Giuffré Editore

Tassazione del riconoscimento di debito e degli atti che contengono più disposizioni: analisi di recenti pronunce giurisprudenziali

Annarita Lomonaco

Ufficio Studi Consiglio Nazionale del Notariato


1. Premessa

L’ordinanza della Cassazione n. 33313 dell’11 novembre 2021, che ha rimesso al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite la questione relativa alla tassazione, agli effetti dell’imposta di registro, del riconoscimento di debito (oltre a quella relativa alla nozione di caso d’uso ai sensi dell’art. 6 d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131), offre lo spunto non solo per tornare su un tema controverso[[1]], ma anche per affrontarlo sotto il profilo degli “atti plurimi” e quindi dell’art. 21 d.P.R. n. 131 del 1986, tenuto conto degli orientamenti della prassi dell’amministrazione finanziaria sulla rilevanza del riconoscimento di debito quale disposizione connessa ad altri negozi.


2. La tassazione del riconoscimento di debito

L’ordinanza n. 33313 cit. richiede l’intervento delle sezioni unite per la «estrema rilevanza giuridica e le diffuse conseguenze che la soluzione scelta produrrebbe sul piano pratico, nonché l’ampio dibattito in dottrina».

Le tesi espresse anche dai differenti orientamenti giurisprudenziali – a dire il vero non sempre chiari e argomentati – ricordate nell’ordinanza sono sintetizzabili in:

– una prima posizione che attribuisce al riconoscimento di debito un contenuto patrimoniale il quale, in mancanza di specifiche disposizioni, deve essere tassato ai sensi dell’art. 9 della tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 con l’aliquota del tre per cento; 

– una seconda posizione che, invece, in ragione di una ritenuta natura “puramente dichiarativa”, lo considera soggetto all’aliquota dell’un per cento prevista dall’art. 3 della tariffa relativa agli atti dichiarativi; 

– una terza posizione (condivisa anche dagli studi della Commissione studi tributari citati) secondo la quale si tratta di una dichiarazione di scienza, improduttiva di nuovi fatti giuridici (poiché in base alle regole civilistiche dà solo evidenza alla situazione giuridica già in essere, non incerta e non innovata, cioè non originata, modificata o estinta[[2]]), la quale deve essere collocata – valorizzandone la funzione processuale costitutiva di un mezzo di prova dell’esistenza dell’obbligazione – fra gli atti non aventi contenuto patrimoniale soggetti all’imposta in misura fissa e all’obbligo di registrazione in termine fisso, ai sensi dell’art. 11 della tariffa, parte prima, cit., se nella forma dell’atto pubblico o scrittura privata autenticata, o in caso d’uso, ai sensi dell’art. 4 della tariffa, parte seconda, se nella forma della scrittura privata.

Posizione quest’ultima che rende di fatto irrilevante la considerazione per cui, qualora l’operazione sottostante oggetto della ricognizione di debito sia soggetta a Iva, l’atto sarebbe comunque imponibile in misura fissa per il principio di alternatività ai sensi dell’art. 40 d.P.R. n. 131 del 1986[[3]].

Accanto a queste tre posizioni, l’ordinanza ricorda alcuni orientamenti “intermedi”, che comunque concludono per l’applicabilità dell’un per cento, pur se poco chiari nelle argomentazioni in ordine alla natura della ricognizione di debito, soprattutto con riguardo al rilievo che sembrerebbero attribuire alla stessa sotto il profilo della distinzione fra la ricognizione titolata e pura[[4]].

Questi in sintesi gli estremi della questione che, allo stato, dimostra l’incertezza interpretativa con cui deve fare i conti chi deve valutare la misura dell’imposta applicabile e quindi, come sottolineato anche dall’ordinanza in esame, la questione è certamente di rilievo.

Tuttavia essa potrebbe interessare operativamente il notaio anche per la tendenza degli uffici dell’Agenzia delle entrate a individuare un riconoscimento di debito in fattispecie nelle quali la dichiarazione, o meglio la semplice menzione del debito preesistente, abbia altre finalità, cioè sia necessaria o funzionale rispetto alla produzione di altri effetti giuridici (come ad esempio rispetto all’adempimento di un’obbligazione mediante datio in solutum, all’estinzione dell’obbligazione con modi diversi dall’adempimento quali la compensazione, oppure alla costituzione o cancellazione di una garanzia accessoria) e a ricondurre e risolvere la questione della sua tassabilità alla luce delle regole in materia di “atti plurimi” ai sensi dell’art. 21 d.P.R. n. 131 del 1986.


3. La tassazione dell’atto contenente disposizioni plurime …

Note sono le numerose problematiche applicative che discendono dall’art. 21 cit., ma la questione di fondo resta l’individuazione degli atti che devono essere tassati secondo i principi desumibili dall’articolo menzionato.

Quando si affronta il tema, la prima considerazione, accolta pacificamente, è che il concetto di disposizione si identifica con il concetto di negozio giuridico, ossia di manifestazione di volontà capace di produrre effetti giuridici.

La circ. 18/E del 2013 dell’Agenzia delle entrate fa riferimento ad una «convenzione negoziale suscettibile di produrre effetti giuridici valutabili autonomamente in quanto in sé compiuta nei suoi riferimenti soggettivi, oggettivi e causali».

Altrettando consolidata è anche l’impostazione secondo la quale il primo comma dell’art. 21 è riservato ai negozi collegati, ossia distinti e autonomi negozi che sebbene si riannodino ad una fattispecie complessa pluricausale, della quale ciascuno realizza una parte, conservano la loro autonomia, cosicché esprimono un’autonoma capacità contributiva da assoggettare distintamente ad imposta[[5]]; mentre il secondo comma è riservato al negozio complesso, contrassegnato da un’unica causa nella quale si combinano elementi di tipi diversi[[6]]. E al riguardo la Corte di cassazione intende, più precisamente, la connessione legata alla «necessaria derivazione delle disposizioni, per loro intrinseca natura, le une dalle altre», di cui al comma 2 cit., quale vincolo di compenetrazione immediata e necessaria che non dipende dalla mera volontà delle parti, ma sia per legge o per esigenza obiettiva del negozio giuridico, connaturato come necessario giuridicamente e concettualmente alla convenzione stessa. Principi ripetuti in numerosissime sentenze e comunemente accolti anche dalla dottrina e dalla prassi amministrativa[[7]].

Ma poi se abbiamo riguardo alle applicazioni di questi principi non possiamo non rilevare alcune criticità legate all’individuazione dei negozi plurimi da tassare secondo le regole dell’art. 21.

Prima di tutto bisognerebbe avere presente che la suddetta individuazione va effettuata secondo i principi dell’art. 20 d.P.R. n. 131 del 1986, ossia in ragione degli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione (a prescindere da elementi extratestuali e da atti ad esso collegati), tipizzati nelle voci della tariffa allegata al testo unico[[8]].

Pertanto, se nell’interpretazione dell’atto ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, si deve avere riguardo agli effetti giuridici desumibili da esso, valutabili autonomamente anche in considerazione della riconducibilità ad una propria causa, non si può non considerare, ad esempio, che l’unicità del negozio può riscontrarsi anche nel caso di un’alienazione complessa soggettivamente e/o oggettivamente, in presenza cioè di una pluralità di venditori e/o acquirenti e di diritti e/o oggetti diversi, laddove dall’atto non emergano indici contrari alla volontà di trasferire l’intera proprietà congiuntamente per un unico prezzo, come nell’ipotesi di trasferimento della proprietà di un immobile acquistata da un soggetto per la nuda proprietà e da un altro per l’usufrutto[[9]]. 

Pertanto desta perplessità l’ordinanza della Cassazione n. 7154 del 15 marzo 2021[[10]] che esamina quest’ultima fattispecie esclusivamente sotto il profilo dell’art. 21 cit., escludendo la configurabilità di un negozio complesso, derivando la connessione dalla volontà delle parti, e quindi concludendo per l’applicazione del primo comma dell’art. 21.

Perplessità che discendono dalla considerazione che, così motivando, la Cassazione frammenta il trasferimento in ragione dei diversi diritti e della pluralità dei soggetti, riconoscendo un’autonomia causale a ciascun ‘frammento’, senza porsi un problema di individuazione del nesso sinallagmatico (unico) tra il trasferimento della proprietà e il corrispettivo, che porterebbe il negozio fuori dal perimetro dell’art. 21.

Inoltre, dovendo guardare agli effetti giuridici autonomamente valutabili, gli uffici finanziari non dovrebbero poter frammentare un negozio unico, individuando in mere clausole inserite negli atti notarili dei negozi autonomi e soggetti a tassazione, pur se in alcuni casi ammettendo la ricorrenza della derivazione necessaria.

Infatti, l’ “unità minima”[[11]] in cui deve scomporsi l’atto presentato alla registrazione non è la singola obbligazione, ma il contratto o l’atto previsto nella tariffa, quindi non dovrebbero assumere rilievo le clausole correlate all’unico negozio pur se accessorie, cioè non strettamente attinenti alla causa tipica dello stesso, in quanto esse si giustificano solo in quanto facenti parte del contratto e non essendo idonee a produrre autonomamente effetti giuridici riconducibili alla tariffa[[12]].

La prassi contraria che a volte si riscontra nella casistica sembra quasi un retaggio della vecchia concezione che nell’ambito dell’imposta di registro vedeva in ogni obbligazione una disposizione di cui si doveva dimostrare la necessaria connessione con altre documentate nello stesso atto, per evitare l’autonoma imposizione. Concezione da tempo superata[[13]].

È per questo, peraltro, che qualche perplessità potrebbe essere manifestata, ad avviso di chi scrive, anche di fronte alla riconducibilità nel secondo comma dell’art. 21 del contratto complesso (per quanto si tratta, come già ricordato, di un’interpretazione prevalente), trattandosi di un unico negozio[[14]], salvo comunque ragionare sulle regole di determinazione della base imponibile di cui all’art. 43 d.P.R. n. 131 del 1986.


4. … e il riconoscimento di debito

Ciò premesso e per tornare al tema iniziale di questa relazione – il riconoscimento di debito – in una risposta a interpello di qualche anno fa[[15]] l’Agenzia delle entrate ha ritenuto di ravvisare nell’indicazione del debito contenuta in un atto recante una datio in solutum un riconoscimento di debito quale disposizione negoziale che, essendo funzionale all’individuazione di un elemento necessario del contratto, e quindi causalmente collegato alla disposizione solutoria con la quale viene estinta l’obbligazione richiamata[[16]], comporta l’applicabilità dell’art. 21 secondo comma; con la conseguenza nel caso di specie, essendovi un trasferimento immobiliare, di applicare solo l’imposizione relativa a quest’ultimo, in quanto più onerosa. Questa conclusione merita più di una riflessione. Prima di tutto, va sottolineato che il comma 2 dell’art. 21, proprio perché dovrebbe essere fondato su una pluralità di negozi, non esprime un principio di totale irrilevanza della disposizione, per così dire, strumentale, ma implica un confronto fra l’imposizione applicabile a ciascuno dei negozi connessi, applicando la più onerosa. Per cui nella fattispecie della datio in solutum, se si ravvisasse in ogni caso un riconoscimento di debito, l’imposizione più onerosa potrebbe anche essere quella relativa a quest’ultimo, a seconda della tesi che dovesse prevalere in ordine alla misura dell’imposta dovuta per lo stesso (pensiamo al 3 per cento) o anche a seconda dell’oggetto della datio (pensiamo a un trasferimento di partecipazioni sociali, soggetto a imposta fissa). E discorso analogo potrebbe farsi con riguardo ad altre fattispecie che emergono nella prassi operativa, come il consenso alla cancellazione dell’iscrizione ipotecaria, o la compensazione, la quietanza. Ma, a prescindere dalla considerazione che perché sia configurabile una ricognizione di debito è necessaria una specifica intenzione ricognitiva, tale da escludere altre finalità, rivolta peraltro alla sopravvivenza e non all’estinzione del debito stesso, dovrebbe essere sufficiente la valutazione ai sensi dell’art. 20 T.U.R. dello schema causale della datio in solutum (art. 1197 c.c.) per comprendere che la menzione del debito non può avere una rilevanza negoziale autonoma (pur se connessa), essendo solo una dichiarazione necessaria per la produzione dell’effetto giuridico dell’adempimento dell’obbligazione mediante la datio (oppure, per riprendere gli altri esempi, per la cancellazione dell’iscrizione ipotecaria, ecc.). E, quindi, se è unico il negozio – la datio in solutum – non ha alcun senso il riferimento all’art. 21 comma 2, cit., e il confronto tra le imposizioni di più negozi per individuare la più onerosa. È unicamente la datio in solutum quale trasferimento a titolo oneroso a dover essere assoggettata a tassazione[[17]].


5. Altre fattispecie: disposizioni negoziali collegate o mere clausole del contratto?

Meno agevole è l’interpretazione quando siamo di fronte a contratti atipici, misti, e soprattutto a clausole che eccedono lo schema negoziale tipico, rispetto alle quali quella tendenza a frammentare il negozio si manifesta nella prassi con più frequenza. Basta ricordare, ad esempio, le contestazioni degli uffici dell’Agenzia delle entrate dirette a recuperare un’imposta fissa nei contratti di compravendita nei quali è pattuita la consegna differita dell’immobile, ritenuta qualificabile come comodato, da assoggettare autonomamente a imposizione, ai sensi dell’art. 21 comma 1, cit., in quanto non necessariamente connesso alla vendita.

Dovrebbe essere, invece, del tutto evidente che la pattuizione della consegna differita è semplicemente una clausola del contratto di vendita, diretta a regolare una delle obbligazioni del venditore, e quindi che nessun rilievo ha l’art. 21 cit.

Su questo tema, peraltro, l’Agenzia delle entrate è intervenuta con una risposta a interpello (n. 458 del 2019) ma non in modo “definitivo”, perché nel caso di specie, tenuto conto della formulazione della clausola, ha riconosciuto l’insussistenza del comodato, tuttavia ha precisato che comunque «occorre di volta in volta analizzare le clausole contrattuali per poter qualificare il titolo giuridico in base al quale il venditore continua a mantenere il possesso materiale dell’immobile compravenduto».

Si riscontrano nella prassi contestazioni relative alla ricorrenza di un comodato da tassare autonomamente (con applicazione dell’imposta di registro in misura fissa) anche nel caso di consegna anticipata del bene pattuita nel contratto preliminare; fattispecie rispetto alla quale, però, la conclusione impatta sull’ampio dibattito da tempo in corso sul tema del contratto preliminare a effetti anticipati, rinvenendosi anche nella dottrina e giurisprudenza civilistica[[18]] la tesi che riconosce alle anticipazioni natura di negozi autonomi, accanto però ad orientamenti volti invece a riconoscere ad esse la natura di elementi di un unico negozio atipico oppure di clausole atipiche, costituite dall’obbligazione accessoria, in ogni caso ascrivibili alla categoria dei contratti preliminari[[19]].

Altra vicenda controversa, che spesso è oggetto di contestazione sempre sotto il profilo dell’art. 21 cit., è quella relativa alla clausola penale apposta ad un contratto principale (quali, ad esempio, affitto di azienda, contratto di locazione, compravendita con consegna differita del bene)[[20]]. È una questione attualmente oggetto di numerose pronunce di merito. 

Alcune di esse[[21]] sono in linea con la posizione dell’Amministrazione finanziaria, pronunciandosi nel senso dell’autonoma tassabilità della clausola penale[[22]], intesa quale “disposizione” connessa per volontà delle parti, al fine di rafforzare il vincolo contrattuale principale, dotata di propria causa e propri effetti ulteriori rispetto al contratto e quindi con natura autonoma (dovendosi tuttavia applicare la regola del comma 2 dell’art. 21 laddove la clausola penale sia apposta per obbligo di legge).

Numerose pronunce, anche recenti, concludono invece per la non autonoma tassabilità della clausola penale apposta ad un contratto principale per rafforzare il vincolo[[23]], in quanto essa, per la sua natura accessoria, non potendo sussistere indipendentemente dall’obbligazione principale, non è espressione di una volontà negoziale «ulteriore e autosufficiente rispetto a quella manifestata con la stipula del contratto principale», ma ha lo scopo di «assicurare l'esatto, reciproco, tempestivo adempimento delle obbligazioni principali reciprocamente assunte».

Queste pronunce concludono, però, pur sempre facendo riferimento all’art. 21, seppure al secondo comma, dal quale deriva – come già evidenziato – non un principio di irrilevanza, ma di unitarietà della tassazione di plurime disposizioni, in base ad un confronto fra le relative imposizioni[[24]].

Diversamente, si potrebbe riflettere se sia possibile argomentare al di fuori dell’ambito applicativo dell’art. 21 cit., nel senso quindi dell’irrilevanza della pattuizione in esame in quanto “segmento” di un unico negozio, ossia ‘mera’ clausola accessoria del contratto a cui si riferisce[[25]].

La questione, però, allo stato continua ad essere di incerta soluzione (anche sotto il profilo civilistico), e forse dopo le numerose pronunce di merito bisognerà attendere un intervento della Cassazione.


NOTE:

[1] Cfr. G. MONTELEONE, Registro-Ricognizione di debito, studio n. 361-bis del 24 maggio 1996; P. PURI, Evoluzioni giurisprudenziali in tema di tassazione ai fini del registro del riconoscimento del debito, studio n. 118-2018/T.

[2] Come ricorda l’ordinanza in esame, secondo questo orientamento giurisprudenziale, la ricognizione di debito differisce sia dagli atti o negozi dichiarativi, in quanto questi ultimi, per effetto della riconfigurazione operata, modificano la situazione giuridica preesistente, senza il prodursi di effetti reali o obbligatori; sia dai negozi accertativi, che hanno per oggetto una situazione incerta che viene chiarita e sostituita in maniera vincolante e preclusiva da una situazione certa.

[3] Cass. n. 33313 cit.

[4] Si noti, peraltro, che in ogni caso, a prescindere dalla tesi accolta, la ricognizione titolata, che richiama cioè il titolo costitutivo dell’obbligazione, potrebbe comportare una tassazione per enunciazione del titolo stesso, laddove non precedentemente registrato, ma evidentemente nei limiti indicati dall’art. 22 d.P.R. n. 131 del 1986, con particolare riguardo all’identità delle parti, oltre all’identificazione di tutti gli elementi essenziali del negozio enunciato. Cfr. studio 361-bis citato.

[5] Secondo l’Agenzia delle entrate le singole disposizioni contenute nell’atto rilevano autonomamente, ai sensi dell’art. 21, comma 1, cit., solo qualora ciascuna di esse sia espressione di una autonoma capacità contributiva, per cui l’imposta di registro deve essere applicata distintamente solo con riferimento alle disposizioni negoziali dotate di contenuto economico che concretizzano, quindi, un indice di capacità contributiva), non applicandosi invece a quelle non aventi ad oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale (cfr. circ. n. 18/E cit.).

[6] V. ROPPO, Il contratto, in G. IUDICA – P. ZATTI (a cura di), Tratt. dir. priv., Milano, 2001, 427, definisce il contratto misto (o complesso) quale contratto unico, con un’unica e inscindibile causa, in cui figurano e si combinano elementi di tipi contrattuali diversi, mentre i contratti collegati sono contratti distinti, ciascuno dei quali ha la causa distinta e autosufficiente, pur se integrata in concreto dal collegamento con l’altro contratto. E il collegamento può essere necessario, se legalmente previsto o comunque in re ipsa, prescindendo dalla volontà delle parti, e volontario (388).

[7] Cfr., ex multis, Cass. 7 giugno 2004, n. 10789; Cass. 6 maggio 2009, n. 10180; Cass. 11 settembre 2014, n. 19245; Cass. 29 ottobre 2014, n. 22899; Cass. 23 giugno 2017, n. 15774; Cass. 15 marzo 2021, n. 7154. In dottrina, tra gli altri, O. DI PAOLA, commento all’art. 21, in N. D’AMATI, La nuova disciplina dell’imposta di registro, Torino, 1989, 183; G. ARNAO, Manuale dell’imposta di registro, Milano, 2005, 126 ss.

[8] Cfr. Corte cost. sentenza n. 158 del 2020 che, nel pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’attuale formulazione dell’art. 20, ne riconosce la coerenza con l’impianto sistematico dell’imposta di registro in conformità anche con la sua origine storica di imposta d’atto.

[9] P. GIUNCHI – G. PETTERUTI, Unicità e pluralità di negozi – Interpretazione delle disposizioni contenute in un atto, studio 68/02/T; A. PISCHETOLA, Atti che contengono più disposizioni, in A. FEDELE – G. MARICONDA – V. MASTROIACOVO (a cura di), Codice delle leggi tributarie, Milano, 2014, 120. 

[10] Cfr. anche Cass. n. 15774/2017 cit.

[11] Così A. BERLIRI, Le leggi di registro, Milano, 1961, 205.

[12] Sul punto chiare le considerazioni di Comm. trib. centr. n. 2549/1983 (in Riv. dir. fin., II, 1984, 221 ss.) ove si evidenzia come oggetto di imposizione è il negozio, che può contenere più patti e più clausole, ma resta sempre un negozio giuridico che non può essere scisso, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, in tante distinte convenzioni quanti sono i patti e le obbligazioni assunte ai contraenti, posto che «tanto la legge istituzionale quanto la tariffa non assoggettano a imposta le obbligazioni nascenti da un determinato contratto, ma il contratto o l’atto stesso nella sua interezza sicché, qualora le disposizioni connesse non sono che gli elementi essenziali di un contratto bilaterale, o modalità di esecuzione di un determinato rapporto e se l’una di esse ha carattere meramente accessorio, è dovuta la tassa in ragione della disposizione principale caratterizzante il contratto».

[13] Cfr. A. FEDELE, Unicità o pluralità di “disposizioni” nel contratto preliminare di vendita con “anticipazioni” del pagamento del prezzo, in Riv. dir. fin., II, 1984, 220 ss., il quale già nel vigore dell’art. 20 d.P.R. n. 634 del 1972 rilevava la contraddittorietà tra l’affermazione di principio della corrispondenza fra “disposizione” e “negozio” da un lato e l’individuazione in concreto delle “disposizioni” in pattuizioni che concorrono a costituire una fattispecie negoziale unitaria, pur trattandosi di un’impostazione non portata alle estreme conseguenze con riferimento a figure negoziali tipiche, ma in relazione a contratti atipici o misti o a clausole eccedenti lo schema negoziale tipico. Cfr. anche G. FRANSONI, Il presupposto dell’imposta di registro fra tradizione ed evoluzione, in Rass. trib., 2013, 955 ss.

[14] Cfr. A. BERLIRI, Le leggi di registro, cit., 206, che con riguardo ai contratti misti, e ai contratti innominati, osservava come dovesse individuarsi una sola disposizione (se per essa si intende il negozio).

[15] Interpello 954-805/2013 del 23 luglio 2014, Dir. centr. normativa. 

[16] La dazione in pagamento, denominata dal codice civile (art. 1197) prestazione in luogo di adempimento, è la prestazione che il debitore esegue con il consenso del creditore in sostituzione di quella dovuta. Tale sostituzione implica, secondo l’opinione dominante, la volontà negoziale sia del creditore che del debitore, dovendosi perciò riconoscere la natura contrattuale dell’istituto. In particolare, si tratterebbe di un contratto avente ad oggetto l’estinzione satisfattiva del credito, ossia di un contratto solutorio, a titolo oneroso secondo una parte della dottrina perché pone in rapporto tra loro una prestazione diversa da quella originariamente dovuta e la liberazione dal debito. Cfr., tra gli altri, M.C. BIANCA, Diritto civile, IV, l’obbligazione, Milano, 1990, 431 ss.; G. SICCHIERO, La prestazione in luogo dell’adempimento, in Contr. e impr., 2002, 1380 ss.; M. IEVA, Appunti sulla dazione in pagamento, in Riv. dir. civ., 2007, 2, 237 ss.; E. BILOTTI, La prestazione in luogo di adempimento, in A. BURDESE – E. MOSCATI (a cura di), I modi di estinzione, Milano, 2008, 21 ss.

[17] Cfr. A. LOMONACO – G. MONTELEONE, Considerazioni sul tema della rilevanza, agli effetti fiscali, della menzione del debito nella datio in solutum, Segnalazioni Novità Prassi Interpretative, in Cnn Notizie del 17 ottobre 2014.

[18] Cfr. Cass., sez. un., 27 marzo 2008, n. 7930; Cass., 21 novembre 2014, n. 24807; F. SCA£GLIONE, Il comodato, Milano, 2011, 92 ss. Peraltro, si tratta di un orientamento giurisprudenziale riscontrabile anche in decisioni più risalenti (cfr. A. FEDELE, op. cit., 224, il quale con riguardo alla possibilità che la clausola relativa alla consegna anticipata possa configurare un autonomo negozio, connesso al preliminare, richiama «da ultimo, Cass., Sez. II, 8 gennaio 1980 n. 123, …, relativa ad un’ipotesi di c.d. “precario oneroso” inserito in un contratto preliminare di vendita»).

[19] R. DE MATTEIS, La contrattazione preliminare tra prassi e normazione: gli acquisti di immobili da costruire e di case di abitazione, in Contr. e impr., 2012, 464 ss.; S. PATTI, Consegna del bene al momento del preliminare e acquisto della detenzione. Note su Cass., sez. un., 27 marzo 2008, n. 7930, in Nuova giur. civ. comm., 2008, 20284 ss.

[20] Cfr. A. LOMONACO, Secondo la Commissione Tributaria Regionale di Bologna la clausola penale apposta ad un contratto di affitto di azienda non sconta l’imposta fissa di registro, in Cnn Notizie del 22 giugno 2020.

[21] Cfr. Comm. trib. reg. Bologna nn. 2089/2019 e 2090/2019; Comm. trib. reg. Lombardia 21 giugno 2017, n. 2730.

[22] Secondo l’Amministrazione finanziaria la clausola penale è un patto accessorio del contratto – posto dalle parti al fine di rafforzare il vincolo contrattuale (con funzione sia di coercizione all'adempimento che di predeterminazione della misura del risarcimento per l'inadempimento) – che esula dal campo di applicazione dell’Iva ed è soggetto all’imposta di registro proporzionale ai sensi dell’art. 9 della tariffa, parte prima, d.P.R. n. 131 del 1986 (cfr. ris. min. 18 giugno 1990, prot. n. 310388). Considerato, però, che l'obbligazione di cui è fonte la clausola penale produce i suoi effetti solo a seguito dell'inadempimento dell'obbligazione principale, ai fini dell'imposta di registro, trova applicazione, per analogia, la disciplina degli atti sottoposti a condizione sospensiva, di cui all'art. 27 del relativo testo unico, con la conseguenza che al momento della registrazione dell’atto per la clausola penale (ivi pattuita) è dovuta l’imposta in misura fissa (con una successiva liquidazione dell’imposta proporzionale, in caso di inadempimento dell’obbligazione principale, da denunciare ai sensi dell’art. 19 d.P.R. n. 131 del 1986). Così la ris. n. 91/E del 16 luglio 2004.

[23] cfr. Comm. trib. reg. Lombardia 1° settembre 2017, n. 3488; Comm. trib. prov. Varese 17 gennaio 2019, n. 48; Comm. trib. reg. Bologna sez. XI, 5 giugno 2020, n. 716; Comm. trib. prov. Milano, sez. II, 6 novembre 2020, n. 2231; Comm. trib. reg. Milano, sez. XXIV, 22 dicembre 2020, n. 3156; Comm. trib. prov. Napoli, sez. XXXII, 13 maggio 2021, n. 4881; Comm. trib. reg. Milano, sez. XXI, 6 settembre 2021 n. 3166; Comm. trib. prov. Pesaro-Urbino 22 ottobre 2021, n. 351; Comm. trib. reg. Milano, sez. XI, 28 settembre 2021, n. 3477. Si veda altresì Comm. trib. reg. Piemonte 8 settembre 2009 (la quale, con riguardo ad un contratto di affitto di azienda soggetto ad iva, argomenta sulla base dell’unicità della formalità della registrazione, avvenuta inscindibilmente tanto con riguardo all'obbligazione principale quanto con riguardo alla clausola penale inserita nell'unico contratto registrato, per cui sarebbe dovuta una sola imposta fissa).

[24] Per cui sarebbe da chiedersi se, accedendo a tale tesi, nel caso si verifichi l’inadempimento dell’obbligazione principale, considerato alla stregua di una condizione sospensiva relativa all’efficacia della clausola penale, le parti debbano presentare la denuncia ex art. 19 d.P.R. n. 131 del 1986 per l’ulteriore tassazione ai sensi dell’art. 9 della tariffa.

[25] A. BUSANI, Imposta di registro, Milano, 2018, 33, evidenzia che se oggetto dell’imposta di registro sono gli “atti in senso stretto” e cioè le “disposizioni” in quanto produttive di effetti giuridici (art. 21 comma 1 cit.), mentre non sono sottoposte a tassazione le “clausole” di cui gli “atti in senso stretto” si compongono, «intese quali “segmenti” (degli atti che concorrono a comporre) che in tanto hanno un senso in quanto inserite nel contesto nel quale esse si trovano (e che una “vita propria” – e, quindi, una propria rilevanza impositiva – possono avere solo se siano oggetto di un atto successivo rispetto a quello a cui esse si riferiscono, ma con ciò perdendo la natura di “clausole” e assumendo, a loro volta, quella di “atto”), allora pare potersi concludere per la non sottoponibilità a tassazione della clausola penale inserita nel contesto del contratto nel quale si disciplina l’eventualità del danno che la penale dovrebbe servire a risarcire». Nel senso, invece, che si tratta di un negozio autonomo, pur non essendo dubbio che tra la clausola penale e il negozio principale sussista un collegamento negoziale necessario, v. A. MONTESANO, Il trattamento ai fini delle imposte indirette della caparra penitenziale e della clausola penale, in Fisco, 2009, 1-1605 ss.