Tra spigolature e (forse) aperture nella recente giurisprudenza tributaria
Inidoneità sia oggettiva che soggettiva dell'abitazione preposseduta e agevolazioni prima casa
Cass., 2 febbraio 2018, n. 2565
«In tema di agevolazioni prima casa, l'idoneità della casa di abitazione preposseduta va valutata sia in senso oggettivo (effettiva inabitabilità), che in senso soggettivo (fabbricato inadeguato per dimensioni o caratteristiche qualitative), nel senso che ricorre l'applicazione del beneficio anche all'ipotesi di disponibilità di un alloggio che non sia concretamente idoneo, per dimensioni e caratteristiche complessive, a soddisfare le esigenze abitative dell'interessato».
Sentenza di notevole interesse, che affronta per l'ennesima volta il tema della rilevanza o meno del concetto di idoneità della casa preposseduta da un soggetto che intenda richiedere le agevolazioni prima casa.
Come è noto, il concetto di idoneità era presente nella normativa sulla prima casa precedente quella attualmente in vigore, che tuttavia non ha ribadito questo requisito; la sentenza in esame ritiene che «il concetto di abitazione presuppone implicitamente il requisito della sua idoneità con la conseguenza che se la casa preposseduta (ovunque ubicata ed anche se acquistata con le agevolazioni prima casa) non è idonea, la sua presenza non impedirebbe l'ottenimento dell'agevolazione prima casa in presenza di un nuovo acquisto».
A questo punto, si tratta di capire se il concetto di idoneità che viene in rilievo è solo quello oggettivo (si pensi ad una casa danneggiata da un terremoto) o anche soggettivo, come nel caso di chi ha acquistato un immobile divenuto troppo piccolo per il sopravvenire di figli; su questo argomento, la Cassazione negli ultimi anni è stata oscillante, ma la sentenza in esame dà rilievo tanto all'inidoneità oggettiva quanto a quella soggettiva nella parte in cui afferma che «il beneficio fiscale si rende applicabile anche nell'ipotesi di disponibilità di un alloggio che non sia concretamente idoneo, per dimensioni e caratteristiche complessive, a soddisfare le esigenze abitative dell'interessato».
Va qui rilevato che sulla stessa scia si pongono l'ordinanza della Cassazione n. 19989 del 27 luglio 2018 (per cui la nozione di "casa di abitazione" deve essere intesa nel senso di alloggio concretamente idoneo, sia sotto il profilo materiale che giuridico, a soddisfare le esigenze abitative dell'interessato, sicché tale idoneità deve ritenersi insussistente nel caso in cui l'immobile sia locato a terzi; «conseguentemente, l'agevolazione spetta anche all'acquirente che sia titolare del diritto di proprietà su altra casa situata nello stesso Comune in cui si trova l'immobile che viene acquistato allorché tale casa sia oggetto di un rapporto locativo regolarmente registrato e non maliziosamente preordinato a creare lo stato di indisponibilità della stessa», e altra ordinanza del 31 luglio 2018 n. 20300 (ove è stata riconosciuta la inidoneità di altro alloggio del contribuente in considerazione del numero dei soggetti che componevano il suo attuale nucleo familiare (tre persone).
Va solo qui rilevato che solo qualche mese prima con ord. 8429 del 5 aprile 2018 la medesima Corte aveva escluso che si potesse valorizzare l'inidoneità soggettiva riferita ad un appartamento (di fatto utilizzato come studio medico ma censito in catasto come abitazione), in quanto «non assume rilievo la situazione soggettiva del contribuente o il concreto utilizzo del bene, assumendo rilievo il solo parametro oggettivo della classificazione catastale dello stesso».
L'entrata in vigore delle modifiche dell'art. 20 del TUR
Come è noto la legge n.205 di Bilancio per il 2017 all'art. 1 comma 87 ha apportato talune modifiche all'art. 20 del TUR (n. 131 del 1986), prevedendo che «L'imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell'atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall'atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati».
Da una parte l’art. 19 della L. n. 205 del 2017 statuisce che le disposizioni di cui alla legge stessa (salvo quanto diversamente stabilito) entrano in vigore dal 1° gennaio 2018, e per quanto concerne la materia in oggetto non esistono statuizioni particolari. Ciò ha indotto prima la Cassazione (sent. 26 gennaio 2018, n. 2007) e poi l’A.F. (nelle risposte date a Telefisco pubblicate su Il Sole24ore del 2 febbraio 2018) ad escludere qualsiasi concessione sul versante di una possibile/presunta retroattività della novella e a non dare particolare rilievo alla sua potenzialità “chiarificatrice” (come pure sembrava potersi desumere da quanto riportato nella relazione illustrativa della legge). Dall’altra parte proprio con riguardo all’efficacia della novella, il servizio del bilancio del Senato, nella nota di lettura n. 195, pur rilevando che la precisazione normativa è finalizzata ad assicurare la certezza del diritto, potendo svolgere anche per il futuro una funzione deflattiva del contenzioso con l’Amministrazione finanziaria, osservava come la stessa non sembrerebbe avere natura di norma di interpretazione autentica in senso tecnico, con la conseguenza che «gli effetti della stessa dovrebbero valere per il futuro e non retroagirebbero quindi con riguardo alle fattispecie in essere ed ai contenziosi non ancora definiti».
Inoltre a favore della tesi della irretroattività – sempre ad avviso dei Giudici di legittimità e dell’A.F. – giocava il fatto che la novella non ha qualificato espressamente la modifica come ‘norma interpretativa’ (circostanza che, anche secondo quanto statuisce lo Statuto del contribuente, sarebbe stata necessaria per attribuire valenza retroattiva) e che la modifica recata dalla novella all’impianto normativo in materia ne segna una rivisitazione strutturale, profonda ed antitetica, tale da non sopportarne un’applicazione indiscriminata anche a fattispecie anteriori al 1° gennaio 2018. Sicché a tutto concedere – secondo l’A.F. – si poteva ritenere che la novella trovasse applicazione con riferimento all’attività di liquidazione dell’imposta effettuata dagli uffici a decorrere dal 1° gennaio 2018 (il che significa anche in relazione a fattispecie perfezionate in tempi anteriori, purché non fossero già stati notificati a quella data avvisi di accertamento).
Seguiva a quanto detto la mutevolezza delle posizioni manifestate dagli organi di giustizia tributaria:
– la CTP di Reggio Emilia (sent. n. 4/2018 dep. 31 gennaio 2018) dopo avere ribadito che la novità normativa confermava una volta per tutte che nella fattispecie occorre guardare ai soli effetti giuridici dell’operazione – e non, come più volte sostenuto dalla Cassazione, anche ai suoi effetti economici ed alla causa concreta della stessa – ha affermato la natura interpretativa e, quindi, retroattiva della norma, posto che «nel momento in cui il legislatore sceglie una tra le varie, possibili, interpretazioni di una norma, la norma che cristallizza la scelta del legislatore non può che qualificarsi come norma di natura interpretativa, al di là del fatto che, formalmente, non sia qualificata come tale»;
– la CTP di Milano (sent. 12 febbraio 2018, n. 571), pur non riconoscendo natura retroattiva della norma, ha sostenuto che tuttavia l’interprete non può non tener conto della novità legislativa e che proprio il contrasto registratosi nella giurisprudenza di legittimità autorizza a tener conto della novità stessa sulla base di una lettura costituzionalmente orientata in direzione della preminenza del principio di ragionevolezza;
– la Cassazione (sent. 23 febbraio 2018, n. 4407) ribadiva la natura irretroattiva e non interpretativa della norma: la prima, in quanto la retroattività di una norma nel nostro ordinamento ha natura eccezionale e, per superare il vaglio di costituzionalità, occorrerebbero “adeguati motivi di interesse generale” o “ragioni imperative di interesse generale” che, ad avviso della Corte, nella fattispecie non ricorrono; la seconda, in quanto la norma “introduce limiti all’attività di riqualificazione della fattispecie che prima non erano previsti”;
– ancora la CTP di Milano (sent. 27 marzo 2018, n. 1358) statuiva che la cessione totalitaria di quote non è assimilabile a una cessione d’azienda; dalla sentenza emergeva che la modifica apportata dal legislatore all’art. 20 del TUR, seppur non esplicitamente rubricata quale norma interpretativa, è stata introdotta per dirimere i dubbi interpretativi in merito alla sua portata applicativa, resasi necessaria in seguito agli evidenti contrasti giurisprudenziali. Essa osservava che già prima del recente intervento normativo chiarificatore la dottrina maggioritaria riteneva dovessero essere presi in considerazione i soli effetti giuridici dell’atto da registrare; tesi da connettere alla libertà che il sistema offre al contribuente di scegliere legittimamente percorsi alternativi, indi anche quello fiscalmente meno oneroso, a prescindere dalla sostanza economica sottostante.
L’Ufficio pertanto è tenuto a rispettare il limite del legittimo risparmio d’imposta, codificato dal comma 4 dell’articolo 10-bis dello Statuto del contribuente, «che non può portare a veicolare la tassazione attraverso una forma giuridica diversa da quella utilizzata, se questa risulta legittima, tenendo altresì conto della linearità o meno del comportamento dei contribuenti».
Per fortuna è intervenuta da ultimo la legge di bilancio per il 2019 (legge 30 dicembre 2018 n. 145) che al comma 1084 dell'articolo 1 recita «L'articolo 1, comma 87, lettera a), della legge 27 dicembre 2017, n. 205, costituisce interpretazione autentica dell'articolo 20, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131».
CTR Toscana dep. il 23 agosto 2018 n. 1527. Mandato senza rappresentanza e richiesta agevolazioni 1° casa
Il conferimento di un mandato a vendere senza rappresentanza (con trasferimento immobiliare da mandante a mandatario – nella fattispecie da figlio a padre – e contestuale acquisto di altro immobile con le stesse agevolazioni da parte del figlio e stipula di un mutuo 'prima casa') non costituisce operazione elusiva e dà diritto alla conferma delle agevolazioni già concesse.
Così dispone la CTR della Toscana con sentenza dep. il 23 agosto 2018 n. 1527, riformando altra sentenza della CTP di Firenze (n 755 depositata il 5 luglio 2017),che in senso avverso aveva contestato quello che esso definiva un intento elusivo: sosteneva l'Ufficio che il contribuente «quando è stato chiamato [...] avrebbe dovuto spiegare i motivi del mandato a vendere concesso al padre; e non avendo avuto chiarimenti in merito», ciò avrebbe fatto intendere che il trasferimento da mandante e mandatario non era stato realmente voluto e quindi era elusivo.
La CTR della Toscana in segno contrario ha invece ritenuto che nessuna particolare spiegazione fosse dovuta dal contribuente all'amministrazione, essendo il trasferimento al mandatario conseguente al conferimento del mandato, un atto la cui ragione giustificativa si individua nel disposto dell'art. 1719 c.c. e che pertanto non vi fosse alcuna prova, neppure indiziaria, che l'atto traslativo fosse affetto da simulazione assoluta né tanto meno alcun intento elusivo.
Il convincimento dei giudici risulta confermato in altra sentenza della CTP di Firenze n. 1152 dep. il 19 dicembre 2018 ove viene contestata l'assenza di valide ragioni economiche nella singola fattispecie sottoposta all'attenzione dei giudici, lamentata dall'Agenzia delle entrate in un avviso di accertamento.
L'organo giudicante ritiene al contrario che le valide ragioni economiche possono ben sussistere laddove l'operazione sia finalizzata al successivo acquisto (da parte del mandante) di un'abitazione più comoda rispetto a quella sino a quel momento occupata e con riferimento alla quale il mandato (con relativo trasferimento immobiliare) era stato conferito.
CTP di Teramo (sent. nn. da 328 a 333, dep. il 25 settembre 2018). Riserva a favore di terzo: illegittimità dell’applicazione dell’imposta ‘in misura fissa'.
La fattispecie – sulla quale sembrerebbe superfluo spendere tante parole – è stata oggetto di recente attenzione in ben sei sentenze della Commissione Tributaria Provinciale di Teramo (tutte uguali nel contenuto) cui il notaio ricorrente era stato costretto a ricorrere per avere giustizia di un trattamento fiscale ritenuto penalizzante, e consistente nell’applicazione dell’imposta di registro in misura fissa a numerosi atti dal medesimo rogati, recanti la descritta riserva e tutti sistematicamente tassati alla stessa maniera.
La detta CTP (sentenze nn. da 328 a 333, dep. il 25 settembre 2018, formulate tutte con le medesime argomentazioni e dal medesimo collegio giudicante) ha enunciato un principio che dovrebbe risultare tanto evidente quanto incontrastato: la riserva (di un diritto reale parziario a favore del disponente e dopo di lui a favore di un terzo), integrando di fatto una donazione sia pure condizionata, non è soggetta ad imposta di registro, ancorché solo in misura fissa.
Dal disposto dell'art. 25 del TUR (d.P.R. n. 131 del 1986)[[1]] , si è desunto un principio di generale alternatività tra imposta di registro e imposta sulle successioni e donazioni espressamente recepito, come si accennava, dalla prassi amministrativa stessa (Circ. Agenzia delle entrate n. 44/E 2011).
Eppure l'Ufficio locale impositore, contro i cui provvedimenti impositivi il notaio era ricorso, aveva inviato altrettanti avvisi di liquidazione dell'imposta di registro in misura fissa, ritenendola dovuta ai sensi dell'art. 11 Tariffa Parte Prima allegata al citato d.P.R. n. 131 del 1986 in ragione del fatto che la fattispecie (della riserva a favore del terzo) – ad avviso dell’Ufficio – doveva qualificarsi come negozio autonomo, rispetto alla donazione che la conteneva, soggetto a condizione sospensiva e a termine iniziale (la premorienza del primo riservatario). Anzi l'Ufficio richiamava anche una sentenza del giudice di legittimità (n. 1217/2011) che, a suo dire, prevedeva l'applicazione dell'imposta in misura fissa di registro in una fattispecie (ritenuta) analoga, e ciò ai sensi dell'art. 27 del TUR (in materia appunto di atti sottoposti a condizione sospensiva) in virtù del rinvio ad esso operato dall'art. 60 del TUSD.
Sennonché – in disparte la circostanza che nella sentenza n. 1217 si richiama solo il meccanismo dell'applicazione differita dell'imposta di donazione (e non già di registro) al momento del verificarsi della condizione sospensiva né si legittima la percezione dell'imposta in misura fissa – la CTP di Teramo ha recepito in toto la posizione già espressa dall'Agenzia delle entrate nella circ. n. 44/E del 2011, smentendo che nella fattispecie di che trattasi (ove si assiste ad un'attribuzione patrimoniale sia pure sorretta dall'animus donandi) si possa ravvisare un atto 'privo di contenuto patrimoniale' (cui solo potrebbe trovare applicazione il disposto dell'art. 11 della Tariffa in materia di imposta di registro). È stato ribadito inoltre il concetto per cui il richiamo operato dall'art. 55 del TUSD alle «[...] disposizioni del Testo unico dell'imposta di registro [...] concernenti gli atti da registrare in termine fisso» attiene al solo obbligo di registrazione degli atti di donazione nel detto termine, come si evince con ogni evidenza dal disposto di cui all'art. 60 del TUSD stesso, che limita gli effetti di tale richiamo, appunto, alle modalità e termini di liquidazione, alla rettifica dei valori, alla riscossione e rimborso, alle sanzioni, e non già ai presupposti dell'imposta.
Né pare possibile desumere la legittimità della percezione del tributo in parola dal disposto dell'art. 59 del TUSD ove, tra l'altro, è sancito che «l'imposta si applica nella misura fissa prevista per l'imposta di registro [...] per le donazioni dichiarate esenti dall'imposta stessa», imposta che però è sempre e soltanto l'imposta di donazione e non già di registro. Di guisa che se la donazione non sia esente, ma 'soggetta' all'imposta e magari nel contempo operi taluna delle franchigie previste dal TUSD, l'imposta (tanto meno di registro e in misura fissa) non risulterà affatto dovuta[[2]].
Cass. 1° ottobre 2018 n. 23668. La rinuncia reciproca a crediti da parte di soggetti passivi Iva è soggetta a registro o Iva?
La Corte Suprema di Cassazione, nella sentenza citata, afferma che siffatta rinuncia è soggetta ad Iva.
Si trattava della rinuncia fatta reciprocamente a crediti vantati da due soggetti passivi Iva (l’Anas da un lato e le società concessionarie Autostrade Meridionali e Tangenziale di Napoli dall’altro, la prima rinunciava a canoni devolutivi ad essa dovuti, la seconda e la terza rinunciavano a crediti nascenti da mancati adeguamenti tariffari e per contributi compensativi di minori introiti di pedaggio.). L’Agenzia delle entrate emetteva un avviso accertamento nei confronti dell'ANAS per il recupero dell'iva concernente queste operazioni, avviso che la società impugnava, ottenendone l'annullamento dalla Commissione tributaria provinciale di Roma. Quella regionale del Lazio, di contro, accoglieva l'appello dell'Agenzia. A sostegno della decisione, il giudice d'appello ricostruiva la volontà delle parti qualificandola come transattiva e, a fronte delle reciproche concessioni, riconosceva l'imponibilità delle operazioni ai fini Iva e, per conseguenza, la legittimità dell'avviso di accertamento.
La Suprema Corte, come detto, conferma l’interpretazione del giudice di secondo grado, condividendone il convincimento per cui le parti, soggetti passivi Iva, hanno posto in essere una ‘prestazione di servizi’ imponibile ai fini Iva (consistente nella reciproca rinuncia ai crediti vantati con l’impegno – come si legge nel contratto da esse stipulato – «[...] ad estinguere i relativi giudizi eventualmente pendenti»). La prestazione di servizi – afferma la Corte – è l’oggetto di obbligazioni rispettivamente di non fare e di fare, che trovano corrispettivo nella rinuncia e nell'impegno corrispondenti assunti dalla controparte, e, come è noto, ai fini Iva ai sensi del 1°comma art. 3 del d.P.R. n. 633 del 1972 si qualifica prestazione di servizi quella resa verso corrispettivo «dipendente in genere da obbligazioni di fare, non fare e di permettere quale ne sia la fonte».
Cass. 11 gennaio 2018 n. 481. Riconoscimento di debito: imposta fissa?
La Corte Suprema di Cassazione, con l’ordinanza n. 481 della sez. V, Ord. dep. l’11 gennaio 2018, n. 481), ha recato in materia un apprezzabile chiarimento, che dovrebbe essere risolutivo delle incertezze sinora registrate sul piano della prassi applicativa e, sperabilmente, condizionare, influenzandola, anche la condotta operativa dei vari uffici dell’A.F.
I giudici supremi fanno correttamente rilevare – come peraltro la dottrina maggioritaria aveva già avuto modo di evidenziare – che la dichiarazione di riconoscimento del debito (la cui scarna disciplina civilistica è contenuta nell’art. 1988 c.c.) ha natura solo processuale e strumentale, ribaltando l’onere del rapporto debitorio fondamentale dal creditore all’obbligato: quindi senza alcuna valenza generatrice o modificativa del profilo obbligatorio del rapporto stesso e in generale senza alcun contenuto patrimoniale innovativo. Più precisamente la Corte afferma «che si tratta di mera dichiarazione di scienza in relazione alla sussistenza di un rapporto preesistente nascente da pregressi contratti stipulati tra le parti, per cui la medesima non crea una nuova obbligazione, ma semplicemente riconosce ex post gli effetti economici di quegli atti», il che fa sì che si renda «applicabile la norma dell'art. 4, Tariffa, Parte seconda, d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, concernente le scritture private non autenticate non aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale», e cioè in ultima analisi che si renda legittima l’applicazione della sola imposta di registro in misura fissa (laddove si richieda la registrazione della dichiarazione stessa). Ciò, si badi bene, a prescindere dal fatto che il rapporto fondamentale sia stato o meno assoggettato ad Iva: qui non è tanto in gioco il principio incontestabile dell’alternatività Iva/Registro, quanto la natura giuridica stessa dell’atto ricognitivo del debito, correttamente individuata nell’ordinanza citata con riferimento alla mera funzione confermativa del rapporto giuridico sottostante.
CTR del Lazio 5955/18 dep. il 17 settembre 2018 – Divisione e collazione
Si tratta di una sentenza che si innesta sulla questione della tassabilità o meno di quelli che spesso l’A.F.[[3]] qualifica, impropriamente, come ‘conguagli divisionali’ (e che poi invece altro non sono se non mere differenze di valori numerici tra la quota di fatto assegnata ad un condividente – per ipotesi non destinatario di alcuna liberalità diretta o indiretta in vita del ‘de cuius’ – e quella o quelle assegnata/e ad altro/i condividente/i, tenendo conto, al contrario, di quanto già da questi ricevuto a titolo liberale dal medesimo ‘de cuius’, per effetto dell’istituto della ‘collazione ex art. 737 ss. c.c.).
È noto come l’A.F. abbia da sempre ritenuto di dover escludere, nella quantificazione del valore della massa ereditaria relitta dal de cuius come dalla relativa comunione oggetto di scioglimento volontario da parte dei comunisti, il valore dei beni già donati in vita dal de cuius e poi ‘conferiti’ dai soggetti tenuti a farlo agli altri coeredi a titolo di collazione. E ignorare il valore di tali beni, estromettendoli dal concetto di 'massa ereditaria' sul piano fiscale, può condurre (come potrebbe accadere se gli Uffici locali dell'A.F. facciano applicazione dei principi di cui alla Risoluzione n. 250249 del 1987) a ritenere esistente una presunta eccedenza del valore della quota assegnata ad un certo condividente rispetto alla massa 'comune' (intesa, ripetesi, erroneamente come comprensiva dei soli beni pervenuti per successione) e quindi all'applicazione di un trattamento tributario peggiorativo con riferimento alla parte (stimata) eccedente.
Il punto invece è che anche i beni ricevuti per donazione diretta o indiretta dal defunto, e conferiti (anche per imputazione) agli altri coeredi dai figli, coniuge e discendenti già donatari, – così come prescrive il codice civile (art. 737) – concorrono a formare la 'massa ereditaria' e il loro valore non può essere ignorato nella formazione delle quote di diritto, così come nella tassazione dello scioglimento della comunione ereditaria.
Per fortuna registriamo che finalmente il principio è stato di recente ribadito in una importante sentenza della CTR del Lazio n. 5955/18 dep. il 17 settembre 2018, e ciò anche in netta controtendenza rispetto all’orientamento (oltre che dell’A.F. anche) della giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. 8335/2006; 12238/2008).
La Commissione ribadisce la necessità della congruenza della prospettiva civilistica con quella fiscale, accedendo a quella che essa definisce «una interpretazione costituzionalmente orientata» dell'art. 34 TUR e, correttamente, sottolinea la portata solo "dichiarativa" di un atto di scioglimento della comunione ereditaria laddove ad uno dei condividenti venga assegnato l'intero 'relictum' mentre l'altro risulti aver imputato alla propria porzione i beni al medesimo donati, salvo a verificare l'esistenza o meno di conguagli a carico o a favore dell'uno o dell'altro ma con riguardo all'intera massa ereditaria, comprensiva anche dei beni oggetto di collazione.
Se si volessero allora riassumere le articolate e variegate posizioni assunte da A.F., dalla Suprema Corte e dalla ricordata e più avveduta giurisprudenza tributaria, la scaletta vedrebbe:
A) L'Amministrazione finanziaria
Con Risoluzione n. 250249 del 12 maggio 1987 l'A.F. ritiene che in base alla normativa vigente (art. 34 del d.P.R. 1986 n. 131), nelle comunioni ereditarie la massa comune da dividere va determinata secondo gli stessi criteri seguiti per l'individuazione del valore imponibile dell'asse ereditario ai fini dell'imposta sulle successioni, astraendo cioè dalla collazione disciplinata dal codice civile.
B) Il giudice di legittimità
La Cassazione ritiene che il criterio impositivo per la tassazione degli atti di scioglimento di comunioni ereditarie è imperniato esclusivamente, anche in base alla norma dell'art. 34 del TUR, sul dato relativo ai diritti del de cuius, senza tener conto dell'istituto della collazione (Cass. n. 8335/2006). Pertanto l'istituto della collazione non trova applicazione nella determinazione della base imponibile, che è costituita esclusivamente dall'incremento patrimoniale verificatosi in favore dei successori, senza che assuma alcun rilievo il valore dei beni già appartenenti a questi ultimi (Cass. 12238/2008).
C) La CTR del Lazio n. 5955/2018
Ribadisce la necessità di accedere ad un concetto univoco, in ambito civilistico e fiscale, di scioglimento della comunione ereditaria e delle fasi in cui il relativo procedimento si articola, ivi compresa la collazione di cui agli artt. 737 e ss. c.c.
Cass. 28 marzo 2018 n. 7606 – Divisione e conguaglio
Con sentenza 28 marzo 2018, n. 7606, la Suprema Corte infatti torna a ribadire il concetto per cui assume importanza essenziale, per l'individuazione dell'imposta da applicare ad una divisione, il rapporto tra quota di diritto e quota di fatto; solo nel caso in cui quest'ultima superi la pars iuris, la divisione, per l'eccedenza, perderà la sua natura dichiarativa, per divenire un negozio parzialmente traslativo, assoggettato alla relativa imposta di trasferimento.
Si trattava della ipotesi dell’assegnazione di un immobile indivisibile ad uno solo dei condividenti e obbligo di pagamento a carico di questi e a favore dell'altro condividente di una somma di danaro pari all'esatta metà del valore dell'immobile assegnato al primo.
L'Agenzia delle entrate aveva richiesto il pagamento di maggiori imposte di registro, ipotecaria e catastale calcolate ritenendo che in esecuzione della sentenza derivasse un vero e proprio trasferimento (quanto alla metà del valore del compendio immobiliare assegnato).
Ne nasceva un contenzioso con i contribuenti interessati e in secondo grado, innanzi alla CTR, veniva accolta la tesi dell'Ufficio.
Ma i Supremi giudici hanno sconfessato l'operato dei giudici dell'appello, ritenendo che la natura solo dichiarativa (e non traslativa) della divisione non è compromessa se a ciascun condividente risultino assegnati, di fatto, beni o valori corrispondenti alle quote di diritto spettanti sull'intera massa divisionale, e ciò – è da intendersi – anche qualora questo risultato finale sia conseguito attraverso percorsi diversi dalla mera divisone 'in natura' dei beni comuni, come ad esempio grazie a compensazioni in danaro, anche se estraneo alla massa divisionale.
In effetti se il concetto di 'conguaglio' (che, se eccede la quota di diritto, dà luogo a tassazione con i criteri propri del 'trasferimento' ai sensi dell'art. 34 del d.P.R. n. 131 del 1986) deve correttamente intendersi ai sensi dell'art. 728 c.c. come lo strumento diretto a compensare l' «ineguaglianza in natura delle quote» attraverso un equivalente in danaro, nella fattispecie esaminata dai giudici di legittimità non si configurava alcun conguaglio in senso tecnico, in quanto la compensazione imposta all'assegnatario dell'immobile indivisibile (e per esso poi ai suoi eredi, al medesimo subentrati) consentiva di attribuire all'altro condividente non assegnatario una somma di danaro esattamente corrispondente alla sua quota di diritto. Né si potevano ritenere assegnati al primo condividente beni per un valore complessivo 'superiore' a quello a lui spettante sulla massa (circolare n. 18/E/2013), in considerazione del decremento patrimoniale conseguente all'adempimento dell'obbligo di compensazione in danaro.
Da quanto sopra resta così scalfito un principio che – se recepito dalla prassi dell’A.F. – potrebbe fortemente caratterizzare il procedimento di liquidazione delle imposte dovute in relazione a fattispecie divisorie e alle sue modalità, in base al quale le compensazioni in danaro, anche se estraneo alla massa divisionale, tra condividenti non comportano conguagli tassabili come 'trasferimenti' se non eccedono la quota di diritto.
Cass. dep. il 28 marzo 2018 n. 7604 – Divisione e masse plurime
È a tutti noto il disposto dell'ultimo comma art. 34 del TUR, per il quale «Agli effetti del presente articolo le comunioni tra i medesimi soggetti, che trovano origine in più titoli, sono considerate come una sola comunione se l'ultimo acquisto di quote deriva da successione a causa di morte».
Ed è altrettanto noto come l'A.F. con circolare n. 37 del 10 giugno 1986 ha sostenuto che l'artificiosa riunificazione delle masse plurime, con conseguente attenuazione del carico fiscale, di cui al ricordato comma, può verificarsi solo se ricorrono due condizioni, e cioè:
a) se la successione a causa di morte dalla quale deriva l'ultimo acquisto di quote riguardi tutti i condividenti e non soltanto alcuni di essi;
b) se gli acquisti precedenti derivanti sia da altre successioni, sia da compravendite, sia da donazioni, si riferiscano sempre a tutti i condividenti.
Orbene la dottrina si è da sempre affaticata nel chiarire che per 'medesimi soggetti' debbano intendersi i partecipanti all'atto di scioglimento della comunione, nel senso che vi debba essere identità tra coloro che figurano come 'attuali' comunisti e coloro che poi stipulano di fatto l'atto divisorio e non che l’acquisto di quote debba risultare effettuato da tutti gli stessi, stante la irrilevanza fiscale delle modifiche soggettive nella 'linea proprietaria'.
Ebbene questo concetto di identità soggettiva è entrato profondamente in crisi in forza di una recente sentenza della Cassazione pronunciata proprio in relazione ad una fattispecie ove era stata contestata dall’Agenzia delle entrate l’operatività del principio unificante di cui s’è detto.
Segnatamente l’Agenzia – a fronte di una divisione ereditaria in cui si era invocato l’esimente di cui al quarto comma art. 34 TUR – aveva, al contrario, notificato un avviso di liquidazione per il recupero di imposte suppletive di registro, ipotecaria e catastale di cospicuo importo, assumendo l’esistenza dei presupposti per l’applicazione delle più gravose imposte per i trasferimenti. A fronte della rinuncia all’eredità perfezionata da uno dei chiamati all’eredità (coniuge del defunto, autore della successione, e contitolare della residua quota sugli stessi beni, acquistati a suo tempo in forza di quattro distinti atti tra vivi), i figli, chiamati anche per effetto della rinuncia, unitamente alla loro genitrice condividente, – a giudizio dell’A.F. – avrebbero sciolto più comunioni, originate presuntivamente da più titoli: quella nascente dall’apertura della successione e quella originatasi per effetto della rinuncia stessa.
Nei primi due gradi, i contribuenti rimanevano soccombenti: da qui il giudizio innanzi alla Suprema corte, che ha ritenuto infondata l’obiezione sollevata dai giudici di appello circa l’esistenza di più comunioni nascenti da più titoli. La rinuncia operata dal coniuge - hanno osservato i giudici - non costituisce titolo di provenienza, determinando solo una variazione delle entità delle quote originariamente ereditate (richiamando Cassazione 27075/14).
Del resto l’amministrazione finanziaria stessa, nella circolare 18/E del 29 maggio 2013, già aveva affermato il principio per cui «non costituiscono autonomo titolo gli acquisti di quote ideali degli stessi beni della massa divisionale».
Ciò che mette conto rilevare in questa sede, è che la fattispecie esaminata dalla Suprema Corte riguardava una comunione scaturente da ben quattro titoli di acquisto di compravendita, a suo tempo operato dagli originari proprietari (il ‘de cuius’ e il coniuge rinunciante), e dalla successione a causa di morte, ultimo fatto acquisitivo di quote. Evidentemente, è stata ritenuta indubbia dalla Suprema corte l’operatività del fattore unificante delle diverse comunioni (originate dai diversi titoli) di cui all’ articolo 34 comma 4 d.P.R. n. 131 del 1986, e cioè il detto ultimo acquisto di quote dei beni della massa divisionale per successione a causa di morte, né ha costituito un impedimento all’operatività di questo fattore la circostanza che tale acquisto di quote non fosse stato operato da tutti i condividenti, ma solo da alcuni di essi.
Anzi, con valenza ancora più pregnante, i giudici hanno rilevato che nel caso in esame non si profilava il fenomeno delle masse plurime, pur integrando l’ultimo acquisto di quote non già una successione a causa di morte, bensì un atto – dai medesimi giudici – qualificato «tra vivi» (appunto la rinuncia all’eredità).
Insomma, in forza del recente arresto della Suprema Corte, è venuto sempre più evidenziandosi che ciò che conta è il rapporto tra titolo e massa dei beni, e non tra titolo e soggetti comproprietari. È siffatto rapporto che rileva a fini impositivi, consentendo di rendere efficace ed operativa la riunificazione delle diverse comunioni, prescindendo dai fatti e/o atti traslativi afferenti ai soggetti del negozio divisorio e alle modalità acquisitive dei diritti sui beni comuni.
Cass. Ord. N. 24948 del 10 ottobre 2018. Cessione di cubatura
Con l'ordinanza n. 24948 del 10 ottobre 2018 ritorna di nuovo alla ribalta la problematica del trattamento fiscale della cessione di cubatura. La Suprema Corte significativamente in tale ordinanza, dopo aver affermato che il trasferimento di cubatura tra proprietari di lotti finitimi ha un'efficacia soltanto obbligatoria attesta che, sul piano pubblicistico, ciò che rileva è unicamente la rinuncia all'utilizzazione della volumetria che il cedente, aderendo al progetto edilizio presentato dal cessionario, abbia manifestato al Comune e che a determinare il trasferimento di cubatura tra le parti e nei confronti dei terzi è solo il provvedimento concessorio, discrezionale e non vincolato, emanato, a seguito della rinuncia, dall'ente pubblico in favore del cessionario. Dal che – essa Corte precisa – si può desumere che la cessione della cubatura non comporti nemmeno la costituzione di un diritto di servitù di non edificare a carico del fondo di proprietà dell'alienante, derivandone tra le parti contrattuali effetti – ripetesi – solamente obbligatori.
Affermazioni indubbiamente di non poco conto, non solo perché i contratti «che costituiscono, trasferiscono o modificano i diritti edificatori comunque denominati» nell’impianto normativo civilistico (di cui all'art. 2643 n. 2-bis) Codice civile) figurano tra gli atti soggetti a trascrizione immobiliare, ma anche perché, sul piano fiscale, la loro qualificazione in termini di mera rilevanza obbligatoria ne dovrebbe comportare una tassazione diversa rispetto a quella stabilita per gli atti traslativi, con aliquota più moderata (3% anziché 9%, ai sensi della tariffa parte prima allegata al d.P.R. n. 131 del 1986).
Di recente nella risoluzione 80/E del 24 ottobre 2018, formulata quindi appena qualche giorno dopo la pronuncia dell’ordinanza 24948, l’Agenzia delle entrate ribadiva la necessità di applicazione dell’aliquota più elevata, in ragione della natura traslativa e non meramente obbligatoria di un atto di cessione di volumetria, richiamando altra sentenza della Cassazione (n. 10979/2007) secondo cui la cessione di cubatura, in quanto facoltà inerente al diritto di proprietà, è assimilabile al trasferimento di un diritto reale immobiliare (in tal senso anche Risoluzione 20 agosto 2009, n. 233).
La verità, forse, risiede nel fatto che, da un lato, la collocazione topografica di una norma (articolo 2643 n. 2-bis del codice civile) non determina necessariamente la qualificazione in termini giuridici della fattispecie dalla medesima normata (altro essendo la necessità di una pubblicità della fattispecie attraverso l’utilizzo dei registri immobiliari con valenza anche nei confronti dei terzi, e altro ancora la natura giuridica della fattispecie in tal modo resa pubblica) e dall’altro che la qualificazione dei diritti edificatori, quali situazioni giuridiche attive in qualche modo afferenti al diritto di proprietà, a fronte delle diverse opinioni espresse da autorevole dottrina (che talora li ha qualificati quali «beni immateriali di origine immobiliare», o addirittura li ha associati a meri interessi legittimi «pretensivi» o ad una mera «chance edificatoria») è questione, non solo teorica, ben lungi dall’essere definitivamente archiviata e concordemente risolta.
Non sarebbe allora fuori luogo anche una rivisitazione al ribasso dei criteri di tassazione delle fattispecie recanti la negoziazione di quei diritti, appunto a fronte dell’incertezza della loro effettiva natura giuridica e in conformità con il più consolidato orientamento della Corte, così come di recente ribadito dalla ordinanza 24948.
[1] Per cui «un atto in parte oneroso e in parte gratuito è soggetto all'imposta di registro per la parte a titolo oneroso, salva l'applicazione dell'imposta sulle donazioni per la parte a titolo gratuito».
[2] Contra, isolatamente, Cass. n. 6099/2016 per cui è dovuta l'imposta di registro nella misura fissa anche per le donazioni non assoggettate alla relativa imposta a motivo della operatività di una qualche franchigia, e ciò per il “servizio” di registrazione dell'atto donativo comunque espletato dall'amministrazione.
[3] Ris. n.250249 del 12 maggio 1987 in Banca dati Fisconline per cui «in base alla normativa vigente (art. 34 del d.P.R. 1986, n. 131), nelle comunioni ereditarie la massa comune da dividere va determinata secondo gli stessi criteri seguiti per l'individuazione del valore imponibile dell'asse ereditario ai fini dell'imposta sulle successioni, astraendo cioè dalla collazione disciplinata dal codice civile [...] le quote di diritto verranno calcolate solo sulla base del valore dell'asse ereditario netto, talché la rilevante sproporzione con le quote di fatto assegnate darà luogo, ai sensi dell'art. 34, ad imposta proporzionale di trasferimento».