste del 7° giorno (l. 22 novembre1988, n. 516 e l. 20 dicembre 1996, n. 637), le Assemblee di Dio in Italia (l. 22 novembre 1988, n. 517), l’Unione delle Comunità ebraiche italiane (l. 8 marzo 1989, n. 101 e l. 20 dicembre 1996, n. 638), l’Unione Cristiana evangelica battista d'Italia (UCEBI) (l. 12 aprile 1995, n. 116 e l. 12 marzo 2012, n. 34), la Chiesa evangelica luterana in Italia (CELI) (l. 29 novembre 1995, n. 520), la Sacra Arcidiocesi ortodossa d’Italia ed Esarcato per l’Europa meridionale (l. 30 luglio 2012, n. 126), la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni (l. 30 luglio 2012, n. 127), la Chiesa apostolica in Italia (l. 30 luglio 2012, n. 128), l’Unione buddista italiana (l. 31 dicembre 2012, n. 245), l’Unione induista italiana Sanatana Dharma Samgha (l. 31 dicembre 2012, n. 246), l’Istituto buddista italiano Soka Gakkai (l. 28 giugno 2016, n. 130). Il 30 giugno 2019 è stata siglata l’Intesa con la “Chiesa d’Inghilterra”, che è in attesa della relativa legge di approvazione.
[50] Il principio di compatibilità è affermato in via generale dall’art. 3 del Codice del Terzo Settore: «1. Le disposizioni del presente Codice si applicano, ove non derogate ed in quanto compatibili, anche alle categorie di enti del Terzo settore che hanno una disciplina particolare. 2. Per quanto non previsto dal presente Codice, agli enti del Terzo settore si applicano, in quanto compatibili, le norme del Codice civile e le relative disposizioni di attuazione. 3. Salvo quanto previsto dal capo II del titolo VIII, le disposizioni del presente Codice non si applicano agli enti di cui al decreto legislativo 17 maggio 1999, n. 153». Per questo motivo si potrebbe ritenere che anche la stessa applicazione/applicabilità delle norme della Riforma debba rispettare la struttura e le finalità dell’ente religioso civilmente riconosciuto. Il fatto, poi, che la Revisione del Concordato lateranense e altri accordi con alcune confessioni religiose assumano questo principio come regola ermeneutica generale costituisce un’ulteriore conferma che tutte le norme della Riforma possono essere applicate agli enti ecclesiastici della Chiesa Cattolica solo se non costituiscono un vulnus alla struttura e alla finalità di tali enti. La linearità del principio non evita, però, la fatica di dover individuare quali sono gli elementi concreti e specifici della struttura e della finalità dell’ente che “meritano” di essere tutelati. Una questione in parte simile è stata affrontata nello Scambio di Note tra il Governo della Repubblica italiana e la Santa Sede su taluni aspetti procedurali attinenti al riconoscimento degli enti ecclesiastici dell’11 luglio 1998 – 27 ottobre 1998. Nell’occasione si è riconosciuta la validità del percorso seguito:
«La Santa Sede ritiene che, di per sé, la richiamata legge n. 127 del 1997, in quanto disposizione unilaterale, non ha forza di modificare la vigente disciplina di natura pattizia. Nello stesso tempo Essa apprezza il fatto che il Ministero dell'Interno, consapevole della delicatezza del problema, abbia voluto interpellare il medesimo Consiglio di Stato in merito al corretto modo di procedere nella trattazione delle richieste di riconoscimento civile di nuovi enti prima di dar luogo a prassi innovative. Parimenti apprezzabile è l'indirizzo dato dalla sezione prima del predetto Consiglio: quello, cioè, di risolvere la questione ‘attraverso una consultazione bilaterale’, verificando «quale sia al riguardo l'intendimento della controparte ecclesiastica».
[51] Si vedano, anzitutto, gli articoli del titolo II del Codice del Terzo Settore, titolato ‘Degli enti del Terzo Settore in generale’ che include le norme sulle attività di interesse generale, sull’assenza di scopo di lucro soggettivo, sulla devoluzione del patrimonio in caso di scioglimento dell’ente, sull’iscrizione al Runts, sulle scritture contabili e il bilancio, sul bilancio sociale, sui libri obbligatori e sul rapporto di lavoro. Anche il titolo III ‘Del volontario e dell’attività di volontariato’, il titolo VI ‘Del registro unico nazionale del Terzo Settore’ e il Titolo X ‘Regime fiscale degli enti del Terzo Settore’ contengono norme applicabili – mutatis mutandis – alla generalità dei soggetti giuridici.
[52] Un’incompatibilità di base è data dal fatto che la costituzione di un Ramo non equivale alla costituzione di un soggetto giuridico civile; dunque, le norme della Riforma che riguardano tale profilo non dovrebbero applicarsi all’atto di adozione del regolamento.
[53] Art. 9, d.lgs. n. 117: «1. In caso di estinzione o scioglimento, il patrimonio residuo è devoluto, previo parere positivo dell’Ufficio di cui all’articolo 45, comma 1, e salva diversa destinazione imposta dalla legge, ad altri enti del Terzo Settore secondo le disposizioni statutarie o dell’organo sociale competente o, in mancanza, alla Fondazione Italia Sociale. Il parere è reso entro trenta giorni dalla data di ricezione della richiesta che l’ente interessato è tenuto a inoltrare al predetto Ufficio con raccomandata a/r o secondo le disposizioni previste dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, decorsi i quali il parere si intende reso positivamente. Gli atti di devoluzione del patrimonio residuo compiuti in assenza o in difformità dal parere sono nulli».
[54] L’art. 32 del Codice del Terzo Settore, che ha come rubrica “Organizzazioni di volontariato”, prescrive che le attività di tali organizzazioni devo essere svolte «avvalendosi in modo prevalente dell’attività di volontariato dei propri associati o delle persone aderenti agli enti associati»; ebbene tale vincolo non deve essere recepito dal regolamento adottato né da una parrocchia, dato che non ha natura associativa, né da una associazione pubblica di fedeli in quanto essa, pur avendo natura associativa, non assume i tratti specifici dell’organizzazione di volontariato. Pure non deve essere inserito nel regolamento del Ramo di un ente religioso il divieto di percepire veri e propri ricavi per le attività svolte, comprese quelle dell’art. 5, in quanto la prescrizione dell’art. 33, c. 3 del Codice del Terzo Settore è destinato solo alle Organizzazioni di volontariato: «Per l'attività di interesse generale prestata le organizzazioni di volontariato possono ricevere, soltanto il rimborso delle spese effettivamente sostenute e documentate».
[55] Per il diritto canonico né le diocesi, né le parrocchie, né gli istituti di vita consacrata hanno natura associativa ancorché siano una comunità di fedeli. Lo sono, invece, le associazioni pubbliche/private di fedeli (cann. 298 ss).
[56] Si vedano l’art. 32 del Codice del Terzo Settore (il primo del titolo V “Di particolari categoria di enti del terzo settore”): «1. Le organizzazioni di volontariato sono enti del Terzo settore costituiti in forma di associazione, riconosciuta o non riconosciuta, da un numero non inferiore a sette persone fisiche o a tre organizzazioni di volontariato, per lo svolgimento prevalentemente in favore di terzi di una o più attività di cui all'articolo 5, avvalendosi in modo prevalente dell'attività di volontariato dei propri associati o delle persone aderenti agli enti associati» e l’art. 35: «1. Le associazioni di promozione sociale sono enti del Terzo settore costituiti in forma di associazione, riconosciuta o non riconosciuta, da un numero non inferiore a sette persone fisiche o a tre associazioni di promozione sociale per lo svolgimento in favore dei propri associati, di loro familiari o di terzi di una o più attività di cui all'articolo 5, avvalendosi in modo prevalente dell'attività di volontariato dei propri associati o delle persone aderenti agli enti associati».
[57] Ne sono esclusi, invece, gli elementi tipici richiesti per il riconoscimento della personalità civile dei soggetti privati, considerato che l’ente ecclesiastico ne è già dotato. Sul tema è opportuno ricordare il principio interpretativo esplicitato dalla Commissione Paritetica tra la Santa Sede e la Repubblica italiana nell’Intesa tecnica interpretativa ed esecutiva dell’Accordo modificativo del Concordato Lateranense, 30 aprile 1997: «Le norme approvate con il Protocollo del 15 novembre 1984 nella parte relativa agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti recano una disciplina che presenta carattere di specialità rispetto a quella del codice civile in materia di persone giuridiche. In particolare, ai sensi dell’articolo 1 delle norme predette e in conformità a quanto già disposto dall’articolo 7 comma 2 dell’Accordo del 18 febbraio 1984 tali enti ecclesiastici sono riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili nel rispetto delle loro caratteristiche originarie stabilite dalle norme del diritto canonico. Non sono pertanto applicabili agli enti ecclesiastici le norme dettate dal codice civile in tema di costituzione, struttura, amministrazione ed estinzione delle persone giuridiche private. Non può dunque richiedersi ad essi ad esempio la costituzione per atto pubblico il possesso in ogni caso dello statuto né la conformità del medesimo ove l’ente ne sia dotato alle prescrizioni riguardanti le persone giuridiche private».
[58] I restanti commi dell’art. 22 non sono applicabili al regolamento del Ramo dell’ente ecclesiastico in quanto sono norme dettate in vista dell’attribuzione della personalità giuridica all’ente di Terzo Settore. Per quanto riguarda la previsione del comma 7 – «Nelle fondazioni e nelle associazioni riconosciute come persone giuridiche, per le obbligazioni dell'ente risponde soltanto l'ente con il suo patrimonio» – non si può escludere a priori che possano esistere enti religiosi carenti dell’autonomia patrimoniale perfetta, ed in tal caso occorre ammettere che altri soggetti debbano rispondere delle obbligazioni assunte all’interno del Ramo. Inoltre, allo stato dell’arte, il ‘patrimonio destinato’ del Ramo non è disciplinato in modo tale da consentire di riconoscere al Ramo una sorta di autonomia patrimoniale perfetta. Neppure possono essere osservate le clausole degli artt. 23-25 del Codice del Terzo Settore in quanto riferite agli enti di natura associativa.
[59] Art. 43, comma 6: «Gli amministratori, entro trenta giorni dalla notizia della loro nomina, devono chiederne l'iscrizione nel Registro unico nazionale del terzo settore, indicando per ciascuno di essi il nome, il cognome, il luogo e la data di nascita, il domicilio e la cittadinanza, nonché a quali di essi è attribuita la rappresentanza dell'ente, precisando se disgiuntamente o congiuntamente» e comma 7: «Il potere di rappresentanza attribuito agli amministratori è generale. Le limitazioni del potere di rappresentanza non sono opponibili ai terzi se non sono iscritte nel Registro unico nazionale del Terzo settore o se non si prova che i terzi ne erano a conoscenza». Si deve tener presente che la l. n. 222 del 1985 e il d.P.R. n. 33 del 1987 già prevedono l’obbligo di iscrivere queste notizie nel Registro delle Persone Giuridiche tenuto dalla Prefettura e che gli obblighi di iscrizione al Registro Unico non possono sostituire quelli di iscrizione al RPG previsti dalla normativa concordataria. A tal proposito occorre prestare attenzione affinché nei due registri non risultino notizie contraddittorie. I primi cinque commi dell’art. 26 non si applicano al Ramo in quanto gli organi cui compete l’amministrazione delle opere sono quelli propri dell’ente religioso, fatto salvo che in sede di adozione del regolamento l’ente voglia dotare il Ramo di specifici organi collegiali (in proposito si veda infra il paragrafo 10).
[60] Art. 2475-ter, c.c.: «I contratti conclusi dagli amministratori che hanno la rappresentanza della società in conflitto di interessi, per conto proprio o di terzi, con la medesima possono essere annullati su domanda della società, se il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo. Le decisioni adottate dal consiglio di amministrazione con il voto determinante di un amministratore in conflitto di interessi con la società, qualora le cagionino un danno patrimoniale, possono essere impugnate entro novanta giorni dagli amministratori e, ove esistenti, dai soggetti previsti dall’articolo 2477. In ogni caso sono salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della decisione». Premesso che questa norma si applica anche qualora il regolamento non la richiami in quanto intende tutelare i terzi e l’ente (nel caso, Ramo), potrebbe porsi la questione della sua compatibilità con l’obbligo di rispettare la «struttura e della finalità di tali enti» previsto dall’art. 4, comma 3 del Codice del Terzo Settore, dato che l’amministrazione del Ramo potrebbe (i) essere attribuita non ad un collegio ma ad una persona fisica e questa potrebbe (ii) amministrare anche altri enti religiosi (configurandosi in astratto un caso di conflitto di interesse).
[61] Si ritiene che questa norma estenda la sua efficacia alle figure che partecipano all’amministrazione del Ramo dell’ente religioso anche qualora non fosse inserita nel regolamento in quanto declina uno dei principi cardine della Riforma del Terzo Settore (art. 3, l. 106/2016) ed è un istituto che tutela i terzi e coloro che entrano in rapporto con gli enti del Terzo Settore. Inoltre, tale istituto non è del tutto sconosciuto dall’ordinamento canonico dato che il § 3 del can. 1281 contiene in nuce il principio di responsabilità patrimoniale personale degli amministratori delle persone giuridiche canoniche pubbliche: «La persona giuridica non è tenuta a rispondere degli atti posti invalidamente dagli amministratori, se non quando e nella misura in cui ne abbia beneficio; la persona giuridica stessa risponderà invece degli atti posti validamente ma illegittimamente dagli amministratori, salva l’azione o il ricorso da parte sua contro gli amministratori che le abbiano arrecato danni».
[62] Non si applicano i commi 2 e 3 in quanto riferiti alle associazioni e il c. 4 in quanto relativo ai ‘patrimoni destinati’ ex art. 10 del Codice del Terzo Settore che non coincidono necessariamente con i ‘patrimoni destinati’ ex art. 3, comma 4 del Codice del Terzo Settore. La funzione di controllo interno al Ramo è tema delicato da affrontare in quanto l’ordinamento canonico prevede una funzione di vigilanza esterna (quella del Vescovo o del Superiore) accanto ad una funzione interna di supporto all’amministratore (il Consiglio per gli affari economici ex can. 1280). Tuttavia, la Riforma ha assunto tra i principi cardine quello della trasparenza e del controllo interno (art. 3, comma 1, lett. g, l. n. 106 del 2016) e queste sono buone ragioni per ritenere che anche gli enti religiosi che intendono assumere la qualifica di Terzo Settore – limitatamente alle opere inserite nel Ramo – siano tenuti a prevedere all’interno del regolamento la funzione di controllo con le caratteristiche definite dall’art. 30 del Codice del Terzo Settore, pur facendo sempre salva la necessità di verificare nel concreto la compatibilità con l’obbligo di rispettare la struttura e la finalità degli enti religiosi.
[63] Art. 31: «1. Salvo quanto previsto dall’articolo 30, comma 6, le associazioni, riconosciute o non riconosciute, e le fondazioni del Terzo Settore devono nominare un revisore legale dei conti o una società di revisione legale iscritti nell’apposito registro quando superino per due esercizi consecutivi due dei seguenti limiti: a) totale dell’attivo dello stato patrimoniale: 1.100.000,00 euro; b) ricavi, rendite, proventi, entrate comunque denominate: 2.200.000,00 euro; c) dipendenti occupati in media durante l’esercizio: 12 unità. 2. L’obbligo di cui al comma 1 cessa se, per due esercizi consecutivi, i predetti limiti non vengono superati. 3. La nomina è altresì obbligatoria quando siano stati costituiti patrimoni destinati ai sensi dell’articolo 10».
[64] Preso atto che il legislatore ha specificamente previsto questo istituto per gli enti religiosi che istituiscono un Ramo, si deve riconoscere che non sono applicabili le norme comuni della Riforma relative al patrimonio dell’ente di Terzo Settore (e ai suoi effetti in ordine al riconoscimento della soggettività giuridica piena) nonché il suo valore minimo dato che allo stato attuale dell’interpretazione del Codice del Terzo Settore non è evidente né certo che il Ramo goda – di per sé – di autonomia patrimoniale perfetta rispetto al patrimonio dell’ente religioso.
[65] Nel senso che il ‘patrimonio destinato’ previsto per gli istituti religiosi non implichi di per sé una reale separazione del patrimonio si veda L. SIMONELLI, Gli enti religiosi civilmente riconosciuti e la riforma del terzo settore, in A. FICI (a cura di),La Riforma del Terzo Settore e dell’Impresa Sociale, Napoli, 2017, 337: «Questa configurazione piuttosto leggera (contabile) del patrimonio destinato ad un Ramo dell’ente religioso potrebbe non essere l’unica modalità ammessa dalla Riforma […] Da ultimo, si potrebbe ritenere che l’effetto della segregazione patrimoniale perfetta (rispetto al resto del patrimonio dell’ente religioso) potrebbe sussistere, pur senza far riferimento all’art. 2447-quinquies, qualora al patrimonio destinato possano essere riconosciuti – in forza di un atto di interpretazione (autentica) – gli effetti specifici previsti dal co. 7 dell’art. 22 del Codice (anche per il Ramo Impresa sociale)»; A. RUOTOLO, La costituzione di patrimoni destinati ad uno specifico affare da parte degli enti del Terzo Settore, studio n. 102, 2018, 13: «Il tutto, ovviamente, avrebbe anche riflessi sul grado di separazione del patrimonio destinato per detti enti: non si tratta di separazione patrimoniale perfetta o presunta tale, bensì di destinazione del patrimonio ‘dedicato’ funzionale all’accesso alla disciplina e che si riflette, essenzialmente, in sede di cessazione dell’ente o della attività di Terzo Settore, in direzione di una probabile devoluzione nel senso analogo a quello previsto dall’art. 32, c.c.»; L. SIMONELLI, Il patrimonio destinato, in A. GIANFREDA – M. ABU SALEM (a cura di), Enti religiosi e riforma del Terzo Settore, Roma, 2018, 259: «Alla luce del dogma dell’art. 2740 c.c. … si ritiene che: … 2) il patrimonio destinato che deve essere costituito contestualmente al ramo non gode della segregazione patrimoniale ma concorre alla precisa perimetrazione delle attività e dei beni (materiali ed immateriali, mobili ed immobili, nonché finanziari) che costituiscono il ramo e sono soggetti ai vincoli previsti dal legislatore per assicurare la non lucratività soggettiva di quelle attività e dei loro avanzi di gestione (anche se patrimonializzati); 3) non è vietato all’ente religioso, seppur appare piuttosto complesso, procedere alla costituzione del patrimonio destinato del ramo osservando la disciplina ed i vincoli degli artt. 2447-bis e ss. e, così, godere anche della segregazione patrimoniale dei beni ad esso imputati»; A. PERRONE – V. MARANO, La riforma del Terzo settore e gli enti ecclesiastici: un rischio, un costo, un’opportunità, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 2018, 35, 6: «In conformità al modello regolato dalla disciplina della società per azioni (art. 2447-bis e ss. c.c.), alcuni autori hanno interpretato il riferimento al patrimonio destinato nel senso ‘forte’ di una separazione patrimoniale … Tale lettura si espone, tuttavia, alla tradizionale obiezione per la quale le ipotesi di separazione patrimoniale hanno carattere tassativo in virtù dell’espressa previsione dell’art. 2740, secondo comma, c.c.. In assenza di una specifica previsione di legge non è, pertanto, possibile prospettare una separazione patrimoniale, parimenti dovendosi escludere l’applicazione analogica della disciplina dettata per casi simili – per esempio, in materia di società per azioni – in ragione del carattere eccezionale delle relative disposizioni»; P. CONSORTI, Questioni di diritto patrimoniale canonico. Alcune riflessioni a partire dagli adempimenti conseguenti alla riforma italiana in materia di Terzo settore, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 2019, 10, 29: «In ogni caso, a me pare che i due tipi di patrimoni destinati rimangano diversi, e che il legislatore italiano imponga all’ente ecclesiastico di evidenziare chiaramente quella parte del patrimonio che vincola all’esercizio delle attività di interesse generale, non tanto per limitare una responsabilità patrimoniale nei confronti dei possibili creditori, che verosimilmente potranno aggredire nel caso l’intero patrimonio dell’ente, quanto in funzione sia della verifica di stabilità patrimoniale – quando necessaria, ad esempio nel caso di fondazioni o imprese sociali – sia della valutazione delle forme di controllo che la legge italiana gradua anche in funzione del quantum, sia infine per assicurare che i proventi delle attività d’interesse generale rimangano vincolate alle medesime attività, come previsto in via generale dall’art. 8 CTS». Auspica, invece, una vera segregazione patrimoniale M. FERRANTE, Enti religiosi/ecclesiastici e riforma del Terzo Settore, Torino, 2019,106: «Occorre, dunque, trovare la soluzione giuridica per individuare una porzione del patrimonio dell’ente su cui imprimere un vincolo di destinazione reale e non solo meramente obbligatorio che consenta di rispettare la ratio legis dell’art. 4, comma 3 CTS il quale – utilizzando termini molto forti e densi di significato giuridico quali ‘costituire’ e ‘destinato’ – lascia chiaramente intendere che deve trattarsi di un patrimonio autonomo cioè nettamente distinto da quello stabile o generale dell’ente. In altri termini, si dovrà costituire un patrimonio destinato allo scopo da perseguire ex art. 5 CTS che non possa essere aggredibile con atti esecutivi da quei creditori dell’ente che non hanno maturato le loro ragioni di credito per cause legate allo svolgimento di tutte le altre attività dell’ente diverse da quella per cui lo stesso si è iscritto al RUNTS, inclusa quella istituzionale di religione o di culto, realizzandosi per tale via un ampliamento delle ipotesi di limitazione della responsabilità patrimoniale di cui all’art. 2740, comma 2 c.c., in virtù del criterio di meritevolezza dello scopo». Presuppone una segregazione patrimoniale a favore dei creditori del Ramo P. CAVANA, Enti ecclesiastici e riforma del Terzo settore. Profili canonistici, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 2018, 22, 20: «Gli amministratori di tali enti dovranno quindi essere ben avvertiti del problema e circoscrivere con attenzione il ‘patrimonio destinato’, nel quale andranno necessariamente inclusi tutti i beni mobili (denaro, titoli) e immobili e il complesso dei rapporti giuridici facenti capo alle attività di rilevanza sociale a garanzia dei creditori, senza però pregiudicare quei beni e cespiti patrimoniali essenziali per la sopravvivenza e la missione dell’ente e le esigenze di sostentamento dei suoi membri (“patrimonio stabile”), che dovranno essere sottratti a ogni forma di utilizzo nelle attività di rilevanza sociale anche al fine di evitare la loro sottoposizione a procedure esecutive». A favore di una sovrapposizione tra ‘patrimonio destinato’ per i Rami degli enti religiosi e istituto disciplinato dagli artt. 2447-bis e seguenti del codice civile si veda A. BETTETINI, Riflessi canonistici della riforma del Terzo settore, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 2018, 20, 12: «È interessante notare come, dal punto di vista civilistico, ci troviamo a mio parere innanzi a un ‘patrimonio destinato a una attività’, similmente a quanto previsto dagli articoli 2447-bis e seguenti del Codice civile. Come noto, si tratta di un’ipotesi di segregazione patrimoniale che realizza una limitazione di responsabilità a favore della società costituente, la quale risponde delle obbligazioni assunte per il perseguimento di uno ‘specifico affare’ soltanto con il patrimonio a esso destinato». Per una autonomia patrimoniale perfetta si veda P. FLORIS, Enti religiosi e riforma del Terzo settore: verso nuove partizioni nella disciplina degli enti religiosi, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 2018, 3, 18: «C’è una previsione nuova: riguarda l’obbligo di costituire ‘un patrimonio destinato’ al ramo Ets o a quello di impresa sociale. Essa evoca un preciso istituto civilistico e si presta a essere apprezzata almeno per due ragioni. Anzitutto soddisfa elementari esigenze di certezza e trasparenza sui beni coinvolti nell’esercizio di attività secolari; esigenze riferibili tanto ai creditori dell’ente, interessati a soddisfare i diritti maturati intorno al ramo secolare, quanto allo stesso ente confessionale, a sua volta interessato a non pregiudicare il patrimonio destinato allo svolgimento delle proprie attività istituzionali, di religione o di culto».
[66] Si veda, per esempio, l’art. 2740 c.c. che riserva al legislatore i casi in cui la responsabilità patrimoniale del debitore non coinvolge tutti i suoi beni, presenti e futuri.
[67] Art. 2740: «Il debitore risponde dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri. Le limitazioni della responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla legge». Proprio il periodo finale dell’articolo prescrive che per limitare la responsabilità del debitore, sottraendo una parte dei suoi beni alle ragioni dei creditori (o parte di essi), occorre una previsione legislativa. Mentre in riferimento al ‘patrimonio destinato’ di cui all’art. 4, c. 3 del Codice del Terzo Settore e all’art. 1, comma 3 del decreto sull’Impresa sociale il legislatore della Riforma nulla dispone circa l’eventuale effetto segregativo, al contrario, all’art. 10 del Codice del Terzo Settore è precisato che si tratta del ‘patrimonio destinato’ «ad uno specifico affare ai sensi e per gli effetti degli artt. 2447-bis e seguenti» (che disciplinano esplicitamente e puntualmente la segregazione patrimoniale dei beni inseriti in tale patrimonio). Certamente questo tema è delicato e decisivo in vista della costituzione del ‘patrimonio destinato’, in quanto non è difficile immaginare che la quantità e la qualità dei beni che un ente religioso decide di inserire nel ‘patrimonio destinato’ dipenda anche dalla presenza (o meno) all’effetto segregativo.
[68] “Prima” non intesa come principale ma come più evidente (in riferimento alla lunga tradizione del vincolo sul patrimonio delle Onlus); ciò non impedisce che ve ne siano altre, per esempio, quella della segregazione patrimoniale del Ramo.
[69] Poiché non si dispone, come detto, di elementi sufficienti ad attestare l’effetto segregativo, non dovrebbero sussistere ragioni per cui il valore (netto) del ‘patrimonio destinato’ del Ramo non possa essere inferiore al valore previsto dall’art. 22 del Codice del Terzo Settore per l’acquisto della personalità giuridica delle Fondazioni di Terzo Settore: «Si considera patrimonio minimo per il conseguimento della personalità giuridica una somma liquida e disponibile non inferiore [a 15.000 euro per le associazioni e] a 30.000 euro per le fondazioni. Se tale patrimonio è costituito da beni diversi dal denaro, il loro valore deve risultare da una relazione giurata, allegata all'atto costitutivo, di un revisore legale o di una società di revisione legale iscritti nell'apposito registro». Qualora, invece, in futuro fosse definito l’effetto segregativo, occorrerà considerare altamente probabile che qualora il suo valore netto fosse ritenuto insufficiente dai creditori (in primis gli istituti di credito) essi potrebbero chiedere ulteriori garanzie all’ente religioso che intende istituire il Ramo, dalle garanzie reali (poco liquide) alle fideiussioni (ben più sicure in ordine alla loro rapida escussione).
[70] Come già per le Onlus, si deve riconoscere la scarsa utilità di indicazioni eccessivamente ampie e/o generiche, come pure – di contro – dell’eventuale richiesta di chi vigila sulla corretta applicazione del Codice del Terzo Settore di elencare con acribia le diverse attività che si intendono gestire e, magari, anche le singole operazioni permesse. In principio non si potrà che operare con senso della misura. Sul tema si veda la nota n. 3650 del 2019 del Direttore generale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che specifica i criteri cui devono attenersi gli enti del Terzo settore iscritti al Registro Unico Nazionale nella individuazione dell’oggetto sociale da riportare nello Statuto: «Ne consegue che, ferma la possibilità di esercitare attività diverse, nei limiti sopra descritti, l’individuazione ‘di una o più attività di interesse generale’ non potrà esplicarsi nell’inserimento pedissequo, nello statuto, di un elenco di tutte le attività previste dall’articolo 5 o di un numero di esse tale da rendere indefinito – e come tale non conoscibile – l’oggetto sociale».
[71] «La conseguenza più importante della fondamentale norma pattizia per cui gli enti ecclesiastici vengono introdotti nell’ordinamento italiano con la loro struttura originaria data dall’ordinamento confessionale è l’impossibilità di imporre ad essi di dotarsi di uno statuto avente i requisiti previsti per le persone giuridiche private e di assoggettare lo statuto ad un controllo di merito e alla approvazione governativa. Il legislatore ha avuto, invero, piena consapevolezza del fatto che nell’ordinamento canonico, mentre devono necessariamente avere uno statuto le associazioni e le fondazioni, per gli altri enti ecclesiastici, in primo luogo per quelli facenti parte della costituzione gerarchica della Chiesa, non sempre è richiesto il possesso di tavole statutarie, trovando tali enti delineata la loro organizzazione e i loro compiti non in uno statuto ma nel codice di diritto canonico … L’articolo 5 delle norme approvate con il Protocollo del 15 novembre 1984 dispone l’iscrizione degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti nel registro delle persone giuridiche, e precisa che in esso con le indicazioni prescritte dagli articoli 33 e 34 del codice civile devono risultare le norme di funzionamento ed i poteri degli organi di rappresentanza. … Si raccomanda vivamente agli E.mi Vescovi di disporre che nel redigere l’attestato contenente le norme statutarie la Curia diocesana si attenga ai moduli allegati, predisposti da questo Comitato: 1) attestazione per seminari, chiese e altri istituti ecclesiastici; 2) attestazione per parrocchie (questo documento non è necessario per gli enti facenti parte della costituzione gerarchica della Chiesa, ma può essere depositato per comodità dei terzi); 3) attestazione per istituti religiosi di diritto diocesano (testo analogo a quello usato dalla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica)».
[72] Il regolamento è accessibile a tutti coloro che sono interessati in quanto deve essere depositato al RUNTS o al Registro delle imprese; anche l’attestato sostitutivo dello statuto, il cui format è stato predisposto dal Comitato per gli enti e i beni della Conferenza episcopale italiana, è un documento di per sé destinato alla pubblica conoscenza; per questo motivo è opportuno che sia depositato nel Registro delle persone giuridiche: queste modalità di dare pubblicità incarnano in modo adeguato il principio della trasparenza fatto proprio dalla Riforma. Sul tema si è espresso anche il Ministero del lavoro e delle politiche sociali con la nota n. 3650/2019:
«La funzione del RUNTS nell’intendimento del legislatore è quella di individuare da un lato gli enti in parola, dall’altro quella di assicurare nella misura prevista la conoscibilità degli atti e fatti rilevanti e la trasparenza sulle attività svolte, sui risultati conseguiti, nonché sull’impiego delle risorse, sia di provenienza pubblica che di provenienza privata, che gli enti acquisiscono in conseguenza delle attività stesse».
[73] Art. 47, d.lgs. n. 117 del 2017: «… la domanda di iscrizione nel Registro unico nazionale del Terzo settore è presentata dal rappresentante legale dell'ente …». Per legale rappresentante deve intendersi colui che ope legis o per statuto svolge tale funzione all’interno dell’ente religioso; non dovrebbe poter presentare tale domanda colui che è solo incaricato – anche in forza di procura – di dirigere le attività inserite nel Ramo, salvo che la procura lo preveda esplicitamente.
[74] Il medesimo decreto del MISE precisa al c. 6, art. 2 che «Il deposito viene effettuato, a cura del notaio o degli amministratori, entro trenta giorni dal verificarsi dell’evento … utilizzando i modelli approvati dal Ministero dello sviluppo economico per la presentazione delle domande all’ufficio del Registro delle imprese». Come per il Ramo di Terzo Settore il deposito del regolamento dovrebbe avvenire a cura o del notaio – qualora gli sia stato esplicitamente richiesto – o del legale rappresentate dell’ente (e non anche a cura di colui che sovraintende alla direzione delle attività inserite nel Ramo).
[75] Art. 48, d.lgs. n. 117 del 2017: «1. Nel Registro unico nazionale del Terzo settore devono risultare per ciascun ente almeno le seguenti informazioni: la denominazione; la forma giuridica; la sede legale, con l'indicazione di eventuali sedi secondarie; la data di costituzione; l'oggetto dell'attività di interesse generale di cui all'articolo 5, il codice fiscale o la partita Iva; il possesso della personalità giuridica e il patrimonio minimo di cui all'articolo 22, comma 4; le generalità dei soggetti che hanno la rappresentanza legale dell'ente; le generalità dei soggetti che ricoprono cariche sociali con indicazione di poteri e limitazioni. 2. Nel Registro devono inoltre essere iscritte le modifiche dell'atto costitutivo e dello statuto, le deliberazioni di trasformazione, fusione, scissione, di scioglimento, estinzione, liquidazione e cancellazione, i provvedimenti che ordinano lo scioglimento, dispongono la cancellazione o accertano l'estinzione, le generalità dei liquidatori e tutti gli altri atti e fatti la cui iscrizione è espressamente prevista da norme di legge o di regolamento».
[76] Poiché il Concordato, i patti, gli accordi e le intese sono atti bilaterali recepiti poi dallo Stato in un vero e proprio provvedimento legislativo, i decreti della Riforma (adottati unilateralmente dallo Stato) non dovrebbero essere in grado di modificare quanto previsto in sede pattizia, anche in merito all’iscrizione nei registri prefettizi.
[77] La questione è delicata e rilevante, trattandosi di un’iscrizione che ha effetto costitutivo e non solo dichiarativo; per questo motivo e per rendere consapevoli gli amministratori degli enti ecclesiastici che attivano un Ramo di Terzo Settore o d’Impresa Sociale è auspicabile poter disporre di un chiarimento formale circa il rapporto che intercorre tra l’iscrizione al RPG e al RUNTS/Registro delle imprese, alla luce di quanto disposto dall’art. 52 del Codice del Terzo Settore: «Gli atti per i quali è previsto l'obbligo di iscrizione, annotazione ovvero di deposito presso il Registro unico nazionale del Terzo settore sono opponibili ai terzi soltanto dopo la relativa pubblicazione nel Registro stesso, a meno che l'ente provi che i terzi ne erano a conoscenza».
[78] Art. 47: «2. L'ufficio competente di cui al comma 1 verifica la sussistenza delle condizioni previste dal presente Codice per la costituzione dell'ente quale ente del Terzo settore, nonché per la sua iscrizione nella sezione richiesta. 3. L'ufficio del Registro, entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, può: a) iscrivere l'ente; b) rifiutare l'iscrizione con provvedimento motivato; c) invitare l'ente a completare o rettificare la domanda ovvero ad integrare la documentazione. 4. Decorsi sessanta giorni dalla presentazione della domanda o dalla presentazione della domanda completata o rettificata ovvero della documentazione integrativa ai sensi del comma 3, lettera c), la domanda di iscrizione s'intende accolta».
[79] Art. 4, decreto del MISE del 16 marzo 2018: «1. L’ufficio del Registro delle imprese che riceve la domanda di deposito presentata dall’organizzazione che esercita l’impresa sociale, ne verifica la completezza formale e la presenza nell’atto costitutivo dell’oggetto sociale e dell’assenza dello scopo di lucro di cui all’articolo 5, comma 1, lettera a) e b), del decreto legislativo n. 112 del 2017, prima di procedere all’iscrizione nell’apposita sezione. 2. Ai fini dell’iscrizione, l’ufficio del Registro delle imprese acquisisce la dichiarazione del rappresentante legale dell’ente relativa all’eventuale iscrizione in essere presso altra sezione del Registro unico nazionale del Terzo settore. L’avvenuta iscrizione nell’apposita sezione del registro delle imprese è comunicata, a cura del competente ufficio del registro delle imprese, all’ufficio del Registro unico nazionale competente, che provvede a cancellare l’ente iscritto come impresa sociale dall’altra sezione del Registro unico nazionale del Terzo settore con la medesima decorrenza dell’iscrizione nel registro delle imprese. Si applica, in via transitoria, l’articolo 101, comma 3, del decreto legislativo n. 117 del 2017. 3. L’ufficio del Registro delle imprese, nel caso in cui ne ravvisi la necessità, può invitare l’organizzazione che esercita l’impresa sociale a completare, modificare o integrare la domanda entro un congruo termine, trascorso il quale, con provvedimento motivato, rifiuta il deposito dell’atto nella sezione delle imprese sociali».
[80] Si vedano il comma 3, art. 104 del Codice del Terzo Settore e il comma 1, art. 21 del d.lgs. n. 112 del 2017: «Il presente decreto entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana».
[81] Art. 102. Abrogazioni. «1. Sono abrogate le seguenti disposizioni salvo quanto previsto ai commi 2, 3 e 4: a) la legge 11 agosto 1991, n. 266, e la legge 7 dicembre 2000, n. 383; …. 2. Sono altresì abrogate le seguenti disposizioni a decorrere dal termine di cui all'articolo 104, comma 2: a) gli articoli da 10 a 29 del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, fatto salvo l'articolo 13, commi 2, 3 e 4; … d) l'articolo 8, comma 2, primo periodo e comma 4 della legge 11 agosto 1991, n. 266; … g) gli articoli 20 e 21 della legge n. 383 del 7 dicembre 2000».
[82] Di contro, un ente ecclesiastico che svolga una delle attività indicate nel decreto Onlus o nel decreto n. 112 del 2017 e 112 del 2017 senza aver istituito formalmente un Ramo Onlus non è soggetto e non può avvalersi di alcuna norma della Riforma del Terzo Settore.
[83] La lettera a) del comma 2 dell’art. 102 del Codice del Terzo Settore precisa, infatti, che gli articoli citati saranno abrogati solo dall’inizio del periodo d’imposta successivo all’autorizzazione della Commissione europea e all’operatività del RUNTS.
[84] Art. 104, comma 1, d.lgs. n. 117 del 2017: «1. Le disposizioni di cui agli articoli 77, 78, 81, 82, 83 e 84, comma 2, 85 comma 7 e dell'articolo 102, comma 1, lettere e), f) e g) si applicano in via transitoria a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2017 e fino al periodo d'imposta di entrata in vigore delle disposizioni di cui al titolo X secondo quanto indicato al comma 2 …».
Per quanto riguarda la vigenza di questi articoli anche nel periodo d’imposta 2017 si veda l’art. 5-sexies, del d.l. n. 148 del 2017, inserito in sede di conversione dalla l. n. 172 del 2017: «Art. 5-sexies. Interpretazione autentica dell'articolo 104 del decreto legislativo 2 agosto 2017, n. 117. 1. L'articolo 104 del codice di cui al decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, si interpreta nel senso che i termini di decorrenza indicati nei commi 1 e 2 valgono anche ai fini dell'applicabilità delle disposizioni fiscali che prevedono corrispondentemente modifiche o abrogazioni di disposizioni vigenti prima della data di entrata in vigore del medesimo codice di cui al decreto legislativo n. 117 del 2017. Pertanto, le disposizioni di carattere fiscale richiamate dagli articoli 99, comma 3, e 102, comma 1, del medesimo codice di cui al decreto legislativo n. 117 del 2017 continuano a trovare applicazione senza soluzione di continuità fino al 31 dicembre 2017».
[85] Questo elenco rispecchia le sezioni del RUNTS di cui all’art. 46 del Codice del Terzo Settore.
[86] Per gli enti di terzo settore che ai sensi dell’art. 79 del Codice del Terzo Settore sono considerati “non commerciali”, secondo la nuova definizione introdotta dal comma 5, il vantaggio fiscale riconosciuto dal Codice del Terzo Settore è dato, anzitutto, dalla non applicazione alle attività non commerciali degli adempimenti formali tipici del reddito di impresa (si veda quanto previsto dal d.P.R. n. 600 del 1973): anzitutto l’obbligo delle scritture contabili fiscali. L’art. 79 detta anche una nuova definizione di attività non commerciale – «Le attività di interesse generale … si considerano di natura non commerciale quando sono svolte a titolo gratuito o dietro versamento di corrispettivi che non superano i costi effettivi, tenuto anche conto degli apporti economici degli enti di cui sopra e salvo eventuali importi di partecipazione alla spesa previsti dall'ordinamento» – radicalmente diversa da quella data dall’art. 73, comma 1, lett. c) del T.U.I.R. fondata, invece, sulla mera carenza di organizzazione e/o abitualità delle attività prevalentemente svolte e non sull’assenza di avanzi di gestione (si veda anche il comma 2-bis dell’art. 79 che sterilizza l’avanzo di gestione per non più di un biennio, purché non sia di importo superiore al 5% dei costi). Non si tratta di una novità marginale in quanto gli enti si potranno considerare non commerciali se le loro attività prevalenti non registrano un avanzo di gestione e non, invece, se difettano della struttura/organizzazione tipica dell’impresa. Un esempio: ai sensi dell’art. 73 del T.U.I.R. una fondazione che gestisce una scuola dell’infanzia è considerata un ente commerciale – anche se registra costantemente un disavanzo di gestione – in quanto l’attività è svolta in modo abituale, con specifica organizzazione e a fronte di corrispettivi; al contrario, ai sensi dell’art. 79 del Codice del Terzo Settore, la medesima fondazione potrà essere considerata non commerciale purché l’attività di scuola dell’infanzia non registri un avanzo di gestione (oppure per non più di un biennio l’avanzo di gestione non superi il 5% dei costi). Come oggi, anche quando sarà pienamente in vigore il Codice del Terzo Settore, l’avanzo di gestione delle attività di interesse generale considerate commerciali (proprio perché generano avanzi) rimarrà assoggettato al corpus normativo del reddito di impresa e tali avanzi continueranno a costituire la base imponibile IRES (si veda l’art. 80, d.lgs. n. 117 del 2017).
[87] Art. 18, comma 1, d.lgs. n. 112 del 2017: «1. Non concorrono alla formazione del reddito imponibile delle imprese sociali le somme destinate al versamento del contributo per l'attività ispettiva di cui all'articolo 15, nonché le somme destinate ad apposite riserve ai sensi dell'articolo 3, commi 1 e 2. L'utilizzazione delle riserve a copertura di perdite è consentita e non comporta la decadenza dal beneficio, sempre che non si dia luogo a distribuzione di utili fino a quando le riserve non siano state ricostituite».
[88] Art. 4, comma 1 del Codice del Terzo Settore: «Sono enti del Terzo settore … gli enti di carattere privato diversi dalle società … iscritti nel registro unico nazionale del Terzo settore».
[89] La data del 31 ottobre 2020, che sostituisce quella del 30 giugno 2020, è stata introdotta dall’art. 35, comma 2 del d.l. n. 18 del 20 marzo 2020 (cosiddetto Decreto Cura Italia, emanato per affrontare la crisi causata dalla pandemia del Covid-19), convertito in legge n. 27 del 24 aprile 2020: «All'articolo 101, comma 2 del codice del Terzo settore, di cui al decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, le parole “entro ventiquattro mesi dalla data della sua entrata in vigore” sono sostituite dalle seguenti “entro il 31 ottobre 2020”». Il termine entro cui provvedere alla modifica dello statuto (e del regolamento del Ramo Onlus) è stato più volte modificato:
la versione originale dell’art. 101, comma 2 del d.lgs. n. 117 del 2017 prevedeva che l’adeguamento dovesse avvenire entro 18 mesi, ma in occasione della emanazione dei previsti decreti correttivi (art. 32 del d.lgs. n. 105/2018) il termine è stato esteso a 24 mesi (cioè entro il 3 agosto 2019); tuttavia la legge che ha convertito il d.l n. 34 del 2019 (l. n. 58 del 28 giugno 2019) ha introdotto il comma 4-bis all’art. 43 che aveva prorogato il temine fino al 30 giugno 2020.
[90] Art. 101, comma 2 «Fino all'operatività del Registro unico nazionale del Terzo settore, continuano ad applicarsi le norme previgenti ai fini e per gli effetti derivanti dall'iscrizione degli enti nei Registri Onlus, Organizzazioni di Volontariato, Associazioni di promozione sociale che si adeguano alle disposizioni inderogabili del presente decreto entro il 31 ottobre 2020. Entro il medesimo termine, esse possono modificare i propri statuti con le modalità e le maggioranze previste per le deliberazioni dell'assemblea ordinaria al fine di adeguarli alle nuove disposizioni inderogabili o di introdurre clausole che escludono l'applicazione di nuove disposizioni derogabili mediante specifica clausola statutaria».
[91] Sulla questione si sono espresse prima la circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali n. 13 del 31 maggio 2019 (quando la scadenza era fissata al 3 agosto 2019) e poi la risoluzione dell’Agenzia delle entrate n. 89/E del 25 ottobre 2019 (quando la scadenza era stata rinviata al 30 giugno 2020).
[92] La questione del rapporto tra la mancata modifica dello statuto o del regolamento Onlus e l’impossibilità di (continuare ad) applicare le agevolazioni Onlus previgenti è stata sollevata dagli operatori e dagli amministratori degli enti e, poi, affrontata dai due provvedimenti amministrativi citati.
[93] Circolare n. 13/2019: «Naturalmente rimane del tutto impregiudicata la potestà delle amministrazioni che gestiscono i registri delle organizzazioni di volontariato e delle associazioni di promozione sociale istituiti sulla base delle l. n. 266 del 1991 e l. n. 383 del 2000 di adottare, ancor prima della trasmigrazione, eventuali provvedimenti di cancellazione dai rispettivi registri nei confronti di enti a carico dei quali siano state riscontrate situazioni di contrasto rispetto al quadro normativo risultante dalla vigente normativa di riferimento, alla luce del dettato del primo periodo dell’art. 101, comma 2 del Codice».
[94] Si tenga presente che per gli enti religiosi civilmente riconosciuti le norme dei Decreti della Riforma si applicano «nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti».
[95] Diversamente dalle OdV e APS – che per l’art. 54 del Codice del Terzo Settore saranno automaticamente trasferite dai loro registri al RUNTS – le Onlus e gli enti ecclesiastici che hanno attivato un Ramo Onlus e che intendono accedere al Terzo Settore dovranno presentare domanda di iscrizione al RUNTS e, per il comma 8 dell’art. 101, solo tale atto comporta l’automatica cancellazione dall’anagrafe Onlus.
[96] Per poter, invece, acquisire la qualifica di Impresa Sociale, l’ente o il Ramo di un ente religioso civilmente riconosciuto dovrà essere iscritto nell’apposita sezione del Registro delle imprese, come previsto dal comma 3, art. 11 del Codice del Terzo Settore: «Per le imprese sociali, l'iscrizione nell'apposita sezione del Registro delle imprese soddisfa il requisito dell'iscrizione nel registro unico nazionale del Terzo settore».
[97] In forza del all’art. 35, comma 2 del d.l. 18 del 20 marzo 2020 la scadenza del 30 giugno 2020 è sostituita con la nuova scadenza del 31 ottobre 2020.
[98] Il fatto che sia venuta meno la disciplina delle Onlus senza che l’ente (o il Ramo) sia entrato nel nuovo mondo del Terzo Settore o dell’Impresa Sociale non dovrebbe affatto significare che sono anche venuti meno i vincoli sulla destinazione del patrimonio previsti dal d.lgs. n. 460 del 1997. Sarebbe, infatti, un esito irrazionale rispetto al principio per cui il patrimonio e gli avanzi di gestione (delle Onlus prima e del Terzo Settore/Impresa Sociale poi) accumulati grazie ad un regime di favore non possono ritornare nella libera disponibilità dell’ente. Un’interpretazione un poco rigorista potrebbe indurre a ritenere che gli enti (o i rami) Onlus che al momento della abrogazione della sezione II del d.lgs. n. 460 del 1997 non hanno ancora presentato l’iscrizione al RUNTS o al Registro delle Imprese si trovino nella condizione equivalente a quelli che hanno perso la qualifica di Onlus: «Si precisa che la perdita di qualifica equivale, ai fini della destinazione del patrimonio, allo scioglimento dell'ente. A tale conclusione si perviene in considerazione della ratio della disposizione in argomento intesa ad impedire all'ente, che cessa per qualsiasi ragione di esistere come Onlus, la distribuzione del patrimonio, costituito anche in forza di un regime fiscale privilegiato, o la sua destinazione a finalità estranee a quelle di utilità sociale tutelate dal decreto legislativo in esame. Non si ritiene, infatti, di poter consentire all'ente vincolato quale Onlus nella distribuzione e nella destinazione degli utili o avanzi di gestione di vanificare tali vincoli attraverso il libero utilizzo del patrimonio a seguito della perdita della qualifica di Onlus. Pertanto, in caso di perdita della qualifica, la Onlus dovrà devolvere il patrimonio ad altra organizzazione non lucrativa di utilità sociale o a fini di pubblica utilità, sentito il menzionato organismo di controllo» (circolare MEF n. 168/E/1998, lett. c, paragrafo 1.6). In attesa di eventuali chiarimenti (magari in sede di adozione del decreto di cui all’art. 53 del Codice del Terzo Settore) è opportuno che gli amministratori prestino attenzione ai tempi e verifichino le decisioni che intendono assumere.
[99] Questa possibilità di intervenire sul regolamento Onlus vigente permetterebbe all’ente di rimediare ad eventuali imprecisioni del testo e/o di adeguarlo alla realtà del Ramo Onlus, qualora la loro realtà sia ancora compatibile con il Decreto Onlus. In queste ipotesi il nuovo regolamento Onlus deve essere registrato e depositato nell’Anagrafe delle Onlus ed entrerà immediatamente in vigore, sostituendo il precedente.
[100] Merita di essere segnalata la circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 59/E/2007 laddove precisa che «… nella circolare n. 168/E del 26 giugno 1998 è stato precisato che ‘la perdita di qualifica equivale, ai fini della destinazione del patrimonio, allo scioglimento dell’ente’. Ciò posto – nel confermare detta conclusione che, come già precisato nella citata circolare n. 168/E del 1998, è stata adottata in considerazione della ratio della disposizione recata dall’art. 10, comma 1, lettera f), del decreto legislativo n. 460 del 1997, intesa ad impedire all’ente che cessa per qualsiasi ragione di esistere come Onlus, la distribuzione del patrimonio, costituito anche in forza di un regime fiscale privilegiato, o la sua destinazione a finalità estranee a quelle di utilità sociale tutelate dal decreto legislativo n. 460 del 1997 – si precisa quanto segue. Nell’ipotesi in cui un ente, pur perdendo la qualifica di Onlus, non intenda sciogliersi, ma voglia continuare ad operare come ente privo della medesima qualifica, si ritiene che lo stesso sia tenuto a devolvere il patrimonio, secondo i criteri indicati all’art. 10, comma 1, lettera f del decreto legislativo n. 460 del 1997, limitatamente all’ incremento patrimoniale realizzato nei periodi d’imposta in cui l’ente aveva fruito della qualifica di Onlus. Viene fatto salvo, quindi, il patrimonio precedentemente acquisito prima dell’iscrizione nell’anagrafe delle Onlus».
[101] Di per sé, pur in assenza dell’autorizzazione della Commissione europea, l’ente ecclesiastico potrebbe già adottare un regolamento di Impresa Sociale imputando a tale Ramo parte delle attività del Ramo Onlus (o, anche, attività finora non incluse nel Ramo Onlus): in tal caso, pur non godendo della defiscalizzazione degli avanzi di gestione delle Impresa Sociale, le attività avrebbero ope legis la qualifica di attività/Ramo senza scopo di lucro.
[102] In questo caso il regolamento deve essere compatibile con il solo Codice del Terzo Settore e non con il Decreto Onlus.
[103] Intesa tecnica interpretativa ed esecutiva dell’Accordo modificativo del Concordato Lateranense, 30 aprile 1997: «Con riguardo poi agli enti ecclesiastici la Santa Sede lamentava che l’Amministrazione italiana, in più occasioni, avesse, ai fini del riconoscimento, richiesto il possesso, per gli enti medesimi, di requisiti concernenti le persone giuridiche disciplinate dal Codice civile e di acquisire documenti non necessari (ad esempio quelli relativi ai mezzi finanziari dell’ente). … La Commissione paritetica ha raggiunto una amichevole soluzione delle questioni che le sono state sottoposte, riconoscendo che le norme approvate con il Protocollo del 15 novembre 1984 devono essere interpretate ed applicate, in conformità al loro testo ed alle intenzioni delle parti stipulanti, secondo le precisazioni di seguito indicate: … Le norme approvate con il Protocollo del 15 novembre 1984 nella parte relativa agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti recano una disciplina che presenta carattere di specialità rispetto a quella del codice civile in materia di persone giuridiche. In particolare, ai sensi dell’articolo 1 delle norme predette e in conformità a quanto già disposto dall’articolo 7 comma 2 dell’Accordo del 18 febbraio 1984 tali enti ecclesiastici sono riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili nel rispetto delle loro caratteristiche originarie stabilite dalle norme del diritto canonico. Non sono pertanto applicabili agli enti ecclesiastici le norme dettate dal Codice civile in tema di costituzione, struttura, amministrazione ed estinzione delle persone giuridiche private. Non può dunque richiedersi ad essi ad esempio la costituzione per atto pubblico il possesso in ogni caso dello statuto né la conformità del medesimo ove l’ente ne sia dotato alle prescrizioni riguardanti le persone giuridiche private. L’Amministrazione che esamina le domande di riconoscimento degli enti ecclesiastici agli effetti civili verifica la sussistenza dei requisiti previsti dalle norme per le diverse categorie di enti. In particolare, l’Amministrazione accerta salvo che per gli enti di cui all’articolo 2 primo comma delle norme citate che il fine di religione o di culto sia costitutivo ed essenziale: a tal fine gli enti debbono produrre gli elementi occorrenti quali risultano dalla documentazione di regola rilasciata dall’autorità ecclesiastica, comprese le norme statutarie, ove ne siano dotati ai sensi del diritto canonico. Resta quindi esclusa la richiesta di requisiti ulteriori rispetto a quelli che, secondo le norme citate, costituiscono oggetto di accertamento o valutazione ai fini del riconoscimento degli enti ecclesiastici agli effetti civili, nonché di documenti non attinenti ai requisiti medesimi. Gli altri elementi previsti dall’articolo 5 delle norme predette – ad esempio il patrimonio – sono necessari soltanto al fine dell’iscrizione dell’ente civilmente riconosciuto nel registro delle persone giuridiche».
[104] Si veda il caso delle persone giuridiche pubbliche canoniche che non sono rette da uno statuto in quanto l’intero complesso delle norme di funzionamento è immediatamente contenuto nel Codice di diritto canonico: le parrocchie e le diocesi, in primis.
[105] Tale lettura pare essere un presupposto della soluzione elaborata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nella circolare n. 13/2019: «La disposizione menzionata, nella sua interezza, attribuisce agli enti iscritti un onere ed al contempo una facoltà: sotto il primo profilo, il conformarsi, attraverso l'adeguamento statutario, al nuovo quadro normativo, più che l'assoggettamento ad un obbligo, rappresenta l'espressione attraverso la quale l'ente manifesta la propria libera scelta di permanere all'interno del Terzo settore; le modifiche che l'ente apporta costituiscono appunto la conseguenza di tale decisione, i cui effetti sono attualmente integrati, in via transitoria, ai sensi della previsione dell'articolo 101, comma 3».
[106] Come anticipato nei paragrafi precedenti, sussiste comunque la necessità di prevedere all’interno del regolamento Terzo Settore o di Impresa Sociale l’organismo cui affidare la funzione di controllo, dato che si tratta di uno dei cardini della Riforma.
[107] Il fatto di prevedere questi nuovi organismi collegiali all’interno del regolamento consente ai terzi di poter conoscere il modo di funzionamento dell’ente ecclesiastico e del suo Ramo in quanto il regolamento deve essere depositato nel RUNTS o nel Registro delle imprese, oltre che nel Registro delle persone giuridiche tenuto dalla Prefettura (a motivo di quanto previsto dall’art. 5, l. n. 222 del 1985).
[108] Trasparenza e controllo interno/esterno presuppongono, infatti, l’alterità soggettiva tra chi esercita la funzione amministrativa e chi esercita la vigilanza canonica o il controllo prescritto dalla Riforma. Papa Francesco, I beni temporali, Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio, 4 luglio 2016: «Con la presente Lettera, precisando quanto stabilito e modificando quanto appare necessario emendare, intendo ribadire la direttiva fondamentale che è necessario separare in maniera netta e inequivocabile la gestione diretta del patrimonio dal controllo e vigilanza sull’attività di gestione. A tale scopo, è della massima importanza che gli organismi di vigilanza siano separati da quelli vigilati».
*Aggiornato al 4 maggio 2020.