Giuffré Editore

Tematiche attuali nell’accertamento degli studi notarili

Paolo Puri

Associato di Diritto tributario, Università del Sannio


Uno sguardo d’insieme

Uno sguardo alla più recente casistica in materia di accertamenti degli studi notarili evidenzia una sorta di fil rouge delle contestazioni erariali in questo settore; filo che si snoda essenzialmente lungo le tre direttrici dell’abuso del diritto, figura utilizzata in particolare nel contrasto ai fenomeni di interposizione elusiva dello schermo societario, delle presunzioni fiscali di occultamento dei corrispettivi (a fronte di prestazioni di servizi rese a titolo gratuito o per compensi inferiori alle tariffe di mercato) per finire in quella incentrata sul difetto di inerenza delle spese[[1]]. 

Profili che, com’è evidente, oltre ad involgere delicate problematiche dal punto di vista teorico – specie la “nuova” definizione di abuso del diritto – ne implicano di maggiori sul piano pratico, segnatamente nella prospettiva della corretta ripartizione dell’onere della prova e dell’adeguatezza degli elementi addotti dall’Erario, in un contesto nel quale, come noto, la prova del Fisco non deve preesistere all’accertamento (né essere allegata a questo) ma può essere efficacemente prodotta in giudizio. 

La presente relazione prende le mosse dall’esame degli istituti di cui si è detto per verificare come essi sono declinati nelle verifiche fiscali e se vi sia condivisione da parte della giurisprudenza di metodi, categorie e strumenti applicati dagli Uffici impositori.

           

Brevi cenni alla nuova disposizione in materia di abuso del diritto

Il primo punto su cui soffermarsi attiene l’abuso del diritto.

Come noto, con l’introduzione dell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente, sono state unificate le nozioni di “abuso del diritto” ed “elusione fiscale”[[2]], sostituendo l’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973[[3]] – norma suggestivamente ritenuta come una clausola generale ad applicazione particolare[[4]], operante per le sole imposte dirette e limitatamente a talune specifiche fattispecie negoziali – con una norma di carattere generale applicabile indistintamente a tutti i tributi e per qualsiasi operazione economica.

Recependo le indicazioni della giurisprudenza formatasi a partire dal 2008 (che ha considerato il contrasto a pratiche abusive come un principio immanente del nostro ordinamento tributario, prima sulla scorta dei principi europei, poi come precipitato del principio costituzionale di capacità contributiva), il citato art. 10-bis l. n. 212 del 2000 stabilisce che «configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle disposizioni e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni».

L’Agenzia delle entrate ha evidenziato che, «affinché un’operazione possa essere considerata abusiva, l’Amministrazione finanziaria deve identificare e provare il congiunto verificarsi di tre presupposti costitutivi: 

a) la realizzazione di un vantaggio fiscale "indebito", costituito da “benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario»; 

b) l’assenza di “sostanza economica” dell’operazione o delle operazioni poste in essere consistenti in «fatti, atti e contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali» (e cioè l’inidoneità dei «fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, … a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo di strumenti giuridici a normali logiche di mercato» (così, art. 10-bis, comma 2, lett. a); 

c) l’essenzialità del conseguimento di un vantaggio fiscale” (risoluzione n. 97/E/2017).   

L’assenza di uno qualunque dei tre presupposti richiamati implica un giudizio negativo sull’abusività dell’operazione (risoluzioni dell’Agenzia delle entrate n. 93/E/2016 e n. 101/E/2016). 

Del resto, anche laddove gli evocati presupposti siano positivamente riscontrati, potrebbe comunque escludersi l’elusività dello schema negoziale se le operazioni sono «giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente»[[5]], restando «ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale» (art. 10-bis, commi 3 e 4).

La norma recepisce così le istanze della giurisprudenza (Cass., sent. n. 1372/2011) e della dottrina[[6]]) più attente al bilanciamento tra principi di equità fiscale e di libertà di iniziativa economica; esigenze alle quali d’altronde già si faceva riferimento nella relazione alla Legge introduttiva del previgente art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, laddove si tutelava il legittimo risparmio d’imposta[[7]] e si escludeva l’elusione fintanto che il contribuente si limitasse a scegliere tra due o più alternative messe a disposizione dall’ordinamento[[8]]. Sembra, in altri termini, che la nuova disposizione faccia proprio quell’insegnamento per il quale: «l'elusione può essere definita come una forma di risparmio fiscale che è conforme alla lettera, ma non alla ratio delle norme tributarie […]; essa è giuridicamente irrilevante se l'ordinamento non la prende in considerazione e non appresta alcun rimedio […] Infatti l'elusione assume rilievo solo se l'ordinamento consente al fisco di reagire»[[9]].

Gli accertamenti che contestano l’elusività delle condotte del contribuente devono inoltre seguire un rigoroso iter procedimentale. 

Infatti, l’Ufficio deve far precedere il proprio avviso di accertamento da un invito al contribuente a fornire chiarimenti circa le ragioni economiche sottese al proprio operato; ragioni estranee alla sfera cognitiva dell’Ufficio, che dunque non potrebbe compiutamente motivare il proprio atto impositivo se non a fronte di un dialogo preventivo col privato in merito alla loro esistenza e consistenza. 

Se tale necessario momento di contraddittorio manca, il provvedimento impositivo che ne segue è nullo. 

Inoltre, spetta all’Ufficio, che lamenta il carattere abusivo dell’operazione o sequenza di operazioni eccepite, dimostrare i presupposti della condotta abusiva (ossia la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito e l’assenza di sostanza economica delle operazioni); di modo che, solo una volta dimostrati tali presupposti – e ciò rileva ai fini dell’instaurazione di una corretta dialettica probatoria in sede processuale – incombe sul contribuente addurre e dimostrare le ragioni economiche sottese al proprio comportamento.


Gli accertamenti ai notai fondati sul tema dell’abuso del diritto: l’interposizione abusiva di società immobiliari

Fatte queste brevi premesse, e passando alla casistica che qui più interessa, giova osservare come gli addebiti antiabuso rivolti ai notai riguardino, nella maggioranza dei casi editi, la presunta interposizione societaria (elusiva, non fittizia) e, segnatamente, ipotesi in cui i notai, direttamente o indirettamente, costituiscono enti societari cui è affidata l’amministrazione e gestione dell’immobile presso cui l’attività è svolta[[10]]. 

Più nello specifico, i rilievi erariali si appuntano su fattispecie in cui l’immobile, una volta acquistato da una società immobiliare (riconducibile direttamente o indirettamente al notaio), viene concesso in locazione al notaio, il quale deduce dal proprio reddito professionale i canoni così corrisposti. 

Secondo l’Amministrazione finanziaria, sebbene l’acquisto dell’immobile effettuato dalla società sia legittimo, così come legittima è la successiva concessione del medesimo in locazione al notaio, si ricorrerebbe a tale schema negoziale solo per ottenere il vantaggio fiscale consistente nella deducibilità del canone di locazione.

Sul punto, la giurisprudenza tributaria di merito più recente ha tuttavia assunto posizioni contrarie agli Uffici.

In alcune ipotesi, le Commissioni hanno risolto in limine le controversie loro sottoposte, ravvisando una divaricazione del modulo accertativo impiegato dagli Uffici rispetto alla sequenza procedimentale prevista per legge, come ad esempio nella sentenza[[11]], secondo cui «la violazione delle norme procedimentali cui soggiace la contestazione di un comportamento abusivo comporta la nullità e comunque la illegittimità dell’avviso di accertamento così emesso». 

Nel caso di specie, l’atto non risultava essere stato preceduto dalla rituale richiesta di chiarimenti da parte dell’Ufficio, ragion per cui il ricorrente non era stato messo in condizioni di spiegare in fase istruttoria le ragioni del proprio operato (ciò che avrebbe potuto anche evitare l’emissione dell’atto d’accertamento). 

In altre ipotesi, i Giudici hanno valorizzato (l’assenza de) gli elementi costitutivi dell’abuso.

Nella sentenza n. 386/1/2016, la Commissione tributaria provinciale di Alessandria ha preso in esame un accertamento con cui si eccepiva l’esistenza di una condotta abusiva, legata al pagamento del canone di locazione dello studio alla società proprietaria dell’immobile di cui era socia al 99% la moglie dello stesso notaio[[12]]. 

In considerazione del regime di indeducibilità delle quote di ammortamento degli immobili strumentali (art. 1, comma 1, lett. g), del d.l. 27 aprile 1990, n. 90), l’Ufficio riteneva che la sequenza costituita dall’acquisto immobiliare da parte della società e dalla successiva locazione del medesimo immobile al professionista fosse strumentale a consentire a quest’ultimo l’abbattimento del proprio reddito di lavoro autonomo. 

La Commissione Alessandrina ha però disatteso l’accertamento, enfatizzando la libertà del professionista di scegliere il regime fiscale più favorevole. In quel caso, è stata altresì valutata come rilevante – ancorché non decisiva – l’estraneità da parte del professionista alla compagine sociale della società immobiliare e la reale esistenza e operatività della stessa, titolare di altri beni immobili.

Con le sentenze n. 405/4/2018 e n. 185/5/2019[[13]], rese su fattispecie analoghe (una delle due nasce proprio dall’impugnazione erariale della sentenza alessandrina), la Commissione tributaria regionale di Torino ha adottato identiche soluzioni[[14]]. 

Pur richiamando l’attenzione su tutti i presupposti della condotta abusiva, anche i giudici torinesi fanno leva sulla libertà di scelta del regime fiscalmente meno oneroso, in un contesto di operazioni reali e non simulate; nel caso specifico, la società intestataria dell’immobile aveva una propria gestione indipendente dalle sorti dello studio notarile e non era direttamente riconducibile al notaio.

Invero, in queste decisioni si intravedono ancora alcuni elementi al confine con la simulazione negoziale (come il riferimento alla non riconducibilità della società immobiliare ad una partecipazione diretta del professionista). Tuttavia, l’elusività avrebbe dovuto e potuto escludersi senza attingere ai richiamati fattori. 

In primo luogo non si rinviene nei casi esaminati un’analisi delle ragioni che hanno guidato nella scelta di acquistare l’immobile con una società e che spesso coincidono con la volontà di non “perdere” (economizzandolo in un investimento) il canone di locazione e nel contempo nella necessità di avere soci ulteriori e finanziatori terzi. Manca in altre parole la verifica dell’essenzialità del vantaggio fiscale in un’operazione che spesso è solo di investimento.  

Va poi ricordato che l’interposizione (reale) societaria dovrebbe ritenersi un’alternativa pacificamente ammessa dall’ordinamento[[15]] e, se essa consente vantaggi fiscali, questi sono coerenti con un sistema che riconosce la distinta soggettività giuridica e fiscale della società rispetto alla persona dei soci e che ammette strutturalmente che l’interazione tra questi due soggetti – e tra i rispettivi sistemi fiscali – possa procurare vantaggi (o, talora, svantaggi) dovuti alle reciproche differenze di basi imponibili, aliquote e via discorrendo (come ad esempio accade quando un professionista, che beneficia di un regime di tassazione forfettaria, presti a favore della società della quale è socio un servizio, il cui costo rappresenta uno speculare componente negativo di redditi tassati con l’ordinaria aliquota Ires). 

In altri termini, la coesistenza dell’attività professionale con una “collaterale” struttura societaria deve ritenersi ammessa dall’ordinamento anche quando in grado di procurare, nei rapporti tra i due soggetti, vantaggi fiscali (così come talora accade che detta interazione provochi speculari aggravi d’imposta, quando i flussi reddituali si dirigono verso il soggetto con una maggiore fiscalità); vantaggi dei quali può dunque in linea di massima escludersi il carattere indebito, venendo così meno uno – il fondamentale – dei presupposti su cui si regge l’abuso del diritto.

In questa chiave, anche l’immobile preso in locazione da una società partecipata dallo stesso professionista e incaricata della gestione solo di quell’immobile dovrebbe ritenersi immune da un eventuale sindacato antielusivo.

Cionondimeno, in un’ottica di governance del rischio fiscale, se si intende adoperare strutture analoghe a quelle fin qui descritte, potrebbe essere opportuno adottare alcune cautele, tra cui: (i) dotare la società immobiliare, “collaterale” allo studio notarile, di beni ulteriori rispetto all’immobile concesso locazione al medesimo studio[[16]]; (ii) allineare agli standard di mercato il canone di locazione versato dallo studio notarile a detta società immobiliare; (iii) aprire la compagine della società immobiliare anche a soci diversi[17] dal professionista e dai suoi prossimi congiunti; (iv) non avere partecipazioni societari speculari a quelle dell’eventuale associazione professionale; (v) avere anche conduttori diversi sullo stesso o su più immobili; (vi) fornire la prova di vantaggi gestionali o organizzativi.

Resta infine da chiedersi se le medesime contestazioni potrebbero avanzarsi a strutture operative per così dire più “sofisticate”. Si immagini l’ipotesi dell’acquisto dell’immobile attraverso una locazione finanziaria con la società conduttrice partecipata dal notaio che a sua volta lochi l’immobile al notaio stesso. La circostanza che nell’operazione sia presente una società di leasing non dovrebbe mutare le considerazioni avanzate finora laddove si concluda – come sembra pacifico – nel considerare il contratto di leasing come un modo di finanziamento dell’acquisto della proprietà. 


Gli accertamenti presuntivi sulla incongruità dei compensi

Un secondo tema meritevole di attenzione in questa sede attiene gli accertamenti presuntivi e, in particolar modo quelli incentrati sulla (non) congruità dei compensi rispetto ai parametri professionali[[18]].

Si deve al riguardo rammentare che l’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 concepisce due ipotesi di accertamento presuntivo a carico di imprese e professionisti.

Le presunzioni dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza consentono all’Ufficio di inferire l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate nel quadro del c.d. metodo “misto” (o analitico induttivo[[19]]) previsto dalla lettera d) del 1° comma dell’art. 39 cit., e cioè nell’ambito di una metodologia di accertamento ancora agganciata alle risultanze di bilancio (e, per i professionisti, dalle scritture contabili previste dall’art. 19 del d.P.R. n. 600 del 1973), dalle quali ci si discosta senza infirmarne l’attendibilità nel loro complesso e solo per calcolare diversamente talune voci del bilancio[[20]].

L’accertamento presuntivo può invece prescindere dagli evocati requisiti di gravità, precisione e concordanza, in vista della ricostruzione induttiva dell’intero reddito imprenditoriale o professionale (e non solo di limitate componenti di esso); ma ciò può avvenire nelle sole ipotesi previste dall’art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, e segnatamente nei casi di grave inattendibilità dell’apparato contabile[[21]].

In presenza di un impianto contabile compromesso a tal punto da non poter costituire un valido punto di riferimento per il controllo fiscale (inadeguatezza la cui prova incombe sull’Ufficio), gli Enti impositori possono quindi avvalersi di un corredo probatorio dotato di una forza dimostrativa attenuata, e, segnatamente, fare leva su presunzioni non gravi precise e concordanti (Russo).

In sintesi, mentre nelle presunzioni semplici di cui all’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 19773 i requisiti di gravità, precisione e concordanza qualificano il grado di probabilità richiesto, imponendo una soglia di plausibilità elevata, in quelle semplicissime, non essendo richiesti detti requisiti, si considera sufficiente un nesso probabilistico ridotto (o, meglio, non qualificato), ferma restando la ragionevolezza cui l’accertamento deve sempre mirare per essere coerente col principio di capacità contributiva.

Nella prassi, pur tuttavia, la demarcazione tra le due evocate metodologie di accertamento emerge in maniera molto meno rigorosa, a partire dal riferimento generico di molti accertamenti all’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 senza specificare se si attinga al metodo analitico-induttivo o all’extracontabile (ciò che, a mio avviso, li espone già ad un evidente vizio motivazionale).

Si danno infatti casi in cui la metodologia extracontabile viene impiegata dagli Uffici a prescindere dal riscontro – o, comunque, dalla prova da parte del Fisco – dell’inattendibilità delle scritture contabili del contribuente, o ipotesi nelle quali l’accertamento extracontabile viene impiegato per ricostruire – non l’intero reddito d’impresa o lavoro autonomo del contribuente, bensì – singoli elementi attivi o passivi della dichiarazione[[22]]. 

Trovano qui terreno fertile contestazioni erariali fondate sulla non congruità dei corrispettivi o sull’anti-economicità delle scelte imprenditoriali; contestazioni ancora prive di un inquadramento sistematico chiaro, come si evince da una recente ordinanza della Cassazione (la n. 6215/2018) equivoca nell’individuare presupposti e limiti applicativi dell’accertamento induttivo (laddove i Giudici di seconde cure sostenevano che «la rinuncia "diffusa e sistematica" ai compensi per le prestazioni professionali, anche di non modico valore, rese sia dinanzi ai giudici di pace che al tribunale, civile ed amministrativo, connotava di gravità, precisione e concordanza, le presunzioni di maggiori redditi accertati induttivamente dall’amministrazione» – e dunque confermavano la legittimità di un accertamento analitico-induttivo – mentre la Suprema Corte, nel confermare tale sentenza, fa leva sull’art. 39, comma 2, cit., evidenziando che «qualora l’amministrazione constati delle irregolarità della contabilità di gravità tale da determinare un’inattendibilità globale delle scritture, è autorizzata […] a prescindere da esse ed a procedere in via induttiva, avvalendosi anche di semplici indizi sforniti dei requisiti necessari per costituire prova presuntiva»)[[23]].

Nelle sue indicazioni operative, la Guardia di Finanza sembra ritenere che la non congruità dei corrispettivi giustifichi il ricorso all’accertamento analitico-induttivo[[24]]. 

In particolare la Circolare n. 1/18 della Guardia di Finanza – volume III, da atto in particolare che «Per quanto attiene alle operazioni attive» occorre confrontare «la congruità degli importi fatturati con i corrispondenti onorari risultanti dalle tariffe professionali (ove esistenti) ovvero con i compensi percepiti a fronte di prestazioni similari poste in essere dal medesimo professionista. […] L’analisi delle componenti reddituali attive potrà essere svolta attraverso: – La ricostruzione della tipologia e quantità delle prestazioni, nel caso in cui, a seguito della selezione delle operazioni da scrutinare, si individuino fatture emesse con descrizione generica delle prestazioni rese. Tale attività deve essere condotta attraverso i riscontri con la documentazione contabile ed extracontabile rinvenuta in sede di accesso ed eventualmente procedendo a contraddittorio con il professionista. Qualora dal particolare riscontro dovessero emergere incongruenze degne di nota, va valutata l’opportunità di avviare, sussistendone i presupposti normativi e di fatto, talune delle procedure ispettive di tipo indiretto-presuntivo; – Il riscontro dell’effettiva gratuità delle prestazioni qualificate come tali dal […] professionista. Si segnala l’importanza di tale riscontro in quanto l’asserzione di gratuità riferita a talune prestazioni rese dal lavoratore autonomo potrebbe non corrispondere al vero ed essere unicamente finalizzata ad abbattere il valore complessivo dei compensi tassabili».

Sennonché, l’anti-economicità[[25]] (o, talora, la gratuità delle prestazioni) come tale non può meccanicamente innescare una presunzione di occultamento dei corrispettivi, a meno che tale circostanza non si inserisca in un quadro indiziario più articolato o non si manifesti in maniera a tal punto ricorrente da integrare, per la sua sistematicità, gli attributi di gravità, precisione e concordanza richiesti dalla norma.

In proposito, la Cassazione, per un verso, conferma che «non sono contestabili da parte degli Uffici delle entrate le prestazioni rese dai commercialisti a titolo gratuito a favore di parenti, amici, soci di società già clienti a pagamento dello studio e di altre persone in grado di incrementare la clientela» [[26]]; ed a maggior rigore non potrebbe esserlo la semplice discrepanza dei corrispettivi praticati rispetto ad un ipotetico valore normale (non sussistendo peraltro una regola generale di applicazione di tale valore nel sistema dei redditi di lavoro autonomo, quand’anche gli stessi derivino da rapporti con “parti correlate” al professionista).

Per un ulteriore verso, asseconda ricostruzioni induttive del reddito professionale a fronte di prestazioni gratuite effettuate nei confronti di un numero rilevante di soggetti rispetto a quello dei clienti “paganti” e per prestazioni complesse[[27]].

Rispetto a tali approdi, sono spiazzanti le motivazioni che si leggono in una sentenza di merito relativamente recente, la quale ha disatteso le difese del contribuente secondo cui «la mancata percezione di onorari, e/o la percezione di onorari in misura irrisoria, nei confronti di alcuni clienti, trovano ragion d’essere nei rapporti di consuetudine ed anche di amicizia che si sono nel tempo creati tra il notaio ed i clienti, come pure per ragioni di cortesia, di convenienza sociale, di buona creanza, nei confronti di persone alle quali è legato da particolari sentimenti di amicizia o di rapporti di collaborazione o di gratitudine»Secondo i Giudici, «infatti, il contribuente pretenderebbe di omaggiare clienti/amici accollandone l’onere alla collettività dei cittadini e non già a sé stesso. Il professionista, se avesse voluto omaggiare i clienti/amici, avrebbe dovuto regolarmente fatturare i compensi declinandone il pagamento ed accollandosi l’onere fiscale che, invece, ha accollato sullo Stato e quindi a tutti i cittadini contribuenti»[[28]] . 

La decisione non coglie però nel segno.

Il notaio è infatti libero di rendere prestazioni a titolo gratuito: l’onerosità non costituisce un elemento essenziale del contratto di prestazione d’opera intellettuale, potendo le parti escludere il diritto del professionista al compenso[[29]]; la prestazione d’opera del professionista può pertanto essere resa a titolo gratuito per ragioni, oltre che di amicizia e parentela, anche di semplice convenienza[[30]]. Inoltre, le regole deontologiche non impongono l’onerosità della prestazione[[31]].

Ma la decisione si rivela fallace soprattutto perché allude al potere del Fisco di tassare un reddito “equitativo”, ancorché mai conseguito dal professionista; presuppone cioè l’esistenza di un corretto reddito fiscale, diverso da quello – formato dalla «differenza tra l’ammontare dei compensi in denaro o in natura percepiti nel periodo di imposta, […], e quello delle spese sostenute nel periodo stesso nell’esercizio dell’arte o della professione» (art. 54 del T.U.I.R.) – realmente incassato dal contribuente: esito incompatibile con il principio di capacità contributiva.

L’anti-economicità dei corrispettivi o la gratuità delle prestazioni – va ribadito – possono essere solo impiegate come indizio di maggiori compensi sottratti a tassazione, nel quadro di presunzioni finalizzate a provare un occultamento di materia imponibile. 

Contestazioni che il professionista non deve contrastare adducendo motivazioni di ordine etico (come la sentenza di Ancona pare asserire) ma scardinando il nesso inferenziale proposto dall’Ufficio e opponendovi valide prove – anche presuntive (ivi comprese dichiarazioni di terzi) – che dimostrino la corrispondenza tra compensi dichiarati e incassati.

Per prevenire il rischio di contestazioni si ritiene, infine, che possa risultare utile predisporre una lettera di incarico professionale[[32]] nella quale indicare ex ante le motivazioni per le quali non sia previsto uno specifico corrispettivo a fronte delle prestazioni rese[[33]]. Lettera probabilmente non necessaria nel caso di prestazioni rese a favore di soggetti legati da vincoli di parentela ma alla quale laddove questa sia la strada prescelta, sarebbe opportuno attribuire data certa[[34]] onde evitare improvvidi disconoscimenti[[35]]. 


Le contestazioni in tema di inerenza

Un ultimo cenno va fatto alle contestazioni in tema di inerenza.

Come noto, l’inerenza delle spese non viene menzionata nella disciplina fiscale dedicata alla determinazione dei redditi di lavoro autonomo[[36]].

Tuttavia, il concetto di inerenza è immanente alle regole di quantificazione di un reddito che si genera come differenza «tra l’ammontare dei compensi […] percepiti nel periodo di imposta … e quello delle spese sostenute nel periodo stesso nell’esercizio dell’arte o della professione» (art. 54 del T.U.I.R.).  

Al riguardo, l’Agenzia delle entrate ha affermato che le spese afferenti l’attività professionale sono «quelle sostenute per lo svolgimento di attività o per l’acquisizione di beni da cui derivano compensi che concorrono alla formazione del reddito professionale. È necessario pertanto che sussista una connessione funzionale, anche indiretta, dei costi sostenuti rispetto alla produzione dei compensi che concorrono a formare il reddito di lavoro autonomo»[[37]] .

La giurisprudenza, dal canto suo, ha definitivamente disancorato il concetto di inerenza dall’idoneità del costo a produrre (ricavi o) compensi, evidenziando – con riferimento al reddito d’impresa ma con esiti estensibili anche al reddito professionale – come «il principio di inerenza […] esprime una correlazione tra costi ed attività d'impresa in concreto esercitata, traducendosi in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sé, da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo»[[38]].

Non esistono, però, criteri obiettivi per fissare l’inerenza di un costo.

La prova dell’inerenza presenta dunque, ancora oggi, numerosi profili di opinabilità e incertezza, terreno fecondo per contestazioni erariali[[39]].

In questo quadro, possono essere tracciati punti fermi, ancorché minimi.

Anzitutto, la prova dell’inerenza della spesa non incombe sempre e solo sul contribuente – come suggeriva una precedente impostazione giurisprudenziale sul tralatizio assunto per cui gli elementi costitutivi del diritto alla deducibilità di un costo debbano essere provati dal contribuente[[40]].

La Cassazione ha infatti chiarito che «laddove si tratti delle spese strettamente necessarie alla produzione del reddito, o comunque fisiologicamente riconducibili alla sfera imprenditoriale (ad esempio i costi per l’acquisto di materie prime, o di macchinari o strumenti indispensabili a produrre certi beni, o di manufatti necessari per la loro custodia), che in quanto tali, possano ritenersi intrinsecamente inerenti all’attività d’impresa, sarà l’amministrazione a dover provare l’inesistenza, nel caso specifico, del predetto nesso di inerenza» (così, Cass., sent. n. 6548 del 27 aprile 2012); tesi questa avallata anche dalla giurisprudenza di merito (fra le altre, cfr. CTP di Lucca n. 160/5/2012, la quale afferma che «ove si abbia riguardo a spese intrinsecamente necessarie alla produzione del reddito d’impresa, non incombe alcun onere della prova in capo al contribuente»)[[41]].   

In secondo luogo, il Fisco non può sindacare l’inerenza di un costo solo perché – ritenuto – sproporzionato; infatti, «in tema di imposte dirette, l’Amministrazione finanziaria, nel negare l’inerenza di un costo per mancanza, insufficienza o inadeguatezza degli elementi dedotti dal contribuente ovvero a fronte di circostanze di fatto tali da inficiarne la validità o la rilevanza, può contestare l’incongruità e l’anti-economicità della spesa, che assumono rilievo, sul piano probatorio, come indici sintomatici della carenza di inerenza pur non identificandosi in essa. In tal caso è onere del contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni in relazione allo svolgimento dell’attività»[[42]].

Ne consegue che il contribuente può essere chiamato a provare l’inerenza di un costo solo qualora, per sua natura, questo si presenti “anomalo” e non fisiologicamente collegato all’attività professionale; e che, nei casi in cui l’onere della prova incombe sull’Amministrazione, quest’ultima non potrebbe far leva solo sull’anti-economicità della spesa, la quale assume semplice valore indiziario ai fini della dimostrazione di (non) inerenza[[43]].

Con le indicazioni che precedono appare coerente, almeno nelle conclusioni, un recente arresto di legittimità[[44]] che reputa deducibili dal reddito i contributi previdenziali versati dal notaio: «i contributi versati dai notai alla Cassa nazionale del Notariato sugli onorari loro spettanti sono indubbiamente inerenti, e cioè connessi all'attività professionale svolta». 

Infatti, non può limitarsi «il concetto di inerenza alle sole spese necessarie per la produzione del reddito ed escluderlo per quelle che sono una conseguenza del reddito prodotto»[[45]], perché l’art. 54 del T.U.I.R., «per la sua genericità, postula un rapporto di intima relazione tra due cose o idee che si può verificare sia quando l'una sia lo strumento per realizzare l'altra sia quanto ne sia l'immediata derivazione».

La soluzione appare condivisibile nel merito, meno nel metodo.

Infatti, la circostanza da valutare per stabilire se una spesa sia o meno inerente al reddito di un professionista è se quella sia rapportata alla sua attività oppure costituisca erogazione, destinazione o consumo “personale” dei risultati di quell’attività: i contributi previdenziali sono inerenti non perché presentino una relazione di “derivazione” con l’attività notarile, ma perché necessari per l’espletamento di tale attività o, per utilizzare una formula adoperata dalla stessa Cassazione, «fisiologicamente riconducibili alla sfera» professionale.

 Parimenti deducibili le spese per le visure indipendentemente dal riaddebito al cliente con specifica indicazione in fattura. In numerosi casi gli Uffici dell’Agenzia delle entrate hanno infatti considerato indeducibili, ritenendole non inerenti, le spese sostenute dagli esercenti arti e professioni il cui addebito, effettuato nei confronti del cliente, non risulti con evidenza dalla relativa fattura (disconoscimento che riguarda anche l’imposta sul valore aggiunto). Le contestazioni interessano anche, anzi soprattutto, gli esercenti arti e professioni che, per esigenze di semplificazione, preferiscono, con riferimento agli oneri anticipati in nome e per conto della clientela, non avvalersi dell’art. 15 del decreto Iva, il quale prevede l’esclusione dal computo della base imponibile. 

L’impostazione dell’Agenzia non appare corretta perché fa coincidere il riaddebito degli oneri in questione con la prova della loro inerenza. Onere che come osservato in precedenza non grava sul contribuente per tutti quei costi che sono «normalmente necessari e strumentali». Ebbene non pare dubbio che il notaio sia obbligato ad eseguire i dovuti accertamenti catastali ed ipotecari, anche in assenza di un apposito incarico conferitogli dalle parti interessate alla stipula del rogito. È di tutta evidenza, quindi, come le visure ipotecarie e catastali rappresentino un obbligo incondizionato e del tutto indipendente da un eventuale e esplicita richiesta effettuata da parte del committente. Tale obbligo incombe sul notaio fino al punto da dover considerare gli oneri in contestazione «fisiologicamente riconducibili» alla sfera professionale nel senso ribadito dalla Corte di Cassazione. Sarà pertanto l’Agenzia delle entrate a dover dimostrare che le spese di visura non sono state sostenute nell’esercizio dell’attività notarile. In ogni caso, indipendentemente dalla natura delle spese e dall’onere della prova posto a carico dell’ufficio, la nozione di inerenza è completamente scollegata dall’effettivo ribaltamento/addebito della spesa nei confronti del cliente/committente. 

La Corte di Cassazione ha rilevato (cfr. supra) che l’inerenza è «una nozione pre-giuridica, di origine economica, legata all’idea del reddito come entità necessariamente calcolata al netto dei costi sostenuti per la sua produzione. Sotto tale profilo, pertanto, inerente è tutto ciò che – sul piano dei costi e delle spese – appartiene alla sfera dell’impresa, in quanto sostenuto nell’intento di fornire a quest’ultima un’utilità, anche in modo indiretto. A contrario, non è invece inerente all’impresa tutto ciò che si può ricondurre alla sfera personale o familiare dell’imprenditore, ovvero del socio o del terzo»[[46]].


Spese per migliorie su beni di terzi e beni in comodato

Ultimo tema che in parte si riconnette a quello iniziale dell’utilizzo di società immobiliari di “terzi” per l’immobile utilizzato come studio professionale riguarda la deducibilità delle spese sostenute per migliorie su immobili condotti in locazione o detenuti in comodato. La deducibilità delle spese incrementative su beni di terzi rappresenta ancora oggi una di quelle questioni irrisolte dalla giurisprudenza di legittimità, atteso che la stessa ha sviluppato nel corso del tempo orientamenti contrapposti e inconciliabili[[47]].

Le problematiche sono sostanzialmente due: si tratta di spese deducibili e in caso positivo come vanno dedotte (quote costanti o secondo i criteri civilistici)?

Il primo è evidentemente un tema di inerenza trattandosi di spese che vanno ad incrementare il bene di proprietà di un terzo e che quindi tendenzialmente restano a vantaggio di questi[[48]]. Due sono gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità sul punto; quello più penalizzante esclude che si tratti di spese idonee a produrre utili per i miglioramenti apportati all’immobile condotto in locazione dal contribuente, mediante spese di manutenzione straordinaria, atteso che, in tal caso, il beneficiario ultimo delle opere rimane esclusivamente il locatore[[49]]. Diversamente invece la giurisprudenza che non subordina la deducibilità dei costi di manutenzione straordinaria su di un immobile condotto in locazione al diritto di proprietà dell’immobile, essendo sufficiente che gli stessi risultanti dalla contabilità siano stati sostenuti nell’esercizio dell’impresa, al fine della realizzazione del miglior esercizio dell’attività imprenditoriale e dell’aumento della redditività della stessa[[50]].

Ebbene l’ultimo arresto giurisprudenziale[[51]] aderisce a quest’ultimo orientamento e lo fa per un caso di reddito di lavoro autonomo per spese di ristrutturazione su di un immobile del coniuge del professionista che era stato adibito a studio. Per la deducibilità sarebbe sufficiente provare di spese sostenute per un immobile che era comunque adibito a studio di chi quelle spese aveva sostenuto. È poi interessante notare che dalla sentenza si desume che le spese fossero state integralmente dedotte nel periodo d’imposta. 

L’impostazione dell’Amministrazione finanziaria distingue invece a seconda che il contratto di locazione preveda o meno la rinnovabilità alla scadenza: infatti, mentre in quest’ultimo caso i costi in argomento si rendono deducibili nel limite della quota imputabile a ciascun periodo d’imposta, non oltre, comunque, il periodo di durata del contratto, nella prima ipotesi, invece, e sempre che i costi stessi svolgano la loro utilità anche nelle ulteriori annualità per le quali è prevista la rinnovabilità del contratto, le predette modalità di riparto dovranno tener conto pure di tali ulteriori periodi fermo restando che, in caso di mancato rinnovo, le quote residue si renderanno interamente deducibili nell’esercizio in cui si verificherà tale circostanza[[52]].




[1] In verità non mancano fattispecie di verifiche nelle quali pur di rettificare i costi si sommano le diverse contestazioni, quasi a ritenere che l’enunciazione di più di una “voce” possa rendere più fondato il rilievo, senza rendersi conto, però, che spesso l’una è in antitesi con l’altra, giungendo così ad una motivazione contraddittoria. 


[2] Per un approfondimento sul nuovo articolo 10-bis, si rimanda ad alcuni lavori, quali: G. ZIZZO, La nozione di abuso nell’art. 10-bis dello Statuto dei Diritti del contribuente, in DELLA VALLE – FICARI – MARINI (a cura di), Abuso del diritto ed elusione fiscale, Torino, 2016, 1-19; M. VERSIGLIONI, Abuso del diritto, logica e costituzione: “imposta impossibile” e “sanzione possibile”, in DELLA VALLE – FICARI – MARINI (a cura di), Abuso del diritto ed elusione fiscale, cit., 47-74; F. AMATUCCI, Profili procedimentali e criticità della clausola generale antiabuso, Abuso del diritto ed elusione fiscale, in DELLA VALLE – FICARI – MARINI (a cura di), Abuso del diritto ed elusione fiscale, cit., 99-111 e G. CONSOLO, Il profilo punitivo dell’elusione e dell’abuso del diritto: origini ed evoluzione del problema fino alla legge delega, in GLENDI – CONSOLO – CONTRINO (a cura di), Abuso del diritto e novità sul processo tributario, Milano, 2016, 58-59; L. MIELE, Abuso del diritto distinto dalle fattispecie di evasione, in Corr. trib., 2015, 4, 243; M. LEO, L’abuso del diritto: Elementi costitutivi e confini applicativi, in Il Fisco, 2015, 10, 915; B. SANTACROCE – E. SBANDI, La nuova disciplina antiabuso e il diritto di interpello: riferibilità dell’istituto ai tributi doganali, in Il Fisco, 2015, 44, 4207; G. FRANSONI, Abuso ed elusione del diritto, Il Libro dell’anno del diritto, 2015, Roma, 2015, 410; G. FRANSONI, La multiforme efficacia nel tempo dell’art. 10-bis dello Statuto su abuso ed elusione fiscale, in Corr. trib., 2015, 44, 4362; A. BORGOGLIO, Il “vecchio” abuso del diritto è contestabile solo per le operazioni previste dall’art. 37-bisin Il Fisco, 2016, 1, 85; A. CONTRINO – A. MARCHESELLI, L’obbligo di motivazione “rinforzata” e il riassetto degli oneri probatori nel “nuovo” abuso del diritto, in Corr. trib., 2016, 1, 15; G. CORASANITI, Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario, in Dir. prat. trib., 2016, 2, 465; A. GIOVANNINI, L’abuso del diritto tributario, in Dir. prat. trib., 2016, 3, 895;

[3] D. STEVANATO, Elusione fiscale e abuso delle forme giuridiche, anatomia di un equivoco, in Dir. prat. trib., 2015, 5, 695-727  secondo cui «Balza subito agli occhi che la nuova formulazione, rispetto a quella che era prevista dall’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, non contiene più il riferimento all’”aggiramento” dei divieti ed obblighi (da intendersi, dei principi) previsti dall’ordinamento tributario: la prima impressione che se ne ricava è nel senso di una identificazione dell’operazione elusiva con quella che realizza vantaggi fiscali senza che il percorso negoziale avesse una particolare ragione di essere adottato, rispetto a percorsi alternativi, se non l’obiettivo di ottenere un risparmio d’imposta. Nel precisare che non si considerano abusive le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, la relazione ministeriale di accompagnamento chiarisce che “le valide ragioni economiche extra-fiscali non marginali sussistono solo se l’operazione non sarebbe stata posta in essere in loro assenza. Occorre, appunto, dimostrare che l’operazione non sarebbe stata compiuta in assenza di tali ragioni”. Si torna così al rischio che, mancando tale dimostrazione, cioè in presenza di un percorso negoziale anche semplicemente equipollente, quanto a risultati economico-sostanziali, rispetto ad altri percorsi fiscalmente più onerosi, si concluda per l’elusività del comportamento».

[4] R. LUPI, L’elusione come strumentalizzazione delle regole fiscali, in Rass. trib., 1994, 225.

[5] Le valide ragioni extrafiscali giocano lo stesso ruolo che, nel settore penale, rivestono le cause di giustificazione del reato ed elidono in radice il carattere elusivo della condotta, con conseguente riconoscimento della liceità della stessa. Le stesse non devono essere necessariamente riconducibili al contribuente, bensì possono essere afferenti anche a soggetti terzi in rapporto con il presunto elusore. Si veda, in tal senso, M. BEGHIN, Diritto tributario, Padova, 2017, 427.

[6] Tra gli altri, G. FALSITTA, Unità e pluralità del concetto di abuso del diritto nell’ordinamento interno e nel sistema comunitario, in Riv. dir. trib., 2018, I, 334.

[7] Sull’argomento la dottrina converge nel ritenere l’elusione quale fenomeno che si risolve in condotte negoziali poste in essere dai contribuenti al fine di conseguire vantaggi indebiti perché disapprovati dal sistema, le quali rispettano formalmente la norma, pur aggirandone lo spirito, ovvero la ratio. Così, M. BEGHIN, L’elusione fiscale e il principio del divieto di abuso del diritto, Padova, 2013, 248; G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Padova, 2014, 32.

[8] A. MARCHESELLI, Equivoci e prospettive dell’elusione tributaria, fra principi comunitari e principi nazionali, 2010, 814, il quale afferma anche che «l’aggiramento di obblighi e divieti ribadisce il confine tra elusione ed evasione: non deve trattarsi di violazione di precetti tributari».

[9] E. MANZONI, Il lungo cammino dell’abuso del diritto/elusione fiscale: la presenza di una norma di legge non giustifica la sanzionabilità amministrativa della condotta, in Dir. prat. trib., 2019, 1, 247; F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 2006, 248; In senso conforme, I. MANZONI – G. VANZ, Il diritto tributario. Profili teorici e sistematici, Torino, 2007, 432-433 e 436.

[10] Su di un piano diverso sembra invece collocarsi Cass. Ord. n. 27671/2019 reativamente alla costituzione di una società di autonoleggio di autovetture ai familiari con costi di gestione superiori a quelli addebitati agli stessi familiari clienti. La questione è infatti risolta dalla S.C. ricorrendo all’antieconomicità dell’operazione e alla mancata prova contraria del contribuente. Si tratterebbe infatti: «di operazioni palesemente elusive, stante la sussistenza di un parco autovetture anomalo ai fini del noleggio, creato per sfuggire alle disposizioni relative al redditometro». Operazioni antieconomiche con “parti correlate” che farebbero emergere una società che consente la deduzione integrale dei costi e la fuoriuscita per i familiari dal redditometro. 

[11] CTR di Genova n. 746/6/2017.

[12] Vds. anche, P. ALBERTI, Deducibilità dei costi di locazione dello studio senza abuso del diritto, Il Quotidiano del commercialista, 2017.

[13] In questi termini, C. MONTELEONE, L’immobile locato dalla Srl della moglie del professionista non rende il leasing elusivo, in Il Fisco, 2019.

[14] Sentenza CTR Piemonte n. 185 maggio 2019 con commento di F. GALLIO, Deducibili per il professionista i canoni di locazione dell’immobile affittato da Srl immobiliare a lui riconducibile, in Il Fisco, 2019, 15, 1485.

[15] Almeno fino a quando non sarà previsto che il professionista che possieda un immobile debba concederlo gratuitamente o specularmente che siano deducibili solo i canoni corrisposti a soggetti terzi in quanto non partecipati né dal professionista né dai suoi parenti o congiunti.

[16] In tal caso sarà opportuno prevedere apposito contratti di noleggio per i beni in questione o almeno prevederne l’esistenza e le condizioni di utilizzo nel contratto di locazione laddove si vogliano evitare contestazioni in capo alla società in ordine all’occultamento di corrispettivi o all’indeducibilità del costo dei beni concessi in comodato d’uso gratuito (per un caso seppur riferito ad un settore merceologico del tutto diverso si veda CTP Milano, 2075 gennaio 19, in Il Fisco, 2019, 2589 con nota di DENARO).

[17] O almeno prevedere differenti carature rispetto a quelli della associazione in modo da non replicare le stesse partecipazioni dell’associazione.

[18] Dal 2012 l’onorario del notaio è stabilito attraverso tabelle, pubblicate in Gazzetta Ufficiale, predisposte dal Ministero di giustizia con decreto ministeriale n. 140 del 20 luglio 2012 e modificate con decreto n. 106 del 2 agosto 2016 (in G.U. n. 223 del 23 settembre 2013). 

[19] Secondo l’ordinanza n. 15344 del 6 giugno 2019 emessa dalla Suprema Corte di Cassazione: «Con l’accertamento analitico-induttivo, la determinazione del reddito è effettuata nell’ambito delle stesse risultanze della contabilità, ma con una ricostruzione induttiva solo di singoli elementi, dai quali risulta provata aliunde la mancanza o l’inesattezza: tale metodo di accertamento presuppone, diversamente da quello induttivo c.d. puro, che la documentazione contabile sia nel complesso attendibile. Pertanto, in tema di rettifica dei redditi mediante accertamento analitico-induttivo, la ricostruzione fondata sulle presunzioni semplici non ha ad oggetto il reddito nella sua totalità, ma singoli elementi attivi e passivi».

[20] In questi termini, G. FALSITTA, Diritto tributario, Parte Generale, Padova, 2005, 400.

[21] Si segnala in tema di attendibilità dell’apparato contabile la risposta incompleta al questionario trasmesso dall’Ufficio ex art. 32, comma 1, numeri 3 e 4 del d.P.R. n. 600 del 1973 rende valido l’accertamento induttivo del reddito d’impresa qualora i documenti presentati in risposta siano non pertinenti o inidonei a fornire i chiarimenti richiesti. Sebbene una risposta non pertinente può essere equiparata a una sostanziale omissione, l’inidoneità della risposta a fornire i chiarimenti richiesti deve essere motivata dall’Ufficio e tale motivazione vagliata dal Giudice tributario. In questi termini, D. AUGELLO sulla Sentenza n. 21823 del 7 settembre 2018 emessa dalla Suprema Corte di Cassazione, La risposta non pertinente all’invito consente il ricorso all’induttivo, 2018.

[22] Vale la pena notare che secondo parte della dottrina (A. CONTRINO, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2018, 1, 130) si procede ad accertamento induttivo – extracontabile anche mediante presunzioni c.d. super-semplici (o semplicissime – non qualificate – ultra-semplici), ossia prive di quel carattere di gravità, precisione e concordanza che, secondo il diritto comune, le presunzioni (semplici) devono presentare per assurgere a prova.

[23] Sul punto, anche, il commento G. ANTICO, I ridotti prelevamenti generano una presunzione di ricavi omessi, in Il Fisco, 2019, 22, 2178 all’Ordinanza n. 11799/2019 emessa dalla Suprema Corte di Cassazione, secondo cui: «Il procedimento presuntivo consiste nella interpretazione di un fatto certo per risalire ad un fatto ignoto, anche un solo indizio può giustificare la pretesa fiscale, se grave e preciso; ovvero il giudizio presuntivo ben può fondarsi su di un unico elemento indiziario univoco e rilevante, allorché controparte non abbia fornito adeguati elementi di controprova».

[24] Per l’accesso alla metodologia induttiva devono sussistere numerose o ripetute omissioni e false o inesatte indicazioni relative agli elementi indicati in dichiarazione e risultanti dal verbale d’ispezione.

[25] Secondo la nota dell’Agenzia dell’entrate n. 55440 dell’8 aprile 2008, per anti-economicità si fa, quindi, riferimento all’alterazione quantitativa di componenti positivi e/o negativi di reddito in violazione del principio della corretta rappresentazione di essi, quali, ad esempio, la puntuale registrazione di ricavi o compensi e l’inerenza di costi e di spese.

[26] Cass. sent. n. 21972 del 28 ottobre 2015

[27] Cass. ord. n. 6215/2018.

[28] CTP di Ancona n. 1279/3/2016.

[29] Così, tra le tante, Cass., sentenze n. 21251/2007, n. 16966/2005 e n. 7003/2001.

[30] Cass., sent., n. 20269/2010 e n. 16966/2005.

[31] Alcuni Ordini professionali hanno sancito nei rispettivi codici deontologici che la rinuncia totale al compenso rappresenta un evento singolare ed eccezionale che richiede comprovate ragioni giustificatrici per non sfociare in pratiche commerciali scorrette e svilire il decoro della professione. D’altronde al notaio, ai sensi dell’art. 40 della Deliberazione del CNN n. 2/56 del 5 aprile 2008, è prescritto l’onere di fornire alle parti il preventivo dei costi, spese e compensi della specifica prestazione richiesta, non anche di esigerne il pagamento.   

[32] Adempimento prescritto ex art. 40 della Deliberazione del CNN n. 2/56/2008.

[33] A. COTTO, Prestazioni professionali gratuite fiscalmente irrilevanti, in Il Quotidiano del Commercialista, 2014.

[34] G. ANTICO – M. GENOVESI, Chi deve provare cosa in caso di prestazioni rese a titolo gratuito dal professionista, in Il Fisco, 2017, 20, 1929.

[35] In questi termini sentenza Cassazione Civile n. 16606 del 7 agosto 2015.

[36] Art. 53 TUIR: «Sono redditi di lavoro autonomo quelli che derivano dall’esercizio di arti e professioni». Art. 54 T.U.I.R.: «Il reddito derivante dall’esercizio di arti e professioni è costituito dalla differenza tra l’ammontare dei compensi […] percepiti nel periodo di imposta […] e quello delle spese sostenute nel periodo stesso nell’esercizio dell’arte o della professione …».

[37] Risoluzione 8 marzo 2002, n. 79/E.

[38] In questi termini, Cass., sent. n. 18904/2018. Si tratta del superamento della tesi che faceva discendere il principio di inerenza dall’art. 109, comma 5 T.U.I.R. che i riferisce invece al diverso principio dell'indeducibilità dei costi relativi a ricavi esenti (stante l'inerenza). Può quindi considerarsi disattesa la definizione della nozione dell'inerenza formulata in termini di suscettibilità, anche solo potenziale, di arrecare, direttamente e indirettamente, una utilità all'attività, e costituente requisito generale della deducibilità dei costi. L'inerenza finisce così per essere apprezzata in termini di giudizio qualitativo, scevro da riferimenti ai concetti di utilità o vantaggio distinguendosi dalla nozione di congruità del costo.

[39] Può considerarsi inerente, ad esempio, l’acquisto di abiti formali da parte del notaio? Sul punto vi sono alcune aperture giurisprudenziali, come ad esempio la CTP di Milano, sent. n. 6443 del 22 luglio 2016, la quale afferma la deducibilità al 50% dei costi per acquisti relativi a vestiario e mobili utilizzati da personaggi del mondo dello spettacolo.

[40] «È stato sottolineato come la documentazione della spesa non sia sempre necessaria, posto che il contribuente può fornire la prova con qualsiasi mezzo. D’altra parte, i predetti oneri sono regolarmente accertabili attraverso l’ispezione presso o studio del professionista o presso i pubblici uffici. In ogni caso, dall’esame dell’atto, del repertorio notarile e della pratica sono ritraibili tutti gli elementi necessari per quantificare con certezza e precisione le somme anticipate in nome e per conto del cliente». In questi termini, L. FORNERO, Spese anticipate in nome e per conto del cliente non sempre documentate, in Il Quotidiano del Commercialista, 2018.

[41] In questi termini A. BORGOGLIO, Costi inerenti se correlati all’attività in senso ampio, in Il Fisco, 2018.

[42] Così, Cass., sent. n. 18904/2018.

[43] G. GAVELLI, Software, auto e marchio: quando la spesa è inerente, 2018, secondo cui «Non si tratta di una relazione diretta, tale da far sorgere l’obbligo di dover sempre individuare a quale specifico compenso si riferisca il singolo costo. Il legale, infatti, come insegna la giurisprudenza di legittimità, non è tra costo e singolo provento, ma tra onere sostenuto ed attività esercitata».

[44] Cass., ord. n. 321 del 10 gennaio 2018.

[45] G. GAVELLI, Costituiscono oneri deducibili i contributi obbligatori versati alle casse professionali, in Corr. trib., 2002, 16, 1452.

[46] Cass. civ. n. 6548 del 2012 cit.

[47] Sul punto, anche, S. SERVIDIO, Immobile in affitto e detrazione dell’Iva per lavori di ristrutturazione, in Immobili & Proprietà, 2019, 3, 175.

[48] L. FORNERO, Reddito di lavoro autonomo; N. FORTE, La deducibilità delle spese per rinnovare lo studio professionale. Ai sensi dell’art. 54, comma 2, T.U.I.R., le spese relative all’ammodernamento, ala ristrutturazione e alla manutenzione degli immobili strumentali utilizzati esclusivamente nell’esercizio dell’arte o della professione sono: –  imputate ad incremento del costo del bene; – ovvero deducibili nel periodo d’imposta di sostenimento, nel limite del 5% del costo complessivo di tutti i beni materiali ammortizzabili risultante all’inizio del periodo d’imposta; l’eventuale eccedenza è deducibile in quote costanti nei cinque periodi d’imposta successivi.

[49] Cfr. Cass. n. 2939/2006, n. 6936/2011, n. 13494/2015.

[50] Cfr. Cass. n. 10079/2009, n. 3544/2010, n. 16596/2015.

[51] Cass. n. 11907/2019 con commento di A. BORGOGLIO, Deducibili le spese di ristrutturazione dello studio professionale anche se l’immobile è del coniuge, in Il Fisco, 2019, 22, 2181.

[52] Cfr. R.M. 27 dicembre 1983, prot. 400 e 10 luglio 1982, prot. 2980.