Riflessioni in tema di concorrenza illecita fra professionisti
Ordinario di Diritto commerciale, Università di Genova
Il presente convegno mette a tema la concorrenza nelle professioni: concorrenza sleale, in particolare, anche se com’è noto non si tratta di nozioni coincidenti: inizialmente ci si è confrontati con la nozione economica e ciò per motivi esogeni al nostro ordinamento.
Ostacolo a che si parlasse di concorrenza rispetto alle professioni è stata la resistenza a riconoscere un'impresa nell’esercizio di attività professionale: tale pregiudizio ha radici antiche ed è tuttora presente nella nostra cultura giuridica. Ancora di recente è stato scritto che «il professionista, in generale, e il professionista intellettuale in particolare non è mai in quanto tale imprenditore … Il legislatore ha voluto esonerare i professionisti intellettuali dallo statuto dell’imprenditore con conseguente inapplicabilità della disciplina della concorrenza sleale»[1]. Conferme se ne trovano nella giurisprudenza di merito: ad esempio la Pretura di Verona[2] ha escluso la legittimazione ad agire in tema di concorrenza sleale in capo ai professionisti per difetto del requisito soggettivo indispensabile della qualifica di imprenditore.
Lo stesso legislatore all’art. 5, lett. m), l. 31 dicembre 2012, n. 247 (oggi abrogato) non esitava ad affermare che «l’esercizio della professione forense in forma societaria non costituisce attività di impresa».
In altra autorevole sede si è, però, affermato che «nella giurisprudenza europea e nazionale la nozione di impresa, nell’ambito del diritto comunitario della concorrenza, comprende qualsiasi attività che eserciti un’attività economica, a prescindere dal suo status giuridico e dalle modalità di finanziamento. Si tratta quindi … di una nozione più economica che giuridica nel senso che la sua essenziale connotazione risiede nell’esercizio organizzato e durevole di un’attività economica sul mercato, a prescindere dal modo in cui i singoli ordinamenti nazionali definiscono l’ente o la persona fisica alla quale la suddetta attività economica fa capo»[3]. Non è a questi fini irrilevante ricordare (come fa il precedente ora menzionato) che anche un soggetto indubbiamente pubblico come l’Agenzia per il territorio è stato ritenuto sfruttare abusivamente la posizione dominante di cui godeva in relazione all’utilizzo dei dati dei pubblici registri ipotecari e catastali[4]. In argomento già si era pronunciata la Corte di giustizia nel celeberrimo caso Wouter[5] con la sentenza che aveva ritenuto sottoposte alle regole di concorrenza comunitarie le norme disciplinanti la collaborazione interprofessionale (nel caso di specie avvocati e società di revisione).
È possibile, infatti, ritenere che l’art. 2238 c.c. (spesso invocato in senso contrario), se interpretato in maniera orientata, stante la sussistenza degli elementi identificativi posti dall’art. 2082 c.c., non sia di ostacolo a riconoscere natura imprenditoriale all’attività professionale: gli artt. 2135 e 2195 c.c. sarebbero solo specificazioni settoriali e non esaustive di una più generale nozione di impresa, senza quindi esaurirne le potenzialità[6].
Una conferma implicita può desumersi dalla disciplina della società tra avvocati contenuta nel nuovo testo dell’art. 4-bis, inserito dalla l. 4 agosto 2017, n. 124, nella l. n. 247 del 2012 contenente la disciplina dell’ordinamento forense e nell'abrogazione dell’art. 5 della stessa legge 247. Mentre, infatti, quest’ultima disposizione conteneva una delega (scaduta) al Governo per emanare la disciplina della società tra avvocati, al comma 2 lettera m) figurava la perentoria esclusione della natura imprenditoriale di questa società, che conseguentemente non poteva essere soggetta a fallimento. Nel nuovo art. 4-bis tale indicazione non compare, cosicché è consentito ragionare circa la natura imprenditoriale delle Stp e sulle regole applicabili in caso di insolvenza. Il Tribunale di Forlì[7] ha di recente affrontato il tema, in verità in maniera piuttosto sbrigativa considerata la delicatezza della questione, e ha escluso la fallibilità di una Srl costituita tra commercialisti «non esercitando un’attività di carattere commerciale e non rivestendo la qualifica di imprenditore» (la fattispecie rientrava nell’ambito di applicazione della l. n. 183 del 2011).
Il problema è oggi affrontato dalla legge delega per la riforma della disciplina della crisi d’impresa il cui art. 2 lett. e) sottopone il professionista insolvente alla procedura di sovraindebitamento (art. 9) assieme ai debitori civili e agli imprenditori di modeste dimensioni. Sarà forse il legislatore delegato a dettare poi discipline differenti a seconda delle dimensioni dello studio professionale o della forma in cui l’attività è esercitata.
In margine si può notare come oggi l’art. 4-bis della l. n. 247 del 2012 preveda anche (sia pure minoritaria) la partecipazione di soci capitalisti e come la giurisprudenza amministrativa abbia riconosciuto la perfetta purificazione di questi soggetti alle società costituite da soli professionisti abilitati[8].
In verità nell'ordinamento si percepiscono oggi segnali, anche se certamente sparsi, di una tendenza all'assimilazione dell’area professionale a quella che genericamente potremmo definire di impresa.
Ciò suggerisce, ad esempio, l'applicabilità del Codice del consumo (d.lgs. n. 206 del 2005) il cui art. 3, comma 1, lettera c) ne prevede l'operatività, oltre che per l’attività imprenditoriale commerciale e artigiana, anche per quella professionale. In questo senso si è espressa la Corte di giustizia[9] e lo ha confermato anche recentemente il Giudice di pace di Milano[10].
Del pari va ascritto a questa tendenza l’accesso delle professioni ai bandi UE previsto dalla legge di stabilità 2016 al comma 821 per i fondi strutturali europei[11]. Significativo a tal proposito è anche l’art. 12, l. 22 maggio 2017, n. 81, che a questi fini assimila i professionisti alle piccole e medie imprese e incentiva l’aggregazione fra studi attraverso le reti, i consorzi stabili fra professionisti e le associazioni temporanee fra professionisti (possibilità già prevista, sia pure settorialmente, dal c.d. Codice degli appalti[12]).
Un ulteriore segnale in questo senso è percepibile dalla progressiva diffusione della certificazione delle competenze professionali dell’organizzazione dello studio fino ad oggi proprie delle imprese.
Si può dire, quindi, che oggi sembra essere venuta meno la damnatio nei confronti della configurazione dell’attività professionale quale impresa.
Apparentemente controtendenza è quanto è oggi disposto dalla l. 27 dicembre 2017, n. 205 (c.d. legge di bilancio 2018) la quale ai commi 487 e 488 ha introdotto a favore dei professionisti il c.d. equo compenso e la nullità delle clausole vessatorie (disciplina prevista per gli avvocati dell’art. 13-bis l. n. 247 del 2012) quando il professionista si trovi a ricoprire il ruolo di parte «contrattuale debole».
La barriera, invisibile ma coriacea, che separa(va) il mondo delle professioni da quello dell'impresa evitava l’applicazione della disciplina più pertinente e appropriata anche quando ci si fosse trovati in presenza di situazioni e comportamenti che verosimilmente costituivano sicuri esempi di concorrenza sleale: si considerava la circostanza giuridicamente irrilevante, oppure si faceva ricorso alle figure civilistiche che meglio si adattavano alla fattispecie, sia pure con qualche artifizio.
Così è stato in un caso affrontato dalla Corte d’appello di Genova[13] relativo allo storno di clientela da parte dell'ex associato a uno studio di consulenti del lavoro. Il Giudice di prime cure aveva escluso la rilevanza del comportamento, mentre la Corte ha ritenuto il professionista accaparratore responsabile a titolo sia contrattuale sia aquiliano, senza tuttavia spingersi a configurare un’ipotesi di concorrenza sleale, come pure sarebbe stato appropriato. In una fattispecie molto prossima, invece, con un’elaborata pronuncia il Tribunale di Bologna[14] ha ritenuto applicabile l’art. 2598 c.c. nei confronti di un consulente del lavoro che aveva stornato a suo favore la clientela del suo precedente datore di lavoro.
Un punto fermo su questa strada può oggi essere riconosciuto a una recentissima sentenza del Tribunale di Milano[15] il quale con una pronuncia ampiamente motivata non ha esitato a riconoscere l’applicabilità della disciplina della concorrenza sleale ai rapporti interprofessionali tra avvocati.
Un significativo passo in questa direzione era già stato fatto dalla Cassazione nel 2010[16], ritenendo di poter configurare come “illecita concorrenza” il comportamento del notaio che aveva aperto uno studio in un Comune ove era prevista una sola sede notarile. Per raggiungere questo risultato la Corte ha fatto applicazione dell’apertura alla risarcibilità della lesione degli interessi legittimi enunciata dalle sezioni unite l’anno precedente[17], affermando che l’ingiustizia del danno sussiste in presenza della lesione di un interesse giuridicamente rilevante per l’ordinamento. Questa impostazione ha consentito di configurare come atto illecito fonte di danno risarcibile la concorrenza perpetrata nei confronti del notaio residente, anche in assenza dei requisiti soggettivi altrimenti richiesti, ritenendo meritevole di tutela l'interesse del notaio operante nella sede ove era prevista la presenza di un solo professionista.
In tema conservano attualità le parole della Suprema Corte[18] che, con riferimento all’apertura di uno studio extra districtum, ne ravvisò (impropriamente) l'estraneità al tema della concorrenza sleale, posto che «nell’ottica dell’epoca in cui si svolgevano i fatti era inapplicabile ai rapporti fra professionisti», ma ritenne nondimeno il comportamento ingiustamente dannoso. Da segnalare è che la recente legge sulla concorrenza[19], ha disciplinato l’esercizio della professione notarile extra districtum modificando gli artt. 26, 27 e 82 l. 6 febbraio 2013, n. 89. È interessante notare, infine, come la Corte in questa pronuncia sembra singolarmente ritenere la portata culturale e non giuridica delle regole concorrenziali, immaginando che col tempo, per ragioni sociologiche, tale ostacolo sarebbe venuto meno. Se ne prende atto non senza osservare che si tratterebbe di un mirabile esempio di relatività delle norme e di interpretazione del diritto in chiave sociologica. L’esclusione dell’applicazione delle regole generali sulla concorrenza non era solo un fatto culturale, ma presentava anche rilevanti profili giuridici: molti tra i fatti e comportamenti sanzionati dai codici deontologici (soprattutto quelli che attengono ai rapporti infra professionali) hanno rilevanza meramente interna e, per così dire, corporativa mentre esternamente all’ordinamento della professione sono privi di rilevanza. Di talché un comportamento non propriamente commendevole (quale lo storno di clientela, oppure l'appropriazione di pregi e qualità inesistenti) rischia di avere rilevanza meramente infra ordinamentale e di essere soggetto soltanto ai precetti deontologici, inoperativi al di fuori dei rapporti infra professionali.
Non sarebbe così se fosse ritenuta applicabile la disciplina della concorrenza: le norme deontologiche potrebbero concorrere a formare quel patrimonio in costante divenire e aggiornamento che costituisce l’idea di “correttezza professionale” dell’art. 2598, n. 3 c.c., vera e propria fonte di etero integrazione dell’ordinamento.
Decisamente in questa direzione si è mosso (diremmo coraggiosamente) il Tribunale di Milano con la sua sentenza del 6 giugno 2017 n. 6359/17[20], con la quale non ha esitato a qualificare come atti di concorrenza sleale (storno di clientela, accesso alla banca dati, impossessamento di know how, ecc.) comportamenti che altrimenti avrebbero potuto essere considerati tali sono se posti in essere da soggetti pacificamente ricoprenti la qualifica di imprenditore secondo la visione tradizionale.
Significativa è l’analogia che possiamo riscontrare con riguardo al codice dell’autodisciplina pubblicitaria. Già in epoca risalente la giurisprudenza[21] ritenne che «la tipizzazione convenzionale delle forme illecite della pubblicità sia resa possibile nell’ordinamento statale dal richiamo alla clausola generale contenuta nell’art. 2598, n. 3 c.c. disposizione infatti che introduce una categoria aperta di comportamenti che possono concretare atti di concorrenza sleale». Sulla stessa linea si sarebbe poi posta anche la Suprema Corte la quale affermò che «le regole contenute nel codice di autodisciplina pubblicitaria costituiscono parametri di valutazione della correttezza professionale»[22] . Percorso non molto diverso potrebbe essere seguito con riguardo alle regole deontologiche proprie delle diverse professioni, che così diventerebbero rilevanti anche sotto il profilo statuale, di modo che la loro violazione sarebbe suscettibile di fondare la richiesta di risarcimento del danno configurando atto di concorrenza sleale.
In un certo senso idealmente sono venute a ricrearsi le condizioni normative che regolavano in Italia la disciplina della concorrenza sleale prima del 1926 quando l’art. 10-bis introdotto nel 1925 nella Convenzione di Unione di Parigi del 1883 che prevedeva fra l’altro l’obbligo di conformarsi al principio di correttezza professionale fu esteso a disciplinare i rapporti interni fra cittadini italiani. Fino a quel momento i comportamenti sleali sotto il profilo della concorrenza rientravano nell’orbita dell’art. 1151 c.c. disciplinante i delitti e i quasi delitti.
Le regole deontologiche sono così suscettibili di rilevanza non solo interna ed endoprofessionale, inoltre possiedono attitudine a concorrere a quell’idea di correttezza che riveste un ruolo centrale nell’applicazione della disciplina concorrenziale, contribuendo a connotare il concetto di “slealtà”. Le regole deontologiche delle diverse professioni svolgerebbero così un ruolo primario in quanto contribuirebbero ad identificare precetti rilevanti e vincolanti all’interno del sub-ordinamento professionale la cui violazione potrebbe tuttavia assumere rilevanza anche all’interno dell’ordinamento statuale e comportare l’applicazione di sanzioni non più meramente autoreferenziali e comminate da organi della professione. Così intese le regole deontologiche si presterebbero a una interpretazione orientata dell’art. 2598 c.c. con riguardo alle professioni.
Una significativa apertura, seppur da valutare con estrema cautela, ci viene dall’art. 3.2, l. n. 247 del 2012, il quale dispone che la professione forense dev’essere esercitata fra l’altro «rispettando i principi della correttezza e della concorrenza», disposizione riprodotta anche nell’art. 9.1 del codice deontologico[23].
È a questo proposito interessante rilevare come il Codice deontologico degli architetti, in vigore dal 1 gennaio 2004, sotto il titolo “Concorrenza sleale” contenga una elencazione di atti concorrenzialmente illeciti e rilevanti sotto il profilo disciplinare.
Significativa è anche la sezione I (in particolare l’art. 14) dei Principi di deontologia professionale dei notai[24] dedicata alla “illecita concorrenza” anche se la portata dell’elemento lessicale in sé non va certamente sopravalutata. È da notare però che la Suprema Corte[25] considerò atto di concorrenza sleale (art. 14 del codice) l’anticipazione di fondi da parte di uno studio notarile al fine di accaparrarsi un cliente particolarmente importante. Va detto altresì che di diverso avviso fu la Pretura di Roma[26], la quale in analoghe circostanze escluse non solo la concorrenza sleale, ma anche l’illecito civile.
Merita infine di essere a questo punto ricordato che la Corte di giustizia[27] ritenne che le attività notarili non partecipano dell’esercizio dei pubblici poteri e che, nei limiti delle rispettive competenze, esercitano la loro professione in condizioni di concorrenza.
Tuttavia la stessa Corte con una recentissima pronuncia[28] ha ritenuto legittima l’attribuzione di determinate competenze esclusivamente ai notai se sono in gioco motivi imperativi di interesse generale[29].
Dubbi potrebbero avanzarsi sull’applicabilità diretta dell’art. 2598 c.c., stante il richiamo in esso contenuto alla nozione di azienda e alla sua tutela. Non si ritiene, però, che questa obiezione sia davvero ostativa. Innanzitutto anche l’attività professionale presuppone un’organizzazione di mezzi e servizi per il suo svolgimento e un apparato, quand’anche minimale, pur senza arrivare alla posizione estrema di Bigiavi che teorizzava l’autorganizzazione al fine di considerare imprenditore (seppure piccolo) il saltimbanco o l’impagliatore di sedie. Va detto, ma solo per completezza, che questa visione panimprenditoriale trova oggi un limite nella legge 22 maggio 2017, n. 81 (il c.d. job act del lavoro autonomo) che esclude dal suo ambito di applicabilità i soggetti di cui all’art. 2083 c.c. limitandosi ai soli rapporti di lavoro autonomo; essa per certi aspetti ha una rilevanza anche per le attività professionali (art. 6 e art. 12).
Sia detto, sempre incidentalmente, che questa legge corre il rischio di sovrapporsi, almeno in parte, al disegno di legge sull’ “equo compenso” previsto per gli avvocati, ma di cui viene auspicata l’estensione anche alle altre professioni, a proposito della quale però è stato avanzato il sospetto di reintrodurre in maniera surrettizia i minimi tariffari[30].
La possibilità di condurre l’attività professionale in forma societaria (senza limite di tipo), ora estesa anche alle professioni legali, può presentare rilevanti profili dal punto di vista concorrenziale, essendo venuto meno l’obbligo per gli avvocati di far parte di una sola associazione, che oggi può anche essere interprofessionale (d.m. 4 giugno 2016, n. 23)[31] essendo stato abrogato dalla l. 4 agosto 2017, n. 124 il comma 4 dell’art. 4, l. n. 247 del 2012 (regola ragionevolmente esportabile anche nelle società). Ciò pone di per sé un problema di concorrenza in quanto lo stesso socio professionista può svolgere la sua attività sotto più bandiere in una patente situazione di conflitto di interessi.
Il nuovo art. 4-bis, l. n. 247 del 2012, introdotto dalla recente legge n. 124 del 2017, che ha soppresso la perentoria negazione (prima enunciata) della assimilazione della professione all’impresa ora consente anche agli avvocati di costituire società di capitali, tuttavia precludendo al socio non professionista di possedere più di un terzo del capitale. Rileva ricordare come in tema sia intervenuto il Tribunale UE[32], ritenendo censurabile il comportamento di un Ordine (quello dei farmacisti francesi) il quale aggirava l’applicazione della legge che prevedeva il limite del 25% al capitale di una Sel e la detenzione della maggioranza di diritto di voto alle persone esercitanti la professione, imponendo sistematicamente un’interpretazione sfavorevole all’apertura al mercato.
La possibilità oggi generalizzata di svolgere la professione in forma societaria[33], anche se poteva già configurarsi per gli avvocati col d.lgs. n. 96 del 2001 (sia pure limitatamente a un tipo[34]) e per le altre professioni era stata introdotta con la l. n. 183 del 2011, necessariamente impone l’armonizzazione delle differenti discipline (si ricorda fra le altre la questione della personalità della prestazione) e solleva il problema dei rapporti concorrenziali fra soci e società.
Pensiamo qui a quanto previsto dall’art. 2301 c.c. il quale, con riguardo alle società di persone, vieta ai soci di svolgere attività concorrente se non precedentemente esercitata (ma v. ora il nuovo testo dell’art. 4, l. n. 247 del 2012 che ha legittimato la partecipazione a più associazioni ponendo così un problema di coordinamento col disposto dell’art. 2301 c.c.) e anche all’art. 2390 c.c. per le società di capitali il quale pone limiti ad attività concorrenziali degli amministratori. Saranno questi problemi che è ragionevole prevedere troveranno una loro regolamentazione pattizia negli statuti.
Ma va segnalato altresì il conflitto col disposto dell’art. 21, n. 2, d.lgs. n. 96 del 2001 il quale vieta la partecipazione a più società di avvocati.
Dopo la l. n. 124 del 2017 questi conflitti sono ipotizzabili, ma in maniera ancor più accentuata, per il settore delle farmacie in quanto in forza del nuovo art. 7, l. 8 novembre 1991, n. 362 – introdotto dalla legge sulla concorrenza – alle società è consentito essere titolari di farmacie e possono controllare direttamente o indirettamente fino al 20% delle farmacie esistenti nella stessa regione, risultando così ipotizzabili dei veri e propri gruppi con conseguente apertura alle problematiche dell’art. 2497 ss. c.c.
Altro profilo tipicamente societario è quello dell’uscita di un socio e della cessione delle quote. Rispetto a tali evenienze è ammissibile una clausola di non concorrenza? In astratto la risposta deve essere positiva, ma in concreto possono sussistere perplessità sotto il profilo della tutela del cliente il quale ha il diritto inalienabile di scegliere il professionista cui rivolgersi ed eventualmente seguirlo in caso di sua uscita dalla società. In Francia, dove il problema è affrontato e dibattuto da tempo, è stata ritenuta la legittimità di siffatta clausola ai sensi dell’art. 1134 code civil, purché sia proporzionata agli interessi in gioco e sia limitata nello spazio e nel tempo (una durata triennale è stata ritenuta sproporzionata): si ha riguardo alla “proporzionalità” rispetto agli interessi legittimi da proteggersi.
È interessante notare come la giurisprudenza francese[35] non abbia ritenuto illecito quello che noi chiameremmo storno di clientela effettuato da un ex collaboratore dello studio, se non accompagnato da comportamenti scorretti, posto che egli ha diritto di continuare a svolgere la stessa attività e di rivolgersi alla stessa clientela, non essendovi concorrenza sleale che in presenza di manovre o comportamenti “fautifs”[36]. Considerazioni non diverse possono formularsi in caso di “droit de présentation” e di cessione di clientela cui è collegato un patto di non concorrenza la cui violazione costituisce un atto di concurrence déloyale perseguibile ai sensi dell’art. 1382 code civil che si verificherà però solo in presenza di manovre fraudolente.
Merita sottolineare come la giurisprudenza francese invochi in proposito la garanzia per evizione, come faceva quella italiana vigente il codice civile del 1865 mancando una norma quale quella contenuta nell’art. 2557 del codice civile del 1942.
La casistica più frequente infatti riguarda la violazione (in senso temporale o in senso spaziale) di una clausola di non concorrenza prevista in un contratto di cessione di parts sociales o di un cabinet.
Ulteriore profilo suscettibile di configurare comportamenti concorrenzialmente scorretti è la pubblicità la cui disciplina in ambito professionale è contenuta nell’art. 3, comma 5, lett. g), l. n. 138 del 2011 e dal d.P.R. n. 137 del 2012, art. 4 (per l’avvocatura la disciplina è contenuta nell’art. 10, l. n. 247 del 2012) vincolata a finalità strettamente informative. L’inosservanza di queste regole, sanzionabile dagli organi professionali, potrebbe essere anche qualificata come atto di concorrenza sleale, anche se l’indeterminatezza del soggetto leso renderebbe difficile individuare chi sia attivamente legittimato tanto da poter vedere l’iniziativa degli Ordini in questo caso come riconducibile all’art. 2601 c.c. assimilando nella specie in maniera sensibile gli Ordini ad associazioni di imprese come sono stati a più riprese qualificati dalla Corte UE, dall’Agcm e da Consiglio di Stato[37].
Particolarmente rigorosa in tema di pubblicità si è rivelata la Corte di Cassazione[38] la quale, in nome della tutela della riservatezza che deve essere garantita ai clienti, ha ritenuto illecita la pubblicazione sul sito internet dello studio dei nominativi dei clienti anche se effettuata col loro consenso[39].
Leggendo questa sentenza non si può non ricordare come in altra sede nello stesso tempo e con riferimento alla stessa realtà si parli di marketing degli studi professionali[40].
Una recentissima pronuncia del Consiglio di Stato[41] potrebbe avere aperto un altro fronte sotto il profilo dei rapporti concorrenziali fra professionisti. Questa pronuncia, discostandosi da altri precedenti, non ha ritenuto in contrasto con la tutela della concorrenza l’emissione di bandi (volti ad ottenere prestazioni professionali) a titolo gratuito ipotizzando che in determinate circostanze il corrispettivo non sia di natura finanziaria ma lato sensu economico, per esempio un ritorno di immagine. È chiaro che il contesto in cui questa pronuncia è inserita (e che ha suscitato l’allarme degli Ordini professionali che prima hanno impugnato il bando e poi proposto ricorso al Consiglio di Stato) è affatto particolare ma è innegabile che in questo modo si possono inverare nuove prospettive dei rapporti interprofessionali aprendo a metodi di concorrenza anche estrema condotta su base economica che potrebbero comportare serie alterazioni in quello che ormai dobbiamo chiamare il mercato professionale.
Significativa conferma di siffatta eventualità la si poteva trovare nell’art. 10, comma 2 del Codice deontologico degli architetti il quale qualificava la rinuncia totale o parziale al compenso (salvo casi eccezionali) come comportamento anticoncorrenziale e costituente grave infrazione deontologica in quanto idoneo a falsare le scelte economiche del committente.
Il nuovo art. 11 non contiene più una tale disposizione, soppressa a seguito del sopraggiunto contrasto con l’art. 2, comma 3, d.l. 4 luglio 2006, n. 223 (c.d. decreto Bersani), il quale però significativamente prevede che la «concorrenza» deve svolgersi secondo i principi stabiliti dall’ordinamento comunitario ed interno.
Va ricordato come non diversamente l’art. 147 della legge 16 febbraio 1913, n. 89 (Ordinamento del Notariato) alla lettera c) qualifichi come atto di “illecita concorrenza” la riduzione di onorari, diritti e compensi[42].
La suprema Corte[43] però ha ritenuto tale regola incompatibile col disposto dell’art. 2, d.l. n. 4 luglio 2006, n. 223 che aveva abrogato l’obbligatorietà delle tariffe professionali. Tale divieto è oggi scomparso del testo dell’art. 147 quale introdotto dalla legge n. 124 del 2017. Ai presenti fini può essere però opportuno qui ricordare come con la stessa pronuncia la Suprema Corte abbia ritenuto sanzionabili sotto il profilo della illecita concorrenza comportamenti del notaio contrari ai doveri di correttezza professionale.
Per concludere.
L’assimilazione dell’attività professionale alle altre attività economiche pacificamente annoverate fra quelle imprenditoriali, avvenuta sotto l’impulso comunitario, rivolta a perseguire l’instaurazione di un regime concorrenziale anche con riguardo a questo particolare settore (in un’ottica a carattere essenzialmente economica e di tutela del mercato) condivisa poi anche dalla Agcm, dovrebbe senza eccessivi ostacoli comportare altresì l’applicabilità delle regole dell’art. 2598 ss. c.c. Questa disciplina infatti è volta a regolare il comportamento sul mercato di soggetti cui è imputabile lo svolgimento di un’attività economica (e certamente tali sono anche i professionisti) a prescindere dalla qualifica commerciale o agricola.
Comportamenti astrattamente riconducibili all’art. 2598 c.c., quando posti in essere da professionisti, non si vede perché dovrebbero essere sottratti alla relativa disciplina; si tratterebbe, infatti, di una deroga difficilmente giustificabile soprattutto in presenza (come sottolineato) di una tendenza – rilevabile a livello sia nazionale che comunitario – a valorizzare gli aspetti economici dell’attività professionale.
Quanto qui esposto trova conforto nella posizione[44] la quale riteneva che la negazione della qualifica di imprenditore al professionista non si fondasse sul difetto dei caratteri identificativi dell’impresa, bensì su uno specifico privilegio ad essi concesso sottolineando come l’ormai riconosciuta applicazione della l. n. 287 del 1990 ai professionisti comportasse che, immutata la nozione di impresa di cui all’art. 2082 c.c., si doveva procedere alla disapplicazione dello statuto privilegiato ai professionisti intellettuali.
Sarebbe incongruo, infatti, di fronte all’applicazione della l. n. 287 del 1990, continuare a escludere che essi siano imprenditori ai fini delle norme repressive della concorrenza sleale, la cui disciplina è anch’essa diretta alla tutela della concorrenza, ma sarebbe altrettanto incongruo negare, ad esempio, l’applicazione delle norme relative al trasferimento d’azienda. Si dovrà concludere, quindi, per la loro integrale soggezione alle norme del codice civile sull’impresa in genere, ferma restando l’esenzione dalle norme che costituiscono lo statuto dell’imprenditore commerciale.
[1] Trib. Catanzaro, 26 novembre 2011, in Foro it., Rep. 2011, v. Concorrenza, n. 1510.
[2] Pret. Verona, 13 marzo 1991, in Foro it., 1992, I, 2863.
[3] Cass., 5 maggio 2016, n. 9041.
[4] Cass., sez. un., 30 dicembre 2011, n. 30175.
[5] 16 febbraio 2002, nel procedimento C-309/99.
[6] In tema sia consentito rinviare a G. Schiano di Pepe, Le società di professionisti, Milano, 1977.
[7] Trib. Forlì, decr. 25 maggio 2017, in Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2017.
[8] TAR Toscana, 23 ottobre 2017, n. 1267.
[9] Corte giust. UE, 10 luglio 2014, in C-421/12.
[10] Giudice di pace Milano, 13 febbraio 2017, inedita.
[11] V. anche in senso negativo, ma con riferimento a una precedente situazione normativa, Cons. Stato, sez. V, 27 gennaio 2016, n. 258, in Foro it., 2016, IV, 457.
[12] Art. 5, d.lgs. n. 50 di 2016.
[13] App. Genova, 28 febbraio 2008, inedita.
[14] 13 agosto 1999, in Dir. ind., 2000, 36, con nota a commento di Floridia.
[15] Trib. Milano, 6 giugno 2017, n. 6359, in Dir. e giust., 19 ottobre 2017.
[16] Cass., 10 novembre 2000, n. 14629, in Danno e resp., 2001, 843, con nota di A. Fusaro, Esercizio "extra districtum" dell'attività notarile e risarcimento del danno. Il tema dello storno è stato di recente affrontato da Cass., 29 agosto 2017, n. 20508.
[17] Cass., sez. un., 22 luglio 1999, n. 500.
[18] Cass., 28 novembre 2008, n. 28419.
[19] L. n. 124 del 2017.
[20] In Dir. e giust., 19 ottobre 2017.
[21] Trib. Milano, 22 gennaio 1976, in Riv. dir. ind., 1977, II, 110.
[22] Cass., 15 febbraio 1999, 1259, in Foro it., 1999, I, 2572.
[23] In GU del 16 ottobre 2014, n. 241.
[24] In GU del 30 luglio 2008.
[25] Cass., 23 novembre 2016, n. 23886.
[26] Pret. Roma, 3 aprile 1985 in Foro it., 1986, I, 839.
[27] Corte giust., 24 maggio 2011 in C-47/08.
[28] Corte giust., 9 marzo 2017 in C-342/15.
[29] In una fattispecie particolare ha espresso parere contrario Trib. Pordenone, decr. 16 marzo 2017, in Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2017.
[30] Il cui esame da parte del Consiglio dei Ministri è iniziato il 7 agosto 2017.
[31] In G.U. 1 marzo 2016, n. 50.
[32] Trib. UE, 10 dicembre 2014, n. 90/11.
[33] In generale sul tema delle società professionali la letteratura è vastissima. Ci sia consentito in questo senso richiamare G. Schiano di Pepe, Le società fra professionisti, cit.; id., Le società fra professionisti, in Preite-Busi (a cura di), Trattato delle società di persone, t. I, Torino, 125; A.M. Leozappa, Società e professioni intellettuali, Milano, 2004. Sotto il profilo comparatistico v. A. Fusaro, Le società per l’esercizio di attività professionali in Italia o all’estero, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2013, 69 ss. V. anche G. Schiano di Pepe, Un’indagine comparatistica sulle principali linee guida in materia di disciplina delle professioni, in Contr. impr. EU, 1997, 404.
[34] V. in proposito De Angelis (a cura di), La società tra avvocati, Milano, 2003.
[35] Cour d’Appel de Paris 21 Janvier 2015 (R.G. 12/19304).
[36] In genere v. Yves de La Villeguérin (sous la direction de), Professions libérales, Paris, 2017, nn. 2548, 2693, 2708, 2807, 2809, 2710, 4307,4321.
[37] In argomento v. Cons. Stato, sez. VI, 23 febbraio 2016, inedita.
[38] Cass., sez. un., 18 aprile 2017, n. 98/61.
[39] In argomento si segnala A. Fusaro, La pubblicità degli avvocati: linee di un’analisi comparata, in Nuova giur. civ. comm., 2014, 119 ss.
[40] Parigi, Il quotidiano del diritto, 14 maggio 2017.
[41] Cons. Stato, 3 ottobre 2017, n. 4614. In senso contrario TAR Milano, 19 aprile 2017, n. 402, in Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2017.
[42] In tema v. F. FLORIAN, Personalità della prestazione notarile e libertà di concorrenza, in Contr. impr., 2017, 1043 ss. Si può ricordare altresì l’indagine dell’Agcm nei confronti del Consiglio notarile per una direttiva che di fatto avrebbe introdotto un limite quantitativo all’attività professionale restringendo così di fatto la concorrenza.
[43] Cass., 14 febbraio 2013, n. 3715.
[44] F. Galgano, Le professioni intellettuali e il concetto comunitario di impresa, in Contr. impr. EU, 1997, 1 ss.