Giuffré Editore

La “società benefit” quale nuovo modello societario


di Paolo Guida

Notaio in Napoli


Premessa 

La legge 28 dicembre 2015, n. 208 – cd. Legge di stabilità – all’articolo 1, commi 376 e ss., ha introdotto nel nostro ordinamento la cosiddetta “società benefit” che si caratterizza per la peculiarità della propria attività economica, particolarmente sensibile alle istanze sociali e quelle del Terzo settore[[1]].

In sintesi, la “società benefit” è una società che – oltre allo scopo di lucro – intende perseguire una o più finalità di beneficio comune, assumendo i tratti di un modello che vuole promuovere le attività a sfondo sociale, incrementando le ricadute sociali positive sulle persone e sull’ambiente[[2]]. Integra, quindi, una fattispecie intermedia tra il modello societario for profit, dal quale si ricavano gli obiettivi di economicità ed efficienza che devono necessariamente ispirare l’attività, e il modello not for profit[[3]], del quale fa proprio il perseguimento della pubblica utilità[[4]].

Con il nuovo modello si verifica, indubbiamente, un ampliamento del concetto stesso di autonomia negoziale, spezzando la rigida presunzione che si ricava dall’art. 2247 c.c.[[5]], secondo cui la società si prefigge quale unico obiettivo dell’attività aziendale la massimizzazione del profitto, ed aprendo la strada ad una più ampia accezione di interesse sociale.

La nuova normativa va accolta, quindi, con favore in quanto si colloca, tra l’altro, nelle iniziative a favore del sociale e va incoraggiata e promossa per le delicate finalità per le quali nasce[[6]]. Diventa, quindi, interessante individuarne le peculiarità – giuridiche ed operative – per offrire agli operatori una agile interpretazione per cogliere le nuove opportunità offerte.

Va considerato che il nostro Legislatore deve essere considerato all’avanguardia, in quanto attualmente il nostro paese è l’unico europeo ad aver creato tale figura innovativa: negli Stati Uniti le società benefit sono nate nel 2010, e secondo le prime statistiche, le cosiddette benefit corporation sono circa 1.400 in diversi paesi del resto del mondo.

Va, però, precisato che attualmente non risultano introdotte agevolazioni fiscali utili per stimolare la nascita di tali soggetti, restando così a vantaggio della “nuova” società soltanto una ricaduta di immagine. Ma l’assenza di incentivi economici e fiscali ha una sua precisa ragion d’essere: il legislatore italiano ha inteso scoraggiare quelle condotte abusive, finalizzate unicamente all’intento di conseguire un regime fiscale più favorevole, ma del tutto prive di una reale volontà di concretizzazione obiettivi di beneficio comune.

Si è ritenuto, infatti, che le ricadute positive per tali società – piuttosto che sotto il profilo fiscale – siano costituite dall’impatto sociale del modello, dalla esigenza sempre più sentita, costituita dal perseguimento di finalità sociali anche per un soggetto con finalità lucrative.

Allo stato risulta costituito un numero esiguo di dette società, ed anzi in un report[[7]] effettuato emerge in particolare che al 13 febbraio 2018 sono state costituite soltanto 157 società benefit, e segnatamente:

·società a responsabilità limitata: 135

·società a responsabilità limitata semplificate[[8]]: 3

·società per azioni: 9

·società cooperative: 6

·società in nome collettivo: 1

·società in accomandita semplice: 2

·società semplice: 1

Potremmo sostenere, quindi, che la nuova forma societaria si inserisce nel filone della cosiddetta “impresa sociale”[[9]]. sulla quale la dottrina si è lungamente soffermata e che trova anch’essa ostacoli nell’assenza di vantaggi fiscali[[10]].

Appare, tuttavia, opportuno considerare che benché la società benefit e l’impresa sociale abbiano in comune la realizzazione di una finalità di interesse generale, sotto due aspetti, in particolare, divergono sensibilmente, e precisamente: 

– ai sensi dell’art. 2, d.lgs. 3 luglio 2017, n. 112, l’impresa sociale può effettivamente costituirsi solo per l’esercizio, in via stabile e principale, di una o più attività d'impresa di interesse generale per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, mentre l’operatività della società benefit non è limitata a specifici settori tassativamente fissati dalla legge, ma vi è la massima libertà in termini di esercizio dell’autonomia privata nella definizione dell’attività sociale purché quest’ultima sia protesa anche verso la realizzazione di un beneficio comune; 

– ai sensi dell’art. 3 della stessa disposizione, è fatto divieto per l’impresa sociale di distribuire (anche indirettamente) gli utili ed è imposto che tutti i redditi dell’impresa siano devoluti al perseguimento dell’impresa sociale, mentre le società benefit si connotano per il legittimo e simultaneo conseguimento di finalità concorrenti ed apparentemente difficilmente conciliabili, ossia il tradizionale fine di lucro e la realizzazione del beneficio comune.

Passando all’analisi della normativa, dobbiamo rilevare che la società benefit si caratterizza per la peculiarità della propria attività economica, la quale da un lato è finalizzata al tradizionale scopo di dividere gli utili, e dall’altro intende perseguire una o più finalità di beneficio comune, operando – in modo responsabile, sostenibile e trasparente – nei confronti di una serie di soggetti i cui interessi sono considerati meritevoli dall’ordinamento giuridico: persone, comunità, territori, ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti ed associazioni ed altri portatori di interesse.

Affinché la fattispecie proposta dalla legge possa concretamente trovare attuazione, occorre poi, non solo che la società ponga in essere un’attività con precise ricadute sociali, ma anche che abbia tutti i requisiti tecnico-giuridici richiesti dalla nuova normativa, per cui il notaio[[11]] ha notevoli compiti operativi sia al momento della nascita che nel corso nella vita di tale società[[12]]. 


Un nuovo modello societario

Preliminarmente va chiarito che la creazione delle società benefit non comporta un nuovo tipo sociale[[13]], ma costituisce un “modello”, rientrando così nella più moderna classificazione delle società di capitali che tenga conto delle continue innovazioni legislative[[14]]. 

A tal proposito al comma 377 di detto articolo 1 della legge n. 208 del 2015, si precisa che le finalità di cui alla presente legge possono essere perseguite da ciascuna delle società di cui al libro V, titoli V e VI del codice civile[[15]], nel rispetto della relativa disciplina, evidenziando, così, che non ci troviamo di fronte ad un nuovo tipo sociale, ma ad una articolazione più elaborata di fattispecie già tipizzate.

Tale precisazione sgombra, quindi, il campo da qualsiasi difficoltà interpretativa circa tale interrogativo, avendo il legislatore stesso effettuato una interpretazione autentica della normativa.

L’individuazione del tipo sociale (ai sensi del comma 377, seconda parte) che può assumere la caratteristica di società benefit è, quindi, rappresentata da tutti quelli previsti dal libro V, titoli V e VI del codice civile. Ne consegue che la circostanza che la società intenda modulare la propria attività di impresa sulla scorta del “modello” benefit non provoca alcun condizionamento, o alcuna ripercussione, in ordine alla scelta del tipo sociale da adottare, sia nel caso di ente da costituire ex novo che in caso di ente già costituito. 

Appare, quindi, utile interrogarsi sulla ragione giustificatrice che ha condotto il legislatore ad operare una scelta così elastica e a definire i tratti di una fattispecie molto duttile a livello operativo.

Il legislatore pare abbia ben compreso che tra l’impresa ed il territorio esiste un indissolubile nesso di interdipendenza, nel senso che ciascuna impresa imprime, inevitabilmente, sul territorio la propria personalissima impronta, forgiata sulla scorta dei tratti peculiari che connotano la propria attività, e, allo stesso tempo, il contesto socio-ambientale in cui l’impresa opera condiziona, a sua volta, le scelte strategiche dell’impresa. 

Conoscere le esigenze del territorio e assecondare gli stimoli provenienti dall’ambiente, non limitando più l’attività di impresa alla sola massimizzazione del profitto, rappresenta una significativa occasione per acquisire efficienza, aumentare la produttività ed espandere i mercati[[16]]. Perseguire lo scopo della sostenibilità[[17]] permetterebbe allo stesso tempo di incrementare la redditività dell’impresa e di produrre benessere per la collettività[[18]]; e quindi, se tutto ciò è vero, non sarebbe stata affatto saggia la scelta di limitare il concreto ambito di operatività della novella, circoscrivendolo solo a determinati tipi sociali, perché tutti i tipi rappresentano, senza dubbio, dei veicoli idonei a tradurre i citati astratti propositi in qualcosa di veramente tangibile e produttivo.


Lo statuto della società benefit

Diventa, perciò, utilissimo esaminare la normativa per tradurre le disposizioni in norme statutarie, in quanto per utilizzare il modello è necessario che lo statuto societario contenga alcune peculiari prescrizioni legislative, affidando così al notaio il consueto, delicato, compito di prima applicazione della legge.

Passiamo così all’esame dei temi che devono essere affrontati nei patti sociali.

  1. La denominazione

La denominazione[[19]], ai sensi del comma 379, seconda parte, può contenere le parole “società benefit” oppure la abbreviazione “SB”, utilizzando tali termini negli eventuali titoli emessi, nella documentazione e nelle comunicazioni verso terzi.

Più precisamente, al nome distintivo della società con l’indicazione del tipo andrà aggiunta l’indicazione del modello “società benefit” prevedendo, così, la opportunità di integrare la denominazione con l’introduzione delle parole “società benefit” al fine di caratterizzare la società nei confronti dei terzi[[20]]. 

A tal fine, ci si chiede se tale indicazione costituisca indispensabile presupposto per poter svolgere l’attività sociale, ovvero costituisca una mera facoltà, rimanendo per i soci e gli amministratori la possibilità di agire in campo sociale anche in assenza di tale specificazione nella denominazione stessa.

Al momento appare difficile assumere una posizione circa l’obbligatorietà dell’indicazione poiché la lettera della novella, utilizzando il condizionale e non prevedendo alcuna sanzione in caso di mancata ottemperanza, sembra rimettere la modifica della denominazione ad una scelta sicuramente oculata, ma comunque pur sempre discrezionale della società. 

Vi è da dire che palesare ictu oculi la natura di società benefit potrebbe immediatamente produrre una serie situazioni vantaggiose. È ragionevole ipotizzare che:

– possa attrarre capitali, visto che sempre più frequentemente gli investitori istituzionali sono interessati a quelle aziende la cui attività produce un impatto positivo sociale ed ambientale e offre serie tutele legali, responsabilità e trasparenza nel perseguire la propria missione;

– possa avere la forza di richiamare talenti e brevetti, in considerazione della circostanza che le nuove generazioni e i ricercatori più talentuosi più facilmente valuterebbero di inserirsi in un’azienda che opera nel sociale;

– possa creare una seria opportunità di investimento proveniente da coloro che sempre più consapevolmente orientano le proprie scelte verso la sostenibilità, il biologico, il commercio equo e le filiere corte e trasparenti. 

Ovviamente il legislatore ha anche contemplato il rischio che si faccia un uso distorto della novella e che la società solo “fittiziamente” dichiari di adottare il modello benefit, al fine proprio di attrarre quei consumatori sensibili a determinate istanze, senza che poi vi sia un oggettivo riscontro nelle finalità realmente perseguite dalla società. 

A tal fine è stato espressamente previsto che trovino applicazione le disposizioni previste in tema di pubblicità ingannevole, garantendo l’intervento dell’autorità antitrust per valutare la correttezza e la veridicità delle comunicazioni al mercato.

  1. L’oggetto sociale: lo scopo di lucro ed il beneficio comune

L’oggetto sociale[[21]] (ai sensi del comma 379, prima parte) della società benefit, costituisce il punto qualificante del modello, ed è l’aspetto sul quale maggiormente si è soffermata la sia pur scarna dottrina in materia[[22]], dovendo indicare le finalità specifiche di beneficio comune[[23]] che la società intende perseguire.

In sostanza, fermo restando gli indefettibili caratteri della determinatezza[[24]] e della specificità[[25]], il nuovo modello obbliga ad individuare due tronconi di attività: il primo costituente l’oggetto sociale – profit che la società intende realizzare in senso stretto, e il secondo che individua il lato benefit dell’attività, teso a concretizzare obiettivi sociali in aggiunta all’attività principale. 

Ciò collima in toto col principio costituzionalmente garantito di solidarietà economica e sociale che funge al contempo sia da limite alla libertà economica – affinché tutte le attività imprenditoriali, in quanto economiche, non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno «alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (art. 41, comma 2, Cost.) – sia da incentivo, col fine che tutte le imprese inizino a valutare seriamente l’attuazione della solidarietà nell’esercizio della propria attività.

Gli amministratori, dunque, da un lato possono, e dall’altro devono, raggiungere l’oggetto sociale, così come modulato dalla nuova normativa, contemperando le diverse esigenze sociali, e quindi, sono vincolati a precise scelte di politica aziendale, basate necessariamente su un oculato bilanciamento di interessi, tra loro profondamente eterogenei. 

Se lo scopo di lucro non è perciò l’unico obiettivo da raggiungere, è possibile trarre alcune conclusioni: quando gli amministratori, nel perseguire l’oggetto sociale, riducano il margine di guadagno a vantaggio degli scopi sociali che la società si prefigge, non potranno essere censurati; viceversa potrebbero essere passibili di rilievi critici coloro che, per far conseguire un lucro maggiore, trascurino gli aspetti sociali che dovrebbero caratterizzare le attività della società stessa.

Potrebbe immaginarsi, ad esempio, l’ipotesi di una società attiva nel settore agroalimentare che preveda, come beneficio comune, quello di preferire l’utilizzo di materie prime fornite da produttori che utilizzino filiere naturali.

Appare evidente in questo caso che il costo dell’approvvigionamento sarà superiore rispetto a coloro che utilizzano materie prime “artificiali”. Gli amministratori, quindi, dovranno sacrificare una parte degli utili a beneficio di un impatto ambientale migliore. Al contrario laddove, viceversa, pur in presenza della necessità di perseguire tale beneficio comune, si forniscano con materie prime “artificiali” per conseguire un maggior lucro, sarebbero censurabili all’interno della propria organizzazione.

La struttura dell’oggetto sociale, pertanto, dovrà essere suddivisa in due parti, di cui, appunto, la prima strettamente legata alla natura profit della società e la seconda che individua le esigenze sociali da tutelare[[26]]. 

Detta suddivisione si rende opportuna per evitare che gli amministratori possano essere destinatari di provvedimenti dell’assemblea quando concentrino la loro attenzione anche sullo scopo di impatto sociale.

In passato, infatti, nelle esperienze estere di società tradizionali, questo problema si era più volte prospettato, e la tutela per gli amministratori era lasciata alla buona fede dei soci che in maniera non ufficiale avevano dato mandato agli amministratori di dare anche una impronta sociale all’attività d’impresa.

Per aumentare le possibilità che la nuova fattispecie giuridica abbia un effettivo risconto nella pratica e per evitare che si verifichino i citati inconvenienti legati alle scelte gestionali, la nuova normativa consente di aderire al “modello benefit” in qualsiasi momento e quindi permette sia ab initio la nascita di una società con il “doppio” oggetto, sia la modifica dell’oggetto di una società preesistente. In questo ultimo caso si introduce la componente sociale a fronte di una modifica dell’atto costitutivo e dello statuto sociale, nel pieno rispetto delle disposizioni che regolano le modificazioni del contratto sociale o dello statuto, proprie di ciascun tipo di società, e degli artt. 2252, 2300 e 2436 c.c. relativi al deposito, iscrizione e pubblicazione delle suddette modifiche. 

Particolarmente interessante e delicata è l’indagine legata all’individuazione del corretto ambito operativo nel quale calare la definizione di beneficio comune.

Tecnicamente, ai sensi del comma 378 dell’art. 1 della legge n. 208 del 2015, il beneficio comune è identificabile nel «perseguimento – nell’esercizio dell’attività economica delle società benefit – di uno o più effetti positivi, o la riduzione degli effetti negativi, su una o più categorie di cui al comma 376». 

Dette categorie sono individuabili:

– nelle «persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni»;

– in «altri portatori di interesse», che possono essere correttamente identificabili nei lavoratori, clienti, fornitori, finanziatori, creditori, pubblica amministrazione e società civile, ossia qualunque soggetto, individualmente considerato o calato nella collettività, che direttamente o indirettamente sia coinvolto nell’attività posta in essere dalla società benefit[[27]

Ora, fermo restando che la generica indicazione nell’oggetto sociale dell’obiettivo non profit non è di per sé sufficiente ai fini della qualifica di una società benefit, occorre precisare che non esiste unanimità di vedute in merito alla risoluzione della questione se occorra o meno che l’effetto benefico abbia necessariamente una forma di connessione con l’attività svolta dalla società. 

In verità sembrano essere esistenti indizi che farebbero propendere per la considerazione secondo la quale un collegamento con l’attività della società appare essere un dato imprescindibile. Ciò purché si condivida l’idea che la società benefit difficilmente possa essere connotata da un’impronta filantropica funzionalizzata a produrre tout court del bene destinato alla indistinta generalità dei consociati, ma, più correttamente si può scorgere una connotazione egoistica propria del suo operare. 

L’utilità sociale una volta prodottasi non deve disperdersi, ma deve essere proficuamente incanalata nella catena produttiva rimanendo, pertanto, circoscritta al suo contesto lavorativo-territoriale e sociale. 

Quando la fonte normativa richiama la riduzione di effetti negativi indubbiamente corrobora tale ricostruzione perché lascia intendere che il beneficio non può che attenuare i profili negativi che abbiano attinenza all’esercizio dell’attività[[28]]. 

Detto in altre parole, l’elemento identitario delle società benefit risiede proprio nell’attenzione posta sulla produzione di un impatto sociale di un determinato progetto di impresa e non può tradursi in termini di «mera erogazione di fondi a sostegno di iniziative “benefiche”, ossia caritative»[[29]].

La valutazione della sussistenza del beneficio comune, peraltro, deve essere effettuata alla luce dei criteri stilati nella relazione annuale, della quale costituisce uno dei pilastri.

  1. L’amministrazione

L’amministrazione della società (ai sensi del comma 380), in linea con le peculiarità della finalità sociale, deve essere effettuata in modo da bilanciare:

– l’interesse dei soci;

– il perseguimento delle finalità di beneficio comune;

– gli interessi delle categorie previste dal comma 376, sopra ricordate.

È chiaro che nel momento in cui l’attenzione converge sulla società tradizionalmente intesa, la condotta dell’Organo amministrativo appare ispirata ad un unico e prioritario criterio: il soddisfacimento di un interesse sociale, pienamente coincidente con la massimizzazione del profitto e la divisione degli utili tra i componenti della compagine sociale. 

L’attività di governance si complica notevolmente nel momento in cui per la società benefit diventa essenziale la ricerca di una nuova efficienza e l’individuazione di un nuovo punto di congiunzione tra i molteplici ed eterogenei interessi emergenti in seno al public benefit.

Di conseguenza, affinché l’incarico degli amministratori possa ritenersi espletato in modo soddisfacente, non è sufficiente il vaglio della performance economico-finanziaria, ma occorre valutare anche quale sia la performance qualitativa, e quindi l’impatto che la società è riuscita a produrre sull’ambiente e sulla società civile. 

Una fattispecie giuridica che ha già messo l’operatore di fronte alla necessità di ricercare un prudente equilibrio degli interessi è rinvenibile nella disciplina della direzione e coordinamento di società, contenuto negli artt. 2497 e ss. c.c. In tale caso diventa essenziale attuare un vero e proprio bilanciamento delle molteplici istanze, e l’attività imprenditoriale non può che essere concepita come l’emblematica sintesi tra l’interesse del gruppo unitariamente considerato e quello proprio della singola società che compone il gruppo stesso. 

L’organo a cui è demandata la gestione dovrà, pertanto, agire con la massima diligenza e perizia richiesta per lo svolgimento dell’incarico, ponendo in essere una vera e propria compensazione tra i vantaggi e gli svantaggi che le scelte operate produrranno sugli interessi coinvolti. 

Poiché il principio della corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società eterodirette può essere concepito come una clausola generale dell’ordinamento giuridico e si presta pienamente ad applicarsi anche all’attività svolta nel contesto delle società benefit, l’organo amministrativo ha un esempio concreto a cui ispirarsi. 

Al fine di coinvolgere gli amministratori, pertanto, potrebbe essere utile ricordare – in occasione della nomina – la necessità per gli stessi di perseguire entrambi i richiamati scopi sociali.

  1. Il responsabile di funzioni

Va, poi, specificato che, come vedremo in seguito, la norma prevede – in aggiunta e/o all’interno dell’Organo amministrativo – la presenza di un ulteriore soggetto responsabile a cui affidare funzioni e compiti volti al perseguimento delle finalità in oggetto.

In tale ambito, il comma 381, precisa che l’inosservanza dei detti obblighi può addirittura costituire inadempimento dei doveri imposti agli amministratori dalla legge e/o dallo statuto, e quindi in tali ipotesi, si applicheranno le norme previste dal codice civile in tema di responsabilità degli amministratori.

La norma, quindi, espressamente impone alla società benefit la nomina di uno o più «soggetti responsabili cui affidare funzioni e compiti volti al perseguimento delle finalità di beneficio comune», ed il compito di procedere alla nomina del cd. “benefit director” spetta all’organo amministrativo. 

Alla mancata ottemperanza di tale obbligo di legge, scatta la responsabilità degli amministratori, i quali dovranno provvedere in maniera particolarmente oculata in quanto il responsabile delle funzioni deve espletare l’incarico di coadiuvare gli amministratori nel perseguimento delle finalità di beneficio comune e deve supervisionare le procedure aziendali affinché siano efficacemente raggiunti gli obiettivi sociali.

Circa la sua individuazione, va rilevato che essendo una figura di ausilio e di controllo funzionale alla gestione, non necessariamente deve rivestire la carica di amministratore; potrebbe, infatti, essere un institore, ai sensi dell’art. 2203 c.c., o anche solo un procuratore, ai sensi dell’art. 2209 c.c., dotato di un sufficiente grado di autonomia decisionale, sempre purché l’attività altruistica possa essere racchiusa, come sembra, nell’esecuzione di specifici atti. Altra eventualità è che si attribuisca una delega specifica a uno stesso amministratore. 

Ad ogni modo, considerato l’ampio margine di discrezionalità lasciato dal legislatore, appare decisamente opportuno che tale incarico venga assunto da un soggetto dotato di una adeguata e comprovata esperienza nello specifico ambito in cui l’impresa intende concretizzare il beneficio comune. Ed appare doveroso precisare, comunque, che la presenza del responsabile non esonera l’organo amministrativo e l’organo di controllo dallo scrupoloso adempimento delle proprie funzioni.

Laddove, quindi, in sede di atto costitutivo ci sono le condizioni per verbalizzare la prima riunione del Consiglio di Amministrazione con il conferimento delle deleghe, il notaio rogante potrà suggerire di procedere anche alla nomina del benefit director. 

E) Il controllo della società benefit: l’organo di controllo e lo standard di valutazione

La norma non si sofferma affatto sull’organo di controllo della società benefit. Pare sia logica conseguenza che, non avendo il legislatore diversamente disposto, trovi applicazione la disciplina di carattere generale prevista dal codice civile. 

Dunque l’organo di controllo tradizionale sarà normalmente tenuto a «vigilare sull’osservanza delle norme di legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione e in particolare sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e sul suo concreto funzionamento»[[30]]; in caso di mancata ottemperanza agli obblighi di legge è pertanto prevista la responsabilità di cui all’art. 2407 c.c.

A quanto appena esposto occorre però apportare dei dovuti correttivi che riflettono le peculiarità del “modello benefit”. La valutazione circa l’operato dell’organo amministrativo, infatti, dovrà essere fatta alla luce dell’ormai più volte richiamato bilanciamento degli interessi e del perseguimento del beneficio comune e dovrà anche preoccuparsi del rispetto della disciplina inerente alla nomina del responsabile delle funzioni. 

Spostandoci nell’ambito delle caratteristiche di tipo sociale della figura, va specificato che al fine di rientrare nella previsione della norma, occorre che la società utilizzi uno standard di valutazione esterno per valutarne l’impatto generato in termini di beneficio comune. 

Detto standard di valutazione esterno deve essere predisposto secondo modalità e criteri di cui all’allegato 4 al presente comma, e deve essere sviluppato da un ente, non controllato né collegato alla società, e comunque credibile, con le competenze necessarie ed il necessario approccio scientifico e multidisciplinare. 

Lo standard deve essere:

  1. esauriente, in quanto finalizzato a valutarne nel complesso l’impatto della società;
  2. trasparente, in quanto deve fornire tutte le informazioni necessarie con particolare riferimento a:

– i criteri utilizzati;

– l’identità degli amministratori della società; 

– l’identità dell’ente che ha sviluppato lo standard di valutazione;

– un resoconto dell’entrate e delle fonti di sostegno finanziario per escludere conflitti di interessi.

La valutazione dell’impatto sociale della attività deve essere effettuata tenendo presente alcuni parametri: 

  • il governo della impresa, onde valutare la responsabilità della società nel perseguimento delle finalità di beneficio comune;
  •  la individuazione: 
    1. dei lavoratori, per soppesare le relazioni tra dipendenti e collaboratori circa retribuzioni e benefit, nonché l’ambiente di lavoro; 
    2. degli altri portatori di interesse, individuati come il soggetto, e/o i gruppi di soggetti coinvolti, direttamente o indirettamente dall’attività delle società in oggetto, quali lavoratori, clienti, fornitori, finanziatori, creditori, pubblica amministrazione e società civile, nonché comunità locali, ed in particolare le associazioni di volontariato, operanti sia in campo culturale che sociale; 
  • l’ambiente in cui viene esercitata l’attività, in termini di utilizzo di risorse, energie e processi produttivi.

In sede di costituzione, o di modifica statutaria, pertanto il notaio dovrà suggerire di prevedere nello statuto il soggetto cui spetta la nomina (assemblea o organo amministrativo), nonché di inserire in atto la nomina dell’Ente che dovrà per primo predisporre lo standard.

F) La relazione annuale

Il comma 382 dispone che l’Organo amministrativo deve predisporre una relazione annuale avente ad oggetto l’attività svolta dalla società, redatta secondo precise modalità, allegata al bilancio e pubblicata sul sito internet della società, qualora esistente. 

Appare così opportuno che lo statuto preveda espressamente tale obbligo per l’Organo amministrativo proprio per indicare tale attività tra quelle obbligatorie.

Tale relazione costituisce uno dei pochi obblighi formali che si aggiungono a quelli tradizionali a carico degli amministratori in seguito all’inserimento della società nell’ambito di società benefit ed ha il precipuo scopo di rafforzare la trasparenza dell’operato dell’impresa. 

Con tale documento, infatti, gli amministratori dovranno rendere conto ai soci circa le ricadute sociali conseguenti all’attività principale, dimostrando, così di aver colto lo spirito che ha animato la compagine nell’aver previsto l’attività benefit.

Sotto il profilo contenutistico nella relazione non possono mancare:

  • la descrizione degli obiettivi specifici, delle modalità e delle azioni attuate dagli amministratori per il perseguimento delle finalità di beneficio comune e delle eventuali circostanze che lo hanno impedito o rallentato;
  • una valutazione dell’impatto sociale generato attraverso l’uso di standard esterni di valutazione che rispondano a precisi requisiti, e che abbiano per oggetto le specifiche aree di valutazione indicate dalla stessa legge;
  • una sezione dedicata alla descrizione dei nuovi obiettivi che la società intende perseguire nell’esercizio successivo.

Considerando la circostanza che il bilancio viene integrato dalla relazione di cui si discorre, appare conseguenza logica che nella redazione di quest’ultima si tengano ben presenti i principi generali di chiarezza, veridicità e correttezza di cui all’art. 2423 c.c.[[31]] e che si rispetti non solo la previsione normativa della comunicazione all’organo di controllo ed al soggetto incaricato della revisione legale, ma che si proceda pure con il deposito presso la sede sociale e la pubblicazione sul sito internet.

È utile precisare che la pubblicazione sul sito internet della società purché sia istituito, diventa non solo l’unico veicolo a mezzo del quale il mercato[[32]] possa realmente acquisire informazioni utili per conoscere le peculiarità dell’attività di impatto sociale svolta dalla società, ma si presta ad essere pure un valido strumento di ausilio e la principale fonte di controllo per l’Autorità antitrust in ordine alla valutazione di quanto posto in essere e la opportunità di comminare o meno sanzioni amministrative. 

È, infine, intuitivo che, nel momento in cui la società rispetti fedelmente tale onere documentale, palesa alla generalità dei consociati il suo effettivo coinvolgimento nella realizzazione delle finalità che abbiano un’impronta sociale, e si mostra a tutti gli effetti, con convinzione, come società socialmente orientata.

Tuttavia quando l’attenzione si sposta sul profilo patologico della vicenda, la disciplina italiana non prevede alcuna sanzione che sia legata alla mancata osservanza degli obblighi di informazione e non prospetta nemmeno, per ottenere un effetto potenzialmente deterrente, l’introduzione di cause di decadenza dallo status di società benefit. Ne consegue che le uniche conseguenze sono legate alla perdita di credibilità nei confronti degli stakeholders e al coinvolgimento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato che, peraltro, può solo intervenire in caso di pratiche commerciali scorrette o ingannevoli. 


Il diritto di recesso nelle società di persone e nelle società capitali

In stretta connessione con l’oggetto sociale, come sopra delineato, deve porsi l’analisi della eventuale esistenza di un diritto di recesso in capo ai soci – assenti, dissenzienti ed astenuti – che non abbiano concorso alla formazione della delibera assembleare di modifica dell’oggetto sociale che preveda anche il perseguimento del beneficio comune. 

È possibile, infatti, che la società, sia per nuove esigenze sia per confermare una strada già intrapresa, modifichi l’oggetto sociale manente societate creando, così, per gli interpreti il problema relativo alla eventuale insorgenza di un elemento che costituisca il presupposto operativo per l’esercizio del diritto di recesso[[33]].

Preliminarmente urge precisare che il perseguimento di finalità altruistiche, dotate di un incisivo impatto di utilità sociale, non implica in alcun caso la configurazione di una trasformazione in senso tecnico-giuridico, intesa quale vicenda evolutivo-modificativa portante un mutamento del modello organizzativo di impresa, funzionale all’adozione della forma iuris più adatta a far fronte alle situazioni aziendali e di mercato che sono in continua evoluzione. 

Detto in altri termini, con la trasformazione muterebbe il tipo sociale – cosa che non avviene con l’adozione del “modello” di società benefit – in pieno ossequio al principio della continuità dei rapporti giuridici sostanziali e processuali e si escluderebbe in toto la configurazione di una vicenda dai tratti estintivi-costituitivi del nuovo ente.

Non avendosi tecnicamente una sostituzione dello scopo, come nei casi di trasformazione eterogenea[[34]], ma configurandosi una vera e propria “duplicazione” dello scopo-fine, con l’affiancamento dello scopo “altruistico” a quello “egoistico”, non è ravvisabile in generale un concreto spazio operativo per l’insorgenza del relativo diritto di exit[[35]], salve le riflessioni particolari di cui in seguito. 

Passando all’analisi delle singole ipotesi concretamente prospettabili, appare utile soffermarsi, in primis, sulle conseguenze che l’adozione del “modello” benefit produce in seno alle società di persone. 

Considerato che per tale tipo sociale le modifiche del contratto sociale seguono il principio consensuale e possono essere effettuate unicamente raggiungendo l’unanimità dei consensi, ai sensi dell’art. 2252 c.c. quando, per espressa previsione statutaria si deroga alla regola di carattere generale, introducendo il principio maggioritario, acquista concreto rilievo la problematica attinente all’operatività del diritto di recesso. 

L’art. 2285 c.c. espressamente áncora la spendita di tale diritto alla sussistenza di una giusta causa che legittimerebbe la fuoriuscita dalla compagine sociale con la relativa liquidazione della partecipazione. Purtroppo non vi è concordia di opinioni in dottrina sull’accezione di “giusta causa”, e nemmeno valutando le considerazioni ricavabili dalle risultanze delle pronunce giurisprudenziali è possibile trarre una soluzione interpretativa univoca. Più precisamente, considerata la componente personalistica fortemente accentuata delle società di persone[[36]] non mancano pronunce che associano il fondamento della giusta causa alle condotte che abbiano tradito la fides reciproca tra i soci o che si siano tradotte in termini di violazione dei doveri di lealtà, correttezza e diligenza[[37]]; altre pronunce, invece, hanno circoscritto l’ambito operativo a quelle scelte che abbiano prodotto una alterazione del rischio economico, accentuandolo rispetto alle aspettative desumibili dalle condizioni originarie del contratto sociale. 

Verosimilmente, peraltro, il perseguimento del beneficio comune comporta, come già detto, una integrazione dello scopo contrattuale che si presta, con coerenza logico-giuridica, a dar luogo ad una giusta causa di recesso[[38]]. 

Sempre più frequentemente il legislatore ha cercato di limitare il diritto di impugnativa del socio, riconoscendo una posizione preminente ai poteri della maggioranza[[39]] e vista l’esiguità dei casi in cui invece continua a richiedere l’unanimità dei consensi, non sembra peregrina la conclusione per la quale è possibile adottare la decisione di passare al modello di società benefit con le maggioranze previste dai patti sociali, salvo la spettanza del diritto di recesso a colui che non vi abbia contribuito[[40]]. 

È possibile poi fare una riflessione particolare per le società costituite anteriormente alla entrata in vigore della legge n. 208 del 2015, in quanto, vista l’incisività delle conseguenze prodotte dalla aggiunta della finalità di impatto sociale e, considerata l’impossibilità di ipotizzare una modifica pattizia di tale impatto al momento dell’adesione al contratto sociale, sembra ragionevole ipotizzare per le stesse che la decisione debba essere assunta necessariamente all’unanimità. 

Per quanto riguarda le società di capitali, poi, diventa obbligato il richiamo agli artt. 2437 e 2473 c.c., rispettivamente concernenti il tipo di società per azioni e quello di società a responsabilità limitata.

L’art. 2437 c.c., lett. a), prevede che il diritto di recesso sia spendibile ogni qual volta la deliberazione riguardi la modifica della clausola dell’oggetto sociale che comporta un cambiamento significativo dell’attività sociale. Ora «l’ingresso del qualificativo “significativo” come condizione dell’esercizio del diritto da parte del socio di fronte alla delibera di variazione dell’oggetto, legittima l’exit in presenza non di ogni variazione del programma contrattuale, ma solo laddove l’intervento assembleare sulla latitudine dell’oggetto sociale si traduca in una radicale modificazione dell’attività, tale da rendere la società-impresa altro rispetto a quella originariamente esistente»[[41]]. La significatività deve essere valutata sulla scorta di un duplice criterio: l’incremento dell’alea e la variazione della convenienza dell’investimento. 

Laddove la decisione di adottare il modello benefit accentuasse sensibilmente l’entità dell’alea connessa all’attività sociale, rendendola difficilmente sopportabile in quanto di proporzioni più ampie rispetto a quella originariamente vagliata al momento della sottoscrizione del contratto sociale e comportasse, altresì, una variazione della convenienza dell’investimento tale da far riconsiderare il mantenimento della qualifica di socio, allora il diritto di recesso sarebbe più che giustificato ai sensi della lettera a) dell’art. 2437 c.c. 

È chiaro che occorre valutare con equilibrio la tipologia di conseguenze che può comportare la modifica statutaria, perché in base al diverso ambito contenutistico della modifica stessa, può cambiare la ragione giustificatrice dell’esercizio del diritto di recesso. Più nel dettaglio, se la modifica si traducesse in termini di destinazione di una buona porzione di utili al soddisfacimento delle finalità solidali potrebbe essere ragionevole sostenere che, ferma la spettanza del diritto di exit, essa abbia giustificazione nella lettera g) dell’art. 2437 c.c., anziché nella lettera a), proprio per l’impatto provocato sulla partecipazione sociale.

Il pericolo di una modifica dell’attività deve essere effettivo, e ciò significa che deve materialmente tradursi in una modifica dell’atto costitutivo (anche se solo deliberata e non ancora di fatto attuata) che assuma i caratteri di una condizione necessaria e sufficiente per l’esercizio del diritto[[42]], escludendo la giuridica rilevanza alle variazioni meramente di fatto[[43]]. 

Spostando l’attenzione sulle società a responsabilità limitata si può notare che la lettera dell’art. 2473 c.c. fa riferimento al recesso legittimato dalla modifica dell’oggetto sociale senza alcun esplicito richiamo alla “significatività” di cui sopra. 

Si è discusso in dottrina se tale mancanza abbia una propria ragione giustificatrice. Secondo una prima opinione vi è una precisa ragion d’essere per la mancanza del parametro della significatività: per le società a responsabilità limitata, essendoci una componente personalistica maggiormente accentuata rispetto alle altre società di capitali, i cambiamenti tout court, a prescindere dall’entità e dalla portata, influiscono più incisivamente sugli equilibri della compagine sociale ed il tenore letterale della norma corroborerebbe una simile interpretazione. Tuttavia, non manca dottrina notarile[[44]] che, per identità di ratio, considera quale presupposto imprescindibile per l’esercizio del recesso la sussistenza del cambiamento significativo, al pari delle società per azioni[[45]]. 

Di conseguenza nel primo caso, prescindendo dall’incisività del cambiamento, sembrerebbe immediato il richiamo alla disciplina del recesso; nel secondo caso, occorrerebbe fare una valutazione esattamente speculare all’altro tipo sociale, per capire se vi siano gli estremi per avvalersi di tale strumento di tutela.

In conclusione, nel caso cui si decida di adottare il modello benefit, integrando l’oggetto con la finalità di impatto sociale, si prospettano le seguenti soluzioni:

a) per le società di persone: laddove sia statutariamente previsto il principio maggioritario e considerando detta modifica come “essenziale”, in quanto associata al concetto di “giusta causa”, trova spazio l’esercizio del diritto di recesso;

b) per le società per azioni, per esercitare il diritto di recesso urge verificare la significatività della integrazione statutaria, valutata sulla scorta di un doppio parametro: 

– l’aggravamento dell’alea;

– l’effettiva variazione delle condizioni di investimento;

c) per le società a responsabilità limitata:

– aderendo all’opinione che focalizza l’attenzione sul cambiamento tout court, l’integrazione, di per sé, costituisce una fattispecie idonea a legittimare l’esercizio del diritto di recesso;

– reputando consono adottare un approccio esegetico similare a quello previsto in tema di SpA, hanno nuovamente rilievo i due parametri concernenti l’alea e la convenienza dell’investimento e, pertanto, solo laddove si superi il vaglio della significatività, i soci potrebbero avvalersi del diritto di exit.


La ampliata responsabilità degli amministratori: in particolare gli stakeholders

Con riferimento alla propria attività, gli amministratori vedono modificata la propria responsabilità. Da un lato sono esonerati dal perseguimento del mero lucro, ma dall’altro vengono sensibilmente coinvolti anche nel perseguimento dei più volte citati aspetti sociali.

Interessante è capire quando effettivamente detta responsabilità emerga ed in particolare nei confronti di chi essa sussista, considerata soprattutto la laconicità delle disposizioni contenute nella norma[[46]].

Sicuramente si ha responsabilità verso la società[[47]] nel momento in cui l’attività gestoria non avvenga nel rispetto del bilanciamento degli interessi, considerata la mancata ottemperanza al dovere imposto dalla legge e dallo statuto di perseguimento del beneficio comune. 

Ora, di regola, affinché possa essere fatta valere l’azione di responsabilità viene richiesta la presenza di un danno patrimoniale subito dalla società che, nel caso di specie, non si presta ad essere facilmente individuabile. Più che altro, non è agevole collegare la lesione del patrimonio sociale al mancato perseguimento del beneficio comune; perciò, a titolo esemplificativo, la vicenda potrebbe sembrare più facilmente riconducibile alle conseguenze legate al danno all’immagine, alla reputazione della società per la mancata ottemperanza alla “finalità non lucrativa” oppure potrebbe aver condizionato la decisione delle banche di accordare o meno un finanziamento, in quanto proprio la circostanza che si tratti di una società profit potrebbe influenzare in modo determinante la decisione del terzo. 

Sicuramente quanto più dettagliatamente sarà disciplinata nello statuto detta operazione di bilanciamento, tanto minore sarà la discrezionalità adoperata nella gestione, e ridotte saranno le possibilità che si giunga o alla sanzione della revoca dell’Organo amministrativo per giusta causa o al mancato rinnovo della carica, o addirittura all’azione di responsabilità.

Soffermandosi, invece, sui creditori sociali occorre considerare che la loro posizione è espressamente tutelata dal legislatore nel momento in cui gli amministratori, non ottemperando agli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, causino l’insufficienza del patrimonio ai fini del soddisfacimento dei crediti. L’eventuale perdita di immagine, quindi, potendo causare danni indiretti al patrimonio societario, potrebbe stimolare un intervento dei creditori a danno degli stessi amministratori.

I creditori potranno, dunque, chiedere il risarcimento del danno emergente e, se configurabile, anche del lucro cessante, proprio quando il depauperamento del patrimonio sociale dovesse essere imputabile alla colpa del management e per questo dovesse essere indirettamente frustrato il loro diritto ad ottenere l’adempimento dell’obbligazione.

Ma il vero problema cruciale che la nuova disciplina solleva riguarda la possibilità di ipotizzare o meno una responsabilità dell’Organo amministrativo anche nei confronti degli stakeholders[[48]]ossia dei soggetti o categorie di soggetti indicati quali destinatari del beneficio comune nel caso di mancato conseguimento della finalità di utilità sociale. 

È dubbio, comunque, se essi possano essere qualificati come terzi legittimati ad agire con l’azione individuale di responsabilità ai sensi degli artt. 2395 o 2476, comma sesto, c.c.

Vi è da dire che gli stakeholders non sono titolari di un vero e proprio diritto economico nei confronti della società benefit, non sono creditori tout court della società, ma sono solo portatori di un mero interesse economico in quanto titolari di una aspettativa di conseguimento di effetti positivi, raggiungibili se ed in quanto la società concretamente attui i propositi potenzialmente prospettati nello statuto. 

È corretto affermare che non può giuridicamente ritenersi esistente un’obbligazione che vincoli la società nei confronti di costoro perché se la responsabilità nei confronti dei terzi nasce essenzialmente da fatto illecito o da contratto – e l’atto costitutivo di una società benefit non può, ragionevolmente, essere qualificato come un contratto in favore di terzo – manca di fatto il titolo per avanzare pretese nei confronti della società, e quindi degli amministratori.

Ciò significa che il principio dell’autonomia gestoria o la cd. regola del giudizio imprenditoriale[[49]] non può subire condizionamenti e pressioni provenienti dai destinatari del public benefit, o essere scalfito dalla nuova normativa, in quanto essa impone quale unico correttivo ai consueti parametri di diligenza, lealtà e correttezza, il rispetto del canone aggiuntivo di una gestione equilibrata degli opposti interessi. 

Ne consegue che le decisioni prese in tema di bilanciamento degli interessi sono sottratte al sindacato giurisdizionale, purché assunte in modo diligente e senza conflitti di interessi, dunque in modo informato, con la previa considerazione di tutti gli interessi coinvolti e con motivazione delle ragioni che ne sono alla base[[50]].

Va, però, segnalata la disciplina prevista espressamente nell’art. 28 della citata legge n. 117 del 2017 sul Terzo Settore, in base alla quale potrebbe trovare spazio una interpretazione più rigorosa, fondata sulla responsabilità degli organi sociali anche verso soggetti non determinati in virtù di un interesse legittimo di diritto privato[[51]].

Detto ciò, appare comunque dubbio che i terzi possano avvalersi della tutela racchiusa nell’art. 2395 c.c. (a meno che non siano stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori che abbiano ingenerato un legittimo affidamento circa l’adempimento della società), mentre sembra coerente ritenere che, laddove essi subiscano anche indirettamente un danno ingiusto alla propria sfera giuridico-patrimoniale in conseguenza di un fatto doloso o colposo degli amministratori, possano avvalersi della protezione dell’azione generale di cui all’art. 2043 c.c., in tema di responsabilità extracontrattuale[[52]].

In conclusione, la circostanza che l’organo amministrativo non persegua il beneficio comune è in ogni caso censurabile, e solo i soci possono lamentare la mancata attuazione dell’oggetto sociale, chiedere il risarcimento del lucro cessante, riconducibile al dato che l’omessa attività altruistica non abbia prodotto alcun ritorno economico per la società, e del danno emergente, qualora i costi sopportati risultino essere ingiustificati rispetto a quanto ritenuto normalmente necessario; mentre nel caso in cui la massimizzazione del profitto subisca un ridimensionamento, affinché si abbia un più incisivo riscontro nella realizzazione degli interessi socio-ambientali, vi è da dire che i soci non possono sollevare alcuna obiezione sulla condotta assunta dall’organo amministrativo[[53]]. 

In altri termini, il prius logico-giuridico ed essenziale per il vaglio dell’operato dei soggetti a cui spetta la governance della società resta quello di considerare se, con la dovuta diligenza, siano state poste in essere delle scelte compatibili con la natura di una obbligazione cd. “di mezzo” e non “di risultato”; quindi la circostanza che a posteriori le scelte effettuate si siano rivelate dannose, erronee o semplicemente dotate di una forza propulsiva molto più modesta rispetto alle aspettative, non consente di muovere alcuna accusa in ordine alla gestione degli affari sociali. 

Altri motivi di responsabilità gestoria possono essere individuati nella violazione dello specifico obbligo di individuare il responsabile incaricato di assicurare la realizzazione del beneficio altrui e per il caso di mancata predisposizione della relazione annuale. 

In questi due casi, l’inadempimento comporta una violazione degli obblighi di legge e dunque non lascia spazio a discrezionalità in merito alla sussistenza o meno di responsabilità.

Occorre precisare, infine, che il controllo del rispetto della disciplina della società benefit non è solo rimesso all’iniziativa dei summenzionati soggetti, ma, ai sensi del comma 384, trovando applicazione le disposizioni di cui al d.lgs. 2 agosto 2007, 145 (in materia di pubblicità ingannevole) e del codice del consumo di cui al d.lgs. 6 settembre 2005, n. 2006 (in tema di pratiche commerciali scorrette) è, altresì, previsto il coinvolgimento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato ai fini dell’esercizio di poteri sanzionatori[54]


Terzo settore e società benefit

Alla luce della recentissima novella relativa al Terzo settore appaiono ancora più suggestivi i potenziali ulteriori margini operativi della disciplina delle società benefit. Con il d.lgs. 3 luglio 2017 n. 112, è stata, infatti, finalmente concretizzata la delega contenuta nella l. 6 giugno 2016, n. 106 per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale[[55]]. 

Due sono gli aspetti sui quali occorre necessariamente soffermarsi per le considerazioni che seguiranno: la puntuale individuazione di quali siano gli enti riconducibili nell’alveo del Terzo settore e la previsione di molteplici misure di promozione e di sostegno di detti enti. 

Per il primo profilo rileva la lettera dell’art. 4, titolo II, che chiarifica che «sono enti del Terzo settore le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso, le associazioni, riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, o di mutualità o di produzione o di scambio di beni o servizi, ed iscritti nel registro unico nazionale del Terzo settore» mentre non possono essere considerati come tali «le amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche, le associazioni di datori di lavoro, nonché gli enti sottoposti a direzione e coordinamento o controllati dai suddetti enti, ad esclusione dei soggetti operanti nel settore della protezione civile alla cui disciplina si provvede ai sensi dell’articolo 32, comma 4». 

Con riferimento al secondo aspetto, emerge che ai sensi degli artt. 58 e ss., titolo VIII, della summenzionata fonte è prevista: 

– per tutti gli enti del Terzo settore, la facoltà di:

  • accedere ai finanziamenti del Fondo sociale europeo o ad altri fondi comunitari per progetti finalizzati al raggiungimento degli obiettivi istituzionali (in precedenza il riconoscimento era, invece, circoscritto alle sole associazioni di promozione sociale e alle organizzazioni di volontariato);
  • utilizzare gratuitamente, ed a titolo temporaneo, beni mobili ed immobili dello Stato delle Regioni o degli enti locali in occasioni particolari, con l’annessa possibilità di somministrare al pubblico alimenti e bevande nel rispetto di determinate condizioni (in passato era espressamente previsto esclusivamente per le associazioni di promozione sociale e alle organizzazioni di volontariato);
  • fruire di alcune agevolazioni per lo svolgimento di attività sociali, già previste dalla normativa vigente con riferimento all’art. 32 della legge sulle associazioni di promozione sociale (l. n. 383 del 2000), attinenti alla concessione di immobili demaniali culturali a canone agevolato e alle nuove norme sul partenariato pubblico-privato per la valorizzazione dei beni culturali (con la precisazione che rimane ferma l’esclusione delle imprese sociali);

– per le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale che svolgano attività di interesse generale in convenzione con le pubbliche amministrazioni:

  • la possibilità di beneficiare, senza oneri per lo stato, delle forme di agevolazione creditizia e delle garanzie già previste dalla normativa vigente in favore di cooperative e loro consorzi;

– per le sole organizzazioni di volontariato:

  • l’estensione dei privilegi di cui all’art. 2751-bis c.c., già previsti per le associazioni di promozione sociale. 

A questo punto diventa interessante riflettere se sia concretamente fattibile, e quale sia la modalità a mezzo della quale avvenga l’inserimento della fattispecie della società benefit nello stimolante contesto dell’attività del Terzo settore. 

Occorre preliminarmente considerare che, come in precedenza già detto, non sussistono particolari problematicità in ordine all’individuazione del tipo sociale in quanto ciascuna delle società di cui al libro V, titoli V e VI, del codice civile potenzialmente si presta ad essere un veicolo idoneo per l’attuazione del “modello” benefit. Qualche perplessità in più sorge sulla compatibilità con le cooperative di solidarietà sociale di cui alla legge 8 novembre 1991, n. 381, benché non sussista alcun espresso divieto normativo sul punto. In questo caso, anche se la veste organizzativa impiegata è quella delle società cooperative, sussiste la peculiarità di un oggetto esclusivo consistente nel perseguimento «dell’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini attraverso: 

a) la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi; 

b) lo svolgimento di attività diverse – agricole, industriali, commerciali o di servizi – finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate». 

Da ciò si evince che si tratterebbe di enti non profit la cui attività è ispirata ad una ratio difficilmente compatibile con il duplice scopo di lucro e di beneficio comune che connota la società benefit e si ricorda, altresì, che una conclusione analoga è prospettabile anche per le imprese sociali, in considerazione di quanto già detto in precedenza. 

Appare, infine, indispensabile avere ben chiaro il dato che le società benefit, in quanto tali, non godono di incentivi economici e fiscali, come ampiamente già ricordato. Tanto precisato, se una società benefit acquista una veste giuridica compatibile con la qualificazione di ente del Terzo settore – e l’attenzione converge, in particolare, sulle società di mutuo soccorso – allora la possibilità di fruire di agevolazioni e misure di sostegno che sembrava essere non realisticamente conseguibile in ossequio alla legge 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, commi 376 e ss., diventa, invece, concretamente prospettabile proprio perché si fa propria la natura di ente del Terzo settore e non in quanto trattasi di società benefit tout court.


Nuove prospettive operative per gli enti religiosi

La introduzione nel nostro ordinamento giuridico del “modello benefit” ha reso opportuno riflettere, nuovamente, sul dibattuto binomio “ente ecclesiastico”[[56]] e “società commerciale”. Preliminarmente urge considerare che a lungo ci si è interrogati sulla materiale possibilità, per un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, di realizzare un’attività commerciale e lucrativa, con la conseguente assunzione della qualificazione di imprenditore[57]. È stato correttamente sostenuto che «la apparente diversità causale tra l’ecclesiasticità di un tipo di ente e la commercialità dell’altro non» può «costituire di ostacolo affinché un ente ecclesiastico costituisca una società di qualsiasi tipo»[[58]]; gli schemi societari proposti dal legislatore sono, infatti, forme organizzative connotate da una intrinseca duttilità e possono essere agevolmente impiegate da tali enti anche per il perseguimento di scopi dissimili da quelli prettamente attinenti alla religione e alla finalità di culto[[59]]. 

La compatibilità tra le finalità religiose e di impresa è, quindi, pienamente rispondente ad una molteplicità di esigenze. In primis, è anacronistico continuare ad illudersi che le finalità istituzionali possano ancora essere compiutamente soddisfatte avvalendosi delle liberalità elargite dai fedeli o mediante l’impiego di finanziamenti pubblici destinati alle confessioni religiose; l’adozione di un modello societario, pertanto, comportando l’esercizio in comune dell’attività, favorirebbe la concentrazione di maggiori risorse economiche e risponderebbe all’esigenza di individuare nuove forme di finanziamento per lo svolgimento delle attività di religione o delle attività socialmente utili. A ciò si aggiunge, inoltre, il palese vantaggio legato all’acquisizione dell’autonomia patrimoniale perfetta[[60]], laddove si opti per il tipo delle società di capitali, che di fatto annulla il rischio che le perdite possano minare l’integrità del patrimonio dell’ente, destinato al perseguimento di fini istituzionali.

Detto ciò, l’oggettiva possibilità di impiego delle menzionate forme organizzative societarie si arricchisce di nuovi e suggestivi spunti operativi con l’introduzione della disciplina delle società benefit

Potendo, infatti, tutte le società adottare il modello benefit, gli enti ecclesiastici possono godere, a questo punto, di un ampio margine di discrezionalità nella individuazione del tipo sociale più adeguato alle proprie esigenze. L’adozione di detto modello, tra l’altro, integra, senza dubbio, uno strumento «quanto mai utile per tutte le “religioni” che non hanno riconoscimento istituzionale, perché o prive di intesa o mancanti di una tradizione che le rende identificabili come tali nel nostro tessuto sociale, ma pur sempre protette dagli art. 8 e 19 Cost.»[[61]]. 

Sicuramente, adeguandosi alla novella, diventa prioritario il perseguimento del cd. “beneficio comune”: quest’ultimo, in considerazione delle finalità istituzionali degli enti di cui si discorre, viene valutato anche alla luce del rispetto dei valori fondamentali della persona umana, tutelati a livello costituzionale, tra i quali assume una posizione di rilievo la tutela della libertà religiosa di cui all’art. 19 Cost.

Risolto, poi, in senso positivo il dibattito in merito alla possibilità che una persona giuridica possa partecipare ad una società di persone, stante l’assenza di un espresso divieto normativo in merito, e considerata la non alterazione del regime della responsabilità imperfetta (la persona giuridica, comunque, risponderebbe illimitatamente con il suo patrimonio)[[62]], qualche perplessità in più destava il caso in cui sia proprio un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto a voler partecipare ad una società di persone. Quest’ultima, benché costituisca un centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, è comunque connotata dall’assenza di un’autonomia patrimoniale perfetta[[63]]. Il punto critico è, infatti, legato alla circostanza che l’ente ecclesiastico, divenendo socio di società in nome collettivo o di società in accomandita semplice, risponderebbe degli obblighi sociali anche con tutto il suo patrimonio, mentre secondo la disciplina speciale pattizia[[64]] la possibilità di svolgere attività idonee a produrre profitto è concepita come fattibile nei limiti in cui non siano irreparabilmente compromesse le finalità istituzionali[[65]]. Ciò ha spinto autorevole dottrina a ritenere che la scelta di tale tipo sociale sia sicuramente astrattamente ipotizzabile, ma difficilmente troverebbe un riscontro concreto a livello operativo.

Per quanto riguarda le società di capitali[[66]], invece, proprio l’impossibilità per i creditori sociali di rivalersi sul patrimonio dei soci, renderebbe più “serena” la decisione di un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto di partecipare alla società, senza incorrere nel rischio di alterazioni delle finalità istituzionali. 

Ora, la sottoscrizione ab origine del contratto sociale, o l’acquisto di partecipazioni di una società benefit, hanno indubbiamente la natura di atti di straordinaria amministrazione che necessitano di essere sottoposti al vaglio dell’autorità ecclesiastica, la quale provvederà ad emettere, laddove lo reputi opportuno, il provvedimento autorizzativo. 

In conclusione, proprio la circostanza che gli enti ecclesiastici possano svolgere attività diverse da quelle di religione o di culto[[67]] (alle condizioni previste dall’art. 7, n. 3, dell’Accordo del 18 febbraio 1984) e il dato ineludibile che il modello societario benefit possa essere un affidabile veicolo per tradurre in realtà le finalità di impatto sociale, ispirate al benessere della collettività, palesano all'operatore giuridico l'evidente compatibilità tra le fattispecie giuridiche, rendendo auspicabile un sempre più progressivo impiego del nuovo modello anche per tali enti e lasciando intravedere quale possa essere la portata della riforma voluta dal legislatore.

Il presente lavoro è stato pubblicato in Rivista del Notariato 2018, 510.

[1] Interessante e piena di spunti la Circolare Assonime n. 19 del 20 giugno 2016, in Riv. not., 2016, 775 ss.

[2] Per una prima analisi della figura vedi il nostro contributo P. GUIDA, Il modello “società benefit”: analisi strutturali e applicazioni al Terzo settore, in I Quaderni della Fondazione italiana del Notariato, 2017, 19, di cui il presente lavoro costituisce approfondimento.

[3] Come è noto il settore non profit rappresenta «la terza via per la realizzazione del generale benessere economico della persona, alternativa sia al mercato, che all’erogazione da parte dello Stato», M.V. DE GIORGI, Il nuovo diritto degli enti senza scopo di lucro: dalla povertà delle forme codicistiche al groviglio delle leggi speciali, in Riv. dir. civ., 1999, 287 ss.; A. ZOPPINI, La nuova disciplina delle associazioni e delle fondazioni: riforma del diritto societario e enti non profitPadova, 2007; G. SALANTINO, L’impresa sociale, in Contr. e impr., 2011, 2, 395. Per un approfondimento in merito si rinvia a: G. ALPA, Responsabilità sociale dell’impresa, enti non profit, etica degli affari, in Economia e diritto del terziario: rivista quadrimestrale, 2011, 2, 199 ss.; V. BANCONE, Le organizzazioni non profit, Roma, 2011; A. SANTUARI, Le organizzazioni non profit: approfondimenti in tema di sussidiarietà, aspetti fiscali, rapporti con gli enti pubblici, cooperative sociali e trust per soggetti deboli, Padova, 2012.

[4] Si esclude che nel caso di specie l’intento del legislatore sia stato quello di creare una tipologia di società del tutto scevra dallo scopo di lucro; piuttosto si è palesata la finalità di creare un collegamento funzionale tra l’attività economica e l’utilità economica.

[5] «Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili».

[6] Anzi appare suggestiva l’opinione secondo cui «la società benefit ha, definitivamente, abbattuto la separazione tra il Secondo e il Terzo settore e, in definitiva, sembra aver creato un nuovo settore, in quanto la società benefit “oltre” a svolgere un’attività economica per la distribuzione degli utili, può perseguire “scopi di beneficio comune” attraverso un’attività non necessariamente economica», A. LUPOI, L’attività delle “società benefit” (l. 28 dicembre 2015, n. 208), in Riv. not., 2016, 811 ss., spec. 812. 

[7] Un primo report sulle società benefit in Italia è stato elaborato da Paolo Revigliono e Nicola Riccardelli per conto della Universitas Mercatorum – Università telematica delle Camere di commercio italiane, distribuito nell’ambito del Convegno “Società benefit. Laboratorio Taranto. Presentazione 1° Report sulle Società Benefit in Italia del 12 novembre 2016”.

Per un aggiornamento costante si può consultare il sito www.societabenefit.net/registro-ufficiale-societa-benefit/ 

[8] Circa la legittimità di una società a responsabilità limitata semplificata che ha adottato il modello benefit, va rilevato che appare in contrasto con la normativa in tema di società semplificata la circostanza di arricchire l’atto costitutivo con le indicazioni previste per le società benefit. Andrebbe, pertanto, suggerita molta cautela nell’utilizzare tale modello.

[9] Per un utile confronto tra le due tipologie societarie si veda P. VENTURI – S. RAGO, Benefit corporation e impresa sociale: convergenza e distinzione, in Impr. soc., 2015, 6, disponibile all’indirizzo http://www.rivistaimpresasociale.it/rivista/item/135-benefit- corporation.html; M.N. IANNACONE, Evoluzione dell’impresa verso uno scopo di utilità sociale: società benefit e impresa sociale, Milano, 17 novembre 2016, disponibile all’indirizzo www.animaimpresa.it.

[10] Vedi l’interessante contributo di G. RACUGNO, L’impresa sociale, in Riv. dir. comm., 2009, I, 49 ss.

[11] È sicuramente condivisibile l’opinione secondo cui funzione del notaio possa emblematicamente sintetizzarsi nella qualificazione di “custode del diritto” (C. CACCAVALE, Intervento del notaio in funzione di controllo preventivo della legalità e sicurezza dei traffici giuridici, in Spontaneità del mercato e regole giuridiche, Atti del XXXIX Congresso Nazionale del Notariato, Milano, 2002, 386 ss.) al quale è demandato il compito di accertare, simultaneamente, la non collisione con la legge (cd. controllo di legalità) e l’armonia degli interessi perseguiti con i principi del buon costume e dell’ordine pubblico (cd. controllo di liceità); questo è proprio il caso in cui, considerato il carattere innovativo della fattispecie e la necessità che l’operatore del diritto non violi alcun divieto normativo, il ruolo di tale pubblico ufficiale assume un’importanza cruciale.

[12] Molto utile per l’approfondimento della figura l’inquadramento teorico contenuto nei contributi inseriti nel forum virtuale nel numero 2/2017 della rivista telematica Orizzonti del Diritto Commerciale: C. ANGELICI, Società benefit; F. DENOZZA e A. STABILINI, La società benefit nell’era dell’Investor Capitalism; G. MARASÀ, Scopo di lucro e scopo di beneficio comune nelle società benefit; S. ROSSI, L’impegno multistakeholder della società benefit; M. STELLA RICHTER Jr, Società benefit e società non benefit; A. ZOPPINI, Un raffronto tra società benefit ed enti non profit: implicazioni sistematiche e profili critici.

[13] S. CORSO, Le società benefit nell’ordinamento italiano: una nuova “qualifica” tra profit e non profitin Nuove Leggi civ. comm., 2016, 5, 995 ss., spec. 999, secondo cui le società benefit «… non identificano un nuovo tipo societario, quanto piuttosto una “qualifica” che tutti i tipi societari (lucrativi e mutualistici) possono acquisire, evidenziandola nella propria denominazione sociale … previ i necessari adeguamenti statutari». Condividono tale opinione: A. RUOTOLO, Le società benefitin Quotidiano Ipsoa, 19 maggio 2016, reperibile su www.plurisonline.it; D. SICLARI, Le Società benefit nell’ordinamento italiano, in Riv. trim. dir. econ., 2016, 36 ss.; A. TESTA, Le “società benefit” e i limiti di interpretabilità della norma, in Quotidiano Ipsoa, 19 gennaio 2016, reperibile su www.plurisonline.it. D. LENZI, Le società benefitin Giur. comm., 2016, 894.

[14] P. MONTALENTI, Il diritto societario dai “tipi” ai “modelli”, in Giur. comm., 2016, 4, I, 420 ss., secondo cui «… il principio di tipicità può dirsi, se non tramontato, certamente fortemente appannato nel nostro ordinamento giuridico, con forti assonanze con gli altri ordinamenti europei: con una formula sintetica potrebbe dirsi che il sistema societario è passato dai “tipi ai modelli”». Non a caso nella citata Circolare Assonime, del 20 giugno 2016, n. 19 è stata utilizzata sapientemente l’espressione di “nuovo modo di fare impresa” e “modello integrato di impresa” in quanto si è palesato che l’intento del legislatore «non è quello di creare un nuovo tipo di società, bensì quello di integrare la disciplina societaria già esistente con regole che consentano: all’impresa di vincolare nel tempo i valori originari che ispirano l’attività aziendale; agli amministratori di destinare le risorse e attività al perseguimento delle ulteriori finalità indicate nello statuto; al mercato, di godere di un’informativa veritiera e trasparente dell’impegno assunto dalla società per coniugare gli obiettivi di profitto e crescita dell’impresa con il rispetto del contesto socio-ambientale nel quale essa opera», D. LENZI, Le società benefit, cit., 899, nota 23.

[15] Dunque la scelta può ricadere indifferentemente su società di persone, società di capitali e cooperative.

[16] “L’impatto sociale” dismette la veste di elemento accessorio ed entra nel nucleo della finalità dell’impresa for profit, quindi «… oltre ad essere un elemento reputazionale, costituisce un nuovo motore per la competitività dell’azienda»; conseguentemente «… il sociale non è più residuale o riparatorio, ma diventa un componente della produzione del valore, fino al punto da essere contenuto nello statuto stesso», M. RIZZO, Benefit Corporation, la sintesi tra imprese profit e non profit è un dato di fatto, in www.repubblica.it, 27 agosto 2015. 

[17] Appare logico il richiamo al concetto di responsabilità sociale di impresa, a tal fine si rinvia a: F. CAFAGGI, La complementarità tra responsabilità sociale e responsabilità giuridica d’impresa, in L. SACCONI (a cura di), Guida critica alla responsabilità sociale d’impresa, Roma, 2005, 219 ss.; A. ANTONUCCI, La responsabilità sociale di impresa, in Nuova giur. civ. comm., 2007, 4, II, 119 ss.; A. GIGANTE, La politica delle istituzioni comunitarie in materia di responsabilità sociale d’impresa: voluntary o mandatory approach?, in Dir. pubbl. comp. eur., 2008, 4, 1991 ss.; D. RUSSO, La promozione della responsabilità sociale nell’Unione Europea, in Diritto Un. Eur., 2011, 2, 477 ss.

[18] I vantaggi per la collettività, a titolo esemplificativo, possono essere riscontrabili ad esempio nella cura riservata alle condizioni di lavoro dei dipendenti e all’innovazione tecnologica, nell’uso di energie rinnovabili, oppure nel dialogo con le comunità locali.

[19] Per semplicità si utilizzerà solo il termine “denominazione” ma le riflessioni vanno ovviamente riferite anche alla “ragione sociale”.

[20] Ciò affinché, nel pieno rispetto del principio dell’altrui affidamento, appaia chiaro e inequivoco per i terzi il perseguimento anche del fine di utilità sociale. In altre parole, il mercato deve «godere di un’informativa veritiera e trasparente dell’impegno assunto dalla società per coniugare gli obiettivi di profitto e crescita dell’impresa con il rispetto del contesto socio-ambientale nel quale la stessa opera», Circolare di Assonime, del 20 giugno 2016, n. 19, cit., 782.



[21] Per la tematica dell’oggetto sociale in generale, anteriormente della riforma del diritto societario ed intervenuta con il d.lgs. n. 6 del 2003, si rinvia a: F. MARTORANO, Capacità delle società e oggetto sociale nel diritto anglo-americano, Napoli, 1961; E. ZANELLI, La nozione di oggetto sociale, Milano, 1962; E. GLIOZZI, Gli atti estranei all’oggetto sociale nelle società per azioni, Milano, 1970; G. CASELLI, Oggetto sociale e atti ultra vires, Padova, 1970; G. LA VILLA, L'oggetto sociale, Milano, 1974, 1 ss.; E. BERTACCHINI, Oggetto sociale e interesse tutelato nella SpA, Milano, 1995. Per il periodo successivo alla riforma si rinvia a: M. STELLA RICHTER JR., Forma e contenuto dell'atto costitutivo della società per azioni, in COLOMBO PORTALE (diretto da), Tipo – Costituzione – Nullità, Trattato delle SpA, vol. 1*, Torino, 2004, 231 ss.; ID., Sub artt. 2326-2328, in MARCHETTI, BIANCHI, GHEZZI, NOTARI (diretto da), Commentario alla riforma delle società, NOTARI (a cura di), Costituzione – Conferimenti, Milano, 2008, 75 ss.; M. AVAGLIANO, La costituzione della società per azioni, in Studi e materiali. Atti del convegno La riforma del diritto societario – Le riflessioni del notariato, 2004, 52 ss.; L.E. NTUK, Sub art. 2328, in COTTINO, BONFANTE, CAGNASSO, MONTALENTI (diretto da), Il nuovo diritto societario. Commentario, 1, Bologna, 2004, 56 ss.; M. SEPE, Sub art. 2328, in NICCOLINI – STAGNO D’ALCONTRES (a cura di), Società di capitali. Commentario, Napoli, 2004, I, 47 ss.; F. TASSINARI, Sub art. 2328, in MAFFEI ALBERTI (a cura di), Il nuovo diritto delle società, Padova, 2005, I, 2639 ss.; G. MUCCIARELLI, Profili dell’oggetto sociale nelle società di capitali, in ABBADESSA e PORTALE (diretto da), Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum, G. F. Campobasso, Torino-Milano, I, 2006, 303 ss.; M. BIANCA, Oggetto sociale ed esercizio dell’impresa nelle società di capitali, Milano, 2008; C. CACCAVALE, Determinatezza dell’oggetto sociale ed eterogeneità delle attività economiche, in Contr. e impr., 2008, 839 ss.; M. MIOLA, L’oggetto sociale tra autonomia statutaria ed autonomia gestoria, in Riv. dir. priv., 2008, 703 ss.; AA. VV., Oggetto ed attività delle società: ruolo e responsabilità del notaio. Atti del Convegno tenutosi a Napoli il 22 settembre 2007, Milano, 2008; A. PAOLINI, Le modificazioni di fatto dell’oggetto sociale, Milano, 2014.

[22] S. CORSO, Le società benefit …, cit., 1007 ss.. Dedica particolare attenzione alla attività economica e alle molteplici interpretazioni a cui essa si presta, A. LUPOI, L’attività delle “società benefit”, in Riv. not., 2016, 821 ss.

[23] Di difficile risoluzione è la problematica concernente la corretta esegesi della finalità di beneficio comune prevista dal legislatore. In sintesi, il fulcro della questione è il seguente: è dubbio se l’attività volta alla realizzazione del beneficio comune debba essere o meno necessariamente legata al processo produttivo dell’impresa. Come di seguito sarà più ampiamente trattato, particolarmente suggestiva è apparsa l’opinione positiva in quanto difficilmente la società benefit potrebbe essere considerata una istituzione filantropica con lo scopo di risoluzione di quelle problematiche di impatto sociale che, benché meritevoli, non abbiano la minima attinenza alla catena produttiva.

[24] Sul punto si rinvia a A. PAOLINI, Le modificazioni di fatto dell’oggetto sociale, cit., 17 ss.

Inoltre la mancanza di espliciti riferimenti normativi, in ambito societario, sulle caratteristiche dell’oggetto sociale ha spinto, sempre più frequentemente, dottrina e giurisprudenza ad applicare, con un approccio esegetico di tipo analogico, l’art. 1346 c.c. al caso di specie, benché sia previsto espressamente in materia di contratti. Ma, è bene precisare che le peculiarità della vicenda societaria hanno reso indispensabile apportare un importante correttivo, ossia escludere che l’oggetto sociale possa essere inteso anche come determinabile. Tradizionale e autorevole dottrina addiviene a tale conclusione (A. GRAZIANI, Diritto delle società, Napoli, 1963, 34, nota 4) e non mancano, altresì, pronunce giurisprudenziali nelle quali emerge l’idea secondo cui l’oggetto sociale deve essere indicato con un sufficiente grado di specificazione e deve, pertanto, essere determinato e non meramente determinabile.

[25] Sull’argomento è doveroso richiamare quanto sostenuto dalla dottrina notarile secondo cui «l’obbligo di indicare nell’atto costitutivo l’oggetto sociale (art. 2328 n. 3 e art. 2475 n. 3 c.c.) implica che tale indicazione debba avvenire in modo specifico e non generico. La specificità normalmente risulta dalla individuazione congiunta del settore economico in cui la società intende operare (produzione e/o scambio o prestazione di servizi) e dalla specificazione dei settori merceologici di riferimento, ma può anche risultare da particolari modalità con cui l’attività verrà svolta, che tenuto conto delle mutate esigenze e valutazioni socio-economiche, possono assumere una loro particolare specificità indipendentemente dal settore merceologico a cui l’attività verrà applicata: è il caso, in via esemplificativa, dell’attività commerciale svolta attraverso ipermercati e supermercati, dell’e-commerce, di particolari attività di import-export, della commercializzazione di prodotti ricevuti da gruppi in pagamento di altre prestazioni (ad esempio attività pubblicitarie», CONSIGLIO NOTARILE DI MILANO, nella Massima n. VI, in Massime notarili in materia societaria, Milano, 2014, 13 ss.


[26] La presenza di un oggetto sociale contraddistinto da una “doppia anima”, “egoistica” e allo stesso tempo “altruistica”, mostra una tangibile apertura in ordine alla ammissibilità di una società con un oggetto sociale plurimo, in cui siano indicate una pluralità di attività anche del tutto diverse e non necessariamente collegate tra loro. Non mancano contributi della dottrina notarile secondo cui sono «… comunque sempre ammissibili oggetti plurimi ed eterogenei, ritenendosi illegittimi solo quegli oggetti sociali di ampiezza tale da risultare in concreto indeterminati», Comitato interregionale dei Consigli Notarili delle Tre Venezie, massima G.A.2., Determinatezza dell’oggetto, in AA.VV. Orientamenti del Comitato Triveneto dei Notai in materia di atti societari, Milano, 2015, 45 ss. A livello giurisprudenziale, numerose pronunce di merito ammettono la possibilità di indicare una pluralità di attività: Trib. Roma, 14 dicembre 1977, (due decreti), in Riv. dir. comm., 1979, II, 157 ss. con nota di G. FERRI, In tema di determinazione dell’oggetto sociale; Trib. Ascoli Piceno, 26 maggio 1982, in Riv. not., 1984, 949; App. Milano, 6 ottobre 1986, in Società, 1986, 384 ss.; App. Catania, 23 gennaio 1987, in Società, 1987, 433; Trib. Venezia, 13 febbraio 1987, in Società, 1987, 831; Trib. Genova, 11 luglio 1987, in Società, 1987, 1076; Trib. Verona, 9 febbraio 1988, in Società, 1988, 530; App. Genova, 24 giugno 1988, in Giur. it., 1988, I, 623; Trib. Bologna, 18 gennaio 1990, in Vita not., 1990, 580; Trib. Cassino, 23 marzo 1990, in Vita not., 1991, 634; Trib. Bologna, 15 gennaio 1991, in Società, 1991, 824; Trib. Trani, 25 maggio 1993, in Riv. not., 1993, 934, con nota di V. PAPPA MONTEFORTEControllo omologatorio e determinatezza dell’oggetto sociale; Trib. Trani, 11 agosto 1993, in Riv. not., 1994, 885; App. Catania, 22 ottobre 1993, in Vita not., 1994, 316; Trib. Bologna, 8 marzo 1995, in Società, 1995, 1230; App. Milano, 13 luglio 1996, in Riv. not., 1996, 1524; Trib. Udine, 5 agosto 1996, in Dir. fall., 1996, 1143.

[27] Ora, considerata l’esiguità di contributi dottrinali in materia, appare utile richiamare l’accezione di general public benefit a cui il legislatore italiano si è ispirato. Più precisamente quattro sono le macro aree di impatto: «Governance (ad es. la partecipazione dei lavoratori nei processi di gestione dell’impresa); Workers (il coinvolgimento degli impiegati in attività di assistenza a soggetti disabili); Community (ad es. la donazione di aree verdi, la promozione di eventi culturali ed artistici); Enviroment (ad es. l’utilizzo di materiali riciclabili, la bonifica di aree inquinate)», A. LUPOI, Dottrina e problemi del Notariato. Argomenti e attualità, in Riv. not., 2016, 5, 818.

[28] Il beneficio comune è stato infatti definito anche come «mera riduzione delle esternalità negative generate, dalla società, nello svolgimento della sua attività», S. CORSO, Le società benefit …, cit., 995 ss., spec. 1004.

[29] M. DE PAOLI, Società benefit ed economia nuova, consultabile sul sito www.diritto24.ilsole24ore.com.

[30] Circolare Assonime n. 19 del 20 giugno 2016, cit., 798.

[31] Testualmente, infatti, il secondo comma dell’art. 2423 c.c. prevede che «il bilancio deve essere redatto con chiarezza e deve essere rappresentare in modo veritiero e corretto, la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio».

[32] Condivisibile è l’affermazione secondo la quale «dal punto di vista degli stakeholders la pubblicazione della relazione con periodicità annuale dovrebbe consentire loro di esprimere un giudizio sulla coerenza tra i risultati raggiunti e le finalità individuate dalla società in fase di programmazione dell’attività», S. CORSO, Le società benefit …, cit., 1027.

[33] Tale istituto giuridico è qualificato come il principale correttivo al principio maggioritario e un agevole strumento di disinvestimento della partecipazione sociale – da reputarsi necessariamente profittevole in quanto parametrato sulla scorta di obiettivi criteri di determinazione che riproducano «il valore di mercato della partecipazione al momento della dichiarazione di recesso» (Comitato interregionale dei Consigli notarili delle Tre Venezie, massima I.H.13., Limiti alle clausole statutarie volte a determinare il valore della partecipazione in caso di recesso, in AA.VV. Orientamenti del Comitato Triveneto dei Notai in materia di atti societari, cit., 235 ss.) – previsto a tutela delle istanze del singolo socio che non abbia contribuito, con la sua determinazione volitiva, a quelle alterazioni del contratto sociale che abbiano mutato i tratti essenziali dell’investimento originario, arrecandogli, pertanto, nocumento; detto in altri termini, «il recesso tutela l’interesse individuale del socio a sciogliere il vincolo societario, monetizzando la propria partecipazione, in presenza di vicende che incidono in modo particolarmente significativo sull’assetto organizzativo», A. PACIELLO, Art. 2437, in NICCOLINI –STAGNO D’ALCONTRES (a cura di), Il codice civile. Commentario, Art. 2380-2448, II, Napoli, 2004, 1105. 

[34] La trasformazione eterogenea viene infatti definita come «la trasformazione di una società in un organismo non societario e viceversa o come il mutamento dello scopo (lucrativo, mutualistico o ideale) dell’ente trasformando» effettuata ottemperando al principio di economia dei mezzi giuridici e tale da consentire con un’unica operazione il passaggio da un ente ad un altro con contestuale mutamento dello scopo e conservazione dei rapporti giuridici, C. BOLOGNESI, Art. 2500-septies c.c., Trasformazione eterogenea da società di capitali, in GRIPPO (a cura di), Commentario delle società, II, Torino, 2009, 1216 ss., spec. 1217. 

[35] Occorre considerare che questa conclusione è proponibile per qualunque tipo sociale. Quindi laddove l’attenzione converga sulle società di persone, non vi è spazio per il diritto di recesso di cui all’art. 2500-ter c.c., riconosciuto in caso di trasformazione omogenea progressiva; mentre in caso di SpA si esclude in nuce la sussistenza della causa di recesso di cui all’artt. 2437, lettera b) c.c.

[36] L’intuitus personae è proprio l’elemento che contraddistingue tale tipo sociale dagli altri, in considerazione della circostanza che qualità ed attitudini dei soci incidono considerevolmente sulla volontà di esercitare in comune un’attività commerciale; sul punto si rinvia a F. DI SABATO, Le società, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, 1230 ss.; M. GHIDINI, Società personali, Padova, 1973, 123 ss.

[37] Cass., 14 febbraio 2000, n. 1602, in Giur. it., 2000, 1659 ss., dalla quale si evince che «l’indagine in tema di giusta causa di recesso (art. 2285 c.c.) va necessariamente ricondotta (così come per i rapporti di lavoro, di mandato, di apertura di credito, e per tutti quelli cui la legge attribuisca particolari effetti al concetto di “giusta causa”) alla cui violazione degli obblighi contrattuali, ovvero alla violazione dei doveri di fedeltà, lealtà, diligenza o correttezza inerenti alla natura fiduciaria del rapporto sottostante, con la conseguenza che il recesso del socio di una società di persone può ritenersi determinato da giusta causa solo quando esso costituisca legittima reazione ad un comportamento degli altri soci obiettivamente, ragionevolmente ed irreparabilmente pregiudizievole del rapporto fiduciario esistente tra le parti del rapporto societario». Nello stesso senso: Cass., 10 giugno 1999, n. 5732, in Arch. civ., 2000, 534 ss.; Cass., 6 febbraio 1965, n. 186, in Giust. civ.,1965, I, 34 ss. (dalla quale si ricava la considerazione secondo cui è considerato insufficiente a determinare una giusta causa di recesso sia il disaccordo su qualsiasi pretesa, anche se fondata, sia un qualunque pretestuoso motivo di dissenso); Cass., 3 gennaio 1962, n. 2, in Giur. it., 1962, I, 1, 129 ss.; Cass., 13 giugno 1957, n. 2212, in Dir. fall., 1958, II, 894 ss.

[38] Affronta il problema del diritto di recesso con espresso riferimento alle problematiche in oggetto M. STELLA RICHTER Jr, Corporate social responsibility, social enterprise, benefit corporation: magia delle parole, in Vita not., 2017, 953 in part. 963

[39] Fattispecie che ne costituiscono una prova tangibile sono ad esempio la revoca dello stato di liquidazione di cui all’art. 2487-ter c.c., la trasformazione eterogenea di cui all’art. 2500-octies c.c. e l’inserimento nello statuto di una clausola compromissoria di cui agli artt. 34 e ss. del d.lgs. n. 5 del 2003. 

[40] Determinante a tal fine è il possesso della qualità di socio come confermato da Cass., 8 novembre 2005, n. 21641, in Banca borsa tit. cred., 2007, I, 1 ss., con nota di A. TUCCI, Illegittimità dell’esercizio del recesso e responsabilità della banca e in Riv. dir. comm. e dir. gen. obbl., 2006, 10-11-12, 279 ss., di cui si riporta la massima: «in tema di società per azioni, il primo comma dell'art. 2437 c.c. (nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, applicabile nella specie “ratione temporis”) attribuisce il diritto di recesso al socio dissenziente da deliberazioni assembleari riguardanti il mutamento dell'oggetto sociale, il cambiamento del tipo di società o il trasferimento della sede all'estero. Presupposto affinché il diritto sorga è, dunque, un dissenso che necessariamente postula la qualità di socio al momento in cui sia assunta la deliberazione della quale si discute: con la conseguenza che il diritto stesso non compete a chi abbia acquistato le azioni della società in data successiva a quella di adozione della deliberazione stessa, ancorché anteriore a quella della sua iscrizione nel Registro delle imprese, senza che possa farsi leva, in senso contrario, sul rischio che detto socio ignori la modificazione del contratto sociale frattanto intervenuta, dovendo la corrispondente tutela essere ricercata nella sfera dei rapporti contrattuali tra venditore ed acquirente delle azioni, o comunque su un piano che non coinvolga la società». 

[41] S. CARMIGLIANI, Art. 2437-ter, in La riforma delle società, Torino, 2003, 879.

[42] Per un approfondimento in merito alla problematica delle modificazioni di fatto dell’oggetto sociale, nella SpA e nella Srl, vista alla luce della disciplina del recesso, si rinvia a A. PAOLINI, Le modificazioni di fatto dell’oggetto sociale, cit., 187 ss.

[43] È stato affermato che il diritto di recesso deve essere «… escluso in caso di “modifica di fatto” dell’oggetto sociale, che si verifica ad esempio quando l’oggetto sociale è delineato in termini molto ampi e l’attività viene indirizzata in un settore diverso da quello in cui la società ha sempre operato, purché sia sempre compreso all’interno della clausola statutaria», circolare Assonime n. 19 del 20 giugno 2016cit., 785.

[44] Comitato Interregionale dei Consigli Notarili delle Tre Venezie, Massima I.H.1., Modifica dell’oggetto e recesso, in AA.VV. Orientamenti del Comitato Triveneto dei Notai in materia di atti societari, cit., 281 ss.), di cui si riporta il contenuto: «Per le Srl si deve ritenere non sia sufficiente una qualsiasi modifica dell’oggetto, anche se di lieve entità, per legittimare il socio non consenziente ad esercitare il recesso, benché l’art. 2473 c.c. parli semplicemente di “cambiamento di oggetto”, ma sia invece necessario un cambiamento significativo dell’attività sociale (così come prescrive espressamente l’art. 2437 c.c. per le società per azioni».

[45] Ritengono che anche nelle società a responsabilità limitata il cambiamento dell’oggetto debba essere significativo, come nella società per azioni, per legittimare il diritto di recesso: M. STELLA RICHTER Jr, Diritto di recesso e autonomia statutaria, in Riv. dir. comm., 2004, I, 405; F. CHIAPPETTA, Nuova disciplina del recesso di società di capitali: profili interpretativi e applicativi, in Riv. soc., 2005, p. 492; F. ANNUNZIATA, Sub art. 2473, in MARCHETTI (diretto da), Commentario alla riforma delle società, Milano, 2008, 469.

Ritiene invece che il recesso dalla società a responsabilità limitata sia contenuto in presenza di qualsiasi modifica della clausola dell’oggetto sociale (ancorchè non significativa) G. ZANARONE, Delle società a responsabilità limitata, in SCHLESINGER (fondato da) e BUSNELLI (continuato da), Il Codice Civile. Commentario, tomo I, Milano, 2010, 789, nota 29.

[46] Interessante in proposito il dibattito sviluppato nel forum virtuale pubblicato sul n. 2/2017 dalla rivista telematica Orizzonti del diritto civile, citata alla nota 12.

[47] Detta responsabilità sarà vagliata sulla scorta del canone della diligenza del buon padre di famiglia e delle norme previste in tema di mandato per le società di persone, mentre sulla base della diligenza professionale disciplinata dagli art. 2392 ss. c.c. e 2476 c.c. per le società di capitali. Più precisamente, considerando che il perseguimento del beneficio comune costituisce parte integrante dell’oggetto sociale, «ai fini della valutazione della pertinenza di un atto degli amministratori di una società di persone all’oggetto sociale (analogamente a quanto avviene per le società di capitali), il criterio da seguire è quello della strumentalità, diretta o indiretta, del primo rispetto al secondo, mentre non è sufficiente il criterio dell’astratta previsione, nello statuto, del tipo di atto posto in essere: da un lato, infatti, l’elencazione statutaria di atti tipici mai potrebbe essere completa, attesa la serie di atti che possono essere funzionali all’esercizio di una determinata attività; dall’altro, anche l’espressa previsione statutaria di un atto tipico non assicura che lo stesso sia in concreto rivolto allo svolgimento di quella attività. Né, rileva, infine, la buona fede del terzo, ai sensi dell’art. 2298 c.c., comma 1, c.c., non trattandosi della violazione di specifici limiti al potere rappresentativo degli amministratori, bensì dello stesso limite generale dell’oggetto sociale», Cass., 12 dicembre 2016, n. 25409, in Italgiureweb; in conformità a tale orientamento, Cass., 21 novembre 2002, n. 16416 in: Riv. not., 2003, 1021 ss., con nota di C. VOCATURO, Concessione di garanzia a favore di debiti altrui, atti estranei all’oggetto sociale e limiti al potere degli amministratori; Giust. civ., 2003, I, 1029 ss.; Foro pad., 2003, I, 42 ss. 

[48] Il termine stakeholder (“to hold a stake”) letteralmente significa possedere o essere portatore di un interesse. Dunque, lo stakeholder di una organizzazione è, per definizione, un individuo o un gruppo che può influire o essere influenzato dal raggiungimento degli obiettivi dell’impresa in quanto titolare del diritto di proprietà o di altro diritto oppure portatore di interessi che siano strettamente correlati all’attività di impresa e alle sue operazioni presenti o future. Appare utile, a tal proposito, un sintetico riferimento alle qualificazioni più significative che detta figura può assumere. Quando gli stakeholders sono definiti come primari o essenziali, hanno una forte capacità di intervento sulle decisioni dell’ente e la loro continua partecipazione assurge a presupposto indefettibile ai fini della sopravvivenza dell’impresa sociale; ne consegue che laddove anche solo una porzione di essi dovesse maturare la decisione di uscire, in parte o in toto, dall’impresa quest’ultima ne sarebbe gravemente danneggiata o difficilmente sarebbe in grado di continuare la sua attività. Gli stakeholders cd. secondari sono coloro che influenzano o sono influenzati dall’impresa, ma non sono impegnati in transazioni con essa e non sono elementi indispensabili ai fini della sua sopravvivenza. Non è erroneo affermare che, tuttavia, hanno la capacità di mobilitare e influenzare l’opinione pubblica a favore o contro le performances di un’impresa e potenzialmente possono provocare anche dei gravi danni ad essa. Esistono poi gli stakeholders cd. deboli e sono coloro che hanno un elevato interesse, ma una bassa influenza sull’attività. Precisamente, sono quei soggetti che non hanno i mezzi e gli strumenti per poter esprimere in modo omogeneo e forte i propri interessi e spesso vengono a coincidere con le fasce destinatarie dell’attività dell’ente.

[49] Nel nostro ordinamento tale regola, benché non espressamente codificata, trova un oggettivo risconto in numerose pronunce giurisprudenziali: Cass., 31 agosto 2016, n. 17441, in Le società, 2, 2017, 218 ss., con nota di S. SERAFINI, Responsabilità degli amministratori non operativi: dal dovere di vigilanza al dovere di informarsi solo in presenza di segnali di allarme, nella cui massima si legge che «gli amministratori dotati di deleghe (cd. operativi) – ferma l’applicazione della “business judgment rule”, secondo cui le scelte sono insindacabili a meno che, se valutate “ex ante”, risultino manifestamente avventate ed imprudenti – rispondono non già con la diligenza del mandatario, come nel caso del vecchio testo dell’art. 2392 c.c., ma in virtù della diligenza professionale esigibile ex art. 1176, comma 2, c.c.». Cass., 2 febbraio 2015, n. 1783, in Le società, 12, 2015, 1317 ss., con nota di L. LOPEZ, Discrezionalità degli amministratori di SpA, diligenza e dovere di agire in modo informato e in Guida dir. – Il sole 24 ore settimanale, 10, 2015, 49 ss., con nota di P. PIRUCCIO, Violato l’obbligo di diligenza nella gestione, dalla cui massima si evince che «all’amministratore di una società non può essere imputato, a titolo di responsabilità, di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di sua revoca, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società. Ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione o le modalità e preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere, e quindi, l’eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità». Notevole interesse in dottrina: C. ANGELICI, Diligentia quam in suis business judgment rulein Riv. dir. comm., 2006, I, 677 ss.; D. CESIANO, L’applicazione della “business judgement rule” nella giurisprudenza italiana, in Giur. comm., 2013, II, 941 ss.

[50] La legislazione statunitense sulle benefit corporations, a differenza di quella italiana, ha esplicitamente chiarito che le scelte gestorie sono coperte dalla cd. “business judgment rule” e quindi l’organo amministrativo non può essere chiamato «a rispondere personalmente per il mancato perseguimento o la mancata creazione, da parte della società, del public benefit ovvero per le azioni o le omissioni compiute durante l’assolvimento dei suoi doveri, salva l’ipotesi in cui il suo comportamento sia stato condizionato da una situazione di interesse personale», S. CORSO, Le società benefit …, cit., spec. 1023.

[51] Art. 28. Responsabilità. Gli amministratori, i direttori, i componenti dell’organo di controllo ed il soggetto incaricato della revisione legale dei conti rispondono nei confronti dell’ente, dei creditori sociali, del fondatore, degli associati e dei terzi, ai sensi degli artt. 2392, 2393, 2393 bis, 2394, 2394-bis, 2395, 2396 e 2407 del codice civile, e dell’art. 15 del decreto legislativo 27 gennaio 2010 n. 39, in quanto compatibili.

[52] Non è parsa inosservata la similarità intercorrente tra gli stakeholders delle società benefit ed i beneficiari delle fondazioni. Anche per questi ultimi si pone il quesito circa la loro qualificazione come terzi e la problematica legata all'individuazione dei rimedi da impiegare per attutire o elidere in toto le conseguenze, talvolta deleterie, legate all’attività posta in essere dagli amministratori dell’ente e che si ripercuotono sui loro interessi. In termini di tutela, pertanto, non sembra affatto peregrino il richiamo delle stesse conclusioni a cui si è appena pervenuti, ossia la tutela connessa alla responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., con la possibilità ulteriore di avvalersi dell’art. 2395 c.c., purché risultino essere sussistenti i relativi presupposti, G. IORIO, Le fondazioni, in CENDON (a cura di), Il diritto privato oggi, Milano, 1997, 282 ss.

[53] Ciò detto, a garanzia del serio perseguimento degli interessi degli stakeholders e nell’ottica di prevenire l’adozione di una condotta potenzialmente lesiva da parte degli amministratori, sarebbe, altresì, possibile prevedere, a livello statutario, un esplicito diritto ad un indennizzo per il caso in cui proprio l’inerzia dell’organo amministrativo frustri l’effettiva realizzazione di detti ulteriori interessi, D. LENZI, Le società benefit, cit., 920.

[54] Autorevole dottrina sostiene che l’intervento sanzionatorio possa correttamente aver seguito nel momento in cui la società ha adottato la denominazione “società benefit” o l’abbreviazione “SB” (G. FINOCCHIARO, Sì alle società benefit a metà tra il profitto e bene comune, in Guida dir., 6, 2016, 39 ss.), mentre è dubbio se sia possibile addivenire alle medesime conclusioni nel caso in cui i terzi abbiamo fatto affidamento sul perseguimento del beneficio comune non dalla denominazione, ma dalle informazioni desumibili dalla relazione annuale. 

[55] Sul rapporto società benefit – Terzo settore, vedi anche A. ZOPPINI, Un raffronto tra società benefit ed enti non profit: implicazioni sistematiche e profili critici, cit.

[56] Per ente ecclesiastico civilmente riconosciuto si intende «l'organizzazione geneticamente e teleologicamente collegata ad una organizzazione religiosa, e riconosciuta in persona giuridica dello Stato proprio sul presupposto confessionale, rappresentato sia dalla diretta “erezione” dell'ente da parte dell'autorità ecclesiastica, ovvero dalla sua “approvazione”, sia dalle finalità dichiarate quali scopi principali dell'ente medesimo che devono essere di religione o di culto. Si tratta di un tipo strutturale speciale che risponde ad una normativa particolare, a volte tale da condizionarne anche la normale attività negoziale e patrimoniale», A. FUCCILLO – R. SANTORO, Giustizia, diritto, religioni. Percorsi nel diritto ecclesiastico civile vivente, Torino, 2014, 15.

[57] Non mancano pronunce nelle quali si chiarisce all’operatore quale sia la corretta accezione del termine “imprenditore” e, con una precisa presa di posizione, si esplicita, senza mezzi termini, la compatibilità dell’ente “religioso” con la struttura societaria: Cass., 3 novembre 2003, n. 16435, in Inf. prev., 2003, 6, 1620 ss., secondo cui «… la nozione di imprenditore, ai sensi dell’art. 2082 c.c., va intesa in senso oggettivo, dovendosi riconoscere il carattere imprenditoriale all’attività economica organizzata che sia ricollegabile ad un dato obiettivo inerente all’attitudine a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi, rimanendo giuridicamente irrilevante lo scopo di lucro, che riguarda il movente soggettivo che induce l’imprenditore ad esercitare la sua attività e dovendo essere, invece, escluso il suddetto carattere imprenditoriale dell’attività nel caso in cui essa sia svolta in modo del tutto gratuito, dato che non può essere considerata imprenditoriale l’erogazione gratuita dei beni o servizi prodotti. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso il carattere imprenditoriale dell’attività svolta dalla Comunità ebraica di Venezia nella gestione di una casa di riposo, assumendo apoditticamente che la qualifica imprenditoriale è incompatibile con la funzione socio – assistenziale svolta dalla Comunità ebraica)»; Cass., 14 giugno 1994, n. 5766, in Giust. civ., 1995, I, 187 ss., con nota di M. FRANCO, Aliunde perceptum e concorso di colpa del creditore nel sistema dell’art. 18 St. Lav. (vecchio testo): ammissibilità di primo grado di eccezioni tardive di merito e limiti all’esigibilità di azioni giudiziarie da parte del lavoratore; Cass., 15 febbraio 1980, n. 1138, in Italgiureweb. Non impedisce, infatti, la qualificazione di imprenditore «la qualità di congregazione religiosa […] allorché il servizio venga svolto per fini di lucro e non di religione e di culto», Cass., 11 aprile 1994, n. 3353, in Giust. civ., 1995, II, 561 ss., con nota di M. PALLA, Impresa scolastica e scuola confessionale: la fine di una (presunta) contraddizione in termini?; in Il diritto del lavoro, 1993, 3, 267 ss., con nota di L. BATTISTA, Scuola religiosa, qualifica di imprenditore commerciale e incidenza sul rapporto di lavoro; in Riv. giur. lav., 1994, 4, 978 ss., con nota di S. MARAZZA, Imprese di tendenza ed imprenditorialità: si pronunciano le sezioni unite. Per le molteplici posizioni assunte in dottrina sull’argomento si rinvia a L. DECIMO, La partecipazione degli enti ecclesiastici cattolici alle società di capitali, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale. Rivista telematica (www.statoechiese.it), 2015, 2, 19 gennaio 2015, nota 3; A. FUCCILLO, Enti ecclesiastici e impresa commerciale finalmente un binomio compatibile, in Dir. eccl., 1995, II, 470 ss.; Studio n. 864-bis approvato il 1° luglio 1997 dal Consiglio Nazionale del Notariato, Enti ecclesiastici con particolare riferimento al d.lgs. n. 460 del 1997, reperibile su www.notariato.it.

[58] A. FUCCILLO – R. SANTORO (a cura di), Diritto, religioni, culture, Torino, 2017, 64 ss., spec. 65.

[59] Secondo M. TEDESCHI, Manuale di diritto ecclesiastico, 1998, Torino, 196, proprio l’attenzione riposta sull’attività, non astrattamente prevista, ma materialmente posta in essere dagli enti ecclesiastici «consente una loro maggiore assimilazione nell’ambito del diritto comune, con il conseguente venire meno di qualsiasi forma di privilegio o di singolarità loro tradizionalmente concessa, e con l’ulteriore conseguenza che l’ente ecclesiastico che esercita attività prevalentemente imprenditoriale può essere soggetto a fallimento».

[60] Una volta intervenuta l’iscrizione della società nel Registro delle Imprese si è pienamente attuato il cd. “principio di alterità” e quindi la società è diventata un soggetto formalmente diverso dai componenti della compagine sociale; acquisendo la personalità giuridica, e quindi l’autonomia patrimoniale perfetta, i singoli soci restano responsabili nei limiti delle entità patrimoniali conferite in società, mentre delle obbligazioni contratte ne risponde esclusivamente la società con il suo patrimonio.

[61] A. FUCCILLO – R. SANTORO, Diritto, religioni, culture, cit., 67.

[62] G.F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale. Diritto delle società, Milano, 2012, 67 ss. 

[63] G. COTTINO, Diritto commerciale, Padova, 1993, 339 ss.; M. GHIDINI, Società personali, Padova, 1972, 224 ss.; R. COSTI – G. DI CHIO, Società in generale – Società di persone, associazione in partecipazione, in BIGIAVI (fondata da), Giurisprudenza sistematica civile e commerciale, Torino, 1980, 74 ss.; P. TRIMARCHI, Istituzioni di diritto privato, Milano, 2000, 75 ss.; G.F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 2, Diritto delle società, Torino, 2002, 44 ss.

[64] Per una completa panoramica sulla disciplina normativa degli enti ecclesiastici, a partire dall'Accordo del 18 febbraio 1984 di modificazione del Concordato in avanti, si rinvia a A. ROCCELLA, Gli enti ecclesiastici a vent'anni dall'accordo di modificazione del concordato, in Jus, (Settembre – Dicembre 2005), 52, n. 3, 521 ss.

[65] Detto in altri termini, il rischio in cui incorre l'ente ecclesiastico, che di fatto pone in essere comportamenti che non consentono più di perseguire le finalità dichiarate nell'istanza di riconoscimento, è quello di subire la revoca del riconoscimento civile (adottata decreto ministeriale e sentita l'autorità ecclesiastica o confessionale). Infatti «tale misura può essere adottata in ogni caso di “mutamento che faccia perdere all'ente uno dei requisiti prescritti per il suo riconoscimento”, tra cui è da annoverare, senz'altro, la essenzialità e costitutività (principalità) del fine di religione o di culto», S. BERLINGÒ, Enti ecclesiastici – Enti delle Confessioni religiose, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista Telematica (www.statoechiese.it), maggio 2007, 1 ss., spec. 8.; la stessa situazione (incapienza del patrimonio per le obbligazioni assunte e responsabilità illimitata), ma vista dall'angolo prospettico dell'impiego delle procedure concorsuali per la liquidazione del patrimonio dell'ente-imprenditore è analizzata da L. DECIMO, La partecipazione degli enti ecclesiastici cattolici alle società di capitali, cit., 4 ss.

[66] Nulla quaestio in ordine ai tipi di SpA o Srl, mentre le citate difficoltà si ripropongono laddove l’ente, nel contesto di una Sapa, assuma proprio la veste di socio accomandatario, sull’argomento di rinvia a A. FUCCILLO – R. SANTORO, Giustizia, diritto e religioni, cit., 54. 

[67] Tali si intendono, ai sensi dell’art. 16 lett. b), l. 20 maggio 1985, n. 222, «quelle di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura e, in ogni caso, le attività commerciali o a scopo di lucro».