Giuffré Editore

Società commerciali e finalità di beneficio comune

Giorgio Resta 

Ordinario di Diritto privato comparato, Università di Roma Tre

Cecilia Sertoli

Dottoranda di ricerca, Università Europea


La crisi della sovranità statuale e il c.d. quarto settore

E' da tempo ormai che si parla di una duplice crisi dello Stato: alla crisi dello Stato nazione, riflesso del progressivo sgretolarsi dell’equilibrio westfaliano[[1]], si aggiunge ormai anche quella dello stato assistenziale.

Se la grande crisi della fine degli anni Venti – che secondo la lettura polanyiana aveva le sue radici nell’esperienza vittoriana del mercato auto-regolato[[2]] – aveva rappresentato la ragione di uno dei più massicci interventi dello Stato a sostegno del mercato e dei ceti più deboli, le successive crisi economiche, e da ultimo quella del 2008, nata come crisi dei debitori privati e poi estesa ai debitori pubblici, hanno fatto definitivamente comprendere l’importanza del settore no profit, o di nuove realtà ad esso affini, quale componente essenziale del governo dell’economia anche al fine del perseguimento di interessi generali[[3]].

La crescente difficoltà del settore pubblico quale vettore primario di soddisfacimento dei bisogni della collettività ha posto in discussione prima, e in crisi poi, quella «perfetta equivalenza, senza residui, tra “pubblico” e “interesse sociale”»[[4]]. La crisi del Welfare State ha posto e pone problemi tanto dal punto di vista economico, e quindi fiscale, quanto di tipo politico istituzionale, e quindi di legittimità: «in discussione non è solo il ruolo economico dello Stato nazionale ma soprattutto la sua centralità politica; crisi del welfare e crisi del modello di democrazia nazionale procedono di pari passo, perché in discussione è tanto il rapporto tra Stato e mercato quanto quello tra pubblico e privato»[[5]]. 

È una siffatta consapevolezza che è sullo sfondo ai numerosi interventi degli ordinamenti europei preordinati alla modernizzazione disciplina relativa agli enti intermedi preordinati al perseguimento di finalità ideali e sociali. Ciò comporta il definitivo abbandono – peraltro in linea nel nostro Paese con i principi della Carta costituzionale – della diffidenza, se non anche ostilità, tradizionalmente manifestata nei confronti di tali soggetti, rectius istituzioni, nonché l’adozione di una serie di provvedimenti di diverso livello e tenore, tuttavia difficilmente riconducibili in un sistema organico e coerente. Questo vale in modo particolare per l’ordinamento italiano, dove l’armonico, ancorché minimalista, disegno normativo del codice civile, compendiato nel titolo II del libro I intitolato alle “Persone giuridiche”, è stato fortemente intaccato dai plurimi interventi volti a dettare le linee di un moderno diritto del volontariato. 

Associazioni, fondazioni, organizzazioni non lucrative, imprese sociali, cooperative e via discorrendo non interessano come centri di imputazione di situazioni giuridiche, e cioè soggetti (o “persone”), ma come strumenti per condurre, e magari incentivare, quelle attività che un tempo si sarebbero dette benefiche, e che, oggi, compongono il vasto e variegato mondo del c.d. terzo settore[[6]]; quel settore che «rappresenta, ormai, un nuovo “spazio”, sociale e giuridico, in cui la società civile, in una fase di crisi dell’economia, di indebolimento dei legami sociali e di crescenti difficoltà dei sistemi pubblici di welfare, emerge come soggetto collettivo; uno spazio in cui la persona non ricopre più soltanto il ruolo di destinataria di beni e servizi, ma diventa attrice essa stessa nel campo economico e sociale, attraverso forme proprie di aggregazione»[[7]]. Ne deriva che, come la crisi dello Stato censitario borghese aveva fatto nascere in risposta alle esigenze dello stato pluriclasse il Welfare State[[8]], così la crisi dello stato assistenziale ha aperto il campo al Terzo settore. In questa prospettiva può dirsi essere stato emanato il d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117 che ha riformato il Codice del Terzo settore e nella cui disposizione di apertura si legge che esso è finalizzato a «sostenere l’autonoma iniziativa dei cittadini, che perseguono, anche in forma associata, il bene comune» e a disciplinare gli enti del terzo settore. 

E, tuttavia, oggi abbiamo preso atto che la crisi non è soltanto di quelle forme di Stato, ma in generale dello stesso modello, lo Stato nazionale, che avevamo finito per identificare con l’ordinamento giuridico generale[[9]]. La crisi dello Stato tout court è, com’è noto, il portato della globalizzazione[[10]] e della mondializzazione ed investe sin dalle radici quella concezione egemone di diritto che si era formata nel corso del XIX secolo e che aveva trovato la sua forse più evidente espressione nelle codificazioni borghesi cui pure si ha avuto modo di accennare[[11]].

L’espansione globale dell’economia, il fenomeno della delocalizzazione nella produzione, e l’inizio di quella nuova era di sviluppo economico che è stata, con formula evocativa, definita “supercapitalismo”[[12]], ci ha infatti resi consapevoli dei limiti dei diritti statali. Alcuni valori, interessi generali e beni comuni non riescono, in particolare, ad essere più neanche tendenzialmente tutelati dai singoli stati nazionali attraverso lo strumento tradizionale della norma imperativa e delle sue sanzioni (penali, civili, amministrative) previste dalla normativa statale. Questo dipende in buona sostanza dalla circostanza che il potere delle grandi corporation multinazionali, le loro dimensioni economiche e il loro ambito globale di operatività, si sono a tal punto sviluppati negli ultimi decenni da rendere impossibile, per gli ordinamenti statali, controllare in modo significativo le attività di quelle realtà imprenditoriali e, di conseguenza, controllare il mercato e le sue esternalità. Ne deriva l’impossibilità di garantire il rispetto degli interessi collettivi, e cioè un’adeguata tutela sia degli interessi e dei beni pubblici sia dei fini sociali (come indicati all’articolo 41, comma 3, della Carta costituzionale). Per spiegare questo fenomeno «sembra sufficiente considerare la circostanza che singoli gruppi di società raggiungono (anche in un momento di crisi) fatturati maggiori del prodotto nazionale lordo di molti dei paesi in cui operano e che quindi riescono di fatto ad annullare o comunque fortemente limitare la sovranità di quegli stati. Il potere economico delle società diviene politico e travalica quello degli stati nazionali»[[13]].

Il mondo globalizzato si mostra frantumato «in una enorme quantità di Stati, sempre più numerosi, sempre meno sovrani» perché «oggi la sovranità degli Stati è una variabile dipendente dai mercati» e, anche, dai centri capitalistico-finanziari internazionali di cui oggi si assiste ad un dilagare incontrastato[[14]]. 

È in questo contesto che nasce l’idea del cosiddetto Quarto settore, cioè l’idea che corpi intermedi nati e cresciuti per lo svolgimento di finalità lucrative (da perseguirsi nell’interesse degli investitori e quindi del “capitale”) debbano farsi altresì carico della considerazione degli interessi collettivi e dei fini sociali. In ciò si riflette immediatamente l’importanza sempre crescente che vanno assumendo nelle società contemporanee i modelli di organizzazione dell’attività economica informati a logiche diverse da quella del profitto capitalistico[[15]]; ed è proprio la drammatica crisi economica dei nostri giorni che ha contribuito a fare emergere la maggiore ‘resistenza’ e sostenibilità di lungo periodo delle forme organizzative di stampo non strettamente lucrativo, come quelle che perseguono uno scopo mutualistico o cooperativo.

Non si tratta – è bene chiarirlo preliminarmente – di un richiamo, peraltro assolutamente ovvio e scontato, alla necessità che le imprese, e quindi anche le grandi imprese azionarie, nello svolgimento delle loro attività si muovano nel rispetto delle norme imperative. Si ragiona invece, proprio perché quelle norme imperative non riescono nell’ormai ristretto e angusto ambito della sovranità degli stati nazionali a soddisfare con la necessaria effettività gli interessi generali, del tentativo di imputare il perseguimento di fini di beneficio comune fare direttamente in capo alle organizzazioni societarie. 

Si assiste, infatti, ad un processo di privatizzazione di servizi che un tempo erano centrali per il welfare e che oggi mediante lo sviluppo del c.d. “privato sociale” riducono il carico amministrativo dello Stato[[16]]. Ed è proprio in questa cornice, nel milieu del  Quarto settore, che si colloca il fenomeno delle società benefit e delle altre figure a questa affini. 

Le società benefit, in particolare, sono – come si vedrà nel proseguo della trattazione – società che indirizzano lo svolgimento dell’attività economica non soltanto allo scopo di lucro, ma anche a finalità altruistiche di «beneficio comune».

           

Società benefit: premesse istituzionali e dinamiche della circolazione di un modello giuridico

Prima di tratteggiare le linee fondamentali del suddetto schema normativo, si ritiene opportuno approfondirne le origini. La società benefit costituisce uno dei più singolari prodotti del movimento nato negli Stati Uniti d’America, ed ormai sviluppatosi a livello internazionale, con l’obiettivo di sensibilizzare il mondo profit e di conciliare concetti antitetici quali, da un lato, quello della massimizzazione del profitto e, dall’altro, quello del perseguimento di un “beneficio comune”[[17]]. 

Promotore di questo movimento è stato – e continua ad essere – l’ente americano, per l’appunto no profit, BLab che ha come propria finalità quella di sostenere e promuovere l’idea di utilizzare il business come “forza positiva” (as a force for good)[[18]]. Per realizzare questo risultato, BLab ha elaborato un sistema di certificazione del quale le società che svolgono la loro attività nel rispetto di valori sociali, ambientali e di interesse comune si possono avvalere. Tale sistema è noto come la certificazione BCorp ed è volto ad attestare il rispetto degli standard che ne sono posti alla base.

L’ideale proclamato da questo movimento è quello di realizzare un modello di mercato in cui la concorrenza non sarà più basata sull’essere la migliore società (intendendosi per tale quella che produce un profitto maggiore), bensì “la migliore società per il mondo”. Questo movimento propone, quindi, una nuova idea di fare business[[19]] e per realizzare tale ambizione BLab, come si legge nel suo statuto, si propone tre obbiettivi principali: favorire la nascita di una comunità internazionale che comprenda tutte le imprese che hanno ottenuto la certificazione BCorp; favorire lo sviluppo di un contesto legislativo idoneo a riconoscere la forma giuridica dell’impresa for benefit, e cioè proprio la benefit corporation; infine, sviluppare e far utilizzare uno strumento per la valutazione aziendale che possa essere utile agli investitori per misurare e valutare l’impatto che le società lucrative in cui investono hanno sul pianeta[[20]].

In merito al primo obiettivo, va sottolineato che la certificazione BCorp può essere ottenuta unicamente da società (e non da enti pubblici e enti no profit)[[21]] a condizione che queste perseguano obiettivi sociali o ambientali e si impegnino a creare valore condiviso allargando quindi la propria azione anche nei confronti dei principali stakeholder, oltre che agli shareholder[[22]]. 

Per quanto riguarda il secondo degli obiettivi, e quindi lo sviluppo di un contesto legislativo idoneo a riconoscere la forma giuridica dell’impresa benefit, BLab ha collaborato a redigere la Model Benefit Corporation Legislation[[23]] (in sigla, d’ora in avanti, MBCL) che è la legge modello utilizzabile dagli Stati per legiferare in materia[[24]]. A questo riguardo è necessario tenere distinte le BCorp (anche dette Certified BCorporation) con le benefit corporation: mentre con la prima locuzione si allude ad una attribuzione che si sostanzia in una certificazione accessoria che una società può ottenere da parte di un ente privato, la seconda, e cioè la benefit corporation, evoca una vera e propria tipologia societaria prevista da ordinamenti giuridici statali che viene offerta come alternativa ai modelli societari tradizionali. A questa principale differenza di natura giuridica si accompagnano altre distinzioni come la durata della qualificazione, la fonte della qualificazione e la portata dell’attribuzione. Riguardo quest’ultima, mentre le benefit corporation hanno rilevanza sul piano nazionale, le Certified BCorporation – essendo tali per una certificazione rilasciata da un ente privato – hanno una portata che travalica i confini nazionali essendo riconosciute a prescindere dall’ambito territoriale di vigenza di un ordinamento[[25]]. 

Infine, per quanto riguarda il terzo degli obiettivi, e cioè la realizzazione di uno standard di valutazione, BLab ha ideato un percorso di valutazione, noto come Benefit Impact Assessment, nel quale le società vengono valutate per quanto concerne i profili di impatto sociale e ambientale e di responsabilità e trasparenza.

Ora, poiché il legislatore italiano nel delineare la struttura e le caratteristiche della Società Benefit si è ispirato alla MBCL e, anzi, si potrebbe quasi dire che la abbia ripresa letteralmente, è utile fare un breve richiamo a quelle che sono le caratteristiche della Benefit Corporation così come delineata dalla legge modello.

La Model Benefit Corporation Legislation[[26]] disciplina la benefit corporation stabilendo quanto segue:

(i) per quanto non diversamente disposto dalla stessa MBCL, alla benefit corporation si applica lo statuto generale della business corporation[[27]];

(ii) la qualificazione di benefit corporation deriva dalla relativa previsione statutaria (MBCL § 103); il che naturalmente può avvenire tanto ab origine, in occasione della costituzione della società, quanto in un momento successivo, e allora attraverso una modifica statutaria (MBCL § 104)[[28]]. Nell’atto costitutivo o nello statuto della società deve, quindi, chiaramente essere indicato che si tratta di una benefit corporation, ma non è obbligatorio che tale qualifica sia inclusa anche nella denominazione sociale;

(iii) in particolare, la previsione statutaria decisiva ai fini della attribuzione dello status di benefit corporation è quella relativa ai corporate purposes. La MBCL prevede, infatti, che, accanto al fine proprio della business corporation (e quindi in sostanza lucrativo)[[29]], sia altresì indicato come scopo un general public benefit. Lo statuto della società potrà altresì indicare opzionalmente uno o più specific public benefit[[30]]. Ne discende che questo modello societario si caratterizza al fondo soprattutto per il suo scopo sociale plurimo[[31]];

(iv) la benefit corporation deve fare uso di uno standard[[32]]elaborato da una parte terza di cui sia garantita l’indipendenza[[33]], al fine di valutare l’impatto della sua attività sia a livello sociale sia ambientale; e, questo, all’evidente scopo di cercare di evitare l’abuso dello status di benefit corporation[[34]];

(v) la compresenza di plurimi scopi sociali, e la esigenza di garantirne al contempo il rispetto di questi, non si traduce soltanto nella appena menzionata previsione relativa all’adozione obbligatoria di uno standard, ma anche e soprattutto nella disciplina delle funzioni, dei poteri, degli obblighi e delle responsabilità degli amministratori ai quali, com’è chiaro, è (esclusivamente) demandato il compito di perseguire l’oggetto sociale. In questo senso un valore centrale riveste la previsione della MBCL, § 301, dedicata agli standard of conduct for directors[[35]]. Vengono, quindi, stabiliti nuovi standard di condotta per gli amministratori che sono tenuti a ampliare il novero degli interessi da considerare e si specifica che anche agli amministratori della benefit corporation si applica la fondamentale business judgment rule; il che significa che non è data la possibilità di sindacare, da parte del giudice, le scelte operate dagli amministratori quando queste non siano state compiute in conflitto di interessi, quando queste siano state scelte informate e siano state adottate sul convincimento di rappresentare il migliore interesse per la società[[36]]. Si attua così una perfetta equiparazione nell’esonero da responsabilità per le scelte informate degli amministratori sia che riguardino il “business”, in forza della tradizionale business judgment rule, sia che riguardino l’attività benefit, in forza della speciale e aggiuntiva regola di cui sopra; regola che, allora, si potrebbe forse chiamare benefit judgment rule;

(vi) così come la MBCL dimostra particolare attenzione nel limitare azioni e iniziative giudiziarie nei confronti degli amministratori, altrettanto fa disciplinando i giudizi nei confronti della stessa benefit corporation[[37]]; 

(vii) se la benefit corporation è una società quotata (cioè le cui azioni sono negoziate sul mercato regolamentato)[[38]], il consiglio di amministrazione deve includere un benefit director. Se la società non è quotata, la figura del benefit director può essere prevista. Ma chi è il benefit director? Si tratta di un amministratore che, oltre ai poteri, diritti e prerogative proprie di ogni altro amministratore gode di particolari poteri, diritti e prerogative, e quindi di uno speciale statuto, appositamente previsto dal § 302; 

(viii) la benefit corporation può nominare un c.d. benefit officer, cui conferire compiti specifici nel curare il perseguimento del beneficio sociale, generale o speciale che sia[[39]];

(ix) tra gli obblighi della benefit corporation alcuni attengono alla dimensione informativa. Ai sensi del § 401, essa deve annualmente redigere e pubblicare un benefit report, che, tuttavia, non deve essere necessariamente revisionato o certificato da terzi[[40]]. 

Nelle esposte regole si sostanzia lo statuto della benefit corporation secondo la legislazione modello nordamericana. 

Il modello della benefit corporation risulta in circolazione e ad oggi una disciplina legislativa in merito è stata adottata anche in Porto Rico e Colombia[[41]], mentre in altri Paesi (Australia, Argentina, Chile, Colombia, Canada e Perù[[42]]) sono in corso lavori parlamentari riguardo per introdurre analoghe figure.


La società 

In Italia la società benefit è stata introdotta con la legge di stabilità per il 2016[[43]].

Come si leggeva già nella Relazione ai disegni di legge (A.S. n. 1882, A.C. n. 3321 e, poi, A.S. n. 211) l’introduzione della società benefit doveva servire – quantomeno nell’intenzione del legislatore – a «promuovere la costituzione e favorire la diffusione nel nostro ordinamento di società a duplice finalità, ossia di società che nell’esercizio di un’attività economica, oltre allo scopo di dividerne gli utili perseguono una o più finalità di beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse»[[44]].

La novità principale è rappresentata dal fatto che una disciplina legislativa regoli fenomeni di convivenza tra profit e non profit e dia vita a forme organizzative ibride nel nostro ordinamento[[45]].


I tipi societari            

In primo luogo si deve chiarire che la società benefit non è un nuovo tipo sociale[[46]], ma che possono divenire benefit tutte le società «di cui al libro V, titoli V e VI, del codice civile» (così il comma 377 dell’art. 1 l. n. 208 del 2015)[[47]], e dunque sia le società lucrative (di persone e di capitali) sia le società cooperative, le quali però hanno uno scopo (essenzialmente) mutualistico e non lucrativo, donde la imprecisione del riferimento indistinto contenuto nella ricordata definizione del comma 376 allo «scopo di dividerne gli utili». Ne discende che possono essere società benefit, nella misura in cui si tratti di società per azioni o società a responsabilità limitata, anche società unipersonali. Stando così le cose, si è scritto che la società benefit, proprio perché non si sostanzia in un nuovo tipo societario, rappresenta piuttosto una «“qualifica” che tutti i tipi societari … possono acquisire»[[48]] (seppure, ovviamente, a determinate condizioni). 

L’essere società benefit consente, ma non impone, di «introdurre, accanto alla denominazione sociale, le parole: “Società benefit” o l’abbreviazione: “SB” e utilizzare tale denominazione nei titoli emessi, nella documentazione e nelle comunicazioni verso terzi» (comma 379, terzo periodo, l. cit.).

Da un censimento delle 209 società benefit oggi presenti in Italia risulta che queste sono per lo più società a responsabilità limitata: in particolare 186. Di queste, la grandissima maggioranza è rappresentata da imprese di dimensioni medio-piccole e una comunque si tratta quasi sempre di società con compagine sociale ristretta se non anche unipersonale. Gli altri tipi societari, invece, non ne rappresentano che una piccolissima frazione: 12 società per azioni, 7 società cooperative, 2 società in accomandita semplice, una società semplice e una società in nome collettivo.

La formula utilizzata dal legislatore non è particolarmente rigorosa, perché prima si parla di «parole» da introdurre «accanto» alla (e non nella) denominazione sociale e poi, invece, di denominazione risultante anche da tali parole. Ne deriva comunque che la società può utilizzare la locuzione benefit (o l’abbreviazione SB) tanto inserendola quanto non inserendola nella sua ragione o denominazione sociale[[49]], anche se si ritiene che vi sarà una preferenza per la prima opzione in quanto il “vanto” di essere benefit «potrebbe avere un ritorno in termine di immagine e quindi di vantaggio concorrenziale sul mercato»[[50]]. D’altra parte, al vantaggio reputazionale che potrebbe conseguire dall’adozione della qualifica di società benefit, non si accompagnano altre forme di incentivo o di sgravio fiscale. L’assenza di agevolazioni o sgravi fiscali è stata molto discussa e sul tema le opinioni dei commentatori appaiono diversificate. Mentre da un lato si pensa che la introduzione di un regime tributario agevolato aumenterebbe il numero di società benefit e che questo porterebbe ad una sostanziale diffusione di una figura che in Italia non ha ancora raggiunto la fortuna sperata; dall’altro si ritiene che tale modifica sarebbe contraria allo spirito che caratterizza la stessa benefit e spingerebbe le società a modificare i propri statuti, onde conseguire la qualificazione comportante l’agevolazione, per la ragione sbagliata (soprattutto ad oggi che la normativa ha ancora grandi lacune in materia di standard e controlli relativi all’effettivo perseguimento di finalità di beneficio comune).

A parere di chi scrive la forza della società benefit non può che risiedere nella attrattività della doppia finalità, e in definitiva, nella scelta dei privati o (se si vuole) del mercato che si caratterizza per l’assenza di intromissioni da parte dello Stato. Sussidiare, incoraggiare e sostenere il  Quarto settore (di cui la benefit è la massima espressione) con risorse pubbliche – come in effetti sarebbe se si riservasse loro un trattamento fiscale di favore – significherebbe infatti semplicemente negare il carattere proprio del  Quarto settore riducendolo in sostanza a semplice sub-variante del Primo.


Il “beneficio comune” 

Il carattere distintivo delle società benefit, che, come si è detto, emerge già dalla definizione legislativa, è quello di società che indirizzano lo svolgimento dell’attività economica non soltanto allo scopo di lucro (o mutualistico)[[51]], ma anche ad altre finalità di tipo altruistico e che rientrano nella nozione lata del «beneficio comune».

La legge definisce la finalità di beneficio comune come segue: «il perseguimento, nell’esercizio dell’attività economica delle società benefit, di uno o più effetti positivi, o la riduzione degli effetti negativi, su una o più categorie di cui al comma 376» (comma 378, lett. a), l. n. 208 del 2015). A sua volta, il comma 376 individua le seguenti categorie: «persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse». Infine, la lettera b) del comma 378 definisce gli «altri portatori di interesse» come «il soggetto o i gruppi di soggetti coinvolti, direttamente o indirettamente, dall’attività delle società di cui al comma 376, quali lavoratori, clienti, fornitori, finanziatori, creditori, pubblica amministrazione e società civile». 

Come si vede, le finalità di beneficio comune possono coprire un ambito amplissimo.

Il comma 377 dell’art. 1 della legge di stabilità per il 2016 chiarisce, infatti, che tali «finalità altruistiche sono perseguite mediante una gestione volta al bilanciamento con l’interesse dei soci e con l’interesse di coloro sui quali l’attività sociale possa avere un impatto».

Le società benefit diventano tali e si assoggettano, dunque, alla relativa disciplina, indicando nella clausola statutaria dell’oggetto sociale le finalità di beneficio comune: lo si prevede tanto nel comma 377, primo periodo, quanto nel comma 379, primo periodo, dell’art. 1, l. n. 208 del 2015. 

Le finalità di beneficio comune, che debbono essere previste dall’atto costitutivo (-statuto) della società benefit, «sono perseguite dalla società attraverso una gestione responsabile, sostenibile, trasparente e mirata a bilanciare, da un lato, gli interessi dei soci e, dall’altro, l’effettivo perseguimento di effetti positivi, o la riduzione di effetti negativi, su uno o più dei suddetti ambiti».  

In sostanza», sempre nelle intenzioni del legislatore storico, «superando l’approccio “classico” del fare impresa, le società con finalità di beneficio comune introducono un salto di qualità nel modo di intendere l’impresa, tale da poter parlare di vero e proprio cambio di paradigma economico ed imprenditoriale. … L’intento della proposta è, pertanto, proprio quello di consentire la diffusione nel nostro ordinamento di società che nell’esercizio della loro attività economica abbiano anche l’obiettivo di migliorare l’ambiente naturale e sociale nel quale operano, riducendo o annullando le esternalità negative o meglio utilizzando pratiche, processi di produzione e beni in grado di produrre esternalità positive»[[52]].    

Tuttavia, nella pratica, la previsione del beneficio comune risulta essere declinata in termini generici al punto da non sembrare che la sua introduzione nello statuto o nell’atto costitutivo apporti un cambiamento significativo all’attività della società. Sul punto basti constatare che più di un quarto delle società benefit ad oggi esistenti si è limitata a riportare letteralmente la definizione normativea di beneficio comune senza tentarne anche una minima “declinazione”, mentre un discreto numero delle restanti, si sono limitate a riportare obbiettivi o criteri non quantificabili nè misurabili[[53]] .

 

La c.d. “benefit” judgement rule e la discrezionalità degli amministratori 

In quanto benefit, la società è tenuta a «bilanciare l’interesse dei soci» con «il perseguimento delle finalità di beneficio comune e [quindi con] gli interessi delle categorie indicate nel comma 376, conformemente a quanto previsto dallo statuto» (così il comma 380, l. cit., in termini tutto sommato tautologici rispetto alla definizione della fattispecie). Questo del bilanciamento è il problema, già trattato precedentemente facendo riferimento alle benefit corporation, forse più delicato dell’intera disciplina, insieme a quello, evidentemente collegato, del ruolo e delle responsabilità degli amministratori della società.Bisogna innanzitutto osservare che esso risulta pressoché irrisolto dal legislatore, il quale si è limitato, per un verso, a richiamare la disciplina generale dei singoli tipi sociali che di volta in volta vengono in rilievo[[54]], e, per altro verso, a sancire che l’inosservanza dell’obbligo di «bilanciare l’interesse dei soci» con «il perseguimento delle finalità di beneficio comune» costituisce un inadempimento degli obblighi degli amministratori e comporta l’applicazione di quanto disposto dal codice civile in relazione a ciascun tipo di società in tema di responsabilità degli stessi[[55]]. 

Rispetto a queste indicazioni non è, tuttavia, chiaro quanto ampia sia la discrezionalità degli amministratori nello stabilire come contemperare le diverse finalità (e quindi i diversi interessi) statutariamente previste. Non è dubbio che, proprio perché si tratta di una società benefit con la già evidenziata caratteristica di dovere perseguire anche una finalità di beneficio comune, gli amministratori non soltanto possono, ma in certa misura debbono, sacrificare l’interesse alla redditività dei soci a beneficio di quelli degli stakeholder[[56]]. Ciò non appare ammissibile, d’altro canto, è che il perseguimento delle finalità altruistiche (e cioè quelle degli stakeholder) possa andare a detrimento dell’interesse dei soci quando esso sia spinto oltre il limite della stessa stabilità della società, per tale intendendosi il limite del pareggio di bilancio. Questo limite estremo alla pure ampia discrezionalità degli amministratori si fonda, prima ancora che sulla necessità di una adeguata tutela dell’interesse dei soci, sulla imprescindibile esigenza di non compromettere l’interesse altrettanto generale dei creditori della società. Entro questo limite, che appunto discende da una generale considerazione del sistema, vi sono tantissime sfumature rispetto alle quali la posizione degli amministratori sembrerebbe essere quella di chi gode di ampia discrezionalità. È, però, altrettanto chiaro che questa discrezionalità possa essere utilmente ristretta entro confini più accettabili proprio attraverso apposite clausole o altre indicazioni statutarie. È anzi a dirsi che i più attenti commentatori auspicano che ciò avvenga, dubitando della stessa legittimità di indicazioni di beneficio comune troppo ampie e sostanzialmente indefinite. 

Ad ogni modo, al di là dell’opportunità di meglio definire statutariamente il contenuto delle finalità di beneficio comune e anche le modalità di contemperamento del perseguimento di queste con quello delle finalità tradizionali ed egoistiche dei soci, non è dubitabile che comunque le scelte degli amministratori siano, nell’uno e nell’altro campo, comunque coperte dal c.d. principio della business judgement rule. Questo significa – come si è avuto modo di anticipare trattando del modello nord-americano della benefit corporation – che anche alle scelte gestorie relative al perseguimento del beneficio comune si applichi quel medesimo criterio di insindacabilità (sempre che le stesse scelte siano state adottate nel rispetto del duty of care e del duty of loyalty). Si è detto, e qui si deve ripetere, che nella società benefit vale quindi il combinato disposto della business e della “benefit” judgement rule[[57]].

Ne discende una impressione di sostanziale irresponsabilità degli amministratori per quanto riguarda le loro valutazioni in punto di contemperamento dei vari interessi di shareholder e stakeholder, al di là di quanto genericamente previsto dalla previsione del comma 381. 


La pubblicità

Inoltre, la società benefit è soggetta ad una specifica disciplina relativa agli obblighi di informazione e alla valutazione di quanto fatto in adempimento dell’obbligo di perseguire il fine (generale e speciale) di beneficio comune. In particolare, la società benefit deve redigere «annualmente una relazione concernente il perseguimento del beneficio comune, da allegare al bilancio societario»[[58]]. Tale relazione «è pubblicata nel sito internet della società, qualora esistente» (comma 383). Sul punto si ritiene di sottolineare che la mancata previsione legislativa di un’alternativa alla pubblicazione sul sito internet per le società che non dispongano di tale piattaforma crea una problematica a livello interpretativo, dal momento che molte società (il 30%) sono sprovviste di un proprio sito internet. Premesso che la pubblicazione della relazione assume un’importanza fondamentale, in quanto permette ai soggetti terzi di prendere conoscenza della gestione della società e del raggiungimento del beneficio comune e, quindi, del perseguimento dei loro stessi interessi (come d’altra parte risulta chiaro dal sopracitato comma 382, lett. a) e b)), la disposizione manca di prevedere una possibile alternativa di luogo di pubblicazione della relazione. Ne consegue che potrebbe sorgere il dubbio se le società che non abbiano un sito internet siano esonerate dal rendere pubblica la loro relazione (intendendosi per pubblicazione una forma di diffusione della stessa diversa dalla allegazione al bilancio) o, viceversa, se siano comunque tenute alla pubblicazione della stessa con altre modalità. 

Nel redigere la suddetta relazione, gli amministratori sono tenuti a far riferimento ad uno «standard di valutazione esterno», come si legge al comma 378, lett. c). Si tratta di uno standard «esauriente ed articolato nel valutare l’impatto della società e delle sue azioni nel perseguire la finalità di beneficio comune», che venga sviluppato da un ente terzo (e quindi non controllato dalla società stessa né ad essa collegato) il quale abbia le competenze necessarie per valutare tale impatto e attui una valutazione basata su di un approccio scientifico. Questo standard deve essere reso noto, e per questo viene definito trasparente, insieme a «i criteri utilizzati per la misurazione dell’impatto sociale e ambientale dell’attività della società nel suo complesso; le ponderazioni utilizzate per i diversi criteri previsti nella misurazione[[59]]; l’identità degli amministratori e l’organo di governo dell’ente che ha sviluppato e gestisce lo standard di valutazione; il processo attraverso il quale vengono effettuate modifiche e aggiornamenti allo standard e un resoconto delle entrate e delle fonti di sostegno finanziario dell’ente per escludere eventuali conflitti di interesse»[[60]].

La scelta dello specifico standard da utilizzare rimane libera in capo alla società. Si ritiene che quello più utilizzato sia quello elaborato da BLab (B Impact Assestement), soprattutto a fronte del fatto che il superamento di un determinato punteggio nel BIA consente alle società benefit di ottenere anche la certificazione di BCorp[[61]], ma vi sono altri modelli disponibili e assai diffusi in ambito internazionale quali il GRI (Global Reporting Initiative) e l’ISO 26000 (International Standardization Organization)[[62]]. In Italia manca un ente che si occupi di predisporre un simile standard e il ricorso ad enti stranieri molteplici ed eterogenei (che comporta differenze sostanziali tra le relazioni delle varie società) farebbe auspicare l’adozione di uno standard unico a livello nazionale.

La relazione può quindi definirsi una «(auto)valutazione»[[63]] sulla gestione della società; essa deve riguardare, in particolare, determinate «aree di valutazione». Pare che, con tale riferimento, il legislatore abbia voluto introdurre una sanzione per la società benefit che nell’effettiva attività d’impresa non persegua una finalità di beneficio comune. Tale controllo viene attribuito all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm), alla quale si riconosce anche una potestà sanzionatoria e il cui intervento può essere o d’ufficio o su istanza di un soggetto[[64]] (o di un’organizzazione) che abbia tale interesse[[65]]. All’Agcm, però, sembrerebbe competere solo un controllo parziale mancando canoni standardizzati per verificare se si sia effettivamente raggiunto il beneficio comune. In altre parole, è chiaramente espresso dal legislatore l’intento di superare i limiti che erano propri dell’impresa sociale (e cioè il divieto di distribuire anche indirettamente utili, e quindi l’obbligo di destinare l’intero profitto d’impresa al perseguimento del fine sociale) e, al contempo, di fugare i dubbi relativi alla utilizzazione delle società lucrative per fini altruistici.

Si può quindi affermare che, con la introduzione della società benefit, il legislatore ha disciplinato il primo strumento istituzionale rispondente alla filosofia del Quarto settore.

   

Brevi considerazioni conclusive

Come si è avuto modo di osservare in precedenza, negli ultimi anni si è sviluppata una nuova sensibilità che ha condotto le imprese, e in particolare quelle di grandi dimensione, a prestare attenzione al fine sociale (per tale ovviamente intendendosi non quello della società, ma quello della collettività), dal momento che i consumatori da un lato e gli investitori dall’altro (e quindi il mercato in generale) sono sempre più consapevoli delle conseguenze che le attività economiche producono sull’ambiente e, in generale, sulle implicazioni collettive della produzione di massa.    

Tale attenzione ha portato a interventi legislativi a favore di un modello ibrido tra l’attività di impresa e il no profit basti pensare alle recenti tracce normative e di autodisciplina, tra le quali insieme alle società benefit, vanno ricordate anche la disciplina della dichiarazione non finanziaria, le indicazioni contenute nel codice di autodisciplina delle società quotate che mostrano come si stia sviluppando nella cornice di quello che chiamiamo  Quarto settore un nuovo modo di fare impresa basato contemporaneamente su interessi particolari e generali.

      

[1] In luogo di molti, v. H. GLENN, The Cosmopolitan State, Oxford, 2013.

   

  

   

[2] In luogo di molti, v. K. POLANYI, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, trad. it., Torino, 1974, 5 ss. In proposito cfr. l’analisi di G. DALE, Karl Polanyi. The Limits of the Market, Cambridge, 2010.

     

[3] In questo senso v., tra gli altri, A.M. BATTISTI, Welfare e no profit in Europa. Profili comparati, Torino, 2013, spec. 104 ss.; G. RESTA, Prefazione, in RESTA (a cura di), Le fondazioni. Prospettive italiane ed europee, Napoli, 2014, VII; G. IUDICA, Presentazione alla prima edizione, in IUDICA (a cura di), Codice degli enti non profit, Milano, 2005 (II ed.), XX ss.: «Il fenomeno non profit nel nostro Paese ha subito un’impressionante diffusione dagli anni Ottanta e cioè a partire dal momento in cui prende corpo anche in Italia, come in tutti i paesi industrialmente evoluti, la crisi dello stato sociale». Per il rapporto tra sistemi pubblici di welfare e settore no profit nella fase precedente, e cioè in quella di sviluppo del benessere economico, cfr. C. BORZAGA – L. FAZZI, Introduzione, in BORZAGA – FAZZI (a cura di), Governo e organizzazione per l’impresa sociale, Roma, 2008, 15

      

[4] G. IUDICA, Presentazione alla prima edizione, cit. Per una ampia illustrazione delle cause e delle conseguenze della crisi dello stato sociale v., anche per ulteriori riferimenti, A.M. BATTISTI, Welfare e no profit in Europa, cit., 2 ss., e A. VITTORIA, Il Welfare oltre lo Stato. Profili di storia dello Stato sociale, tra istituzioni e democrazia, Torino, 2014 (II ed.), 93 ss., secondo il quale «la crisi economica globale dei primi anni Settanta rivela … che la crescita del welfare in realtà è giunta al limite».

       

[5] Cfr. A. VITTORIA, Il Welfare oltre lo Stato, cit., 96.

        

[6] È opportuno segnalare che nonostante gli enti disciplinati dal libro I del codice civile si caratterizzino per essere ontologicamente privi di finalità lucrative è ormai pacifico che possano, entro determinati limiti svolgere attività di impresa. Per un approfondimento sul tema si rinvia a P. RESCIGNO, Persone e comunità, vol. II, Padova, 1988, 421 ss. e a A. ZOPPINI, Le fondazioni. Dalla tipicità alle tipologie, Napoli, 1995, 54 ss. 

        

[7] A.M. BATTISTI, Welfare e no profit in Europa. Profili comparati, cit., 108.

        

[8] Nel corso dell’Ottocento si sviluppa, anzitutto in Inghilterra, soprattutto in conseguenza della rivoluzione industriale una legislazione sociale che costituisce una significativa fase di sviluppo del Welfare State; è a tal proposito che Polanyi aveva coniato la celebre formula del “doppio movimento” (K. POLANYI, La grande trasformazione, cit., 272). 

        

[9] Sui fraintendimenti e sulle incomprensioni che possono nascere da tale identificazione, che è in realtà solo un carattere di una fase storica, ha insistito soprattutto P. GROSSI, Prima lezione di diritto, Roma – Bari, 2008 (XI ed.), 6 ss.

        

[10] Per prime indicazioni sull’argomento cfr. J.E. STIGLITZ, La globalizzazione e i suoi oppositori, Torino, 2003.

        

[11] In generale v. H. DEDEK – S. VAN PRAAGH (a cura di), Stateless Law. Evolving Boundaries of a Discipline, London – New York, 2015.

        

[12] Vedi R.B. REICH, Supercapitalismo. Come cambia l’economia globale, rischi per la democrazia, ed. it. con prefazione di G. Rossi, Roma, 2008.

        

[13] M. STELLA RICHTER, Interesse sociale e prospettiva dell’impresa nella prospettiva comunitaria, in V. DE LUCA – J. FITOUSSI – R. MCCORMICK, Capitalismo prossimo venturo, Milano, 2010, 458, da cui si cita (e in Diritto comunitario e sistemi nazionali: pluralità delle fonti e unitarietà degli ordinamenti, Napoli, 2010, 547 ss.).

   

Chi ha fornito delle vivide descrizioni del potere politico delle multinazionali (e una serie di dati significativi di comparazione tra i fatturati delle stesse e di quelli degli Stati nazionali) è però G. ROSSI, Il mercato d’azzardo, Milano, 2008, 17 ss.

        

[14] F. GALGANO, La forza del numero e la legge della ragione. Storia del principio maggioritario, Bologna, 2007, 264. Cfr. nello stesso senso A. VITTORIA, Il Welfare oltre lo Stato, cit., 94 s.

        

[15] E i risultati a cui pervengono, sul piano teorico-sperimentale, le moderne scienze comportamentali confermano la fragilità del modello di razionalità egoistica sotteso all’economia neoclassica: cfr. in proposito G. RESTA, Gratuità e solidarietà: fondamenti emotivi e irrazionali, in Riv. crit. dir. priv., 2014, 25 ss.; e da ultimo il bel saggio di L. VENTURA, If not for profit, for what?’ Dall’altruismo come ‘bene in sé’ alla tutela degli stakeholder nelle società lucrative, in Riv. dir. comm., 2018, I, 545 ss.

        

[16] Circa la genesi intellettuale della formula “privato sociale” v. P. RESCIGNO – G. RESTA – A. ZOPPINi, Diritto privato. Una conversazione, Bologna, 2017, 20.

        

[17] Sulla dinamica di circolazione del modello v. L. VENTURA, Benefit Corporation e società benefit tra innovazione creativa e imitazione di modelli, in DE DONNO – VENTURA (a cura di), Dalla benefit corporation alla società benefit, Bari, 2018, 81 ss. 

        

[18] Come si legge sul sito (http://www.bcorporation.net/what-are-b-corps/the-non-profit-behind-b-corps) la missione di BLab è: «to use the power of business to solve social and environmental problems».

        

[19] R. HONEYMAN, The B Corp Handbook, How to use Business as a Force for Good, 2014, spec. 46 ss.

        

[20] Cfr. https://www.bcorporation.net/what-are-b-corps/about-b-lab.

        

[21] Negli Stati Uniti, ad esempio, possono diventare BCorp certificate le business corporation, le società cooperative, le limited liability company (LLC), le Low-profit Limited Liability company (L3C), le partnership, i fondi pensioni (Employee stock ownership) e tutte le altre forme societarie ivi comprese ovviamente la benefit corporation. Cfr. R. HONEYMAN, The B Corp Handbook, cit., 175.

        

[22] Ovviamente la esclusione della possibilità di ottenere la certificazione da parte di enti pubblici ed enti no profit si spiega alla luce del fatto che si tratta pur sempre di una caratterizzazione di corporation e quindi di società. 

        

[23] Consultabile al sito http://benefitcornet/attorneys/model-legislation.

        

[24] Anche se ci sono modelli legislativi che hanno disciplinato in materia di benefit corporation senza tenere conto del modello in questione, ad esempio la normativa che regola la Public Benefit Corporation del Delaware. Ad oggi sono 34 gli Stati che hanno disciplinato con proprio statute nazionale la figura della benefit corporation e cioè in particolare i seguenti (tra parentesi l’anno di adozione della relativa legge): Arizona (2014); Arkansas (2013); California (2012); Colorado (2014); Connecticut (2014); Delaware (2013); Florida (2014); Hawaii (2011); Idaho (2015); Illinois (2013); Indiana (2015); Kansas (2017); Kentucky (2017); Louisiana (2012); Maryland (2010); Massachusetts (2012); Minnesota (2015); Montana (2015); Nebraska (2014); Nevada (2014); New Hampshire (2015); New Jersey (2011); New York (2015); Oregon (2014); Pennsylvania (2013); Rhode Island (2014); South Carolina (2012 Tennessee (2016);); Texas (2017); Utah (2014); Vermont (2011); Virginia (2011); Washington, DC (2013); West Virginia (2014). E in altri 6 Stati un progetto di legge in materia è ad oggi in discussione, in particolare in Alaska, in Iowa, in Oklahoma, in Michigan, in Mississipi e in New Mexico. Cfr. http://benefitcornet/policymakers/state-by-state-status.

        

[25] Come dimostra l’elenco dei paesi in cui tale fenomeno si è sviluppato consultabile al sito http://benefitcornet.

        

[26] Consultabile al sito http://benefitcornet/attorneys/model-legislation .

        

[27] La previsione rende immediatamente chiaro il carattere di fondo della benefit corporation e cioè quello di strumento idoneo ad organizzare in forma societaria attività, nelle quali è dunque possibile investire, con uno scopo più ampio di quello di massimizzare il valore dell’investimento (shareholder value). Cfr. MBCL §101 e J.H. MURRAY, Social Enterprise Innovation: Delaware’s Public Benefit Corporation Law, in 4 Harvard Business Law Review, 2014, 349: «The state’s general business corporation law applies to benefit corporations; however, the benefit corporation statute controls over the state’s general business corporation law in the event of a conflict».

        

[28] Conseguentemente, e anzi specularmente, a quanto appena detto, la perdita dello “status” di benefit corporation discende da una modificazione dei suoi “articles of incorporations” o da una operazione straordinaria (fusione, scissione, trasformazione) come si evince dal MBCL § 105 (a) e (b).

        

[29] MBCL § 201 (a).

        

[30] MBCL §§ 102 - 201 (a) (b).

        

[31] Così anche L. VENTURA, Benefit corporation e circolazione di modelli: le “società benefit”, un trapianto necessario? in Contr. e impr., 2016, 1144.

        

[32] MBCL § 102.

        

[33] A. PAGE – R.A. KATZ, Is Social Responsibility the New Corporate Social Responsibility?, Indianapolis, 2011, 1362: «The third-party standard must be “developed by a person or entity that is independent from the benefit corporation” and must publicly identify the factors considered, weight given each factor, and state that developed or changed the standard». 

        

[34] A riguardo si è parlato di «an important protection against the abuse of benefit corporations status». Cfr. anche J.H. MURRAY, Social Enterprise Innovation: Delaware’s Public Benefit Corporation Law, in 4 Harvard Business Law Review, 2014, 349: «mandatory use of a comprehensive, independent, credible transparent third-party standard to measure social and enviromental performance».

        

[35] Cfr. l’incipit del comment di questa section: «This section is at the heart of what it means to be a benefit corporation. By requiring the consideration of interests of constituencies other than the shareholders, the section rejects the holdings in Dodge v. Ford, 170 N.W. 668 (Mich. 1919), and eBay Domestic Holdings, Inc. v. Newmark, 16 A.3d 1 (Del. Ch. 2010), that directors must maximize the financial value of a corporation. In a state that has adopted a “constituency statute,” directors are authorized to consider the interests of corporate constituencies other than the shareholders, but the directors are not required to do so. Subsection (a) makes it mandatory for the directors of a benefit corporation to consider the interests and factors that they would otherwise simply be permitted to consider in their discretion under the typical constituency statute».

        

[36] MBCL § 301 (e): «a director who makes a business judgment in good faith fulfills the duty under this section if the director: 

   

(1) is not interested in the subject of the business judgment;

   

(2) is informed with respect to the subject of the business judgment to the extent the director reasonably believes to be appropriate under the circumstances; and

   

(3) rationally believes that the business judgment is in the best interests of the benefit corporation».

        

[37] Il § 305 della MBCL esordisce con delle espresse limitazioni nel senso di escludere che, eccezion fatta per il c.d. benefit enforcement proceeding, alcun soggetto possa agire nei confronti della società, dei suoi amministratori e dei suoi dirigenti lamentando il mancato perseguimento o la mancata realizzazione del public benefit, generale o particolare che sia, lamentando la violazione di doveri, obblighi o standard di condotta previsti dalla stessa MBCL. Si esclude inoltre che la benefit corporation possa essere ritenuta responsabile per il mancato raggiungimento del beneficio pubblico, generale o particolare.

   

L’unico modo per consentire l’accertamento dell’eventuale mancanza del perseguimento del public benefit (generale o specifico) e di eventuali violazioni di obblighi, doveri o standard di condotta – MBCL §§102 e 305 (c) – è dunque la benefit enforcement proceeding. Si tratta di un’azione che può essere direttamente proposta dalla benefit corporation o, derivativamente, da uno o più soggetti che detengono il 2% delle azioni emesse dalla benefit, da un amministratore, da una o più persone che detengono il 5% del capitale della società da cui la benefit corporation è controllata, ovvero dai soggetti specificati nello statuto della benefit. La previsione del benefit enforcement proceeding è dunque essenzialmente volta a restringere entro rigorosi limiti la legittimazione all’azione nei confronti della benefit corporation.

        

[38] La MBCL parla di publicly traded corporation che a mente del §102 della MBCL è «a business corporation that has shares listed on a national securities exchange or traded in a market maintained by one or more members of a national securities association».

        

[39] MBCL §304.

        

[40] MBCL §401 (c).

        

[41] Sociedad BIC (de “Beneficio e Interés Colectivo”) introdotta dalla Ley N° 1901 del 18 giugno 2018.

        

[42] Proyecto de Ley N° 2533/2017-CR, Ley que Regula las Sociedades de Beneficio e Interés Colectivo (Sociedades B.I.C.), presentato l’8 marzo 2018.

        

[43] Cfr. art. 1, commi 376 ss., l. 28 dicembre 2015, n. 208.

        

[44] Art. 1, comma 376, n. 208/2015, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato», pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 302 del 30 dicembre 2015.

        

[45] M. BIANCHINI – C. SERTOLI, Una ricerca Assonime sulle società benefit, Dati empirici, prasi statutaria e prospettive, in Analisisi giuridica dell’Economia, I, 2018, spec. 202; C. ANGELICI, Società benefit, in DE DONNO – VENTURA (a cura di), Dalla benefit corporation alla società benefit, cit., 19 ss. 

        

[46] Cfr. anche ASSONIME, La disciplina delle società benefit. Circolare n. 19/2016, pubblicata anche in Riv. soc., 2016, 1156 ss. (da cui si continuerà a citare), a 1158; M. STELLA RICHTER JR, Società benefit e società non benefitin Riv. dir. comm., 2017, II, 271 ss L. VENTURA, Benefit corporation e circolazione di modelli: le “società benefit”, cit., 1157; nonché i saggi di C. ANGELICI – G. MARASÀ – A. ZOPPINI raccolti in DE DONNO – VENTURA (a cura di), Dalla benefit corporation alla società benefit, cit. Nel medesimo senso v. pure G. CASTELLANI – D. DE ROSSI – L. MAGRASSI – A. RAMPA, Le società benefit (parte II). In requiem alle imprese sociali, Documento della Fondazione Nazionale dei Commercialisti del 31 luglio 2016, 19; F. CALAGNA, La nuova disciplina della “Società benefit”: profili normativi e incertezze applicative, in Riv. dir. soc., 2016, 3, 715.

        

[47] Al riguardo cfr. anche S. CORSO, Le società benefit nell’ordinamento italiano: una nuova “qualifica” tra profit e non-profit, in Nuove leggi civ. comm., 2016, 1000; D. LENZI, Le società benefit, in Giur. comm., 2016, I, 897; G. RIOLFO, Le società “benefit” in Italia: prime riflessioni su una recente innovazione legislativa, in Studium iuris, 2016, 720 ss. e 819 ss., a 723.

        

[48] S. CORSO, Le società benefit nell’ordinamento italiano: una nuova “qualifica” tra profit non-profit, cit., 999, la quale, alla nt. 18 di 999 ss., ricorda altresì che «in termini di “qualifica” di società benefit si esprime anche la circolare MISE 6 maggio 2016, n. 3689/C (recante “Nuove Istruzioni per la compilazione della modulistica del Registro delle imprese e del REA”), nella quale si chiarisce che essa deve essere evidenziata al momento della compilazione del modello di domanda (nel riquadro 20 del Modulo “S2”) in sede di iscrizione presso il Registro delle imprese».

        

[49] Correlativamente, le società che benefit non sono non dovrebbero potere introdurre quelle locuzioni nella loro denominazione sociale né altrimenti spenderle nelle comunicazioni e nei traffici giuridici. Anche se non vi è un vero e proprio divieto in questo senso, né sono state introdotte norme sanzionatorie sull’abuso di denominazione “benefit” e anche se il comma 384 si limita a prevedere che l’Autorità garante della concorrenza e del mercato deve sanzionare le società benefit che non perseguano le finalità di beneficio comune con le disposizioni in materia di pubblicità ingannevole e di pratiche commerciali scorrette, non vi è dubbio alcuno – a opinione di chi scrive – che i principi della concorrenza leale e dell’esercizio corretto delle attività commerciali (art. 39 d.lgs. n. 206 del 2006) oltre che la stessa disciplina sulla pubblicità ingannevole (seppur non richiamata dal comma 384, comunque applicabile) debbano portare al risultato appena enunciato.

        

[50] G. RIOLFO, Le società “benefit” in Italia, cit., 822.

        

[51] Ma si noti la incongruenza del riferimento, in cui incorre il legislatore quando si riferisce allo «scopo di dividerne gli utili» delle società benefit, posto che, come meglio si vedrà in seguito, società benefit possono essere anche società a causa mutualistica e quindi società senza finalità di lucro soggettivo.

        

[52] La Relazione si legge in A.S. n. 1882, cit., 2 ss. Le citazioni nel testo sono tratte dalla 2.

        

[53] Queste sono sintomo delle forti motivazioni ideali e sociali sottese alla diffusione del modello della società benefit e iscrivibili al tema della responsabilità sociale dell’impresa oggi.

        

[54] Segnala la problematicità di tale rinvio anche S. CORSO, Le società benefit nell’ordinamento italiano, cit., 1000 ss., secondo la quale «l’integrazione delle discipline potrebbe peraltro rivelarsi talvolta problematica, in quanto … alla neutralità dei tipi sul piano funzionale non corrisponde la neutralità della disciplina che, ai diversi tipi, si collega. Una parte almeno della disciplina è infatti dettata “in vista dell’utilizzazione del tipo per la sua funzione normale” (i.e. lucrativa, per i tipi del Titolo V e mutualistica, per quelli del Titolo VI), così che, quando il tipo viene impiegato per uno scopo parzialmente diverso, la disciplina legale potrebbe “rivelarsi inadatta all’intento perseguito” e richiedere, ove possibile, un intervento dell’interprete o dell’autonomia statutaria al fine di adeguarla alla diversa (e/o più ampia) funzione perseguita». Per un cenno ai problemi posti da una siffatta tecnica normativa, che si avvale largamente del rinvio cfr. anche D. LENZI, Le società benefit, cit., 908.

        

[55] Così prevede il comma 381 dell’art. 1 l. n. 208/2015. Cfr. sul tema ASSONIME, La disciplina delle società benefit, cit., 1174 s.; L. VENTURA, Benefit corporation e circolazione di modelli: le “società benefit”, un trapianto necessario?, cit., 1158.

        

[56] Il fatto che all’atto pratico la previsione di beneficio comune risulti essere spesso declinata in termini del tutto generici (o comunque non misurabili o qualificabili, ma anche probabilmente non completamente realizzabili) comporta una serie di conseguenze rilevanti dal punto di vista della disciplina di queste società, soprattutto in merito alla discrezionalità e ai profili di responsabilità degli amministratori. 

        

[57] D’altronde, a conferma di quanto detto nel testo, si deve ricordare che neanche nella informativa rappresentata dalla relazione concernente il perseguimento del beneficio comune è richiesto di indicare le modalità con cui si è operato il bilanciamento dei diversi interessi che gli amministratori devono perseguire.

        

[58] Così il comma 382 della l. n. 208 del 2015. In argomento cfr. anche ASSONIME, La disciplina delle società benefit, cit., 1173 s. e G. CASTELLANI – D. DE ROSSI – A. RAMPA, Le società benefit. La nuova prospettiva di una Corporate Social Responsibility con Commitment, cit., 22 ss.

        

[59] In merito cfr. G. RIOLFO, Le società “benefit” in Italia, cit., 820, nt 76 «Non si richiede espressamente la descrizione delle modalità con cui si è operato il “bilanciamento” dei diversi interessi in gioco. Dato che questo costituisce il principale “nuovo” dovere, il cui esercizio diligente libera gli amministratori di responsabilità, la norma avrebbe potuto imporre di motivare il perché di determinate scelte. Forse un onere di motivazione potrebbe ricavarsi dalla disposizione, ma non pare agevole».

        

[60] V. allegato n. 4 della legge n. 208 del 2015.

        

[61] È opportuno rilevare che non vi è una necessaria coincidenza tra Bcorp e società benefit, sicché in Italia ci sono società benefit che on sono Bcorp, società che si fregiano della qualifica di Bcorp senza essere società benefit e società che sono al contempo società benefit e Bcorp In particolare, dall’ultimo censimento da noi effettuato risulta che: in Italia, ad oggi, ci sono solo 32 società che hanno entrambe le qualifiche, mentre 177 sono le società “solo” benefit e 43 le Bcorp non benefit

        

[62] G. CASTELLANI – D. DE ROSSI – A. RAMPA, Le società benefit …., cit. 23 e S. CORSO, Le società benefit nell’ordinamento italiano, cit., 1030.

        

[63] Tale definizione è ripresa da G. RIOLFO, Le società “benefit” in Italia, cit., 821.

        

[64] La segnalazione del terzo all’Agcm potrebbe, forse, identificarsi come una forma indiretta di azione prevista per lo stakeholder (che come si è avuto modo di specificare nel paragrafo precedente ha un potere di agire molto inferiore a quello del socio per il mancato perseguimento dei suoi interessi).

        

[65] Cfr. art 8, comma 2, d.lgs. n. 145 del 2007.