Giuffré Editore

Sul regolamento di condominio

Enrico Del Prato

Ordinario di Diritto civile, "Sapienza" Università di Roma


L’individuazione di una “categoria”: il regolamento privato 

Trentacinque anni fa dedicai una riflessione ai regolamenti di condominio in un contesto più ampio, quello dei regolamenti privati, interrogandomi se vi fossero regole destinate a soggiacere ad un regime diverso da quello proprio del contratto.

I regolamenti privati costituiscono atti di autonomia privata autoritativa. Questi si esplicano in singoli provvedimenti quando hanno contenuto specifico e destinato ad esaurirsi in una vicenda, oppure hanno carattere generale se, pur restando esercizio di autonomia privata, sono concepiti per avere una valenza normativa. 

Da qui l’interrogativo se si potesse costruire una categoria di atto autoritativo generale – dunque, regolamento – ripercorrendo i regolamenti nella comproprietà, gli statuti negli enti associativi e il regolamento d’impresa. 

Naturalmente, per poter parlare di “categoria” è necessario ricostruire e individuare un preciso istituto caratterizzato da uniformità di struttura e disciplina. Sicché l’interrogativo era volto a ricercare se vi fossero note comuni nelle figure prese in considerazione. 

La conclusione fu positiva. Ravvisai, infatti, nella idoneità a vincolare anche in assenza di consenso il carattere di un atto regolamentare in quanto autoritativo. Il che significa che il regolamento vincola senza il consenso di chi vi soggiace. Ne consegue che, quando esiste, il consenso non impronta la regolamentazione in termini contrattuali, tali da rendere necessario il consenso di tutte le parti per sciogliere il rapporto o per modificarlo, ma è sostanzialmente irrilevante. 

Le ricadute applicative di una simile ricostruzione, comune al regolamento condominiale, agli statuti associativi e al regolamento di impresa, si rinvengono anzitutto sul piano della patologia. I regolamenti privati possono adottarsi solo in ipotesi tipiche, legate a determinate materie: nel caso del regolamento condominiale, le materie sono quelle disciplinate dall’art. 1138 c.c. Pertanto, la regola che disciplinasse materie esorbitanti da quelle tipiche sarebbe inidonea allo scopo, e dunque inefficace. 

La seconda ricaduta si coglie sul piano ermeneutico. Se la regola vincola a prescindere dal consenso, nell’interpretarla non occorrerà far leva sulla ricerca della comune intenzione dei contraenti (art. 1362 c.c.), ma si dovrà privilegiare l’interpretazione letterale. 

Un altro carattere si rinviene nelle premesse del ragionamento. Considerata la tendenza – supportata anche da dati normativi – ad omologare al regime del contratto gli atti di autonomia privata unilaterali (art. 1324 c.c.), nonché gli atti collettivi come le deliberazioni assembleari, occorre chiedersi se vi sia, nella disciplina del contratto, una regola che istituisce una vincolatività a prescindere dal consenso. 

Esiste una norma poco studiata nell’epoca gloriosa delle condizioni generali di contratto che sembra fornire risposte positive a tale quesito. Infatti, benché si sia rivolta l’attenzione per lo più al secondo comma dell’art. 1341 c.c., ben più incisiva – se non addirittura eversiva – si rivela la disposizione formulata nel primo comma, ai sensi della quale le condizioni generali di contratto vincolano l’aderente «se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza». Qui si scalfisce il primo requisito del contratto, cioè l’accordo: basta la conoscenza o la conoscibilità della regola perché questa possa dirsi vincolante. 

Il pendant della vincolatività senza consenso è che il soggetto vincolato sia posto nella condizione di conoscere la clausola e che, nel dubbio, essa si interpreti contra stipulatorem (art. 1370 c.c.). 

Queste disposizioni, sebbene dettate per il contratto, esprimono un principio che opera per tutti i precetti regolamentari. 


Il regolamento di condominio 

Con questa premessa vengo al regolamento di condominio, il quale appartiene al genus del regolamento della comunione (art. 1106 c.c.), dal quale si differenzia per una disciplina ben più analitica, quanto alla formazione e al contenuto. 

Tradizionalmente, il regolamento condominiale si annovera in diversi modelli. Da qui l’esigenza di stabilire se sia dato individuare una figura caratterizzata da omogeneità di struttura e di funzione: l’esito positivo dell’indagine porta alla conclusione che il plurale -regolamenti di condominio- è inappropriato. 

Il regolamento è uno, anche se, nella prassi, lo si suole distinguere in assembleare, cioè adottato dall’assemblea, e contrattuale, predisposto o preventivo, il quale, confezionato dal costruttore dell’edificio, viene accettato dagli acquirenti delle unità immobiliari al momento del loro acquisto. Tuttavia, non è il consenso eventualmente prestato a dare l’impronta alla regola: pertanto, il regolamento predisposto dal costruttore e accettato con la compravendita dai singoli acquirenti non diviene contrattuale per il solo fatto dell’accettazione. Il regolamento, infatti, può dirsi contrattuale solo quando disciplina materie che esulano dalla legittimazione assembleare delineata dall’art. 1138 c.c., e cioè non propriamente regolamentari. La nota caratterizzante il regolamento è legata al contenuto e non al modo in cui il regolamento viene adottato. 

Il contenuto regolamentare è individuato all’art. 1138 c.c., il quale va letto attraverso il filtro dell’esperienza concreta, nonché dell’analisi giurisprudenziale, a volte ondivaga. Ad esempio, difetta una visione univoca e uniforme sul decoro dell’edificio o sulle modalità di uso delle cose comuni. 

Certamente rileva che l’art. 1138 c.c., nell’individuare il contenuto del precetto regolamentare, attribuisce all’assemblea il potere di adottare il regolamento così come di modificarlo secondo la regola della maggioranza, la quale, nel condominio, si deve formare attraverso un procedimento collegiale. 

In altri termini, la vigenza della regola è retta da norme diverse: il contratto ha una portata ben più pregnante. In tutte le collettività il principio maggioritario è la regola che meglio contempera le esigenze del singolo con quelle degli altri. Il rigore delle regole contrattuali, che si traduce nell’esigenza del consenso di tutti i contraenti per modificare le precedenti disposizioni pattizie, conduce al potere di veto: quindi ad un’autorità più diffusa ed incisiva della maggioranza. 

Ovviamente la dicotomia tra contratto e atto regolamentare conduce a negare in ogni caso natura contrattuale alla delibera adottata all’unanimità anziché a maggioranza.

L’unanimità rappresenta, infatti, solo un modo di essere della delibera assembleare, né può dirsi sussistente una equivalenza tra nozione di unanimità e di contratto. L’approvazione all’unanimità della delibera, quindi, non toglie che una successiva assemblea possa modificare anche a maggioranza la regola unanimemente approvata, diversamente da quella propriamente contrattuale, la quale richiede pur sempre l’osservanza del consenso di tutte le parti. 


La contrattualizzazione delle materie regolamentari di cui all’art. 1138 c.c. 

Dobbiamo ora chiederci se i condomini possano contrattualizzare ciò che naturalmente è materia regolamentare, cioè rendere immodificabili alcune disposizioni senza il consenso di tutti, cristallizzandole e istituendo un potere di veto.

Il tema si discosta da quello tradizionalmente trattato dalla giurisprudenza in materia, la quale si è pronunciata costantemente su materie che esulano da quelle previste art. 1138 c.c., perciò affermando la natura contrattuale del “regolamento”.

Tuttavia, non possiamo per ciò solo escludere che i condomini possano contrattualizzare anche le materie regolamentari se abbiano un interesse specifico a conformare in tal modo il godimento delle cose comuni. È chiaro, però, che, a questo scopo, serve un contratto tra i condomini che renda definitivamente vincolante tra loro tali regole. Contratto che è in sé privo della inerenza alla cosa, cioè di quella nota di realità che invece connota il regolamento di condominio, il quale, in quanto tipico, si pone alla stregua di un’obbligazione propter rem

Il vincolo all’osservanza del regolamento, infatti, nasce dalla legge: lo dice espressamente, in materia di comunione, l’art. 1107, comma 2, c.c. secondo cui esso «ha effetto anche per gli eredi e gli aventi causa dai singoli partecipanti». 

Diversamente la regola contrattuale non può essere opponibile agli aventi causa a titolo particolare, tranne il caso in cui il contratto intenda costituire servitù prediali reciproche, dove i rispettivi fondi, al contempo serventi e dominanti, sono le singole unità abitative. E poiché l’assolutezza dei diritti reali resta in potenza in assenza di pubblicità, ai fini dell’opponibilità delle servitù reciproche, e, dunque, dell’inerenza di queste ultime alla cosa, dovranno osservarsi le disposizioni in materia di trascrizione.

Il criterio per valutare l’ammissibilità di contrattualizzare ciò che è naturalmente regolamentare non può essere attinto dall’art. 1138, comma 4, c.c., che sancisce l’inderogabilità di alcune norme sul condominio da parte delle «norme del regolamento», oltre a prevedere che esse «non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni». Qui, infatti, viene in rilievo esclusivamente un limite della potestà assembleare.

Il criterio va, dunque, attinto dalla meritevolezza degli interessi che si intendono perseguire con la cristallizzazione di una regola che dovrebbe essere maggioritaria. La storia dell’art. 1322 c.c. mostra che la giurisprudenza dell’ultimo trentennio non ha applicato il vaglio di meritevolezza ai contratti atipici – soprattutto per la difficoltà di riscontrarne, data l’ampiezza dei tipi contemplati dal codice civile –, ma lo ha piuttosto impiegato per stabilire se una clausola anomala in un contratto tipico sia ammissibile, e dunque se essa possa condurre alla nullità parziale, alla nullità totale o alla atipicità del contratto: è il caso del vaglio di meritevolezza che, proprio in questa logica, ha coinvolto la clausola claims made nei contratti di assicurazione. 

Questo criterio deve essere richiamato anche quando i condomini intendono cristallizzare – con una convenzione – regole che sarebbero normalmente adottabili o modificabili dalla maggioranza. 


L’adozione delle tabelle millesimali 

Un tema molto dibattuto in passato con riguardo al contenuto del regolamento condominiale è dato dall’approvazione delle tabelle millesimali. 

Siccome la tabella millesimale è il presupposto per stabilire le maggioranze, costitutiva e deliberativa, essa deve precedere l’attività assembleare. 

Si riteneva, inoltre, che in quanto inerente alla misura delle spese, essa dovesse essere contrattuale (non infrequente era il richiamo all’approvazione all’unanimità, sebbene quest’ultima, come dicevo, sia un modo di essere di una deliberazione: emblematico è il riferimento all’unanimità inserito nell’art. 69, comma 1, disp. att. c.c. dalla l. 11 dicembre 2012, n. 220 ai fini della modificazione della tabella), con una serie di effetti non secondari: l’impugnazione della tabella millesimale doveva avere come destinatari tutti i condomini, non l’amministratore di condominio. 

Ho ritenuto, in quel lavoro che richiamavo all’inizio, che la tabella millesimale, quale è regolata dal codice, sia un atto meramente ricognitivo, la “fotografia” in numeri delle proporzioni tra piano e porzioni di piano sia pure con aggiustamenti tratti da regole che la prassi applica, come quelle sull’esposizione e sul piano. Ne discendeva la possibilità di adozione in sede assembleare. In questo senso si è espressa Cass. SS.UU. 9.8.2010, n. 18477, come, del resto, è confermato dai dati normativi (la ripartizione delle spese è materia regolamentare: art. 1138, comma 1, c.c., e art. 68 ss. disp att. c.c.).

L’approvazione della tabella millesimale non ha una portata innovativa, bensì esclusivamente ricognitiva della situazione: essa considera il rapporto tra unità abitative ed edificio integrandolo con criteri scaturiti dalla prassi. Pertanto, la circostanza che la tabella sia stata accettata, spesso unitamente al regolamento, al di fuori del procedimento assembleare e contestualmente all’acquisto di una porzione esclusiva dell’edificio non è sufficiente a renderla convenzionale. 

Ho richiamato prima il riferimento all’unanimità inserito nell’art. 69, comma 1, disp. att. c.c. dalla riforma del condominio del 2012 per la modifica o la rettifica della tabella in assenza di errori. La soluzione è, come accennavo, emblematica. Essa vuol dire che la modifica della tabella a prescindere da un errore non è convenzionale, ma sempre assembleare con l’esigenza di unanimità. Ne segue che, diversamente dalla tabella contrattuale, essa potrà essere sempre rettificata o modificata in caso di errore.

L’interesse suscitato dalla tabella millesimale si coglie sotto due profili. 

Il primo è legato alla patologia, che costituisce il miglior modo per comprendere la fisionomia di un determinato atto. L’art. 69, comma 1, disp. att. c.c. prevede che i valori della tabella «possono essere rettificati o modificati, anche nell’interesse di un solo condomino, con la maggioranza prevista dall’articolo 1136, secondo comma, del codice», quando – tra le altre ipotesi – risulti che sono conseguenza di un errore. Si tratta di un errore diverso da quello contemplato dalla disciplina del contratto, dunque dalla falsa rappresentazione della realtà che induce a contrarre (art. 1428 ss. c.c.). L’errore che consente la rettifica o la modifica dei millesimi rivela la funzione della tabella e dell’atto che la approva, è cioè un errore nell’attività determinativa che si pone sullo stesso piano dell’errore dell’arbitratore in caso di arbitraggio secondo arbitrium boni viri, ove l’errore non determina la volizione, bensì incide sulla determinazione nella valutazione dell’autoregolamento. 

La seconda questione riguarda la libertà delle parti di contrattualizzare la tabella millesimale: i condomini possono avvalersi delle regole previste dalla legge, ma possono anche superarle nell’esercizio della loro autonomia, col vaglio dell’art. 1322 c.c. 

Si tratta di un contratto conformativo del modo di essere delle spese, che non rispecchia la tabella millesimale tipica, ma intende doppiarla con un modello convenzionale, sottratto alla regola della rettificabilità in caso di errore. Infatti, questa regola si spiega in funzione della natura ricognitiva della tipica tabella millesimale. Invece, adottandola convenzionalmente, i condomini vogliono superare il rischio di errore accollandoselo. Dunque, l’errore, in questa ipotesi, non rileva. 


L’applicazione dell’art. 1341 c.c. al regolamento predisposto dal costruttore di unità abitative 

Ho richiamato prima l’art. 1341 c.c. Ci si è chiesti se possa trovare applicazione al regolamento predisposto nel caso in cui il costruttore venda unità abitative ai singoli acquirenti, i quali accettano il regolamento condominiale. 

Fermo restando che il regolamento condominiale vincola a prescindere dall’accettazione, viene in rilievo, come ho ricordato in apertura, l’applicazione dell’art. 1341, comma 1, c.c. ove la conoscibilità è sufficiente a vincolare. 

La questione, tuttavia, non si pone per il primo comma, bensì rispetto al secondo, dove la regola del consenso non solo è ripristinata ma è resa formale, con la conseguente inefficacia delle clausole cosiddette vessatorie non esplicitamente approvate per iscritto. 

Il regolamento condominiale può contenere, ad esempio, una clausola compromissoria tecnicamente rituale o irrituale, o prevedere un procedimento di giustizia interna, di definizione endocondominiale delle questioni tale da sfociare in una decisione che non ha la stessa valenza di un lodo rituale o irrituale, ma che a sua volta può essere impugnata come atto che definisce la controversia, alla stregua di quel che avviene nelle associazioni. 

Tuttavia, il regolamento predisposto non si risolve in condizioni generali di contratto, idonee a regolare il contenuto contrattuale che viene concluso: il compratore e il venditore stipulano, infatti, un contratto di compravendita, dal quale esula il regolamento “accettato” dall’acquirente. 

Diversamente dagli statuti associativi, i quali, a mio avviso, soggiacciono all’art. 1341, comma 2, c.c., con la conseguenza che le clausole compromissorie devono essere specificatamente approvate per iscritto, il regolamento condominiale detta la disciplina del rapporto condominiale, non venendo in rilievo la necessità di una approvazione per iscritto perché non inerisce al contratto di acquisto di un’unità immobiliare, ma riguarda appunto il rapporto condominiale. 

Tuttavia, la clausola compromissoria, pur non dovendo essere specificamente approvata per iscritto, necessita dell’accettazione, perché attiene alla materia contrattuale. Se si tratta di una clausola che rinvia ad una decisione endoassociativa, come quella di un collegio dei probiviri o di un altro organo condominiale, essa non menoma la facoltà di far valere i diritti in giudizio, e, dunque, può essere regolamentare, cioè adottabile a maggioranza. 

L’art. 1138, comma 4, c.c. prevede anche delle norme inderogabili, quali gli artt. 1118, comma 2, 1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136 e 1137 c.c. Tuttavia, si ritiene che tali disposizioni, benché, come detto, inderogabili, costituiscano un limite solo per i regolamenti assembleari, non anche per quelli contrattuali. 

La novità della riforma del condominio si rinviene nell’ultimo comma ove si dispone che «Le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici». È chiaro che qui nulla impedisce alle parti, ai condomini, di contrattualizzare una regola diversa con l’accordo di tutti perché si tratta di un divieto che si riferisce al regolamento; peraltro a prescindere dall’esigenza di comprendere cosa si intenda per animale domestico, anche se, secondo il comune apprezzamento e con un po’ di ragionevolezza, per animali domestici dovrebbero intendersi gli animali di compagnia. 

Questa deroga può essere resa inerente alla cosa? A tal fine bisognerebbe costituire una servitù reciproca. Ma vi è d’ostacolo che appare arduo ravvisare un vantaggio a favore del fondo dominante mentre il peso imposto riguarda piuttosto la persona del proprietario del fondo servente, la quale non potrà avere animali. Da ciò discende una servitù irregolare: pur vincolante tra i condomini che l’hanno creata, essa non sarà opponibile ai loro aventi causa a titolo particolare.


Le strutture associative con “carattere di realità”

Nei fenomeni supercondominiali (art. 1117-bis c.c.) e, più ampiamente, nelle aree di coesistenza di interessi tra proprietari, rilevano le strutture associative costituite a latere della situazione condominiale (e anche a prescindere da questa) con la funzione di regolamentare meglio le attività dei partecipanti al condominio, anche con lo scopo di dettare una auto-disciplina urbanistica volta a conservare l’ambiente circostante e l’uniformità dei materiali impiegati per costruire le case: ad esempio, si prevede che qualsiasi innovazione dovrà essere approvata da un comitato di architetti o da un’associazione a latere della compagine proprietaria. 

Si tratta dei cosiddetti consorzi tra proprietari, che raggruppano i proprietari di aree in una determinata zona per regolare – secondo un modello privatistico – determinate attività, tra cui quella urbanistica. Ovvio che queste regole hanno efficienza se sono opponibili agli aventi causa a titolo particolare, altrimenti una loro violazione potrebbe dar luogo solo ad una tutela risarcitoria e a null’altro. 

Lo strumento giuridico da adoperare per questo scopo rimane sempre quello preziosissimo delle servitù prediali reciproche, il cui titolo costitutivo, contrattuale, preveda, come prestazione accessoria (art. 1030 c.c.), l’adesione all’associazione e l’assoggettamento alle sue determinazioni. Con la trascrizione dei rispettivi contratti costitutivi, le servitù prediali divengono così opponibili anche ai terzi aventi causa a titolo particolare dai costituenti le servitù stesse, a prescindere dalla relativa menzione nei singoli atti di acquisto. E con la servitù prediale diviene automatica l’adesione all’associazione, in quanto inerente al fondo, alla stregua di una obbligazione propter rem ai sensi dell’art. 1030 c.c. In proposito si è parlato di «associazioni con carattere di realità» (Trib. Roma, 29 settembre 2010). 

Qui l’interesse è proprio alle cose nella loro materialità e dunque si configura un peso, da una parte, e un vantaggio, dall’altra. 


Il regolamento delegato 

Lasciando da parte l’art. 1138 c.c. con le materie tipiche, una ulteriore possibilità che i condomini hanno di plasmare in via autoritativa una decisione che potrebbe essere assunta solo contrattualmente consiste, appunto, nella possibilità di costituire servitù prediali reciproche, ove l’individuazione dei criteri per concretizzare il peso che si è voluto costituire può essere demandata anche ad un terzo: è proprio il caso dell’associazione a latere

Qui l’atto autoritativo non è più atto tipico, ma delegato. In esso gli interessati demandano la deliberazione da adottare ad un terzo, il quale può decidere per loro come disciplinare il godimento delle cose anche esclusive (se fossero comuni non servirebbe perché saremmo nell’area del regolamento tipico). 

Figura di riferimento in questi casi è l’arbitraggio (art. 1349 c.c.), con la conseguente applicazione, in particolare, della regola secondo cui, in difetto di previsione diversa, l’arbitratore si deve pronunciare secondo equo apprezzamento, e la sua determinazione è viziata se manifestamente iniqua o erronea. 

Qualche dubbio sorge nel distinguere l’equo apprezzamento dal mero arbitrio. In realtà, il contenuto della determinazione dell’arbitratore non è diverso in un caso e nell’altro: nell’attribuire un potere al terzo, nessuno gli conferisce la facoltà di esercitarlo arbitrariamente. Ci si affida al terzo perché decida in luogo degli interessati: la differenza tra equo apprezzamento e mero arbitro risiede nella patologia. Nel primo caso, la determinazione può esser fatta dal giudice se le parti non si accordano; nel secondo, invece, in mancanza di accordo, il contratto è nullo. Questa considerazione induce a ritenere che, in realtà, il mero arbitrio consiste nella infungibilità che le parti hanno attribuito alla decisione del terzo. 

Problema più delicato si pone quando il potere delegato non è rivolto ad un terzo – comitato o associazione –, ma alla stessa assemblea, che opera come arbitratore, ma raccoglie, al contempo, le parti del rapporto. Si ricade, dunque, nell’arbitraggio della parte. Figura, quest’ultima, che ampia parte della dottrina non ritiene configurabile e che, altri, invece, hanno ritenuto trovare supporto nel § 315 BGB, comunque nei limiti dell’arbitraggio di equo apprezzamento. 

In realtà tale articolo, più che all’arbitraggio, allude a quei contratti che sono naturalmente nell’interesse di una parte, la quale ha facoltà di modificare la prestazione di un’altra. 

Una pronuncia recente riguarda un caso emerso nella prassi: quando il costruttore delle singole unità immobiliari si fa rilasciare un mandato irrevocabile dagli acquirenti allo scopo di correggere eventuali errori nella tabella millesimale o di soddisfare l’esigenza di un migliore uso delle cose comuni. La Suprema Corte (Cass. 12 gennaio 2022, n. 791) ha statuito che sono inefficaci le modifiche apportate dal costruttore se non approvate dall’assemblea del condominio secondo l’art. 69 disp. att. c.c.: il mandato irrevocabile è inefficace, dunque nullo, per incompatibilità con l’assetto di interessi che la legge prevede per il condominio.