Sant’Agostino e la blockchain
Ordinario di Filosofia teoretica, Università di Torino
Che cosa c’entra Agostino con la blockchain e le sue Confessioni con il Notariato? Sembra un interrogativo anche più peregrino di quello di Umberto Eco, che si chiedeva cosa c’entrasse Kant con l’ornitorinco. Ma se avrete la pazienza di arrivare sino in fondo a questo articolo spero di dimostrarlo, cercando di mettere in luce alcune caratteristiche della prassi notarile che interessano il filosofo e insieme rivelano l’attualità e la necessità del Notariato. A un certo punto, avanti nelle Confessioni, Agostino si pone una domanda elementare, quasi comica: perché mi confesso a Dio che sa tutto? La risposta è illuminante: Agostino dice che vuole fare la verità, non solo nel suo cuore, ma anche per iscritto di fronte a molti testimoni («in stilo autem meo coram multis testibus», X, 1.1). Intende che la verità si fabbrica così come si fabbrica la post-verità? Certo che no, difficile pensare di spacciare delle post-verità a Dio. Intende piuttosto che la verità non è solo un possesso interiore, è anche una testimonianza che si rende in pubblico e che ha un valore sociale.
Agostino si confessa a Dio, in un rituale pubblico, come era la prima confessione cristiana, perché attraverso questa verità, resa a Dio e ai suoi simili, sarà possibile per lui trovare la pace dello spirito. Una menzogna, omettere di “fare la verità”, continuerà a destabilizzare noi stessi e il mondo intorno a noi, perché siamo molto più dipendenti dalla verità di quanto non siamo disposti ad ammetterlo. Questa circostanza suggerisce una riflessione: siamo abituati a pensare alla verità come alla pura oggettività, come a qualcosa di indifferente al fare del soggetto. La confessione propone invece un modello diverso, che pone in primo piano la soggettività, chiamata a fare la verità, appunto, esponendosi in prima persona.
C’è un secondo elemento, per così dire, “attivo” della verità. Gli scolastici definivano la verità come la corrispondenza tra la proposizione e la cosa, ed è una teoria che nel Novecento è stata riproposta da un logico polacco, Alfred Tarski, con una formulazione elementare e celebre: «L’enunciato ‘la neve è bianca’ è vero se, e solo se, la neve è bianca». Ma è l’enunciato che è vero, mentre la neve bianca è semplicemente uno stato di cose. Per esprimersi nel gergo dei filosofi, la neve è ontologia, quello che c’è; l’enunciato che dice che è bianca, è epistemologia, qualcosa che noi sappiamo e che manifestiamo attraverso un’espressione. È in questo senso che capiamo in che senso Agostino possa parlare del “fare la verità”: si tratta di esprimere, conferendo evidenza sociale, qualcosa che abbiamo dentro, ma che non esiste, propriamente, sino a che non si manifesta. Noi non sapremo mai, neanche per noi stessi, se davvero ci siamo convertiti o se vogliamo sposarci, o se vogliamo comprare un biglietto – non lo sapremo sino al momento in cui un atto certificherà la nostra intenzione. Paradossalmente, proprio Agostino, che ha detto che non bisogna andar fuori, e che la verità abita all’interno dell’uomo, ci mostra come non ci possa essere verità senza una manifestazione, una espressione, una dichiarazione o una confessione. La verità, così, non è qualcosa di tacito e inespresso: è solo nel momento in cui diviene pubblica.
Ma perché la verità non sia qualcosa di evanescente, perché possa perdurare, è necessario che si fissi, che si stabilizzi in qualche documento. È il modo in cui suggerisco di interpretare il «porsi in opera della verità» di cui parla Heidegger in L’origine dell’opera d’arte (1935-36). Per Heidegger questo concetto ha una valenza pericolosamente relativistica: ci sono delle aperture storiche in cui “avvengono” delle verità, tra cui la decisione che fonda uno stato (discorso pericolosissimo due anni dopo l’ascesa al potere di Hitler e il discorso di rettorato di Heidegger). Heidegger aggiunge che, invece, la scienza si muove nel “già aperto”, dunque non è un porsi in opera della verità. Io direi invece: nella scienza come nell’arte, come nella vita e nella politica, la verità ha bisogno di manifestazione, il publish or perish non è solo una regola accademica ma, in definitiva, è la condizione di possibilità di ogni verità.
Il nesso tra verità e documenti ha una conseguenza indesiderata, il falso. Esistono, da sempre, dei documenti falsi. Verificarne l’attendibilità non era facile, però erano tutto sommato oggetti rari. Oggi invece i documenti proliferano attraverso quella gigantesca macchina documentale che è il web. Come risultato, abbiamo una quantità di verità, mezze verità e post-verità che ci circondano, e che nascono dai motivi più svariati, il primo dei quali è appunto l’estrema facilità, anzi l’automatismo, con cui si possono generare dei documenti. Il secondo motivo è legato al tema della soggettività a cui mi richiamavo all’inizio. Nel momento in cui si assiste a una estrema atomizzazione sociale, ogni monade, cioè ciascuno di noi, si fa portatore della pretesa di aver ragione, e di testimoniarlo in pubblico, per iscritto e di fronte a molti testimoni, come Agostino. La post-verità, così, più che come il tramonto della verità, è una inflazione del vero (e ovviamente del presunto tale) come risultato di una società composta da monadi irrelate – ed è per questo che si distingue dalla tradizionale menzogna, o dall’uso del falso o della dissimulazione nella politica e nella società. (Consideriamo, ad esempio, un caso abbastanza recente, la commissione stabilita in Sud Africa per porre fine al conflitto etnico che lacerava il paese sin dall’origine. La commissione si è chiamata “Verità e riconciliazione”. È necessaria la riconciliazione, ma non può aver luogo senza verità).
De te fabula narratur: sotto la parvenza antica e teologica abbiamo una verità recente e tecnologica. L’Onnisciente sarebbe la blockchain perfetta, che sa tutto e registra tutto. Idealmente, sarebbe una lavagna su cui sono annotate tutte le promesse, tutte le scommesse, tutte le transazioni e tutte le confessioni: tutti atti accessibili all’umanità intera, e compiuti da onniscienti. Tranne che una simile lavagna non esiste, ed è per questo che la blockchain perfetta non si dà: c’è bisogno di qualcuno che faccia la verità, nella fattispecie di un notaio, che produce la verità attraverso l’applicazione di uno schematismo (tecnologia); riconoscendo l’intenzione delle parti, quello che sta – proprio come in Agostino – nel loro cuore; e lo fa creando un documento (registrazione, anche qui come in Agostino); e di fronte molti testimoni (realizzando così l’esigenza della pubblicità).