Testamento confidenziale e tradizione giuridica: alle radici dell’art. 627 c.c.
Studiosi del linguaggio e sociologi sono persuasi che il significato più pregnante di fides sia da cogliere non nell’ambito religioso o puramente etico, ma nel mondo del diritto, perché il diritto ‘vede’ la ricchezza della fides nel suo aspetto dinamico e relazionale e ‘legge’ quindi la fides come fiducia: come affidamento e attesa dell’adempimento altrui, come lealtà e come patto (foedus) da rispettare[[1]].
La volontà fiduciaria del defunto, destinata a compiersi solo grazie alla fedele cooperazione di una persona che gli sopravvive, è una volontà sospesa. Il diritto può dettare regole per sovvenirla, apprestando rimedi contro la sua inesecuzione (ed è stata questa la sorte della fiducia successoria lungo l’età medievale e moderna); o per frustrarla, inibendone l’accertamento e la tutela a vantaggio di altri interessi e valori (ed è questo, in via di massima, l’orientamento prevalso nell’età della codificazione).
La storia giuridica delle fiducie successorie, sebbene la distinzione non sia proprio così netta, può dunque suddividersi in due fasi: prima e dopo i codici. ‘Prima dei codici’ è un tempo lunghissimo, perché tiene unite l’epoca antica, medievale e moderna nel segno della solidarietà con la volontà fiduciaria dei morti. L’età dei codici, dietro un volto apparentemente severo, tradisce invece più di un’ambiguità, per il peso che la tradizione interpretativa di favore continua ad esercitare sulle nuove regole restrittive introdotte a presidio della certezza delle disposizioni di ultima volontà.
Poiché la trama della fiducia successoria emerge all’osservazione quasi sempre e solo nel momento in cui il progetto volitivo del testatore entra in crisi, perché disdetto dal contegno infedele del fiduciario, l’indagine non potrà non considerare e privilegiare, per l’età che precede come per quella che segue i codici, il piano delle controversie giudiziali.
Prima dei codici
1. La radice romana
La radice più consistente della fiducia testamentaria è romana ed è condensata nella parola e nella multiforme vicenda del fideicommissum, «forse il solo istituto romano che conservi identità e nome unico pur adempiendo a più funzioni»[[2]]. Nell’esperienza giuridica romana fideicommissum ha infatti almeno due significati:
– il primo designa il fideicommissum delle origini, che la dottrina medievale e moderna, per caratterizzarlo, aggettiverà come fiduciarium, ribattezzandolo poi più propriamente come fiducia testamentaria;
– il secondo designa il fideicommissum giuridificato dai senatoconsulti del I secolo d.C., con cui il fedecommesso delle origini, depurato del suo elemento fiduciario, venne trasformato in un tipo speciale di legato.
La prima tipologia di fedecommesso (il fedecommesso ‘fiduciario’) ha la sua più antica fonte nella pratica delle commendationes morentium di ciceroniana memoria, rivolte in particolare ad aggirare le leggi caducarie, limitative della capacità di ricevere per testamento. Nate sul terreno dell’amicizia e dell’umana solidarietà, queste fiducie successorie erano solo moralmente obbligatorie e veicolavano volontà del defunto che interferivano in parte o in tutto con quelle dichiarate formalmente, orientandone l’esecuzione a fini diversi da quelli ‘apparenti’. Si parlava e ancora si parla, a questo riguardo, di fiducie ‘segrete’ (o ‘tacite’ o ‘improprie’) e di fiducie ‘semi-segrete’ (o ‘espresse’ o ‘proprie’) in base appunto al grado di esternazione e formalizzazione della volontà fiduciaria. Quando era indirizzata a fini leciti di trasmissione indiretta del patrimonio, la fiducia che il testatore aveva riposto nell’erede o nel legatario era regolarmente premiata dall’interpretatio – in omaggio alla supremazia della voluntas del testatore – con un regime di favore nettamente divergente dal rigido regime giuridico delle sostituzioni ereditarie introdotto con la forma giuridificata di fedecommesso.
Quest’ultima forma di fedecommesso era stata costruita dalla legislazione romana della prima età imperiale come un doppio o plurimo grado di successione; e ciò per tre ordini di ragioni:
– per arginare le frequenti infedeltà degli eredi e dei legatari fiduciari e quindi per ‘curare’ la patologia del fideicommissum fiduciarium;
– per isolarne l’impiego illecito, in frode alla legge;
– per dare una regola e un limite alle pianificazioni patrimoniali familiari.
Il nuovo fedecommesso legificato, com’è noto, s’imperniava sull’obbligo della restitutio dei beni al fedecommissario e sulla remunerazione dell’erede gravato con la quarta parte del compendio ereditario. Il beneficio patrimoniale costituito dalla quarta ‘trebellianica’, così detta dal nome del senatoconsulto che la introdusse, serviva a scongiurare il rischio che l’erede, al quale fosse stato imposto dal testatore di restituire tutto o quasi tutto al fedecommissario, non accettasse l’eredità lasciando così privo di efficacia il fedecommesso, data la sua relazione di accessorietà con la delazione.
In seguito alla giuridificazione del fedecommesso, i bisogni che ne avevano promosso il primo uso fiduciario finirono, già in età romana, per deviare l’istituto verso la funzione originaria. Tra le più frequenti applicazioni a scopo puramente fiduciario dell’istituto del fideicommissum vi erano, ad esempio, i casi di figli non ancora sui iuris, che il testatore preferiva beneficiare nominando un erede gravato di restituzione, piuttosto che rassegnarsi all’amministrazione di un tutore indesiderato. In tali casi l’erede formalmente gravato della restituzione era in realtà incaricato di una fiducia, ossia di provvedere medio tempore alla custodia-amministrazione del lascito destinato per intero al fedecommissario. Nel rispetto della ‘vera’ volontà del disponente, questi casi giustificavano un regime di eccezione rispetto al fedecommesso ‘ordinario’. L’eccezione consisteva innanzitutto nel non riconoscere all’erede (fiduciario) alcun vantaggio economico, né la ‘quarta’ né i frutti, essendo destinati l’una e gli altri in via esclusiva al fedecommissario. Ma quella stessa eccezione implicava di regola anche il controllo, in termini di rendiconto, sull’adempimento dei compiti gestori demandati all’erede fiduciario.
Per queste ipotesi i giureconsulti romani offrirono una perfetta soluzione ermeneutica: quando si accertasse (anche solo dal tenore delle parole del testamento, espressive della volontà fiduciaria) che il fedecommesso fosse stato impiegato dal testatore come strumento di un’operazione meramente fiduciaria, il termine differito per la restituzione dell’eredità o del lascito veniva interpretato come apposto ad esclusivo vantaggio del fedecommissario e perciò veniva fatto retrocedere al momento dell’apertura della successione. In questo modo, l’erede e il legatario di fiducia non maturavano alcun diritto economico, degradando a semplici ministri dell’ultima volontà fiduciaria. Il termine ministri, impiegato nelle fonti romane, diventerà, non a caso, di uso corrente nell’età medievale per designare gli esecutori testamentari, a cui il successore fiduciario verrà, quanto alla funzione, tendenzialmente parificato.
Ad un certo punto dello sviluppo storico del fedecommesso romano, dunque, un unico congegno trasmissorio indiretto aveva collocato nello stesso ruolo – ma allo snodo di due divergenti strategie patrimoniali – due figure nettamente distinte: il successore gravato e il successore fiduciario. Il primo (successore gravato) era erede o legatario a tutti gli effetti, sebbene a termine o sotto condizione, con l’unico limite di non poter alienare i beni da ‘restituire’; all’atto della restituzione, l’erede gravato aveva il diritto di esigere la quarta parte dell’eredità. Il secondo (successore fiduciario) era invece titolare-amministratore dell’eredità o del legato nell’interesse esclusivo del fedecommissario (contemplatione solius fideicommissarii). Qui la funzione fiduciaria – che poteva consistere ora nella mera custodia, ora nella gestione produttiva del patrimonio fiduciato – assorbiva totalmente il titolo e pertanto a chi ne fosse onerato non veniva riconosciuto alcun lucro. Su quest’ultima figura si modellerà l’erede fiduciario dell’età intermedia[[3]].
2. Gli sviluppi medievali
Sulla radice romana tre giuristi italiani del tardo medioevo, non per caso legati da genealogia di scuola, innestarono tre importanti costruzioni teoriche: a) la qualificazione come ‘contratto’ della fiducia, ogni volta che la volontà confidenziale del testatore fosse ricambiata dalla promessa di eseguirla; b) la definizione della titolarità fiduciaria, resa ormai concettualmente autonoma ed estromessa dall’orbita del fedecommesso; c) la previsione di un ventaglio di tutele giudiziarie per assistere convenientemente le aspettative dei beneficiari della fiducia.
a) Il ragionamento che portò a qualificare la fiducia come contratto originò dall’analisi della celebre costituzione dell’imperatore Giustiniano (a. 531) sul caso del fedecommesso ordinato dal testatore sine scriptura et praesentia testium (C. 6, 42, 32; I. 2, 23, 12). Questa norma diceva che ove il successore gravato non adempisse il fedecommesso confidenziale, il beneficiario era autorizzato a deferirgli il giuramento; il fiduciario non avrebbe potuto rifiutare di prestarlo, né avrebbe potuto eccepire il difetto di forma del fedecommesso, pena la condanna ad eseguirlo. Ma contro il giuramento negativo, ossia contro la dichiarazione giurata di non aver ricevuto dal testatore alcun incarico di ritrasferire l’eredità o il bene a terzi, la norma romana non prevedeva alcuna contro-prova, sicché l’accertamento dell’esistenza del fedecommesso era di fatto rimesso alla volontà proprio di colui che era interessato a negarla. Mostrandosi così poco efficace la tutela imperiale, per offrire maggiori chances processuali al beneficiario, Bartolo da Sassoferrato (1313-14/1357-58) lesse in chiave contrattuale, ossia come promissio resa dall’onerato al defunto, il casus preso a base dalla costituzione giustinianea. Del resto, se fides, come avevano affermato i grandi oratori romani, è ‘fare ciò che si è promesso’[[4]], nell’affidamento ricambiato da promessa poteva ben dirsi compreso un contenuto di mandato. L’erede che prometteva di eseguire la confidentia del testatore era, dunque, come se avesse stipulato con lui un contratto. Conseguentemente, il beneficiario della fiducia poteva far valere in giudizio il contratto inadempiuto. Il vantaggio di convenire in giudizio l’erede ex stipulatu era nella prova dell’obbligazione fiduciaria, che poteva essere raggiunta anche a mezzo di due soli testi, quanti le regole giuridiche romane ne richiedevano per i contratti in genere[[5]].
La fiducia-contratto[[6]], che non assorbiva l’intera fenomenologia delle disposizioni fiduciarie di ultima volontà, non coprendo le ipotesi di fiducia unilaterale[[7]], riaffiorerà frequentemente negli schemi della giurisprudenza fino alle soglie dell’età dei codici[[8]].
b) Alcuni anni dopo, Baldo degli Ubaldi (1327-1400), esaminando un caso di patto fiduciario testamentario segreto infranto dall’approfittamento dell’erede di fiducia, offrì una limpida rappresentazione del fenomeno della titolarità fiduciaria nei negozi mortis causa, scolpendo la figura dell’erede istituito nell’esclusiva contemplazione di un altro soggetto, al tempo stesso titolare dell’eredità e mero fiduciario («nudus a commodo, sed non a titulo»). A questo titolare fiduciario dell’eredità non sarebbe spettato alcun lucro, essendo destinato il patrimonio ereditario ad una persona diversa da quella nominata nel testamento. A quest’ultima persona, ossia al beneficiario della fiducia, andava invece riconosciuto uno ius utile e una corrispondente actio utilis intesa a provare il rapporto fiduciario sotteso al testamento[[9]]. Grazie a questa autorevolissima dottrina, la titolarità fiduciaria avrebbe conquistato anche nel campo successorio la sua autonomia concettuale, emancipandosi dal fideicommissum, che nella prassi testamentaria era spesso solo lo schermo giuridico formale sotto quale si svolgeva, con ben altre regole, la vicenda della gestione e del trasferimento di patrimoni fiduciati.
c) All’actio utilis in favore del beneficiario i giuristi medievali sommarono altri rimedi giudiziari a tutela delle aspettative tradite dal contegno infedele del successore fiduciario. In un suo consilium Paolo di Castro (1360/62-1441) indicò altre due azioni processuali esperibili per il caso che l’erede fosse stato istituito ‘in contemplazione’ di un altro soggetto: l’actio negotiorum gestorum e l’actio mandati. I tre rimedi corrispondevano a fenomenologie differenti dell’affidamento fiduciario, ma tutti e tre convergevano nel risultato di garantire l’esecuzione coattiva dell’impegno fiduciario; sempre atteso, ovviamente, che la fiducia non fosse disposta in frode alla legge[[10]].
3. Gli sviluppi moderni
Impostato sui binari delle dottrine civilistiche tardo-medievali, il fenomeno delle fiducie testamentarie incontrò un notevole successo in età moderna, alimentato sia dal diritto canonico (per il suo particolare apprezzamento delle ultime volontà informali e delle obbligazioni da nuda promessa), sia dalla giurisprudenza pratica, che allargò di molto il perimetro probatorio della fiducia. Negli indirizzi della Rota Romana e delle altre grandi corti giudiziarie della prima età moderna il valore di prova dei verba commendaticia e delle coniecturae della fiducia – dedotte da testimonianze, da documenti, dal comportamento stesso del testatore, dalla condizione dei soggetti interessati e da altre significative circostanze di fatto – fu infatti assunto a base dell’accertamento giudiziale della volontà ‘confidata’. Presunzioni, congetture e indizi verosimili erano un campo di prove, da un lato, simmetrico alla scarsa ‘visibilità’ della volontà del defunto e, dall’altro, solidale con la centralità che quella volontà assumeva nell’ermeneutica tradizionale del testamento.
Valgano come esempi alcuni casi giudiziari sette-ottocenteschi.
Il 9 febbraio 1764 il Senato di Piemonte aveva interpretato come certamente fiduciaria l’istituzione dell’erede fatta in un testamento del 1749, perché attestata da «coniecturae et praesumptiones confluentes» basate sulle parole («in tutti i suoi beni instituisce erede universale il signor Chierico Gioanni Guglielmo Rolfo; ad effetto venga puntualmente eseguita la sua mente, nomina in esecutore testamentario il signor D. Carlo Francesco Gays pregandolo di accettare un tale carico»), il contesto (la testatrice, donna nubile, era legata da molto affetto ai suoi due nipoti, con i quali aveva sempre convissuto) e la causa della disposizione testamentaria (l’opportunità di sottrarre i due nipoti alle pretese dei creditori del loro defunto padre): congetture e presunzioni tutte convergenti nel far degradare l’erede scritto da «heres cum re» a «depositarius, custos et administrator ad utilitatem nepotum»[[11]].
Per il Senato di Nizza (sentenza del 6 maggio 1773) che un’intera eredità fosse destinata fiduciariamente all’unica figlia del testatore a mezzo del notaio amico istituito erede (ma non anche indicato nel testamento come ‘fiduciario’: dunque si versava in un caso di fiducia totalmente segreta o ‘impropria’) era sufficientemente suffragato da cinque testimonianze singulares della promessa fatta dall’erede fiduciario al testatore, ancorché rese da parenti di quest’ultimo: in tal caso la fede testimoniale prevaleva su quella dell’erede scritto, che non era stato ammesso a prestare giuramento[[12]].
I criteri di giudizio non cambiavano se protagonista della fiducia era un soggetto ‘meramente’ fiduciario, vale a dire un esecutore incaricato di mandare ad esito disposizioni testamentarie segrete. Anche a favore di questa figura sempre il Senato di Nizza il 24 novembre 1790 aveva risolto una controversia ingaggiata dagli eredi testamentari, figli della testatrice, contro il notaio suo «confidente» in ordine a tutti i beni mobili, che la testatrice aveva affidato al notaio perché adempisse a quanto al medesimo comunicato «a viva voce». La testatrice aveva espressamente esonerato il notaio-esecutore da qualunque rendimento di conto e proibito agli eredi ogni ingerenza, pena la riduzione alla sola legittima della quota per l’erede contravventore. A tutela del segreto imposto dalla testatrice, anzi affermando che l’uso stesso nel testamento della parola «confidenza» comportasse come conseguenza l’obbligo di mantenere il segreto, con voto unanime il collegio dei cinque giudici nizzardi aveva autorizzato il notaio a prendere possesso dei beni «per impiegarli negli usi statigli dalla testatrice in voce confidati», solo imponendogli di giurare di aver ricevuto dalla testatrice la suddetta confidenza e che dall’impiego dei beni mobili non avrebbe tratto alcun profitto per sé[[13]].
Se ogni genere di prova era idoneo ad accertare la natura fiduciaria dell’istituzione, quando questa fosse già sicura per riconoscimento dello stesso erede fiduciario, l’oggetto della tutela si spostava sulla volontà fiduciaria e sulla sua esecuzione nel pieno rispetto delle determinazioni del de cuius. Nel caso che la nomina dell’erede fiduciario fosse stata accompagnata dalla dispensa espressa dall’obbligo di dichiarare con giuramento la fiducia, la richiesta che ne fosse avanzata da terzi interessati veniva sistematicamente respinta, anche se il giuramento fosse limitato ad ammettere o ad escludere che determinati soggetti fossero i beneficiari della fiducia. Così, in relazione ad un testamento del 1831, in cui il disponente aveva ordinato che la propria erede fiduciaria «non potesse mai venir astretta a dichiarare la fiducia», il Senato di Casale (sentenza del 2 dicembre 1839) aveva deciso che essendo il segreto indissociabile dalla fiducia, l’esonero del fiduciario dall’obbligo di propalarla «tende necessariamente al modo di eseguire la fiducia medesima». Se fosse lecito a chiunque deferire il giuramento all’erede fiduciario, «ne seguirebbe un continuo avvicendarsi di cause e di giuramenti, molti dei quali tornerebbero vani e tali altri lesivi di quel segreto, per cui la legge volle permettere la fiducia, e così oltre lo sfregio alla santità dell’atto religioso ad ogni capricciosa richiesta, ne verrebbe pure l’inutilità d’un segreto per altra parte ammesso e consacrato dalla legge»[[14]].
A maggior ragione, i tribunali non esitavano a soccorrere l’ultima volontà fiduciaria nel caso in cui l’erede fiduciario volgesse a proprio profitto l’incarico ricevuto dal testatore. In un caso deciso dal Senato di Genova il 3 dicembre 1819 (il testamento risaliva al 1799) l’erede fiduciario non solo non aveva mai dichiarato la fiducia, ma si era appropriato dei beni della testatrice, aveva contratto numerosi debiti per somme rilevanti, era fallito e si era infine dileguato. Il nipote della testatrice, affermando che la zia era ricorsa alla nomina dell’erede fiduciario per preservare un patrimonio che, in caso di vocazione espressa del nipote, gli sarebbe stato sottratto dai suoi creditori e provando questa circostanza con testimoni (il notaio che aveva rogato il testamento e un sacerdote: notai e sacerdoti sono personaggi di prima fila nelle vicende fiduciarie di età moderna), aveva chiesto ed ottenuto l’annullamento del testamento e l’attribuzione dell’eredità in qualità di unico erede legittimo[[15]].
L’età dei codici. La fiducia dei francesi
Le controversie in materia di eredità fiduciarie erano intanto divenute sempre più complicate, esasperate dagli interessi in conflitto e risolte spesso con eccessivi margini di incertezza. I diritti nazionali di fine età moderna provarono ad alzare argini, ma le concezioni filo-fiduciarie dominanti nell’età del diritto comune continuarono a lungo ad influenzare gli indirizzi della giurisprudenza, anche dopo che le strettoie imposte agli affidamenti privati transmorte dai nuovi principi legislativi (nullità delle disposizioni orali, abolizione dei fedecommessi, nullità della nomina di persone incerte e rimessa all’arbitrio del terzo, divieto di provare la fiducia), sanciti prima dalla legislazione francese, poi dai codici della Restaurazione e quindi dal codice civile italiano del 1865, intervennero ad inibirne l’operatività.
1. Fiducia e forme testamentarie
L’indirizzo restrittivo della legislazione statale era stato inaugurato in Francia già con l’ordonnance di Luigi XV sui testamenti del 1735, che aveva imposto la forma scritta per «tutte le disposizioni testamentarie o a causa di morte, di qualunque natura siano» e dichiarato nulle le disposizioni fatte verbalmente, vietandone la prova per testimoni, anche quando le disposizioni orali avessero ad oggetto lasciti di tenue valore[[16]].
Con questo drastico provvedimento la legislazione regia interrompeva una tradizione di oralità testamentaria assai radicata in Francia, sia nell’area di droit écrit sia in quella di droit coutumier[[17]]. Tra le forme tipiche di testare ereditate dal diritto romano i pays de droit écrit annoveravano, infatti, oltre al testamento mistico o segreto[[18]] e al testamento «solenne» scritto, il testamento nuncupativo[[19]], sia nella sua forma ‘pura’, sia in quella ‘scritta’, cioè con successiva verbalizzazione di ciò che i testimoni avevano udito. In caso di controversia sull’effettivo contenuto del «testament faite de bouche sans escriture» (come viene denominato nelle coutumes di Liegi, Lorena ed Épinal)[[20]], colui che se ne assumeva beneficiario promuoveva l’enquête, da svolgersi dinanzi alle parti interessate, quasi sempre gli eredi ab intestato, secondo le forme disciplinate dall’ordonnance del 1667 di riforma della giustizia civile: i testimoni dovevano deporre unicamente su ciò che il testatore aveva detto in loro presenza e se le loro attestazioni concordavano, il testamento veniva messo per iscritto e pubblicato.
Oltre ai pays de droit écrit, anche un elevato numero di coutumes dei territori della Francia settentrionale ammetteva, insieme alle forme più ricorrenti, costituite dal testamento olografo e dal testamento autentico (attestato cioè da ufficiali pubblici competenti)[[21]], la validità del testamento nuncupativo puro, sempre che fosse fatto alla presenza di almeno due testimoni. Le coutumes che non contenevano discipline testamentarie proprie applicavano il regime del testamento di diritto canonico, valido anch’esso se fatto verbalmente dinanzi a due testimoni (necessari ai soli fini della prova)[[22]], che in questo modo assurgeva a diritto consuetudinario comune[[23]].
La validità delle disposizioni orali di ultima volontà costituiva, com’è intuibile, una cornice propizia alla validità delle disposizioni fiduciarie. Una precisa norma di favore per le disposizioni orali segrete era espressamente prevista dalle consuetudini dell’Hainaut (1619) relativamente al caso dei legati segreti rimessi alla fiducia degli esecutori[[24]]: norma di fatto estesa dalla giurisprudenza dei tribunali anche ad altre aree della Francia, come attestano i casi giudiziali riferiti da Philippe-Antoine Merlin nel suo Répertoire[[25]].
Proscrivendo le disposizioni orali di ultima volontà, l’ordonnance dell’agosto 1735 non poté dunque non colpire le fiducie testamentarie e disincentivarne la pratica[[26]]. Il cambio d’epoca sarebbe divenuto irrevocabile con il codice civile del 1804, che restringendo a sole tre, e tutte scritte, le forme valide di testare (testamento olografo, testamento per atto pubblico e testamento mistico o segreto: capo V, sez. I, artt. 969-980), sembrò escludere che il testatore potesse validamente rimettere ad una personne de confiance, direttamente o tramite il proprio successore, l’esecuzione di disposizioni segrete comunicate verbalmente[[27]]. Tuttavia, il silenzio del codice civile francese in materia di fiducie testamentarie avrebbe lasciato aperta la questione della loro validità, che interferiva non solo con il piano delle forme testamentarie ammesse dalla legge, ma anche con la controversa disciplina delle altre modalità successorie imperniate sul coinvolgimento di una persona media: la disposizione a favore di persona incerta, l’arbitrio e la dichiarazione del terzo per la designazione del successore e il fedecommesso.
2. Fiducia e persona incerta
La nullità delle disposizioni testamentarie in favore di persone incerte, già prevista dall’ancien droit[[28]], doveva ritenersi accolta anche dal codice civile napoleonico, sebbene questo codice non contenesse una norma espressa di divieto. Le disposizioni testamentarie, affermano Aubry e Rau, devono essere fatte a favore di persone certe, altrimenti devono reputarsi inesistenti; e incerte sono tutte le persone la cui identità non sia «ni actuellement déterminée, ni même susceptible de l’être par l’arrivée de quelque évènement indiqué dans le testament»[[29]].
Nella definizione di persona incerta rientrava a buon diritto anche il beneficiario di una disposizione fiduciaria. Persone incerte, infatti, dovevano intendersi, oltre a quelle «qui sont de fait incertaines», anche quelle «qui ne sont pas certaines aux yeux de la loi, c’est-à-dire celles que le testateur aurait indiquées, soit verbalement, soit par écrit, comme devant profiter de l’effet de sa disposition, sans cependant les avoir désignées dans un acte revêtu des formalités testamentaires»[[30]]. La nullità colpiva dunque sia i casi di errata o imprecisa designazione del successore (persone oggettivamente incerte), sia i casi in cui il testamento alludesse a vantaggi patrimoniali da destinare, tramite l’erede, il legatario o l’esecutore, a persone non espressamente identificate (persone per legge incerte), nonché i casi di fiducia totalmente segreta. Gli esempi proposti a riguardo non lasciavano adito a dubbi: il legato attribuito perché il legatario ne faccia l’uso confidato era nullo quand’anche il legatario si offrisse di provare che il beneficiario era una persona capace di ricevere dal testatore; e nulla era pure l’istituzione di erede, quando si provasse che era simulata e l’istituito non fosse, di fatto, che un esecutore testamentario incaricato di ricevere il patrimonio del testatore per trasmetterlo a persone incerte o destinarlo a scopi non indicati nel testamento[[31]]. L’incertezza del beneficiario del lascito dava luogo ad una nullità «d’ordine pubblico», che nemmeno la ratifica degli eredi e degli aventi causa poteva sanare e che colpiva sia le disposizioni che il testatore facesse in favore di una persona indicando espressamente che i beni fossero impiegati «suivant des intentions don’t il lui a confié le secret» (fiducia semi-segreta), sia le disposizioni da cui non trapelasse alcuna intenzione fiduciaria (fiducia segreta). Nell’uno come nell’altro caso gli interessati avevano diritto di provare con ogni mezzo possibile che il successore designato non fosse che apparente e che fosse stato interposto dal testatore per avvantaggiare persone incerte[[32]].
Non tutta la dottrina, però[[33]], e nemmeno tutta la giurisprudenza francese erano dell’idea che le disposizioni testamentarie contenenti parole di fiducia deponessero per un’implicita volontà di avvantaggiare per via indiretta persone incerte. Il Tribunale e la Corte d’appello di Lione, ad esempio[[34]], giudicarono valido il testamento olografo del 21 marzo 1821 con cui la testatrice aveva nominato erede un’amica, la quale «connaît mes intentions et en qui j’ai la plus grande confiance». Contro la pretesa degli eredi legittimi di far dichiarare nulla l’istituzione perché destinata a persona incerta (e forse anche incapace: il sospetto era che si trattasse di un’interposizione per far pervenire i beni ad un convento non autorizzato a riceverli), i giudici lionesi, considerando che l’istituzione d’erede era espressa, formale e priva di condizioni e che la formula fiduciaria non conteneva alcun incarico esplicito all’erede di disporre della successione secondo le istruzioni confidate, conclusero per la validità del testamento, riconoscendo l’erede nominata «maitresse absolue de l’hérédité». Il riconoscimento della pienezza formale del titolo ereditario, in casi come questo, faceva evidentemente da scudo all’esecuzione spontanea dell’obbligazione fiduciaria, secondo uno schema che – anche con il suo ineliminabile rovescio, costituito dal rischio del sempre incombente tradimento – vedremo riproposto dai codificatori piemontese (1837) ed italiano (1865).
Nel raggio comunque esteso della nozione di personne incertaine finivano per confluire anche gli altri motivi che deponevano per l’invalidità delle fiducie: la nullità delle disposizioni orali di ultima volontà e il divieto di rimettere al terzo la nomina o la dichiarazione del successore (oltre ovviamente al fedecommesso). Queste diverse ‘letture’ del fenomeno fiduciario venivano spesso coacervate dalla giurisprudenza nella diagnosi dei casi giudiziali. Ne è un esempio un caso controverso deciso in regime di codice napoleonico e definito nel 1811 dalla Cassazione francese[[35]]; un caso molto noto anche perché la requisitoria che fornì la base a questa sentenza fu svolta in quel giudizio dall’allora procuratore generale Philippe-Antoine Merlin (1754-1838), che la riportò poi pressoché per intero nel suo Répertoire[[36]].
Il caso era il seguente. Nel suo testamento del 17 agosto 1807, con cui nominava erede universale il figlio minore Jean-Baptiste Merendol perché disponesse dell’eredità al compimento dei 24 anni d’età e affidandone fino a quel momento l’amministrazione a tre esecutori testamentari, Jean Merendol, commerciante di Marsiglia, aveva scritto: «Mes exécuteurs testamentaires mettront à la disposition de M. Jean-Laurent Laugier, prête de cette ville, […] la somme de quatorze mille francs, pour laquelle je lui ai fait connaître mes intentions». L’erede testamentario, attraverso la madre sua tutrice, aveva acconsentito all’esecuzione della disposizione; gli eredi ab intestato l’avevano invece impugnata di nullità in quanto «une substitution, une fidéicommis, une faculté d’élire, ou du moins un legs incertaine quant à la personne qui devait le recueillir». Il 2 giugno 1808 il tribunale di Marsiglia dichiarò valida la disposizione, che giudicò non assimilabile ad una sostituzione, dato che il fiduciario Laugier era stato incaricato non di ritrasmettere la somma, ma soltanto di farne l’uso desiderato dal testatore; il sospetto che la disposizione potesse favorire un incapace e ricadere così nel divieto dell’art. 902 del codice civile[[37]] era inoltre fugato dalla pubblica stima di cui il prete-fiduciario godeva. Quest’ultimo, nel corso del giudizio dinanzi alla Corte di Aix, a cui gli eredi legittimi si appellarono, si offrì anche di giurare che il legato non fosse destinato ad un incapace e persino di eseguire l’incarico fiduciario alla presenza di una persona nominata dal tribunale. La corte di Aix, il 5 giugno 1809, decise però per la nullità della disposizione e assegnò i 14.000 franchi agli eredi legittimi, non riconoscendo il diritto di accrescimento preteso dall’erede testamentario. Il fiduciario ricorse quindi in Cassazione. Nel corso di quest’ultimo giudizio venne acquisito un parere sottoscritto da otto giuristi, che riconobbe la piena validità della disposizione. Il parere faceva leva soprattutto sul silenzio del codice in tema di fiducie, alle cui spalle parlava però, e ad una voce sola, una lunga tradizione di pronunce giurisprudenziali concorde nel ritenerle valide: una tradizione «saggia», che avrebbe dovuto orientare anche l’interprete del nuovo diritto[[38]]. Da escludere, per quel parere, era pure che la disposizione contestata potesse essere interpretata come rimessa alla volontà di un terzo, poiché confidare all’esecutore testamentario una volontà da eseguire – ipotesi non proibita dalle leggi – è ben diverso dal subordinare la liberalità alla volontà altrui[[39]]. La Corte di cassazione non si fece però convincere da nessuno di questi argomenti e confermò la sentenza d’appello: la disposizione (formalmente non un «legato», dato che il testatore aveva ordinato agli esecutori di «mettere a disposizione» del fiduciario la somma) era nulla perché fatta non al fiduciario personalmente, ma a vantaggio di persona incerta segretamente indicata, circostanza che metteva inoltre il fiduciario nella condizione di scegliere il beneficiario a proprio arbitrio[[40]].
3. Fiducia e arbitrio
La faculté d’élire era un istituto successorio diffusosi in Francia durante l’ancien droit soprattutto nei pays de droit écrit, ove il modello di famiglia incentrata sulla potestà del padre aveva dato vita ad un’originale modalità successoria: l’institution à charge d’élire, ossia l’istituzione di erede abbinata all’onere di scegliere il futuro successore[[41]]. Il padre, che moriva lasciando figli minori, istituiva erede la moglie incaricandola, quando l’avesse ritenuto opportuno, di scegliere il figlio più meritevole di raccogliere il suo patrimonio. Lo schema, che aveva trovato applicazione anche con riguardo al legato e si era diffuso anche nei pays de coutume, aveva un’indubbia attinenza con il fedecommesso familiare, dato che la moglie incaricata di scegliere l’erede del marito premorto era istituita sua erede diretta e dato che la designazione del figlio veniva compiuta dalla madre di regola a mezzo del proprio testamento.
Distinta da questa modalità di scelta del beneficiario finale del lascito era quella più marcatamente fiduciaria, perché consistente nell’esecuzione diretta della volontà del de cuius, con cui il testatore rimetteva ad un terzo la dichiarazione del nome dell’erede (institution sur déclaration d’un tiers). Non essendo però qui il fiduciario anche titolare del lascito, la tendenza dei tribunali francesi era di far equivalere questa ipotesi all’istituzione di una persona incerta, sanzionandola come nulla[[42]].
Negli anni del droit intermediaire la materia dell’arbitrio nella nomina del successore fu sensibilmente incisa dal decreto sulle donazioni e le successioni del 17-21 nevoso anno II (6-10 gennaio 1794), che oltre a sopprimere la libertà di testare e ad introdurre altre radicali riforme del diritto successorio[[43]], all’art. 23 dichiarò nulla la scelta dell’erede o degli eredi compiuta dal coniuge superstite in esecuzione dell’incarico conferitogli dall’altro coniuge[[44]]. Poiché però questa norma disciplinava il solo caso che il coniuge disponente «aurait conféré au conjoint survivant la faculté d’élire un ou plusieurs héritiers dans ses biens», senza far riferimento all’ipotesi che il coniuge superstite investito della faculté d’élire rivestisse egli stesso la qualità di erede – e dunque senza far riferimento all’institution à charge d’élire –, restava dubbio se l’istituzione d’erede gravata di facoltà di scelta integrasse una sostituzione fedecommissaria (vietata: tutte le sostituzioni fedecommissarie, come vedremo, erano state abolite in Francia due anni prima) oppure una «simple faculté d’élire» (valida). Il dubbio fu sciolto pochi mesi dopo dal decreto 9 fruttidoro anno II (26 agosto 1794) inteso a dirimere le numerose questioni controverse insorte sul precedente decreto del 17-21 nevoso. Rispondendo alla questione «si l’institution faite par un mari à sa femme, ou par une femme à son mari, avec charge expresse de rendre l’hérédité à tel de leurs enfans que l’institué voudra choisir, renferme une substitution ou une simple faculté d’élire», l’art. 19 del decreto 9 fruttidoro confermò, nella sostanza, che quella fattispecie doveva essere intesa come una sostituzione fedecommissaria, stabilendo che per i testamenti aperti dopo il 14 luglio 1789 l’efficacia della designazione compiuta dal coniuge superstite fosse ridotta alla sola quota di usufrutto che la legge abolitiva delle sostituzioni aveva reso disponibile in caso di figli minori del testatore[[45]].
Il dubbio tornò però a proporsi dopo l’entrata in vigore del codice civile napoleonico (1804), dato che questo codice non aveva dettato alcuna norma espressa in materia di faculté d’élire[[46]] (come non l’aveva dettata sulla fiducie). Gli interpreti riconobbero tuttavia inderogabile anche nel nouveau régime il principio che le disposizioni testamentarie dovessero essere espressione diretta della volontà del testatore. Il principio veniva tratto sia dall’art. 895, secondo cui il testamento è l’atto con cui «le testateur dispose», per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutti o di parte dei suoi beni[[47]]; sia dall’art. 967, per il quale il testatore, a qualunque titolo disponga (istituzione di erede, legato o altro), deve «manifester sa volonté». Dal principio della manifestazione espressa e diretta della volontà veniva fatta discendere sia la nullità della nomina dell’erede rimessa alla volontà del terzo, sia la nullità della disposizione che facesse dipendere l’esistenza di un legato dal merum arbitrium dell’erede o di un terzo. A parte due sole eccezioni, di chiara discendenza romanistica – il legato ordinato sotto condizione potestativa, dipendente cioè dalla volontà dell’erede o del terzo; e il legato rimesso all’arbitrium boni viri dell’erede o del terzo[[48]] –, si riteneva pertanto che la faculté d’élire, ammessa nell’ancien droit, fosse «implicitement proscrit par le Code, par cela même qu’il ne l’a pas formellement autorisé»[[49]].
La mancanza di un espresso divieto codicistico in materia di faculté d’élire autorizzava però anche opinioni opposte. Per Troplong, ad esempio, «la faculté d’élire n’a rien en soi de contraire aux lois [...]. Seulement si la [...] est liée à une substitution prohibée, [...] elle tombera non pas comme faculté d’élire, mais comme substitution. [...] Et pourtant même lorsqu’elle présentera les apparences d’une substitution, on examinera si cette apparence n’est pas trompeuse, et si, au lieu d’une substitution, il n’y aurait pas plutôt un simple mandat, une fiducie»[[50]]. Gli stessi Aubry e Rau la ritenevano lecita quando il legato fosse conferito ad una determinata persona gravata di trasferirne le rendite a vantaggio di soggetti da individuarsi da un terzo (anche un simile programma negoziale poteva essere inquadrato come valida operazione fiduciaria). In questi casi la faculté d’élire veniva detta simple faculté d’élire, appunto per distinguere la fattispecie lecita da quella proibita (vedremo impiegato lo stesso aggettivo «simple», e sempre allo scopo di individuarne l’area lecita di applicazione, anche a proposito del fedecommesso e della fiducia). Ove la clausola testamentaria che delegava il terzo a scegliere il beneficiario fosse giudicata nulla, la validità della disposizione principale restava comunque salva, considerandosi, a termini dell’art. 900, semplicemente non scritta; a meno che, ovviamente, la faculté d’élire non mascherasse una sostituzione proibita (che per l’art. 896 del codice civile travolgeva anche l’istituzione) o non vi fosse collegata come modalità di individuazione del fedecommissario[[51]].
La giurisprudenza francese ebbe numerose occasioni di giudicare ultime volontà testamentarie che attribuivano all’erede la facoltà di scelta del successore e si mostravano suscettibili di essere qualificate come fiducia (valida) o come sostituzione fedecommissaria (vietata). La Jurisprudence générale Dalloz alla voce Substitution ne offre una significativa serie, a cavallo tra droit intermediaire e code civil[[52]].
Certamente prevalenti furono le pronunce che ricondussero l’institution à charge d’élire al fedecommesso. Solo per ricordarne alcune. Il 18 aprile 1787 il Parlamento di Tolosa aveva giudicato «non fiduciaire», ma fedecommissaria, l’istituzione d’erede d’una madre e di un fratello «chargés de rendre è deux enfants du testateur, tels qu’ils voudraient choisir»; e ciò per il solo fatto che il diritto di scelta era stato attribuito a soggetti formalmente eredi, rispetto ai quali i figli beneficiari non potevano che essere qualificati come sostituiti[53].
«Vraie substitution fidéicommissaire avec pouvoir d’élire et non pas seulement une simple faculté d’élire ou une fiducie» era stata giudicata dalla Corte di Cassazione francese il 18 frimaio anno V (8 dicembre 1797)[[54]] la disposizione con cui un marito aveva istituito erede la propria moglie «à la charge par elle de rendre son hérédité quand bon lui semblera, à tel des ses fils ou filles qu’elle jugera à propos, et saus aucun reddition de comptes, de quoi il la décharge par exprès». La motivazione di questa sentenza faceva ora leva non solo sulla diretta istituzione d’erede della moglie, rispetto alla quale la nomina del figlio costituiva un secondo grado di successione, ma anche sulla circostanza che il testamento non conteneva l’obbligo di restituzione ad un tempo o ad un’età determinati[[55]].
Identico indirizzo fu seguito anche dalla corte d’appello di Nimes del 17 agosto 1808[[56]], che aveva capovolto l’opposta pronuncia emessa in prima istanza dal tribunale civile di Privas. Il caso era quello di un disponente, che con testamento del 31 gennaio 1788, dopo aver legato a ciascuno dei suoi figli la rispettiva legittima, aveva istituto erede universale sua moglie «pour jouir de son héritage après son décès, à ses plaisirs et volonté, sans etre tenue à aucune reddition de compte, à la charge nèanmoins de remettre à la fin de ses jours, ou quand bon lui semblera, son héritage à celui de ses quatre enfans qu’elle voudra choisir; lui donnant en outre le pouvoir de vendre et engager en cas de besoin». In esecuzione della volontà del disponente, con atto del 16 marzo 1793 la moglie aveva trasmesso al figlio maggiore l’intera eredità del marito. Due figli avevano fatto causa al fratello maggiore ritenendo nullo l’atto di restituzione perché contrario alle leggi del 1792 abolitive delle sostituzioni fedecommissarie. Il fratello maggiore si era difeso sostenendo che la disposizione paterna contenesse una fiducia e non una sostituzione, in virtù della dispensa dal rendere conto e della facoltà di vendere e locare accordate alla madre-erede, che doveva quindi ritenersi gravata della sola obbligazione naturale di ritrasmettere. In primo grado il tribunale civile di Privas aveva accolto questa tesi, ritenendo che il testatore avesse di fatto disposto dell’eredità direttamente in favore del figlio eletto dalla moglie, la quale era stata designata erede solo per essere «la guardienne secrète de ses intentions»[[57]], talché l’incarico di ritrasferire non era in realtà «qu’un simple ministère, un mandat, une faculté de choix et d’élection parmi les enfans, en faveur de celui qu’il destinait pour son héritier». La corte d’appello andò però di opposto avviso; affermò che per qualificare la disposizione come simple fiducie non bastasse la sola clausola del testamento che esonerava l’erede dal rendere conto e che le attribuiva il potere di vendere i beni ereditari in caso di bisogno; della fiducia, inoltre, difettava l’elemento caratteristico, costituito dall’obbligo imposto all’«héritier apparent» di rendere i beni del testatore alla persona desiderata ad un termine o età determinati: termine che non poteva coincidere con la morte dell’erede e tanto meno corrispondere a ‘quando all’erede sembrerà più opportuno’, integrando questi due casi, rispettivamente, un fedecommesso post mortem e un fedecommesso condizionale.
Analoga soluzione fu adottata dalla corte d’appello di Tolosa il 18 maggio 1824 con riguardo al testamento pubblico in data 2 maggio 1791, con cui un padre di quattro figlie in minore età, dopo aver legato a ciascuna di esse la legittima, aveva istituito erede il proprio fratello «à la charge par lui de rendre ladit hérédité à telle de ses quatre filles qu’il jugerait à propos». In esecuzione del testamento, l’erede istituito aveva pagato a ciascuna delle nipoti i legati ordinati dal padre, aggiungendovi alcuni doni particolari, ricevendo i quali le quattro sorelle avevano dichiarato di rinunciare ad ogni altro diritto sulla successione paterna. Nel 1821 due nipoti, sostenendo che il testamento paterno contenesse non già un fedecommesso condizionale, ma una «simple fiducie», non colpita dalla legge del 1792 abolitiva delle sostituzioni e non avendo lo zio esercitato in tempo utile il diritto di scelta, avevano chiesto al tribunale di Alby che l’eredità paterna venisse divisa tra le quattro sorelle. La sentenza di rigetto dei giudici di primo grado fu confermata dalla corte d’appello di Tolosa, che riconobbe nella disposizione testamentaria «un fidéicommis conditionnel, une véritable substitution, anéantie par les lois abolitives de 1792 et suivantes». Se l’erede fiduciario, scrive la corte, è «celui que le testateur a chargé, en l’instituant pour la forme, d’administrer sa succession, et de la tenir en dépôt jusq’un moment où il doit la remettre au véritable héritier; qu’ainsi, l’héritier fiduciaire n’est héritier que de nom; qu’il ne pas saisi de la succession; que ce n’est pas sur sa tête que repose la propriété des biens du défunt; qu’il n’en est que l’administrateur»[[58]], nessuna espressione del testamento (essendo l’istituzione fiduciaria «toute conjecturale»)[[59]] lasciava dedurre che il testatore avesse inteso nominare il fratello come erede fiduciario.
L’interpretazione della institution à charge d’élire come simple fiducie, anziché come substitution, poteva dunque fondarsi solo su verba testamenti che con più verosimiglianza lasciassero supporre uno schema pienamente fiduciario, ossia sintomatico di una volontà del testatore indirizzata all’esclusivo vantaggio dell’erede ‘elettivo’, rispetto al quale l’istituzione dell’erede gravato del potere di scelta degradava ad istituzione meramente nominale e strumentale allo scopo voluto: elementi, questi, non riscontrabili nei casi appena esaminati di istituzione di erede collegata a faculté d’élire.
Si spiega perciò il risalto con cui fu accolta la sentenza della Cassazione francese del 23 novembre 1807[[60]] sul testamento del 28 febbraio 1772 con cui Étienne Barral, notaio di Arles, dopo aver legato ai suoi quattro figli la legittima, aveva istituito erede il proprio fratello con le seguenti parole: «Je nomme et institue pour mon héritier universel et général Jean Barral […] mon frère […] pour de mon héritage prendre possession après mon décès; étant bien persuadé que, par l’amitié qu’il a pour mes enfans, il ne transportera pas mes biens à autres qu’à mesdits enfans, et à son choix, à un ou plusieurs, et qu’il prendra soin de leur éducation». L’erede istituito aveva eseguito il desiderio del testatore lasciando alla sua morte tutti i suoi beni, compresi quelli ricevuti in eredità dal fratello, ad un figlio di questi, anch’egli di nome Jean Barral. All’atto di pagare il droit de mutation, ossia l’imposta di successione, Barral si era però limitato a dichiarare i soli beni dello zio, non anche quelli che lo zio aveva ricevuto dal padre e che con la propria eredità aveva trasmesso al nipote. Nella causa intentatagli dall’amministrazione per omessa dichiarazione Barral si era difeso sostenendo che i beni paterni non erano passati nell’asse patrimoniale dello zio, essendo l’istituzione del 28 febbraio 1772 «un simple dépôt, une fiducie, et non une institution à titre d’héritier». L’amministrazione aveva eccepito che quella istituzione fosse stata invece gravata di fedecommesso: lo zio era stato effettivamente istituito erede dal fratello e i beni di quest’ultimo erano passati in sua proprietà, sicché all’atto del decesso dello zio era pervenuta al nipote una proprietà che ricomprendeva anche il patrimonio paterno.
I giudici di merito, però, non ebbero dubbi: «les termes du testament sont si précis qu’on ne peut douter valablement qu’il ne soit une institution fiducière, du caractère de celle définie dans la loi 46 ff. ad senatus-consultum Trebellianum [D. 36, 1, 48 (46)]; que ainsi il ne s’est point opéré de mutation; par où la déclaration, quant à ces biens, ne présent aucune fasseté ni omission». Nel giudizio in Cassazione, promosso dall’amministrazione pubblica per violazione delle leggi romane, la difesa di Barral tornò a fare perno su quel responso di Giavoleno (I sec. d.C.) relativo alla successione testamentaria del comandante della flotta romana in Britannia [D. 36, 1, 48 (46)], che già la sentenza di merito aveva eletto a paradigma di simple fiducie[[61]]. Il responso del giurista romano, tutto incentrato sulla diagnosi della ‘vera’ volontà del de cuius, aveva vistosamente derogato alla disciplina del fedecommesso condizionale o a termine incerto. La morte del figlio del testatore prima della data (il compimento dei 16 anni), in cui l’erede gravato avrebbe dovuto trasmettergli l’eredità paterna, invece di consolidare l’eredità in capo all’erede (non più) gravato, aveva favorito il successore legittimo del figlio, nel cui patrimonio doveva ritenersi ricompresa anche l’eredità paterna. Questa soluzione era fondata sul presupposto che il termine dei 16 anni d’età (certo nel quando, ma incerto nell’an) stabilito per la restitutio (poi divenuta ineseguibile) fosse stato apposto dal testatore ad esclusivo vantaggio del proprio figlio e non anche a vantaggio dell’erede gravato, il quale nell’intenzione del testatore non era che «un simple dépositaire». La Cassazione trasferì l’impianto interpretativo di questo celebre caso romano alle istituzioni di erede con facoltà di scelta. Anche in questo genere di disposizioni, secondo il diritto romano e la giurisprudenza dei pays de droit écrit, «l’institution faite par un père en faveur de sa femme ou d’un proche parent à la charge de rendre à ses enfans, était regardée comme une fiducie lorsque les enfans étaient en bas âge, que l’héritier institué était chargé de leur éducation, et qu’il paraissait que l’intention du testateur avait été moins de favoriser l’héritier que de s’en servir comme moyen pour transmettre ses biens à ses enfans». Pur impiegando lo schema trasmissorio del fedecommesso (la doppia successione ordinata dal testamento), la simple fiducie rivestita di institution à charge d’élire seguiva ben altra disciplina: il figlio ‘scelto’ dall’erede gravato non era sostituito ma istituito in via diretta dal proprio genitore, mentre l’erede gravato non era che «simple administrateur» dell’eredità ricevuta ‘per conto’ del suo futuro ed unico beneficiario.
Nella scia di questa sentenza si collocò anche la corte d’appello di Nimes (siamo sempre in area di droit écrit), che con la sentenza del 16 dicembre 1833[[62]] concluse un contenzioso originato da un testamento redatto sessan’anni prima (30 aprile 1773). Un testatore aveva istituito eredi in parti uguali la madre e la moglie, incaricandole di trasmettere l’eredità a quella delle sue due figlie «qu’elles choisiraient lorsqu’elle aurait atteint sa vingt-cinquième année, ou plus tôt si bon leur semblait». La scelta fu dichiarata nel 1787 in favore di una delle figlie e fu impugnata, anni dopo, dalla figlia esclusa, che però perse la causa sia in primo che in secondo grado. Nella sentenza che definì l’appello la corte di Nimes ribadì che è l’intenzione del testatore a far decidere se una istituzione di erede sia fiduciaria o fedecommissaria. Se il testatore è un padre o una madre che istituisca erede il coniuge o un parente prossimo o altro soggetto di fiducia incaricandolo di restituire l’eredità ad uno dei figli, già da ciò solo deve presumersi che non abbia voluto istituire l’erede che «de nom, et pour la forme» e dunque come «simple administrateur» dell’eredità. Ma la presunzione diviene certezza ove concorrano tre circostanze: la minore età dei figli all’epoca del testamento; la fine della minore età o altro termine determinato per adempiere alla restituzione in loro favore; che sia il coniuge, un parente «ou autre personne de confiance» ad essere investito del titolo di erede connesso al potere di scelta. «Alors l’intention du testateur se rèvèle pleinement. C’est une veritable fiducie qu’il a voulu faire, et non pas une substitution fidéicommissaire». L’esempio che la corte di Nimes trasse dalle fonti romane è un altro famoso caso di eredità fiduciaria, la l. cum Pollidius (D. 22, 1, 1, 3), ove una madre, che aveva istituito erede un congiunto fidato gravandolo di restituzione in favore della figlia, aveva dichiarato nel testamento di aver fatto ricorso al fedecommesso solo per evitare che l’eredità destinata alla figlia venisse amministrata, in caso di sua istituzione diretta, da tutori indesiderati; da qui l’obbligo dell’erede gravato di restituire alla figlia della testatrice l’intera eredità, frutti compresi, come se fosse stata istituita in via diretta[[63]]. Nel regime giuridico della fiducia, pertanto, il figlio scelto dall’erede quale beneficiario dell’eredità paterna deve essere considerato erede non dal giorno della scelta, ma dal giorno del decesso del padre, dato che questi ha differito il momento della restitutio nel suo esclusivo interesse, in attesa del tempo in cui sarebbe stato in grado di amministrare l’eredità da solo. All’erede incaricato della scelta non era corrispondentemente riconosciuta medio tempore alcuna effettiva titolarità, ma solo un potere di amministrazione fiduciaria; la sua designazione del beneficiario non era una disposizione in linea diretta, «mais seulement l’exercice d’un ministère; l’électeur ne transmet rien du sien à l’élu».
4. Fiducia e fedecommessi
Sancita in modo drastico dai tre articoli del decreto rivoluzionario del 25 ottobre e 14 novembre 1792 (l’art. 1 dettava: «Toutes substitutions sont interdites et prohibées à l’avenir»; il divieto, per l’art. 2, travolgeva anche le sostituzioni disposte anteriormente e non ancora aperte all’epoca della pubblicazione della legge; l’art. 3 limitava l’efficacia delle sostituzioni già aperte nei soli confronti di coloro che avessero già acquisito i beni sostituiti o il diritto di rivendicarli)[[64]], l’abolizione delle sostituzioni fedecommissarie, che già l’ordonnance del 1747 aveva limitato al secondo grado[[65]], era stata oggetto di lunghe discussioni nel corso dei lavori preparatori del codice civile. L’opinione del Primo Console, favorevole al ripristino delle sostituzioni almeno per un grado, era stata prima accolta ma infine respinta dalla commissione[[66]], che aveva però approvato, insieme a due importanti eccezioni al principio di generale interdizione delle sostituzioni (gli artt. 1048 e 1049, che fra poco richiameremo), anche la norma (sarà l’art. 899)[[67]], che consentendo al testatore di attribuire l’usufrutto ad un soggetto e la nuda proprietà ad un altro, realizzava di fatto gli scopi del fedecommesso con un solo grado di sostituzione[[68]].
La norma codificata all’art. 896, riproducendo la sostanza del divieto rivoluzionario[[69]], aveva un tenore all’apparenza molto severo: «Les substitutions sont prohibées. / Toute disposition par laquelle le donataire, l’héritier institué, ou le légataire, sera chargé de conserver et de rendre à un tiers, sera nulle, même à l’égard du donataire, de l’héritier institué, ou du légataire». Il primo comma assolutizzava il divieto di disporre per più di un grado. Il secondo sanciva la nullità dell’istituzione, del legato e della donazione come effetto della nullità della sostituzione, con la conseguenza di privare il soggetto gravato del suo titolo. La drasticità di quest’ultima soluzione poggiava sulla convinzione che l’esistenza di una sostituzione fedecommissaria non potesse non infirmare anche l’istituzione, essendo le due vocazioni, fra loro e nel progetto volitivo del testatore, intimamente connesse[[70]]. Ma produceva conseguenze pratiche anche inique: l’invalidità colpiva, ad esempio, la chiamata di primo grado anche nel caso in cui il titolare, istituito nell’universalità dei beni, non fosse gravato di sostituzione che per una parte soltanto dei beni ricevuti.
Fin qui, il rigore della norma appariva addirittura esasperato. Nella sua parte centrale, però, il testo tradiva non poco della sua coerenza punitiva. L’art. 896, infatti, non colpiva di nullità ogni specie di sostituzioni, ma solo quelle, dette ‘fedecommissarie’, nelle quali il donatario, l’erede istituito o il legatario fosse incaricato di conservare i beni vita natural durante per restituirli alla sua morte ad un terzo. L’incarico di «conservare e restituire ad un terzo» si riteneva infatti che, pur non indicandolo la norma espressamente, alludesse all’obbligo vitalizio di conservazione (e connesso temporaneo diritto di godimento) e alla morte del gravato come termine per la restituzione, essendo gli interpreti unanimi nell’intendere che la norma non fosse indirizzata ad altro che a colpire la facoltà dei testatori d’imporre un ordine successivo diverso da quello previsto dalla legge[[71]]. Ed il fedecommesso restitutorio post mortem era l’unica forma di fedecommesso che, dando campo libero all’arbitrio del testatore nella pianificazione familiare della ricchezza privata, incorporava i due grandi difetti dei fedecommessi secondo l’ideologia rivoluzionaria: il vincolo d’inalienabilità, che sottraeva i beni alla libera circolazione; e la loro conservazione passiva, che ne disincentivava lo sfruttamento produttivo (il decreto del 25 ottobre-14 novembre 1792 aveva soppresso le sostituzioni «qui cumulaient pendant plusieurs générations sur des têtes priviliégées des fortunes capables d’alarmer la liberté publique»). Ogni altra specie di fedecommesso, diversa da quello restitutorio post mortem, era dunque esclusa dal divieto dell’art. 896; e per non essere confusa con la sostituzione proibita, veniva indicata come simple fidéicommis[[72]].
La limitazione del divieto della sostituzione al solo fedecommesso inteso a realizzare un ordo successivus trovava conforto sia nei lavori preparatori del codice, sia nelle disposizioni di eccezione al divieto dell’art. 896, a cui faceva rinvio già l’articolo seguente (art. 897): quella (art. 1048) che consentiva al genitore, con limitazione ad un unico grado, di disporre in favore di uno o più dei propri figli gravandoli di restituzione ai figli di questi, nati e nascituri; e quella (art. 1049) che consentiva ad una persona senza figli di donare o testare in favore di fratelli o sorelle gravandoli di restituzione in favore dei loro figli, nati e nascituri, sempre col limite dell’unicità del grado di sostituzione, imponendo in entrambi i casi la chiamata dei sostituiti in parti uguali, senza distinzione di età e di sesso (art. 1050) e in entrambe le ipotesi implicitamente riferendo l’obbligo di restituzione alla morte del donatario o dell’istituito[[73]].
Un obbligo di restituzione non accompagnato dall’obbligo di conservare fino alla morte non era dunque sufficiente per caratterizzare una sostituzione vietata dal Code civil. In particolare, oltre alla liceità espressa delle sostituzioni volgari, non qualificate nominalmente dal codice come sostituzioni[[74]], dovevano ritenersi leciti il fedecommesso puro – quello, cioè, che per volontà del testatore l’onerato doveva eseguire immediatamente e la cui efficacia era pertanto contemporanea a quella dell’atto che lo conteneva, con la conseguenza che il diritto alla restituzione si trasmetteva all’erede del sostituito se quest’ultimo fosse morto prima della consegna –; il fedecommesso che fosse privo di indicazione di termine per la restituzione, ma da cui risultasse che l’erede o il legatario non fosse stato chiamato «que pour prêter son ministère»[[75]] nell’interesse di un terzo e nel quale perciò il successore svolgeva un ruolo pari a quello dell’esecutore testamentario[[76]]; il fedecommesso a termine non coincidente con la morte dell’onerato.
Per limitare ancora di più il raggio di applicazione dell’art. 896, si precisava che vietate dalla legge erano solo le sostituzioni in cui l’obbligo di conservare e di restituire alla morte ad una terza persona fosse espresso nel testamento e fosse formulato in termini imperativi: le congetture, usate in passato per favorire e far valere la volontà del testatore, non potevano ora, sotto il vigore del codice, essere impiegate per annientarla ed impedirne l’esecuzione[[77]].
Il cerchio del divieto, insomma, era stato ristretto dagli interpreti in modo da lasciar fuori ogni fedecommesso non espressamente ordinato per il tempo della morte del successore.
Se già questa generosa linea interpretativa sottraeva all’ambito di applicazione dell’art. 896 un considerevole numero di trasmissioni testamentarie indirette, la nullità dell’istituzione di erede, del legato e della donazione come conseguenza automatica della nullità della sostituzione consigliava vieppiù d’interpretare le clausole ambigue in modo indulgente, nel senso cioè che non ne risultasse una sostituzione vietata. E anche questa mitigazione contribuiva non poco, come s’intuisce, ad allargare il varco alla pratica dei fedecommessi. Il sentimento sociale di favore che ne accompagnò la fortunata sopravvivenza è testimoniato dall’evoluzione delle vicende legislative dell’istituto nei primi decenni di vigenza del codice napoleonico. Già il 30 marzo 1806 cinque decreti, istituendo ducati e grandi feudi ereditari con privilegio di primogenitura, avevano di fatto ripristinato in Francia i maggiorascati. A queste disposizioni si era aggiunto, il 14 agosto dello stesso anno, un senatoconsulto che aveva attribuito ai prìncipi e ai capi famiglia la facoltà di formare con i propri beni liberi la dotazione di un titolo ereditario con primogenitura. Queste vistose eccezioni al principio di nullità stabilito nell’art. 896 del Code civil furono consacrate da un terzo alinea aggiunto a questo articolo[[78]] dalla legge 3 settembre 1807 (la stessa che dette al codice civile il nome di Code Napoléon) e in seguito ulteriormente estese ad altri casi dalla legge del 17 maggio 1826, che consentirà, in particolare, di istituire fedecommessi sulla quota disponibile, trasmissibili per primogenitura fino al secondo grado, escluso il primo istituito. Già pochi anni dopo avrebbe però preso avvio un’inversione di tendenza, che avrebbe riportato la disciplina dei fedecommessi nell’alveo dell’originaria previsione legislativa: la legge del 12 maggio del 1835 proibirà per il futuro ogni maggiorascato (art. 1), limitando a due gradi (istituzione non compresa) quelli già istituiti (art. 2); più tardi, la legge del 7 maggio 1849 ne sancirà infine la definitiva abolizione, disponendo che i fedecommessi istituiti prima della legge del 1835 potessero essere trasmessi solo ai chiamati che fossero già nati o concepiti al momento della sua (1849) promulgazione[[79]]. Abrogata la legislazione di eccezionale favore per i fedecommessi, la disciplina delle sostituzioni tornerà così ad essere sottoposta al testo originario (e ai limiti impliciti dovuti alle correzioni interpretative) dell’art. 896 del Code civil.
Ora, poiché non ogni obbligo di restituire caratterizzava un fedecommesso e non ogni fedecommesso equivaleva ad una sostituzione, a rimanere fuori dall’ambito di applicazione dell’art. 896 – che vietava, come s’è visto, il solo fedecommesso restitutorio post mortem che implicasse l’espresso obbligo di conservare fino a quel tempo – era a maggior ragione il fenomeno della simple fiducie: l’ipotesi, cioè, della titolarità fiduciaria, in cui il successore gravato di restituzione (in favore, comunque, di persona capace e dichiarata nel testamento, data l’assoluta nullità che colpiva sia le disposizioni orali, sia le interposizioni in favore di incapaci[[80]], sia le restituzioni a persone incerte) fosse chiamato a svolgere il ruolo dell’intermediario investito del mandato di restituire quanto ricevuto al beneficiario – subito o a certo tempo, con incarico temporaneo di custodire o amministrare –, senza trattenere nulla per sé. In questa configurazione il congegno fiduciario lecito poteva ricevere una qualificazione giuridica autonoma, sovrapposta alla tipicità sociale – ed essere denominato, appunto, fiducie o simple fiducie) o essere assimilato, in ragione del differente programma negoziale del testatore quanto al tempo della restituzione, alle due forme lecite di fedecommesso: il fedecommesso pur et simple – in cui il gravato di restituire non è che un ministre, equiparabile a colui che stipuli a vantaggio di un terzo (art. 1121 Code civil)[[81]] – e il fedecommesso a termine.
5. L’inquadramento teorico della simple fiducie
La liceità della fiducie venne pressoché unanimemente riconosciuta dalla dottrina francese nell’età del codice civile. «La loi du 14 novembre 1792 – scrive, a pochi anni dalla promulgazione del codice, Philippe Antoine Merlin[[82]] – tout en abolissant les substitutions fidéicommisaires, n’a porté aucun atteinte aux simples fiducies; […] l’art. 896 du Code Napoleon n’a pas empéché davantage que les simples fiducies n’eussent encore»[[83]]. In senso generale, scrive ancora Merlin, «l’héritier fiduciaire est la même chose que l’héritier grevé», ma nell’uso la prima espressione assume un significato ben più ristretto, designando «la personne que le testateur a chargée, en l’instituant héritière pour la forme, d’administrer la succession et de la tenir en dépôt jusq’au moment où elle doit la remettre au véritable héritier. [...] L’héritier fiduciaire n’est héritier que de nom; il n’est pas saisi de la succession; ce n’est pas sur sa tête que repose la propriété des biens du défunt; il n’en est que l’administrateur»[[84]].
«Qu’il n’existe pas de substitution dans une disposition qui n’aurait que le caractère d’une simple fiducie, cela est évident! – gli fa eco Charles Demolombe –. Le mot fiducie, beaucoup plus usité autrefois qu’aujourd’hui, servait à désigner la disposition par laquelle une personne instituée héritière pour la forme, était chargée par le testateur d’administrer la succession et de la tenir en dépôt jusqu’au moment où elle devrait la remettre au véritable héritier». Anche per Demolombe, la fiducia non costituisce una sostituzione per la semplice ragione che non contiene una ‘vera’ istituzione, «l’héritier fiduciaire n’étant qu’un simple ministre et une sorte d’exécuteur testamentaire» e non un successore di primo grado[[85]]. Opinione condivisa anche da molti altri commentatori del codice napoleonico: «On peut être chargé de rendre sans être véritablement institué ou legataire», scrive Raymond Troplong, alludendo anch’egli alla sostanza fiduciaria di quelle istituzioni d’erede o nomine di legatari, che il testatore ha voluto funzionali all’esclusivo vantaggio di un’altra persona e nelle quali pertanto il soggetto gravato non è che «simple ministre», «simplement un exécuteur testamentaire, ou un fiduciaire», un semplice «administrateur», sulla cui testa, dietro lo schermo formale del titolo, non passa la proprietà dei beni[[86]].
Come si vede, nell’ottica degli interpreti del codice civile la fisionomia giuridica della fiducie aveva gli stessi contorni già tracciati dai giuristi dell’ancien droit, che sotto questa etichetta avevano già raccolto tutte le fattispecie di fedecommesso in cui l’erede o il legatario non venivano designati che per provvedere alla ritrasmissione di quanto ricevuto, senza trattenere nulla per sé: la fiducie, dunque, come «simple dépôt» e l’héritier fiduciaire come «héritier de pure forme», che non fa che «prêter son nom au véritable héritier»[[87]]. Oltre a rendere irrilevante la distinzione con il fedecommesso puro e il fedecommesso a termine infruttifero per il gravato, questa nozione ampia di fiducie[[88]] superava anche la sua accezione più ristretta che alcuni autori, fedelmente ai due stereotipi romani di fiduciaria hereditas (D. 22, 1, 3, 3 e D. 36, 1, 48 [46]), avevano limitato all’ipotesi in cui il beneficiario finale fosse figlio minore del testatore e il gravato un suo parente o un amico, alla cui fiducia il testatore avesse fatto ricorso preferendo il congegno del fedecommesso all’istituzione diretta del minore, al fine di garantire la buona amministrazione del patrimonio fino alla maggiore età del figlio ed ovviare ai rischi di una tutela indesiderata[[89]]. Ma qualunque fosse l’estensione della fiducie, la sua dogmatica, nel vecchio come nel nuovo diritto, continuava ad essere centrata sulla sola apparenza della titolarità del fiduciario e sulla conseguente neutralità del primo passaggio successorio.
Enfatizzando l’apparenza del titolo e neutralizzando il ruolo del successore fiduciario, la teoria dell’héritier de nom produceva due risultati pratici di non poco momento. Il primo era economico: se i beni fiduciati dovevano considerarsi come pervenuti in via diretta dal testatore al beneficiario, il gravato fiduciario, non essendo ‘vero’ proprietario (come lo era invece il gravato ordinario), non era tenuto a pagare il laudemio dovuto al seigneur all’atto del trasferimento successorio della proprietà[[90]], né il droit de mutation sul valore del patrimonio fiduciato[[91]]. Il secondo scopo pratico riguardava i fedecommessi familiari: in quanto proprietario apparente, l’erede fiduciario era escluso dal computo dei gradi di sostituzione fedecommissaria[[92]]: il vantaggio non era di poco conto, dopo che la legislazione regia aveva limitato a due il numero delle sostituzioni.
Facendo propria la dottrina dell’héritier fiduciaire elaborata durante l’ancien régime, i giuristi di codice avevano attinto soprattutto alla cultura giuridica dei pays de droit écrit. Le decisioni giurisprudenziali che avevano consacrato la fiducie provenivano soprattutto dalle corti dell’area meridionale della nazione; quelle del parlamento di Parigi derivavano anch’esse per lo più da cause decise da giurisdizioni di città, come Lione, regolate dal diritto scritto. Almeno per due ragioni i pays de droit coutumier non avevano offerto alla fiducie un habitat altrettanto propizio: per il primato della successione ab intestato nel sistema successorio vigente nel Nord e perché le coutumes regolavano con precisione l’istituto dell’esecuzione testamentaria, offrendo così un canale alternativo alla trasmissione fiduciaria dei beni ereditari.
Tuttavia, pur essendo «un terme de Palais, en usage sur-tout dans le pays de Droit écrit», come puntualizzava un famoso dizionario settecentesco[[93]], la fiducie si era diffusa in tutto il royaume, tanto nei paesi retti prevalentemente dal diritto romano, quanto in quelli retti prevalentemente dal diritto consuetudinario; ed aveva poi superato l’argine dell’ancien régime riproponendosi nella sua stessa originaria configurazione al cospetto sia del diritto privato rivoluzionario che di quello codificato.
Il codice di Napoleone aveva unificato la materia delle disposizioni a causa di morte contemperando gli apporti della tradizione consuetudinaria e di quella romanistica, elevando il testamento ad unico modo di disporre a causa di morte, fondendo in un’unica disposizione a titolo universale – il legs d’universalité – il legs universel dei pays de coutume e l’institution d’héritier dei pays de droit écrit[[94]] e riducendo ad un’unica specie – il legs particulier – tutte le liberalità di beni individuati[[95]]. Il fidéicommis, termine che avrebbe direttamente richiamato in causa l’istituto romano, con tutto il suo ingombrante bagaglio dogmatico e casistico, non era nominato in alcuna norma del codice, nemmeno per aggettivare la sostituzione proibita dall’art. 896 e distinguerla così dalle sostituzioni lecite. «Les substitutions sont prohibées», esordiva questo articolo. Al silenzio sul fidéicommis si sommava, coerentemente, il silenzio sulla fiducie. Essendo stata studiata e applicata, nell’ancien droit, nell’ambito delle sostituzioni fedecommissarie, l’interdizione di queste ultime aveva come nascosto l’esistenza della fiducie ai redattori del codice, che non facendo distinzioni tra sostituzioni lecite e illecite avevano di fatto rimesso agli interpreti il compito di riportare alla sua limitata misura il divieto enunciato nell’art. 896.
Ma se i redattori del Code civil avevano occultato la fiducie, la dottrina e la giurisprudenza francese, come abbiamo visto, l’avevano riesumata, assicurandole una degna sopravvivenza. La costruzione del fenomeno, prima e dopo il codice, ruotava sempre attorno al distinzione tra vero e apparente[[96]]; la proprietà dei beni era sempre riconosciuta in capo al solo beneficiario e dal momento stesso della morte del testatore[[97]]; la posizione del legataire gravato di fiducia era sempre declassata a quella di «administrateur»[[98]], di «gardien de succession»[[99]], di «simple ministre»[[100]], di «exécuteur testamentaire»[[101]]. Su due punti era però necessario aggiornare la dottrina dell’ancien droit e restringere l’area di liceità del fenomeno. In primo luogo, la disposizione fiduciaria doveva essere palese; la fiducia semi-segreta sarebbe infatti incappata nel giro degli altri divieti già presi in esame: di disporre oralmente, in favore di persona incerta e a mezzo di un terzo. In secondo luogo, la fiducie era senz’altro esclusa quando il testamento avesse fissato come termine per la restituzione il decesso del gravato, dato che in questo caso la disposizione avrebbe concretato una substitution prohibée. Quest’altro limite aveva però il suo rovescio nell’autonomia della nozione di fedecommesso, non più coincidente con quella di sostituzione; e nella liceità della fiducia quale sua applicazione più genuina.
È appunto in questa ottica che la fiducie veniva detta simple: non realizzando alcuna sostituzione, la fiducie non era altro che un fedecommesso nel senso più genuino e originario del termine, un progetto volitivo del defunto che la morale e il diritto non potevano non proteggere. Per sottrarla al regime delle sostituzioni, però, la dottrina francese (che in questo sarà seguita pedissequamente da quella italiana otto-novecentesca) chiamava in causa la categoria dell’apparenza (l’istituzione fiduciaria come non-istituzione) perdendo di vista quell’essenza della titolarità fiduciaria, che sia le fonti romane sia la dottrina del diritto comune avevano, al contrario, valorizzato. Nelle fonti fiduciarie romane era proprio la titolarità, con le sue prerogative dominicali, a dare pregnanza all’operazione fiduciaria, essendo il momento proprietario fondamentale in un regime successorio, che non conosceva se non in rare evenienze la figura dell’esecutore testamentario. Si trattasse di fiducia-deposito o di fiducia-gestione, la trasmissione dei beni ereditari contemplatione alterius si coniugava giocoforza con il dominium della cosa. Il minister dei frammenti giustinianei, come aveva bene inteso la dottrina italiana del diritto comune classico, era un titolare fiduciario, non un esecutore testamentario o un tutore o un depositario: era, per usare l’espressione di Baldo degli Ubaldi, un soggetto giuridico cum titulo sed sine commodo, non un semplice minister. Lo conferma il fatto che il diritto romano avesse mantenuto la denominazione unica di fideicommissum anche riguardo all’ipotesi che al gravato non si dirigesse alcuna intenzione liberale del testatore; anche quando, cioè, il gravato non fosse stato scelto che per amministrare e restituire ad altri i beni dell’eredità. L’invarianza del nomen non impediva, però, ai giuristi romani di disciplinare l’ipotesi fiduciaria del fedecommesso con regole diverse da quelle ordinarie. Era anch’essa fideicommissum e non altro (non fiducia, che nel diritto romano designava esclusivamente una modalità di trasferimento della proprietà tra vivi), perché a variare non era la tipicità del mezzo impiegato (il fedecommesso, appunto), ma solo il fine (fiduciario) a cui il negozio era asservito[[102]].
Un ultimo accenno va riservato al riconoscimento e alla prova della simple fiducie. Per la dottrina francese distinguere una fiducia da una sostituzione era pura «question de volonté»[[103]]. Tutto stava nel capire se il testatore avesse avuto «l’intention d’instituer le grevé dans l’intérêt des appelés plutôt que dans l’intérêt du grevé lui même»[[104]]. Se si accertava che l’interesse avuto di mira dal testatore non era quello dell’istituito, ma quello dell’appelé, la liberalità doveva intendersi come fatta a vantaggio esclusivo di quest’ultimo. A partire dalla relazione di parentela, «ou même seulement d’amitie et de confiance» tra il disponente e il fiduciario, i mezzi di prova ammissibili erano tutti indiziari e sintomatici[[105]], essendo la ricostruzione delle intenzioni del disponente, come aveva sottolineato già Claude Henrys, «toute conjecturale» e rimessa alla «prudence des juges»[[106]].
Questa teoria della prova riguardava, ovviamente, la sola fiducia palese. Tutt’altro era l’orizzonte probatorio della fiducia semi-segreta, che era sotto lo scacco dei divieti di cui s’è detto; e tutt’altro anche quello della fiducia segreta, rispetto alla quale il progetto fiduciario del testatore era assediato dalle prove contrarie tendenti a dimostrare che all’ombra della confiance si fosse consumata una frode alla legge.
Era, quest’ultima, l’ipotesi del fidéicommis tacite, «espèce de fidéicommis […] par le moyen duquel un testateur, pour éluder la disposition de la loi qui lui défend de rien donner ou léguer à une personne incapable de profiter de ses libéralités, fait des legs au profit d’une personne capable, dans l’espérance qu’elle remettra le legs à l’incapable»[[107]]. Costruita sul calco del tacitum fideicommissum romano, la fiducia in frode alla legge francese esaltava con maggiore evidenza, rispetto alla fiducia lecita, i tratti della simulazione, del segreto e dell’apparenza. Nella definizione di Merlin essa è «une disposition simulée fait en apparence au profit de quelqu’un, mais avec intention secrète de faire passer la bénéfice de cette disposition à une autre personne qui n’est point nommée dans le testament ou la donation. Cette sortes de fidéicommis ne se font ordinairement que pour avantager indirectament quelque personne prohibée [...]»[[108]].
La nullità dei fedecommessi segreti a vantaggio d’incapaci trovò conferma prima nell’ordonnance sui testamenti del 1735, che introdusse il divieto delle disposizioni orali di ultima volontà[[109]], poi nella norma espressa (l’art. 911) che vi dedicò il Code civil. Com’è intuibile, il suo punto critico risiedeva nella prova, che secondo Antoine Bergier (1742-1826) andava desunta dalla natura e dall’importanza del lascito, dalla condizione del testatore e dal grado di affidamento nel «dépositaire du secret»: «tout cela doit être pesé avec sagesse, afin de ne pas laisser glisser la fraude sous le manteau de la conscience»[[110]]. Anche il rifiuto dell’erede o del legatario, presunto interposto, di giurare che il lascito non fosse destinato ad un soggetto incapace costituiva presunzione grave di frode[[111]]: una regola, questa, analoga a quella già presente nelle fonti giustinianee (C. 6, 42, 32) e che testimoniava come nella Francia di antico regime la disciplina della fiducie, accolta nel segno della tradizione romanistica, trascendesse molte delle differenze tra i due sistemi giuridici interni.
L’età dei codici. La fiducia degli italiani
1. Il quadrante sabaudo
Nell’area italiana la prima norma a regolare espressamente il fenomeno della «fiducia» testamentaria fu l’art. 22, tit. 31, lib. 2, del Codice di leggi e costituzioni del Ducato di Modena del 1771; un chiaro esempio di compromesso fra novità legalistico-assolutistica e tradizione giuridica antica:
«Sarà nulla affatto la disposizione di chi rimettesse all’arbitrio altrui la nomina dell’erede, e nullo sarà parimenti qualunque legato, la destinazione del quale fosse lasciata dipendente dalla volontà del fiduciario. Anzi vogliamo abolita e di niuna forza anche quella fiducia, nell’esercizio della quale il fiduciario non rappresenta, se non la persona di testimone e d’interprete della volontà comunicatagli dal testatore; a meno che questi non abbia chiaramente spiegata la sua mente in un foglio da lui firmato, che dovrà esibirsi dal fiduciario in contraddittorio degl’interessati nell’eredità del disponente; in difetto di che si devolverà l’eredità del disponente agli eredi intestati, o si accrescerà il legato all’erede scritto, quando vi sia, se no al veniente ab intestato».
Oltre alla nullità della nomina dell’erede o del legatario rimessa all’arbitrio altrui, ipotesi a cui la giurisprudenza del Ducato tendeva ad assimilare anche il caso del successore fiduciario, a venire espressamente regolato in questa norma era il fenomeno del mero fiduciario (non anche erede o legatario) che fosse incaricato dal testatore di dichiarare e interpretare il tenore della scheda: ipotesi valida solo se provata in contraddittorio da un documento redatto e firmato dal testatore che ne contenesse le vere intenzioni[112].
L’episodio modenese costituisce il primo e forte indizio della tendenza delle legislazioni nazionali e ‘patrie’ sette-ottocentesche a disciplinare il fenomeno fiduciario contenendone i mezzi di prova. Questa tendenza avrà esito nel codice civile piemontese del 1837, nella cui scia si disporranno il codice civile modenese del 1851 e i futuri due codici civili italiani.
È però decisivo inquadrare il contesto storico-istituzionale in cui prende corpo e si sviluppa nel secolo XIX la disciplina sabauda della fiducia testamentaria. Nella prima metà di quel secolo il fenomeno presentava due facce. Una era quella della fiducia testamentaria che il diritto comune –fino alle sue applicazioni pre-codicistiche, come abbiamo appena visto – aveva sempre considerato lecita. L’altra era quella della interposizione fiduciaria in frode alla legge, perché fatta a vantaggio di incapaci di ricevere, che a partire dalla metà del secolo legherà il suo destino alla vicenda delle leggi eversive e della soppressione degli enti religiosi. Saranno infatti proprio le controversie originate dai casi frequentissimi di ‘frodi pie’ a fornire alla giurisprudenza l’occasione per imprimere la stretta definitiva alla prassi delle fiducie.
Prima di questo passaggio, però, la giurisprudenza sabauda tra Sette ed Ottocento – ne abbiamo già ricordato alcuni esempi – si era tenuta assai aderente ai canoni interpretativi della tradizione. Le pagine che il torinese Ludovico Bertolotti (1762-1815), che chiuse la sua carriera come magistrato del Senato di Piemonte, dedicò all’argomento delle fiducie nel primo volume delle sue Instituzioni del dritto civile[[113]], fotografano abbastanza fedelmente lo stato dell’arte di una dottrina e di una giurisprudenza ‘patria’ ancora dipendente dalla letteratura dei compilatori della tarda età moderna, modellata sul corpus iuris giustinianeo e sulle opiniones dei grandi dottori dell’età intermedia.
Bertolotti ascrive alla «consuetudine delle curie d’Italia» l’introduzione delle fiducie, «favorevolmente accolte» dai tribunali del Piemonte «e con utile successo praticate». La sua dogmatica, seguendo una sensibile traccia giurisprudenziale, che non poco a sua volta risentiva della cultura giuridica d’oltralpe, focalizza la fiducia come una «finzione», una specie di «simulazione», «lecita, però, ed onesta, che usano in certi casi i defunti, perché in essa quod scripserunt, non voluerunt, et quod voluerunt, non scripserunt». Se disposta «ex aequa causa» e sempre che non fosse in frode alla legge e ai terzi[[114]], la fiducia veniva protetta dal diritto comune-regio piemontese con azioni personali e reali (di rivendica e possessorie) finalizzate ad ottenere dal fiduciario l’adempimento dei suoi obblighi, che erano quattro: 1) tenere fede all’incarico (in caso di dubbio, gli interessati potevano deferire al fiduciario il giuramento, a meno di contraria disposizione del testatore); 2) fare l’inventario dei beni fiduciati, 3) custodirli ed amministrarli con la diligenza del buon padre di famiglia; 4) trasmettere l’eredità o il legato ai beneficiari, insieme al conto della gestione (anche qui sempre salvo diverso volere del disponente).
In quest’ottica, lo standard probatorio della fiducia non poteva che correlarsi alla segretezza delle disposizioni confidate. Anche la giurisprudenza piemontese, come quella francese, seguiva l’assioma di diritto comune «fiduciam faciunt verba testamenti, et causa, nec non ipsius gravati declaratio». Secondo il Senato di Piemonte[[115]] la prova della fiducia poteva dirsi raggiunta quando testimoni deponessero «di aver sentito dalla bocca dello stesso erede, che egli non era che fiduciario» o quando l’erede fiduciario si fosse dichiarato tale con atto pubblico o privato, anche ove dal testamento non trasparisse alcun indizio di fiducia; quando l’erede opponesse rifiuto alla richiesta di prestare il giuramento; quando le parole del testamento mostrassero «almeno sufficientemente» la volontà fiduciaria del defunto; quando la causa fiduciaria potesse desumersi «dalle circostanze del testatore, o degli eredi, o di entrambi», da altri scritti o dal concorso di parole allusive, che Bertolotti indica come il «seme della fiducia». Questo seme emergeva con sufficiente evidenza nelle formule di fiducia semi-segreta che accompagnavano le disposizioni di ultima volontà («colla piena fiducia, che sarà il mio erede per eseguire quanto gli ho comunicato intorno al destino di mia eredità»; «colla fiducia, col peso, colla raccomandazione di fare quell’uso di sua eredità, che le fu o che le sarà in parte confidato» ecc.). Nei casi di disposizione confidata in via totalmente segreta, l’intenzione e la finalità fiduciaria andava invece rinvenuta nella «causa» e provata a mezzo di congetture.
In troppi casi, però, persisteva il dubbio sul contenuto effettivo della disposizione fiduciaria. Si discuteva inoltre sul valore della dichiarazione del fiduciario: se potesse essere resa prima del termine stabilito dal testatore; se, chiamato a giurare da un interessato, il fiduciario potesse limitarsi a deporre che fiducia de te non loquitur[[116]]; se il fiduciario potesse dichiarare la fiducia a favore proprio o del proprio figlio[[117]]; se il vincolo del segreto impedisse o meno al giudice di obbligare il fiduciario a trascrivere la disposizione fiduciaria in uno scritto da consegnare a notaio[[118]]; se la fiducia restasse o meno senza effetto in caso di morte del fiduciario prima che l’avesse dichiarata; se la dichiarazione del fiduciario fosse sempre irretrattabile[[119]].
Ma i doveri dell’erede fiduciario, per la giurisprudenza sabauda, erano innanzitutto quelli che il testatore aveva prescritto: la supremazia della volontà del testatore, anche e soprattutto in questa materia, continuava a tenere teso il filo ininterrotto dell’ermeneutica testamentaria tra diritto antico e moderno. Un caso emblematico è rappresentato da una controversia relativa ad una successione testamentaria apertasi nel novarese poco prima dell’entrata in vigore del codice civile albertino e risolta univocamente, in base al diritto romano-comune, in tutti e tre i gradi di giudizio (Tribunale di Novara; Corte d’appello di Torino; Corte di Cassazione di Milano)[[120]]. In questione era il testamento segreto del 2 settembre 1835, aperto l’11 luglio 1836, con cui Giuseppe Dominioni aveva nominato propri eredi universali fiduciari Giovanni e Carlo Perazzoli, padre e figlio, coll’incarico solidale di eseguire fedelmente le sue ultime volontà confidate loro per iscritto. Il testatore aveva imposto ai due eredi fiduciari di rivelare la fiducia «non prima della morte di tutti i legatari» e ne aveva approvato preventivamente l’operato esonerandoli dall’inventario e dalla resa dei conti («Confidando io nella loro onoratezza ed integrità da me conosciuta, libero li medesimi padre e figlio Perazzoli dall’obbligo della confezione dell’inventario, da quello di prestar cauzione in nessuna maniera, e dall’obbligo della resa dei conti a chiunque la pretendesse, né voglio che siano menomamente molestati nella loro gestione, approvando io, come approvo, l’intiero loro operato»). La fiducia era stata propalata oltre vent’anni dopo, il 16 novembre 1857, a vantaggio dei fratelli e delle sorelle Chiaro. I beneficiari pretesero il conto dell’amministrazione dell’eredità sostenendo che il diritto romano non esimesse da quest’obbligo i fiduciari, come qualunque altro genere di amministratore, tutore o esecutore testamentario, nemmeno quando ne fossero stati espressamente dispensati dal testatore. I giudici respinsero questa pretesa richiamando i caratteri speciali dell’istituzione fiduciaria. Dopo aver ribadito che l’erede fiduciario non è vero erede nemmeno prima della propalazione della fiducia, essendo con quest’ultima che si trasmette la qualità di erede «direttamente nella persona indicanda dal fiduciario», affermarono l’inestensibilità della disciplina romana degli obblighi del tutore e dell’esecutore testamentario all’istituzione fiduciaria, «dove tutto dipendeva dalla volontà del testatore» ed era coperto dal segreto[[121]]. Se si ammettesse che l’erede fiduciario sia sempre tenuto a rendere il conto della gestione, scrivono i giudici, «si verrebbe a scoprire indirettamente quello […] che il testatore volea rimanesse un segreto per tutti».
Era l’ultima difesa di una lunga tradizione di favore per le fiducie testamentarie, destinata a cedere (anche se non proprio rovinosamente) all’urto con i codici civili.
2. L’oro e la coscienza: i primi argini agli ‘abusi di confidenza’
Il codice civile albertino del 1837, seguito poco dopo da quello modenese del 1851, che ne imitò la norma, fu l’unico codice pre-unitario italiano a introdurre una disciplina della fiducia testamentaria. La disciplina consisteva nel divieto della prova che l’istituzione di erede o il legato fosse solo «in apparenza» destinato alla persona designata nel testamento, mentre lo era «realmente» a favore di altra persona, anche se le parole del testamento lo lasciassero supporre. A fare eccezione al divieto era il solo caso dell’interposizione di persona a favore d’incapaci. Questo l’esatto tenore delle due norme gemelle, piemontese e modenese:
Codice civile per gli Stati Sardi (1837), art. 809:
«Non è ammessa alcuna prova che l’instituzione o il legato fatto in favore di persona dichiarata nel testamento non lo sia, che in apparenza, ma che realmente lo sia in favore di altra persona, corpo od opera nel medesimo taciuta, e ciò non ostante qualunque espressione nel testamento, che lo indicasse o potesse farlo presumere.
La disposizione di questo articolo non si applica però al caso, che l’instituzione od il legato vengano impugnati, come fatti per interposta persona a favore d’incapaci».
Codice civile per il Ducato di Modena (1851), art. 820:
«Non è ammessa alcuna prova che l’instituzione od il legato fatto in favore di persona dichiarata nel testamento o codicillo non lo sia che in apparenza, ma che, realmente, lo sia in favore di altra persona, corpo od opera nel medesimo taciuto, e ciò non ostante qualunque espressione del testamento o codicillo, che lo indicasse o potesse farlo presumere.
La disposizione di questo articolo non si applica però al caso, che l’instituzione od il legato vengano impugnati come fatti per interposta persona a favore d’incapaci»[[122]].
La norma sabauda ebbe un’elaborazione piuttosto travagliata[[123]]. La sua formulazione originaria (art. 115 del primo progetto) conteneva, tra il primo e il secondo comma, un capoverso che regolava gli effetti della dichiarazione con cui l’erede o il legatario nominato nel testamento, adempiendo la promessa fatta al testatore, avesse rivelato la persona a cui favore la disposizione era stata realmente fatta. La dichiarazione, in tal caso, «sarà eseguita», senza però pregiudicare i terzi che avessero in precedenza contrattato con l’erede o il legatario fiduciario. La formula implicava con chiarezza l’attribuzione diretta della qualità di erede o di legatario in capo al reale beneficiario come conseguenza della dichiarazione spontanea dell’erede o legatario fiduciario, il quale dismettendo il proprio titolo ne confermava l’«apparenza».
Contro l’inserimento di questo alinea si pronunciarono sia il Senato di Piemonte sia il Senato di Genova. Il primo, contestando «il poco o nessun utile» di «mantenere nella nuova legislazione questo trovato di prammatici», «fonte perenne di liti sempre intricate», cagione di «gravi pericoli e scandali», additò come peggior inconveniente della norma proprio il divieto di prova della fiducia, il cui effetto perverso era di:
«proteggere e favorire la mala fede, l’inganno, la frode, di colui a cui affidò il testatore il sacro deposito delle ultime sue disposizioni. Fatto d’ora innanzi sicuro l’erede fiduciario di non poter essere ricercato, né molestato da chicchessia, e spinto da quella sete dell’oro che ha tanta forza sull’animo degli uomini, potrà con mala fede tradire la confidenza del defunto, e serbare per sé quelle sostanze delle quali doveva soltanto essere mero depositario e distributore. […] La legge non dee porre gli uomini in tale strettezza da poter liberamente scegliere tra il dovere e l’interesse, tra la coscienza e l’oro: così facendo, diventa per ciò solo immorale, poiché apre la via alla frode, all’inganno, al tradimento».
Deplorando una norma che, mirando a scoraggiare i testatori dal ricorrere alle confidenze, finiva per incoraggiare i fiduciari a tradirle, il Senato di Piemonte restava fedele alla sua giurisprudenza, da sempre solidale con i valori morali che giustificavano la validità degli affidamenti mortis causa. Il Senato si limitò tuttavia a chiedere l’eliminazione dell’alinea che configurava la dichiarazione del fiduciario come un «trasferimento» del titolo d’erede dall’istituito al beneficiario dichiarato; la soppressione di questa previsione non avrebbe infatti impedito all’erede fiduciario, «ritenuta in sé la qualità di erede», di far pervenire ex nova causa i beni al beneficiario.
Anche il Senato di Genova, favorevole in linea di principio all’assoluta proscrizione delle fiducie, chiese l’eliminazione dell’alinea relativo alla dichiarazione (ed anche del successivo alinea, che ammetteva la prova dell’interposizione in favore d’incapaci), perché avrebbe offerto il fianco agli «abusi di confidenza», all’elusione del divieto (relativo) dei fedecommessi[[124]], dei limiti della quota disponibile e dei limiti imposti alle liberalità tra coniugi.
Nel braccio di ferro tra i due Senati e la Commissione legislativa, che propose una nuova formulazione del capoverso contestato (art. 114 del secondo progetto: la dichiarazione andava ora fatta per atto pubblico e, oltre ai diritti dei terzi, non pregiudicava né le azioni di creditori e legatari verso il dichiarante, né il diritto dei figli del dichiarante alla quota di legittima), s’inserì la proposta della Sezione di grazia e giustizia del Consiglio di Stato (sostenuta da una «pluralità relativa» di 3 voti contro 4 «fra loro dissenzienti» ma di comune orientamento conservativo) di sopprimere l’intero articolo per sostituirlo con una secca previsione di nullità per le fiducie d’ogni genere da inserire nella norma che vietava la nomina del successore lasciata all’arbitrio del terzo («è similmente nulla qualunque disposizione in favore di persone confidate dal testatore all’erede o al legatario scritto nel testamento, e da dichiararsi dai medesimi»)[[125]].
Nel corso della discussione che si svolse in seno al Consiglio di Stato il ministro guardasigilli si dichiarò contrario alla sanzione della nullità sia perché avrebbe frustrato l’esecuzione dell’obbligazione naturale da parte dell’erede o legatario fiduciario adempiente, sia perché avrebbe colpito la stessa nomina del successore, alimentando l’interesse degli eredi legittimi ad impugnare ogni testamento che contenesse espressioni di fiducia. Il peso dell’opinione abolizionista, che perorava la nullità assoluta del testamento fiduciario come via d’uscita dall’impossibilità di disciplinare una fiducia priva di inconvenienti[[126]], fu però più che bilanciato dalla premura, assai sentita e condivisa, di far salvo l’obbligo di coscienza del successore fiduciario[[127]]. Il risultato fu la definitiva soppressione del capoverso relativo all’efficacia della dichiarazione e l’aggiunta, nel primo comma dell’articolo, dell’inciso «e ciò non ostante qualunque espressione del testamento, che lo indicasse, o potesse farlo presumere», che non era presente nella redazione originaria della norma e che irrigidiva ulteriormente il divieto di prova. Preservando ora in modo inequivoco la validità dell’istituzione, il nuovo inciso metteva senz’altro l’erede nominato al riparo dalle pretese degli eredi legittimi, lasciandogli la libertà, quale titolare del lascito, di disporre successivamente dei beni in favore del vero beneficiario. Ma il rigido divieto di prova operava anche nei confronti di quest’ultimo, lasciandolo privo di rimedi nell’ipotesi di infedeltà del fiduciario[[128]].
3. Un’area quasi franca: il Regno lombardo-veneto
La norma piemontese, ricalcata qualche anno dopo dal codice modenese, rompeva il silenzio che in materia di fiducia avevano mantenuto le altre legislazioni civili degli ex Stati-regione italiani: il codice civile napoletano del 1819, quello parmense del 1820, la legislazione civile francese del ducato di Lucca; le legislazioni civili, restaurate, della Toscana granducale e dello Stato Pontificio.
Qualche indizio di ammissibilità della successione fiduciaria poteva forse rinvenirsi nell’ordinamento successorio del Codice civile generale austriaco (1811), in vigore dal 1° gennaio 1816 nei territori del Lombardo-Veneto. Per questo codice – che, come il francese, non dettava norme espresse sulla fiducia testamentaria – l’erede fiduciario era certamente titolare dei beni della successione e il § 564 assisteva la definitività della sua istituzione facendo espresso divieto al testatore di commettere la nomina dell’erede alla «dichiarazione» di un terzo. Ciò accadeva sia nell’ipotesi di istituzione in erede del fiduciario[[129]], sia nel caso che il testatore avesse ordinato di consegnare tutta la sua eredità alla persona da lui indicata, affinché questa ne disponesse a suo piacimento o «nel modo di cui era stata in segreto incaricata»[[130]]. Tuttavia, contro l’erede fiduciario il presunto erede vero avrebbe potuto promuovere azione per ottenere l’esecuzione coattiva della fiducia sulla base dei §§ 709, 710 e 1019[[131]]. Queste norme, infatti, pur non nominando espressamente la fiducia testamentaria, potevano esservi estese. Il § 709, in particolare, disponeva che l’erede o il legatario, cui fosse stato affidato un incarico dal testatore, sarebbe decaduto dal lascito in caso d’inadempimento; il § 1019 attribuiva invece al terzo, appena avesse avuto notizia dal mandante o dal mandatario del vantaggio che quest’ultimo aveva avuto incarico di conferirgli, il diritto di promuovere azione contro entrambi i soggetti per ottenere l’esecuzione del mandato[[132]].
Questi indizi favorevoli all’ammissibilità della successione fiduciaria erano poi da coordinare con quelli implicati nell’analogia sostanziale della fiducia con la sostituzione fedecommissaria «dubbiosa», ammessa dal codice austriaco (§ 614), nonché nella possibilità, desumibile dalla norma generale sull’esecuzione del contratto (§ 904), che il termine per la restituzione dei beni dal primo erede istituito (Vorerbe o Fiduciar) all’erede successivo (Nacherbe o Fideicommissar) fosse rimesso dal testatore alla volontà del fiduciario, anziché fatto coincidere con la morte di quest’ultimo (come nell’ipotesi generale di sostituzione fedecommissaria prevista dal § 608) o fatto dipendere da avvenimenti futuri o dal decorso di scadenze prestabilite[[133]].
Per il resto, il codice austriaco – ancora fedele alla distinzione fra «testamento», atto con cui s’istituisce l’erede, e «codicillo», atto contenente «soltanto altre disposizioni» (§ 553) – ammetteva illimitatamente la sostituzione fedecommissaria nel caso che gli eredi dei gradi successivi fossero tutti contemporanei del testatore (§ 611); altrimenti, la restringeva al secondo grado se il lascito concerneva denaro o altri beni mobili, al primo grado se venivano trasferiti immobili (§ 612). Ammetteva altresì il fedecommesso di famiglia (primogenitura, maggiorascato, seniorato: §§ 618 ss.), con ovvio privilegio per la discendenza maschile (la successione delle donne era espressamente esclusa: § 626) e con carattere di perpetuità, ancorché subordinato allo «speciale consenso del legislatore» (§ 627)[[134]].
In questo quadro di favorevoli riferimenti legislativi e pur senza dimenticare l’argine costituito dal divieto della nomina dell’erede rimessa alla «dichiarazione» (non all’«arbitrio») del terzo, la pratica delle fiducie successorie trovava infine una sensibile sponda nella sopravvivenza del testamento orale, che l’ABGB considerava valido al pari di quello scritto (§ 577: «Si può fare testamento stragiudizialmente o giudizialmente, in iscritto od in voce, ed in iscritto con testimoni o senza») quando il disponente avesse dichiarato «seriamente la sua ultima volontà davanti a tre testimoni idonei»[[135]]. La dottrina austriaca ammetteva che, se il testatore avesse confidato ad una persona di fiducia le proprie volontà alla presenza di tre testimoni, dunque osservando le forme previste dal § 585, il suo successivo testamento orale sarebbe stato valido anche se si fosse ridotto a richiamare quanto in precedenza confidato[[136]].
4. Verso il codice Pisanelli
Nell’Italia della Restaurazione furono dunque solo gli Stati Sardi nel 1837, e poi il Ducato di Modena nel 1851 a profilare una disciplina delle ultime volontà fiduciarie.
Negli altri territori italiani – e fino alla estensione dei codici sardi alle altre parti della penisola – la lacuna legislativa avrebbe potuto autorizzare in astratto due esiti interpretativi della disposizione fiduciaria: quello della nullità e quello della liceità. Fino e anche oltre le soglie dell’unificazione legislativa nazionale la tendenza prevalente fu nel segno della liceità, confortata da secoli di conforme tradizione dottrinale e giurisprudenziale e dall’esempio dei commentatori francesi del codice napoleonico, che in continuità con la dottrina di antico regime e richiamando in vita le leggi romane avevano affrancato la simple fiducie dal regime delle sostituzioni proibite[[137]].
Nel Regno meridionale d’Italia questa tendenza emerge con più di un’evidenza in alcune pronunce giudiziali successive all’entrata in vigore del codice civile unitario, ma relative a controversie insorte su testamenti pubblicati in anni precedenti. Solo un paio di esempi. Una testatrice, separata dal proprio marito, lasciata all’unica figlia la dote, aveva istituto erede universale il proprio fratello notaio, lasciando però trasparire dal testamento che l’eredità fosse destinata ad altri e dunque di aver istituito l’erede solo perché fosse «semplice e nudo ministro» della sua volontà. Il 16 settembre 1860, «in attestato del vero ed in discarico di sua coscienza», l’erede aveva rivelato per iscritto, in doppio originale, la confidenza; successivamente, però, ci aveva ripensato ed aveva impugnato di nullità la sua dichiarazione. La Corte d’appello di Catania (sentenza del 13 agosto 1870), armonizzando i principi romani sulla validità delle ultime volontà confidenziali con il dettato del nuovo art. 829 del codice Pisanelli, che limitandosi ad interdirne la prova, aveva lasciato libero il fiduciario di propalare quelle volontà, ritenne valida, produttiva di effetti ed irretrattabile la dichiarazione resa spontaneamente dall’erede fiduciario[[138]].
Nel solco della tradizione è anche l’impianto argomentativo della Corte d’appello di Napoli, che con la sentenza del 25 gennaio 1865[[139]] decise una successione apertasi vent’anni addietro. Nella disposizione con cui il testatore aveva lasciato ad un sacerdote il suo patrimonio perché ne facesse «quell’uso comunicatogli a voce, senza che alcun potesse chiederne conto», la Corte napoletana aveva riconosciuto non un fedecommesso, ma una «semplice fiducia»: la quale, non trovando disciplina nelle Leggi civili del Regno delle Due Sicilie, doveva ritenersi ancora soggetta al diritto comune, malgrado le contrarie disposizioni di diritto intertemporale premesse alla pubblicazione del codice siciliano, per le quali le leggi romane avevano cessato di avere vigore nelle «materie» che formavano oggetto delle sue disposizioni[[140]].
«È vero – si legge nella sentenza – che il fedecommesso ebbe origine dalla fiducia; ma quando poi la disposizione per restituire fu dagl’imperatori resa obbligatoria e congiunta all’obbligo di conservare, la difformità divenne immensa. Il fedecommissario possedeva per sé; detraeva la Trebellianica, ed in sussidio le dotazioni; ma nella semplice fiducia il fiduciario all’opposto era nudus minister, nulla detraeva; di nulla profittava, e si riduceva ad un amichevole intermediario tra il benefattore ed il beneficato. [...] E perciò la Glossa riconosce nel fiduciario un depositario, e non un istituito: egli si rassomiglia al tutore, al curatore, al mandatario, all’amministratore, e niente più di tanto».
Il perno del ragionamento dei giudici napoletani era costituito dalla solita fonte romana – D. 36, 1, 48 [46], più volte sin qui richiamata – che la dottrina del diritto comune aveva elevato a paradigma del testamento confidenziale. Da quel paradigma era generata, come sappiamo, anche una dottrina delle prove che autorizzava il ricorso indiscriminato a ogni genere di argomento utile a far emergere la voluntas del testatore, quando un indizio di fiducialità fosse desumibile dallo stesso testamento[[141]].
Non a caso, proprio sul fronte della prova avevano alzato i loro argini i codici piemontese e modenese. Il divieto stabilito dall’art. 809 del codice piemontese e dall’art. 820 di quello modenese mirava essenzialmente a far desistere i testatori dal ricorso ad un espediente che rischiava di essere frustrato, ben più frequentemente che in passato, dall’inattività e dall’approfittamento del fiduciario. Il divieto di prova, infatti, non comportava alcuna nullità della disposizione fiduciaria e l’erede nominato restava erede anche a dispetto delle espressioni fiduciarie del testamento, libero perciò di adempiere o non adempiere al vincolo di obbligazione morale sorto dalla «fede data». L’effetto dissuasivo stava in questo: che il divieto della prova avrebbe certamente alimentato la «sete dell’oro» dei fiduciari, sicché la libertà di affidarsi all’erede o al legatario per l’esecuzione di incarichi segreti avrebbe avuto ora un pesante contrappeso nel rischio che la fiducia si convertisse ‘legalmente’ in tradimento: legandosi le mani col divieto della prova, la legge non avrebbe offerto più alcun rimedio.
Messo al vaglio della giurisprudenza, l’art. 809 del codice albertino superò evidentemente la prova se, trascorsi poco meno di tre decenni, il suo testo venne riproposto senza varianti nel codice civile del Regno d’Italia (1865), a parte solo «qualche modificazione formale allo scopo di perfezionarla»[[142]].
Questo il testo dell’art. 829 del codice Pisanelli:
«Non è ammessa alcuna prova che le disposizioni fatte in favore di persona dichiarata nel testamento siano soltanto apparenti, e che realmente riguardino altra persona, non ostante qualunque espressione del testamento che la indicasse o potesse farla presumere.
Ciò non si applica al caso che l’instituzione od il legato vengano impugnati come fatti per interposta persona a favore d’incapaci».
Nel laboratorio dell’unificazione legislativa (1860-1865) e in particolare nella congiuntura dei governi provvisori degli ex Stati-regione era spirato un vento di apparente direzione contraria. Sia l’art. 2 del decreto 22 ottobre 1860 del Commissario straordinario per l’Umbria (Pepoli), sia l’art. 3 del decreto 18 ottobre 1860 del Commissario straordinario per le Marche (Valerio) avevano infatti espressamente dichiarato «vietate e nulle di pieno diritto» le disposizioni fiduciarie, al tempo stesso adottando (anzi, riproducendolo integralmente nel caso del decreto per le provincie marchigiane) il testo dell’art. 809 del codice civile albertino. Questo ambiguo regime transitorio, che combinava incoerentemente la sanzione di nullità delle fiducie (definite «fonte di abusi», «pericolose» ed «immorali») con l’adozione di una norma (quella del codice civile albertino) congegnata per tollerarle, dette causa a non poche controversie[[143]], incentrate anche sulla distinzione tra fiducia ‘propria’ ed ‘impropria’.
Un altro tipo di regime era stato introdotto nei territori dell’ex Stato Pontificio, conquistati al Regno d’Italia nel 1870. L’art. 2, lettera a), del R.d. 27 novembre 1870, n. 6030 – con cui venne pubblicato e reso vigente nella provincia romana, insieme ai codici ed alle altre leggi del Regno, il R.D. 30 novembre 1865 n. 2606 contenente le disposizioni transitorie per l’attuazione del codice civile unitario – statuì, in aggiunta all’art. 23 delle medesime disposizioni transitorie, che «le disposizioni di ultima volontà per via di fiducia, confermate colla morte del testatore o disponente e non anche spiegate o dichiarate», dovessero esserlo entro il termine di tre mesi (o di sei mesi, per i dimoranti all’estero). Decorso inutilmente tale termine, la fiducia sarebbe rimasta senza effetto; con la conseguenza, che l’eredità fiduciaria sarebbe stata devoluta ai successori legittimi, mentre dei legati fiduciari avrebbero beneficiato, con corrispondente accrescimento della loro quota, gli eredi testamentari, ove istituiti[[144]].
5. La fiducia resiste
Il regime successorio ‘indiretto’ del codice civile unitario ricomprendeva, oltre alla norma sulla fiducia (art. 829), sia una disciplina delle sostituzioni fedecommissarie, che ammetteva la sostituzione volgare (art. 895) e proibiva la sostituzione fedecommissaria (art. 899) facendo però salva, a differenza del codice napoleonico, la validità dell’istituzione d’erede o del legato a cui la sostituzione era aggiunta (art. 900); sia – e sempre nella scia del codice albertino – due radicali norme di divieto, la cui area di applicazione veniva spesso sovrapposta, per i comuni contorni fenomenici, a quella delle fiducie: l’art. 830, che dichiarava nulla «ogni disposizione fatta a favore di persona che sia incerta in modo da non poter essere determinata»; e l’art. 834, che dichiarava «parimenti nulla ogni disposizione fatta a favore di incerta da nominarsi da un terzo».
Queste due radicali nullità avrebbero dovuto condizionare la disciplina giudiziaria dei casi di fiducia, restringendone sensibilmente il campo. La giurisprudenza ne dette invece una lettura di segno diverso. Un solo esempio. Due corti siciliane (Corte d’appello di Catania, 22 dicembre 1882; Cassazione di Palermo, 21 agosto 1886)[[145]] erano state chiamate a decidere, su richiesta degli eredi legittimi, la validità di una dichiarazione di fiducia resa da un soggetto a cui il testatore aveva affidato l’incarico di rivelare l’identità dell’erede. Stando alle norme del codice, quel puro fiduciario (non anche istituito erede) non avrebbe potuto, non rivelando la fiducia, acquistare l’eredità (ex art. 829); ma nemmeno avrebbe potuto, rivelando la fiducia, attribuirla al vero erede, dati i divieti incrociati degli artt. 830 e 834. I giudici catanesi giudicarono invece valida ed efficace la sua dichiarazione, interpretando la semplice fiducia come vera e propria istituzione fiduciaria e ritenendo sufficiente, per la sussistenza del titolo ereditario, che il testatore avesse dato al (semplice) fiduciario «le istruzioni convenienti» riguardanti «tanto la persona, cui fare le elargizioni, quanto le cose da fare». La Cassazione palermitana confermò questa tesi: il semplice fiduciario doveva presumersi anche erede quando, opportunamente recedendo dal «significato letterale delle parole espresse con nomi impropri», dal testamento constasse «il diverso concetto del testatore», desumibile, nel caso di specie, dal fatto che al fiduciario fosse stata conferita la facoltà non solo «di esigere e d’invigilare in tutti i fondi ereditari, ma ancora di disporne a seconda delle istruzioni segrete ricevute».
L’incertezza della persona del chiamato all’eredità a mezzo dell’erede fiduciario e la nomina ad arbitrio del terzo, essendo entrambe sanzionate di nullità dal codice, erano gli argomenti che gli eredi legittimi avevano buon gioco di spendere contro la validità dei testamenti fiduciari. Ma, come s’è appena visto, quando si trattava di proteggere il segreto del testatore e l’esecuzione di una fiducia[[146]], la giurisprudenza non offriva la sua sponda alle pretese degli eredi naturali, come dimostra anche la seguente breve rassegna di casi giudiziari.
Il primo caso fu deciso a Perugia in regime di regime di codice civile sardo e riguardava il testamento redatto a Foligno da Giuseppe Alleori nel 1842, «sotto l’impero del diritto romano e pontificio», ma aperto nel marzo 1861, successivamente, dunque, all’entrata in vigore in Umbria del codice albertino. Il testatore aveva istituito erede universale fiduciario il proprio fratello Giovan Battista, dandogli facoltà di disporre dell’eredità nei modi e nelle forme che più volte gli aveva dichiarato a voce. Si trattava, dunque, di una fiducia testamentaria ‘propria’, sia perché palesata nella scheda, sia perché avente ad oggetto l’intero patrimonio relitto. I nipoti del testatore, figli di un altro suo fratello predefunto, avevano fatto causa allo zio-erede fiduciario chiedendo che fosse dichiarata nulla la sua istituzione ed aperta la successione intestata, che li avrebbe favoriti in quanto coeredi legittimi per rappresentazione. Il Tribunale di Perugia accordò ragione all’erede fiduciario. La Corte d’appello di Perugia (12 febbraio 1867) annullò invece l’istituzione d’erede perché fatta a favore di persona incerta da nominarsi da un terzo (art. 807 del codice albertino), accogliendo così le istanze degli eredi legittimi. Ma la Cassazione di Torino, con sentenza del 3 dicembre 1867, applicando l’art. 809 sulle fiducie, riconobbe la validità dell’istituzione dell’erede fiduciario[[147]].
Analogo ribaltamento di giudicato, in primo grado (Tribunale di Bergamo, 17 giugno 1871) favorevole all’erede legittimo, in appello (Corte d’appello di Brescia, 23 novembre 1871) favorevole all’erede fiduciario, caratterizzò la controversia sul testamento fiduciario di Eufrosina Ferrario («In erede fiduciario d’ogni mia sostanza [...] nomino e istituisco il signor Lanzeni Battista fu Giovanni di Boltiere»), impugnato dalla sorella Marina. Deciso a termini del codice Pisanelli, anche in questo caso l’istituzione fiduciaria vinse sull’ipotesi di nullità fatta valere in base all’art. 834[[148]].
Un’altra esemplare confutazione delle ragioni dell’erede legittimo, pronunciata questa volta sotto la vigenza del codice albertino e suggellata dall’alleanza tra erede fiduciario ed erede ‘vero’, è nelle sentenze della Corte d’appello di Genova del 26 novembre 1860 e della Cassazione di Milano del 31 maggio 1861, che decisero la controversia sull’eredità del cardinale Fieschi[[149]]. L’istituzione fiduciaria ‘propria’ («Nomino mio erede fiduciario Agenore Rempicci, al quale ho comunicato la mia volontà») contenuta nel testamento dettato al notaio il 2 febbraio 1858 era stata corroborata da una dichiarazione scritta in pari data, sollecitata al cardinale dall’erede fiduciario e contenente la nomina dell’erede vero nella persona del «conte di Sanfront, marito di nostra nipote predefunta».
Analoga fu la pronuncia resa il 18 giugno 1881 dalla Cassazione di Torino in applicazione dell’art. 829 del codice Pisanelli[[150]]. Qui l’eredità di Virginia Baglioni, devoluta con testamento olografo del 24 luglio 1867 al sacerdote don Giacomo Corna-Pellegrini quale «erede universale di tutta la mia sostanza presente e futura», fu riconosciuta all’erede scritto, ancorché da una lettera del 30 dicembre 1870, indirizzata a quest’ultimo dalla testatrice, risultasse la destinazione fiduciaria dei beni ereditari a scopo pio. Anche qui contro le ragioni dell’erede legittimo, fratello della testatrice, che aveva sostenuto «nella forma del dilemma» la nullità del testamento – o perché fatto a favore di persona incerta o perché fatto a favore di persona incerta da nominarsi da un terzo – furono rigettate dalla Cassazione torinese: «Agli occhi della legge il vero e solo erede è la persona come tale nominata nel testamento, di cui non è lecito impugnare l’efficacia per ciò solo che il testatore, confidando pienamente nell’onestà dell’erede, si rimise alla sua coscienza circa l’uso e la destinazione di tutta o parte della sua sostanza ereditaria».
Nel triangolo imperfetto disegnato dagli artt. 829 (fiducia), 830 (disposizione a favore di persona incerta) e 834 (disposizione a favore di persona incerta da nominarsi da un terzo) le linee del sistema cominciavano a diventare più chiare, come risulta da una serie di coerenti pronunce delle corti napoletane (App. Napoli, 9 dicembre 1872; Cass. Napoli, 13 febbraio 1873; App. Napoli, 16 maggio 1873; Cass. Napoli, 4 giugno 1868)[[151]]: «il fiduciario è vero erede anche quando nulla di reale venga a raccogliere, bastando il solo titolo e nome di erede, imperocché la qualità di erede est nomen juris per rappresentare la persona del defunto. La fiducia che non imprima la qualità di erede, e renda nulla l’istituzione, è quella che commette al fiduciario l’incarico di nominare l’erede a sua volontà, o quello comunicatogli oretenus, non già quella che commette [...] l’uso da farsi del legato. In questo caso non vi ha incertezza sulla persona dell’istituito, per dirsi nulla la disposizione»[[152]].
Ma l’equilibrio tra il divieto di prova della fiducia e la libertà lasciata ai testatori di ricorrere alla fiducia; tra la solidarietà con la prassi dell’affidamento e l’esigenza di garantire certezza alle successioni e alle proprietà, continuava ad essere molto precario. Se di fronte all’adempimento spontaneo della fiducia l’esecuzione del testamento non incontrava ostacoli, nell’ipotesi soprattutto della fiducia ‘propria’ o ‘semi-segreta’ – nell’ipotesi cioè del testamento che palesasse l’intenzione fiduciaria, adombrando l’intenzione di sostituire una persona non nominata a quella nominata, senza però indicarne il nome – l’evenienza che il fiduciario voltasse la fiducia a proprio vantaggio riusciva ancora particolarmente odiosa e inaccettabile: se l’intera materia delle successioni era informata al principio del rispetto del «supremo volere del testatore», come poteva giustificarsi che tale volontà venisse apertamente manomessa da un contegno del fiduciario così palesemente contrario al mandato ricevuto? E come poteva concepirsi una norma che, pur a fronte dell’evidente mala fede dell’erede «apparente» incaricato della fiducia, lo lasciasse indisturbato erede, avallandone di fatto il contegno?
6. Povere suore di Vidor
Il testamento di Elisa Oran, scritto ad Adria il 13 novembre 1898, disponeva in questo modo: «Istituisco e dichiaro erede di tutta la mia sostanza mobile e immobile il rev. monsignor Luigi Canonico Fraccon, attuale vicario parrocchiale della nostra cattedrale, volendo che il detto monsignor non sia tenuto a rendere a chicchessia alcun conto del come egli impiegherà la sostanza che egli per tale mio testamento verrà a possedere». Una tipica fiducia semi-segreta. Un anno dopo la morte della signora Orian, defunta nel novembre 1901, Luigi Fraccon aveva venduto l’intera proprietà ereditata a due suore di Vidor, Maria Margherita Ferraretti ed Elisa Andreoli. La vendita simulava, in realtà, l’esecuzione della fiducia, come avrebbe rivelato qualche anno dopo lo stesso Fraccon: l’intera proprietà Orian era stata da lui trasferita alle due suore perché queste, in esecuzione di un desiderio più volte comunicatogli verbalmente dalla testatrice, fondassero in Adria un’opera di beneficenza (il canonico e le suore si erano poi decisi per un orfanotrofio); la vendita aveva mascherato, in sostanza, una trasmissione a titolo gratuito, essendosi ridotto il corrispettivo contrattuale al mero accollo alle suore dei debiti ereditari e della tassa di successione.
La rivelazione della fiducia, fatta per iscritto dal Fraccon nel 1907, conteneva però rimandi non univoci alla volontà della testatrice. «Mi si comunicò – dichiarò Fraccon – che la signora Orian aveva testato in mio favore perché della sua eredità si fosse usato secondo le intenzioni tante volte a me manifestate». La fiducia trovava conferma in una lettera annessa al testamento, nella quale però la Orian non faceva riferimento alle suore di Vidor, bensì chiedeva di impiegare l’eredità per far venire in Adria i Padri del Monte Berico di Vicenza per fondarvi un istituto pio. Fedele a questa volontà, il canonico aveva interpellato i padri vicentini, ma questi non avevano accettato ed allora l’erede fiduciario, ricordandosi che più volte la testatrice gli aveva parlato di alcune suore di Vidor, si era determinato a fare ciò che aveva poi fatto.
Nell’eseguire la fiducia testamentaria, dunque, il canonico aveva dovuto, a suo modo, operare una scelta. Nella sua dichiarazione aveva rivelato quale fosse lo scopo manifestatogli in via generale dalla testatrice: che la sua eredità fosse «applicata alla pubblica beneficenza». Ma poiché la disposizione fiduciaria scritta, affidata alla lettera che espressamente si riferiva ai padri del Monte Berico, non poteva essere adempiuta per il rifiuto di quei sacerdoti, l’erede fiduciario aveva deciso di eseguire la confidenza orale, che voleva beneficiarie le suore di Vidor. Adempiendo alla fiducia orale – una fiducia, per così dire, di secondo grado – l’erede fiduciario, pur con qualche arbitrio, raggiungeva comunque lo scopo prefissato dalla testatrice, ossia di devolvere i beni alla pubblica beneficenza.
Accadde però che la Congregazione di Carità di Adria, invocando la legge sulle istituzioni di pubblica beneficenza (l. 17 luglio 1890, art. 7), che affidava alle locali Congregazioni di Carità il compito di curare gli interessi dei poveri di ogni comune, quale rappresentante, appunto, dei poveri di Adria, eredi di Elisa Orian a termini delle sue ‘vere’ intenzioni, citò in giudizio le suore di Vidor per l’annullamento del contratto simulato di compravendita e la rivendicazione dei beni dell’eredità.
La causa, seppure nell’arco di pochi anni, fu sottoposta a ben quattro gradi di giudizio e a quattro decisioni assai diverse fra loro. Il Tribunale di Rovigo (sentenza del 27 maggio 1908) respinse senz’altro la domanda della Congregazione di Carità, ritenendo che questa non avesse dimostrato la sua qualità di erede, il solo titolo che l’avrebbe abilitata ad agire in rivendicazione contro le suore. La Corte d’appello di Venezia (sentenza del 6 agosto 1909), accertato che l’istituzione di erede fatta dalla Orian avesse natura fiduciaria e che la vendita fatta dall’erede fiduciario alle suore avesse simulato l’esecuzione della fiducia e fosse, per tale motivo, irrevocabile, decise invece, in base al tenore della dichiarazione del Fraccon e alla citata legge sugli istituti di pubblica beneficenza, che alla Congregazione di Carità spettasse un diritto di credito nei confronti dell’erede fiduciario perché l’esecuzione della fiducia fosse «esattamente adempiuta». La Corte di cassazione di Firenze (sentenza del 18 luglio 1910) ritenne, al contrario, che non avendo la dichiarazione di fiducia alcuna efficacia obbligatoria per il dichiarante, quella del Fraccon, peraltro successiva alla vendita dei beni ereditari, non avesse attribuito alcun diritto alla Congregazione di Carità, né ereditario, né di credito. La Corte d’appello di Lucca, cui la causa fu infine rinviata, capovolse la decisione della Cassazione fiorentina: riammise il principio, già in precedenza affermato dalla Corte d’appello di Venezia, dell’obbligatorietà per il fiduciario di dichiarare di fiducia, ma ritenendo che la dichiarazione del Fraccon contenesse una rivelazione di fiducia in favore degli orfani poveri di Adria e, per essi, della Congregazione di Carità, loro legittima rappresentante, decise (sentenza dell’11 maggio 1911) che in seguito a quella dichiarazione l’eredità Orian fosse passata alla Congregazione e che questa, quindi, in qualità di erede diretta della testatrice, potesse agire in rivendicazione contro le suore di Vidor.
Il ragionamento della Corte lucchese (svolto, a detta della stessa Corte, «senza impigliarsi in costruzioni giuridiche riservate ai docenti e quindi senza indugiarsi sulle diverse dottrine anche antitetiche che assurgono da opere geniali di valenti giureconsulti») si fondava sul presupposto che la disposizione fiduciaria, una volta rivelata, fosse irretrattabile e addirittura retroagisse al testamento, con il quale veniva «a ricongiungersi, in quanto con quel testamento il de cuius affidò alla coscienza dell’onorato l’esecuzione della sua volontà resa manifesta ed esaudita mediante la dichiarazione di fiducia». Questa dichiarazione si riduceva, in sostanza, «all’esecuzione di un mandato post mortem conferito mediante una disposizione testamentaria completata dall’incarico fiduciario, non potendosi oggi parlare in diritto di un mandato post mortem, del quale si esauriscono però tutti gli effetti nella istituzione fiduciaria rivelata da colui che ai tempi litigiosi delle prove ammesse era reputato nudus minister»[[153]].
La controversia tra le suore di Vidor e la Congregazione di Carità di Adria fu infine composta con una transazione. Ma la sentenza della Corte d’appello di Lucca, che aveva chiuso il ciclo delle liti giudiziali nel modo che abbiamo appena visto, aveva fatto tornare in auge quell’orientamento di assoluto favore nei confronti della pratica delle fiducie, che aveva trionfato nella giurisprudenza del diritto comune (i «tempi litigiosi delle prove ammesse» evocati nella sentenza) e che ancora sotto l’impero del codice civile nazionale continuava a far perno sul principio della validità ed irretrattabilità della dichiarazione del fiduciario ai fini dell’acquisto, direttamente dal testatore, dell’eredità o del legato da parte delle persone dichiarate[[154]].
Su quest’ultimo punto la coerenza dell’indirizzo seguito dalla giurisprudenza italiana è registrabile lungo l’arco di quasi mezzo secolo di applicazione giurisprudenziale dell’art. 829. «Che l’erede fiduciario – si legge in una sentenza della Corte d’appello di Genova del 3 agosto 1867 – quando abbia dichiarato la volontà del defunto più non possa immutarla con effetto è ferma giurisprudenza, e sole circostanze speciali poterono indurre i Tribunali qualche volta, ma raramente, a sentenziare in diverso modo. E la ragione di questo non accettabile immutamento si è che quando non si tratta di volontà propria, ma di secreto che nella sostanza sua è certa ed inalterabile, dall’istante che il fiduciario pubblicò il secreto questo non è più a lui, è cosa pubblica, e ciò che è già scoperto non può essere ritrattato»[[155]].
7. Un’eccentrica dottrina
Irrisolte dal codice civile albertino, le questioni relative all’efficacia obbligatoria della dichiarazione del fiduciario e alla causa di acquisto dell’eredità o del legato da parte del beneficiario della fiducia tornavano dunque a proporsi negli stessi termini anche agli interpreti del codice Pisanelli. Grazie alla sua robusta tradizione, continuava ad avere autorità l’opinione che la dichiarazione spontanea della fiducia, anche solo verbale, fatta in qualunque tempo, anche solo incidentalmente resa in giudizio, obbligasse il fiduciario ad eseguirla[[156]]; e che una volta dichiarata la fiducia, il passaggio dei beni al beneficiario non avvenisse ex nova causa, ossia per libera volontà dell’erede o legatario fiduciario[[157]], ma ex causa testamenti, ossia per effetto diretto della volontà del testatore; ciò in quanto il fiduciario «deve considerarsi come se non fosse stato mai erede», non avendo fatto altro che «dichiarare la volontà del testatore» e «ripetere il nome» che il testatore gli aveva confidato[[158]]. In più occasioni la giurisprudenza aveva giudicato l’erede fiduciario obbligato civilmente ad eseguire la fiducia per il solo fatto di averla confessata[[159]] e a maggior ragione quando l’avesse anche promessa[[160]].
Altro tema complesso era poi quello relativo all’«attendibilità della spiegazione della fiducia» – in relazione sia alla «intenzione accennata nel testamento»[[161]], sia alla oggettiva veridicità della dichiarazione – e alla sua conseguente impugnabilità[[162]].
Nell’ipotesi però che il successore fiduciario non dichiarasse nulla, la norma dell’art. 829, come già la sua matrice sabauda, non autorizzava alcuna prova; l’erede nominato era inattaccabile e l’impossibilità dell’accertamento giudiziale – come aveva già lamentato il Senato di Piemonte nel corso dei lavori preparatori del codice albertino – finiva per ‘coprire’ il comportamento dei fiduciari infedeli, indirettamente incoraggiando gli episodi di slealtà. Alzando l’argine contro l’abuso del ricorso all’interposizione fiduciaria, quasi per contrappasso quella norma aveva aperto il varco all’approfittamento e all’arbitrio del successore fiduciario. Anche chi difendeva la scelta normativa dei codici albertino ed italiano era poi costretto ad ammettere che le loro norme, riconoscendo sempre e comunque come successore la persona nominata nel testamento, anche al cospetto di espressioni allusive del contrario, rendevano il fiduciario legalmente libero di non eseguire la volontà confidata o di dichiarare una falsa fiducia. In un sistema moralmente così discutibile, l’unico rimedio per il testatore che non volesse rinunciare allo strumento della confidenza era preventivo e consisteva nello scegliersi per fiduciario «una persona di probità sicura»[[163]]. L’esigenza di ricorrere alla via fiduciaria, ora per soddisfare bisogni di coscienza irrivelabili nel testamento[[164]], ora per programmare destinazioni patrimoniali non immediatamente attuabili, doveva insomma sfidare gli ostacoli della legge potendo contare sulla sola lealtà umana. Dal canto loro, i giuristi non si sottraevano all’«irresistibile seduzione», che i «motivi idealistici ed etici» esercitavano su queste vicende, esuberando «gli oggetti e i limiti positivi della facoltà di testare, confondendo la parte etica e la parte giuridica nelle dichiarazioni di ultima volontà, accordando infine alla volontà dei morti fatalmente immutabile un peso, una estensione, una sanzione, che la volontà dei vivi non raggiunge»[[165]].
L’ibrida disciplina che il codice italiano aveva ereditato da quello piemontese teneva insomma in difficile equilibrio due piani asimmetrici: da un lato, la volontà fiduciaria dei testatori dipendeva dalla lealtà dei loro fiduciari; dall’altro, non era previsto alcun rimedio contro l’approfittamento, perché la legge obbligava a tener conto della sola volontà dichiarata, pur a fronte di evidenti e testuali indizi. Una «ragione di pubblico interesse», tale perché posta a tutela della «sicurezza dei dominii», imponeva, in quest’ultimo caso, di «accettare l’apparente come vero, vietando persino di cercare quel vero che si nasconde». Quando il testatore non «parla» per bocca del fiduciario, perché il fiduciario non dichiara né esegue la volontà confidata, il divieto di prova «chiude la bocca ad ogni pretendente, sia costui l’erede legittimo al quale starebbe bene che la eredità testata andasse in fumo, o sia quella stessa persona che si ritiene contemplata nella mente del testatore: specie di gestazione che non ha potuto giungere sino al parto»[[166]].
Ma se il fiduciario parlasse, riconoscendo di aver ricevuto dal testatore l’incarico di rimettere i beni ad un terzo, senza anche eseguirlo? Potrebbe esservi costretto? La risposta affermativa, insieme alla più sofisticata opinione favorevole alla validità delle disposizioni fiduciarie, è consegnata all’opera prima (1882) del venticinquenne Emanuele Gianturco (1857-1907)[[167]]; un giurista tanto certo della possibilità di rivitalizzare l’istituto e inquadrarlo nel sistema del codice, quanto convinto dei suoi gravissimi inconvenienti sociali, al punto da invocarne la totale ed espressa abrogazione, così preconizzando il passo successivo che la codificazione italiana avrebbe compiuto[[168]].
Il libro di Gianturco sulle fiducie si presenta perfettamente diviso fra storia e dottrina dell’istituto. La controversa questione delle origini – se le fiducie testamentarie fossero una diretta derivazione dei fedecommessi romani o avessere avuto gestazione nelle pratiche testamentarie e nelle dottrine nell’età intermedia o fossero, infine, «un puro trovato di prammatici, una consuetudine delle curie d’Italia»[[169]] – si sommava all’utilità, per gli interpreti del codice civile, del ricorso alle fonti romane e alla dottrina del diritto comune, dalle quali era possibile trarre sussidi utili a costruire una convincente ermeneutica delle disposizioni vigenti.
Nella sua essenza la teoria gianturchiana era che la dichiarazione della fiducia obbligasse civilmente il dichiarante nei confronti del ‘vero’ chiamato e faceva leva sull’argomento testuale, che l’art. 829 negava la prova, ma non l’azione diretta a conseguire l’adempimento della fiducia[[170]]. Ove il fiduciario dichiarasse spontanemente il vero volere del testatore (senz’anche eseguirlo), la sua dichiarazione, avendo valore di confessione e non essendo la confessione tecnicamente una prova (e dunque non ricadendo nel divieto dell’art. 829), avrebbe potuto essere fatta valere nel giudizio costituito a seguito dell’azione promossa dall’interessato per costringere il fiduciario all’esecuzione[[171]]. Il procedimento per l’esecuzione coattiva della fiducia era ricalcato su quello previsto dal codice per la confessione del debito soggetto a prescrizione presuntiva.
Se il legislatore avesse voluto togliere efficacia anche alla dichiarazione spontanea della fiducia – questo il ragionamento di Gianturco, che richiamava così in causa il fantasma del capoverso espunto dall’art. 809 del codice albertino[[172]] –, avrebbe dovuto negare l’azione e non già la sola prova diretta a conseguire l’adempimento dell’incarico fiduciario. E se caratteristica propria dell’obbligazione naturale è di essere sfornita di azione, con la sola garanzia costituita dalla eccezione della soluti retentio, che presuppone la volontaria soddisfazione (art. 1237 c.c. 1865), naturale non poteva dirsi l’obbligazione del fiduciario, dato che l’art. 829 aveva inibito la prova, ma non l’azione mirata ad accertare la fiducia. Alla obbligazione del fiduciario si attagliava invece la disciplina d’eccezione relativa alle prescrizioni brevi di pagamento (art. 2142 c.c. 1865), che consentiva di superare con la confessione del debito, provocata dal giuramento deferito dal creditore all’obbligato, l’ostacolo del decorso del termine per l’azione.
Da un lato, dunque, la singolare natura della confessione – che non sarebbe «a rigore una vera prova», ma un negozio dispositivo, poiché la confessione è tale «che rende del tutto inutile ogni prova, per virtù dello spontaneo riconoscimento del diritto altrui e del dovere, che in conseguenza pesa su di noi»[[173]] –; dall’altro, il carattere originariamente civile, e non naturale (e nemmeno naturale che si trasformi in civile solo per effetto della dichiarazione), dell’obbligazione del fiduciario-dichiarante – un’obbligazione analoga a quella del debitore che giuri, nel giudizio promosso contro di lui dal medico o dall’avvocato, di essersi giovato dell’opera del professionista e di non averlo pagato – costituivano i cardini della teoria gianturchiana. Secondo questa teoria, la dichiarazione spontanea della fiducia avrebbe fornito la prova dell’obbligazione del fiduciario (inazionabile prima della confessione); l’erede o il legatario fiduciario avrebbe perso la facoltà di adempiere o meno l’incarico affidatogli dal testatore, dato che l’azione promossa dal beneficiario avrebbe spiegato contro di lui la sua efficacia coattiva; e l’eredità o il legato sarebbero passati ipso iure, con effetto retroattivo, in capo al successore vero, destinatario della fiducia, di modo che questi «si considera come proprietario dei beni compresi nella eredità fin dal giorno della morte del testatore»[[174]].
8. Il nuovo assetto codicistico
L’originale teoria di Emanuele Gianturco, il suo tentativo d’intrudere gli assiomi filo-fiduciari della cultura giuridica pre-codicistica nelle pieghe e nelle contraddizioni dei lavori preparatori dell’art. 809 del codice piemontese[[175]], la sua ingegnosa lettura degli istituti del codice per accreditare l’ammissibilità della successione a titolo di fiducia dichiarata[[176]], divennero presto il bersaglio principale di una dottrina sempre più concorde nel sostenere l’impossibilità di «incastrare» la fiducia nel sistema di diritto successorio italiano[[177]]. L’«unanimità di concetti», attorno a cui si raccolsero le voci dei giuristi, trovò infine anche il conforto di più convinte pronunce della giurisprudenza contrarie al riconoscimento dell’efficacia della dichiarazione della fiducia.
Il concorde indirizzo negativo della civilistica italiana è ben rappresentato dalla copia di commenti favorevoli – un «plebiscito [...] dei civilisti italiani», per De Ruggiero; «un referendum», per Vittorio Polacco[[178]] –, che accompagnò la pubblicazione nei repertori di una sentenza emessa l’11 luglio 1911 dal Tribunale di Girgenti, la cui motivazione si tradusse nella sistematica confutazione della teoria gianturchiana[[179]]. Agli occhi dei critici «gli sforzi ingegnosi fatti dal Gianturco per galvanizzare un istituto di altri tempi»[[180]] apparirono allora talmente sovramisurati alle oggettive possibilità d’interpretazione della legge, da far chiedere come mai quel «valente giurista» non avesse avuto «il coraggio di por fine alla tortura, cui andava assoggettando il suo ingegno, rinunciando all’intrapresa, e riconoscendola impossibile»[[181]].
Il caso deciso dal Tribunale di Girgenti concerneva il cospicuo lascito di un nobile siciliano. Fra i molti beni dell’eredità del barone Salvatore Cafisi era pervenuto alla moglie, la baronessa Girolama Mendola, un ricco fondo, che ella, con un primo testamento segreto, redatto (come si legge nel preambolo della scheda) «tenendo presente la volontà espressami e le raccomandazioni fattemi verbalmente da mio marito al momento in cui mi istituì sua erede universale», aveva legato ad un nipote del marito. Con un secondo testamento segreto, di pochi mesi successivo al precedente, la baronessa aveva però: revocato il legato, con la motivazione che il nipote, nel frattempo caduto in grave stato di salute, non ne avrebbe potuto godere (sarebbe infatti morto poco dopo); destinato il fondo a sue tre nipoti (figlie di fratello), già istituite eredi universali col primo testamento; lasciato, infine, alle cinque figlie del nipote non più legatario alcune somme di denaro, da pagarsi dalle eredi universali. Apertasi la successione della baronessa, defunta qualche anno dopo la redazione del secondo testamento, le cinque figlie ed eredi legittime dell’ex legatario, credendo di ravvisare nelle espressioni del primo testamento una fiducia dichiarata ed eseguita; assumendo che la rivelazione della fiducia avesse prodotto l’effetto di convertire l’obbligazione naturale in civile; e ritenendo pertanto nulla la revoca contenuta nel secondo testamento, avevano convenuto dinanzi al tribunale le tre eredi universali della baronessa, chiedendo la restituzione del fondo in quanto formante oggetto di una fiducia in favore del loro defunto padre. Nelle loro memorie difensive le attrici, com’è intuibile, avevano fatto proprie le tesi svolte a suo tempo da Gianturco, ripetendone i brani essenziali, in particolare quanto alla natura dell’obbligazione del fiduciario e al valore della pretesa confessione della fiducia.
Francesco Scaduto (1858-1942), all’epoca ordinario di Diritto canonico nell’università di Napoli, era l’avvocato di una delle eredi testamentarie convenute. Dopo le prime battute del processo, approntò un nutrito memoriale, che inviò in forma di Quistionario a molti fra i più noti civilisti di cattedra e di foro italiani. L’esito di questa consultazione, oltre ad influenzare decisivamente la soluzione della controversia giudiziaria, rappresentò uno dei più riusciti consessi dottrinari promossi dalla civilistica moderna attorno a un caso pratico. Pervennero infatti in breve tempo al richiedente 14 dotti pareri pro veritate; tutti, con la sola eccezione di quello inviato da Vito De Pirro, concludevano per l’inefficacia della dichiarazione spontanea della fiducia. I pareri giunti tempestivamente furono, a cura dello stesso Scaduto, stampati ed allegati al suo voluminoso atto difensivo conclusivo. La maggior parte di essi trovarono inoltre immediata collocazione nelle riviste giuridiche e nei repertori forensi sotto forma di memorie scientifiche o di note giurisprudenziali, eccitando a loro volta un’ulteriore fioritura di scritti sulla questione della validità o meno della fiducia testamentaria[[182]].
Le tesi di Scaduto e dei suoi numerosi ed autorevoli consulenti prevalsero nel giudizio, vinto dalle eredi testamentarie della baronessa. La sentenza del Tribunale di Girgenti fu pubblicata nel «Foro italiano» insieme ad una lunga e dotta nota del giudice estensore, che demoliva la teoria gianturchiana. Le sue tesi erano che: a) la fiducia era da ritenersi abolita dall’art. 829; b) il divieto di prova stabilito in quella norma era assoluto ed equivaleva «al diniego dell’azione, giacché un diritto, la cui sussistenza non possa in alcun modo essere provata, è un diritto che non esiste»; c) i lavori preparatori del codice civile albertino, cui era inevitabile ricorrere essendo «muti» quelli del codice civile italiano, confermavano la volontà legislativa di abolire le fiducie: la proposta d’inserire nell’art. 809 del codice piemontese un alinea che riconoscesse la validità della dichiarazione spontanea della fiducia, che si suggerì fosse da formalizzare con atto pubblico, era stata respinta, prevalendo l’opinione del Senato di Piemonte, che aveva propugnato l’inefficacia della dichiarazione anche se fatta con atto solenne; d) l’istituto della fiducia era incompatibile col diritto successorio italiano: con gli artt. 720 e 774 e ss., che disponevano che la successione si devolveva solo per legge o per testamento e che il testamento dovesse essere sempre scritto; con gli artt. 1050 e seguenti, per i quali tutte le disposizioni del testatore dovevano risultare dal testamento (la fiducia sarebbe risultata invece dalla dichiarazione del fiduciario, laddove neanche al testatore era lecito modificare il testamento se non per mezzo di un altro testamento o di un atto notarile che gli equivalesse); con gli artt. 830 e 834, che dichiaravano nulle le disposizioni fatte a favore di persona incerta, anche se da nominarsi da un terzo; con l’art. 942, per cui l’accettazione dell’eredità non si poteva impugnare; con l’art. 2 R.d. 27 novembre 1870 per la pubblicazione dei codici unitari nella provincia di Roma (in chiave di interpretazione autentica dell’art. 829), che aveva fissato un termine per la dichiarazione delle fiducie, perento il quale esse perdevano efficacia; e) la confessione, infine, era da ritenersi certamente una prova e come tale vietata dall’art. 829; se pure si fosse qualificata come negozio giuridico dispositivo, essa sarebbe comunque caduta sotto altro divieto: consistendo, infatti, in atto di disposizione della qualità di erede o legatario, già in capo al confitente, essa avrebbe dato vita ad una sostituzione fedecommissaria, giacché al testatore, in forza della sua volontà, sarebbero succedute due persone in ordine successivo.
Fu questa la china che condusse il nuovo codificatore a riformulare la norma sulle disposizioni fiduciarie di ultima volontà. Nell’art. 627 del codice civile italiano del 1942 si legge:
«Non è ammessa azione in giudizio per accertare che le disposizioni fatte a favore di persona dichiarata nel testamento sono soltanto apparenti e che in realtà riguardano un’altra persona, anche se espressioni del testamento possano indicare o far presumere che si tratta di persona interposta.
Tuttavia la persona dichiarata nel testamento, se ha spontaneamente eseguito la disposizione fiduciaria trasferendo i beni alla persona voluta dal testatore, non può agire per la ripetizione, salvo che sia un incapace».
La nuova norma apportò due sole significative modifiche alla disciplina previgente: il divieto dell’azione giudiziale (e non della sola prova) intesa ad accertare che le disposizioni fatte a favore della persona dichiarata nel testamento siano soltanto apparenti[[183]]; e l’esplicita previsione dell’irripetibilità dei beni che il fiduciario abbia spontaneamente trasferito alla persona voluta dal testatore[[184]].
Mettendo in opposizione «apparenza» a «realtà», in perfetta linea con i suoi diretti precedenti (art. 829 c.c. 1865 e art. 809 c.c. albertino 1837; ma, più su, in linea pure con la dottrina francese sul Code Napoléon), l’art. 627 c.c. 1942 ha lasciato libero il campo alle fiducie manifeste, ossia ai testamenti fiduciari che designino espressamente il beneficiario finale del lascito[[185]]. Gian Pietro Chironi lo aveva già chiarito con riguardo all’ambito di applicazione dell’art. 829 c.c. 1865: se è prescritto che la volontà testamentaria, compresa l’identificazione del successore, deve essere espressa dal de cuius; e se è altrettanto prescritto che nessuna indagine può ammettersi per dimostrare che erede o legatario sia altri dall’erede o legatario designato nel testamento, ne consegue che «la istituzione fiduciaria con la indicazione della persona cui l’eredità si deve restituire è valida (istituzione fatta espressamente), salvi i limiti derivanti dalla istituzione fedecommissaria»[[186]]. In caso di fiducia manifesta, oggi come ieri, l’obbligazione fiduciaria trova dunque la propria fonte nel testamento, senza incontrare limiti, che non siano quelli legati all’ipotesi della sostituzione vietata.
Quanto invece al campo, tradizionalmente assai più esteso, della fiducia segreta e semi-segreta, l’analisi dei pochissimi casi controversi finora noti tende a dare rilievo alla causa contrattuale della relazione tra il testatore e il suo fiduciario, inquadrabile oggi, più che in passato, nello schema del contratto a favore del terzo con prestazione da eseguirsi dopo la morte dello stipulante[[187]].
Il ritorno al contratto come fonte dell’obbligazione fiduciaria è anche un ritorno alla migliore elaborazione della nostra tradizione scientifica intorno al fenomeno del testamento confidenziale. L’attuale povertà dei casi giudiziari, dunque, piuttosto che testimoniare il drastico declino di una prassi, potrebbe indicare invece che la fiducia testamentaria si stia instradando, dopo il suo libero corso millenario, sui piani che il nostro diritto civile è in grado di allestire per valorizzarne la ricchezza.
[1] M. BALZANO, Le parole sono importanti. Dove nascono e cosa raccontano, Torino, 2019, 63-68 (Fiducia); E. RESTA, Le regole della fiducia, Roma-Bari, 2009; É. BENVENISTE, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, I. Economia, parentela, società, Torino, 2001, 76-90 (La fedeltà personale) e 130-136 (Credito e credenza): «Colui che detiene la fidēs messa in lui da un uomo ha quest’uomo in suo potere. Ecco perché fidēs diventa quasi sinonimo di potestās e di diciō. Nella loro forma primitiva, queste relazioni comportano una certa reciprocità: mettere la propria fidēs in qualcuno procurava in cambio la sua garanzia e il suo appoggio. Ma proprio questo fatto sottolinea l’ineguaglianza delle condizioni» (88).
[2] P. VOCI, Il diritto ereditario romano dalle origini ai Severi, in ID., Studi di diritto romano, Padova, 1985, 60.
[3] Per approfondimenti sul contenuto del presente e dei successivi due paragrafi mi permetto di rinviare a F. TREGGIARI, La fiducia testamentaria prima dei codici, in BICCARI (a cura di), Fiducia, trusts, affidamenti. Un percorso storico-comparatistico, in «Studi Urbinati di scienze giuridiche, politiche ed economiche», a. LXXXIII (2015), Nuova Serie A N. 66 unico, 261-274; ID., Storia del testamento fiduciario, I. Diritto romano e diritto comune, Perugia, 2009; ID., Fiducia and Trust: Words and Things, in HELMHOLZ – PIERGIOVANNI (a cura di), Relations between the ius commune and English law, Soveria Mannelli, 2009, 263-269; ID., L’affidamento nell’esecutore testamentario. Dati per una retrospettiva, in Trusts e att. fid., 2008, 2, 170-178; ID., Negozio fiduciario, fiducia, disposizioni transmorte, in Dir. rom. att., 2007, 17, 65-79 (anche in MAZZARESE – SASSI (a cura di), Diritto privato. Studi in onore di Antonio Palazzo, II. Persone, famiglia e successioni, Torino, 2009, 885-896); ID., La fides dell’unico teste, in PRODI (a cura di), La fiducia secondo i linguaggi del potere, Bologna, 2007, 53-72; ID., ‘Fiducialitas’. Tecniche e tutele della fiducia nel diritto intermedio, in LUPOI (a cura di), Le situazioni affidanti, Torino, 2006, 45-73; ID., ‘Minister ultimae voluntatis’. Esegesi e sistema nella formazione del testamento fiduciario. I. Le premesse romane e l’età del diritto comune, Napoli, 2002.
[4] Cfr. F. TREGGIARI, Minister ultimae voluntatis …, cit., 72-73.
[5] Cfr. F. TREGGIARI, Dottrine di Bartolo sul testamento, in Studi Umanistici Piceni, XXXII (2012), Supplemento monografico, 57-72; ID., Minister ultimae voluntatis …, cit., 389-408 e 562-570.
[6] Sul comune «fondamento consensuale» della fiducia, nello ius civile come nella common law, e sulle convergenti soluzioni giurisprudenziali che i due sistemi hanno adottato assumendo a riferimento la costituzione di Giustiniano sul fedecommesso orale, cfr. M. LUPOI, I trust nel diritto civile, Torino, 2004, 143-150.
[7] Cfr. ancora M. LUPOI, I trust nel diritto civile, cit., 150-153.
[8] F. TREGGIARI, Minister ultimae voluntatis …, cit., 389-408 e 562-570. Distingue la fiducia-contratto dalla fiducia unilaterale la sentenza del Senato di Piemonte, 5 gennaio 1784 (rel. Lombardi), Giacinto Canale di Cumiana c. Sacro Ordine di Malta, inedita.
[9] F. TREGGIARI, Minister ultimae voluntatis …, cit., 432-447.
[10] F. TREGGIARI, Minister ultimae voluntatis …, cit., 591-594.
[11] Senato di Piemonte, 9 febbraio 1764 (rel. Lombardi), Concorso dei creditori di Carlo Fabre e Carlo Fabre c. sacerdote Gioanni Guglielmo Rolfo, in Collezione progressiva e per ordine di materie delle decisioni de’ Supremi Magistrati negli Stati di Terra Ferma di S.M. il Re di Sardegna. Compilazione dell’Avvocato Felice Amato Duboin, t. I, serie VI, Testamenti, t. I, Torino, 1830, 588-616.
[12] Senato di Nizza, 6 maggio 1773 (rel. Trinchieri), coniugi De Foresta c. notaio Gioanni Maria Siga, in Collezione progressiva, cit., t. I, serie VI, Testamenti, t. I, Torino, 1830, 635-642.
[13] Senato di Nizza, 24 novembre 1790 (rel. Raynardi di Belvedere), notaio Giuseppe Onorato Maria Ugo c. Vassallo di Castelnuovo Giuseppe e altri, in Collezione progressiva, cit., t. I, serie VI, Testamenti, t. I, Torino, 1830, 617-635.
[14] Senato di Casale, 2 dicembre 1839 (rel. Causa), Burgonzio c. Burgonzio, in Collezione metodica e progressiva delle decisioni e sentenze pronunciate dai Supremi Magistrati sì dello Stato che stranieri […] compilata dall’Avvocato Cristiforo Mantelli e da altri giureconsulti, II, Alessandria, 1939, coll. 152-158.
[15] Senato di Genova, 3 dicembre 1819 (rel. Assereto), Sopranis c. Quartino, in Giurisprudenza dell’Ecc.mo Senato di Genova […] compilata dagli Avvocati Francesco Magioncalda, Luigi Casanova, Niccolò Gervasoni, II (1818-1819), Genova, 1827, 439-440. Si era invece concluso con un amichevole componimento, dopo due sentenze del Senato di Piemonte del 24 agosto 1821 e del 21 febbraio 1822, il caso di un «tentato abuso di fiducia» riferito da Vincenzo Pastore, coinvolto nel giudizio come avvocato delle beneficiarie (Codice civile per gli Stati di S.M. il Re di Sardegna coi commenti dell’avvocato Vincenzo Pastore, VII, Torino, 1841, 30-32). Il testatore, titolare di un considerevole patrimonio indiviso con il fratello, per evitare alle tre figlie minorenni, alle quali intendeva trasmettere tutta la sua eredità, le spese della divisione, dell’inventario e della nomina del tutore, dopo aver consultato e messo a parte più persone delle sue intenzioni, aveva nominato suo erede universale il fratello, persuaso che non avrebbe mancato di trasmettere alle rispettive figlie e nipoti la totalità dei beni indivisi. Il fratello però, dopo aver maritato e dotato le tre nipoti, aveva tenuto per sé il resto del patrimonio, omettendo di adempiere alla fiducia, peraltro desumibile dalle parole del testamento. Obbligato da una prima sentenza del Senato a «propalare la fiducia», l’erede dichiarò che il fratello predefunto lo aveva sì incaricato di trasmettere la sua eredità alle tre figlie, ma lasciandogli l’arbitrio di farlo o non farlo nel caso che si fosse sposato e gli fossero nati uno o più figli maschi, ciò che era effettivamente accaduto. La verosimiglianza della dichiarazione era però contraddetta dalle attestazioni delle persone a cui erano note le intenzioni del testatore e che una seconda decisione del Senato aveva ammesso a testimoniare, prima che la causa fosse composta dalla transazione tra le parti.
[16] Art. 1: «Toutes dispositions testamentaires ou à cause de mort, de quelque nature qu’elles soient, seront faites par écrit. Déclarons nulles toutes celles qui ne seroient faites que verbalement, et défendons d’en admettre la preuve par témoins, même sous prétexte de la modicité de la somme dont il auroit été disposé». Cfr. J.-P.-R. Aymar, Explication de l’ordonnance de Louis XV, Roi de France et de Navarre, du mois d’aout 1735 concernant les testaments, Paris, 1744, 6 ss.
[17] Per una visione d’insieme dell’antico diritto successorio francese cfr. G. Lepointe, Les successions dans l’ancien droit, Paris, 1945; P.C. TIMBAL, Droit romain et ancien droit français: régimes matrimoniaux, successions, libéralités, Paris, 1960.
[18] Secondo la costituzione Hac consultissima (a. 439) degli imperatori Teodosio II e Valentiniano III (C. 6, 23, 21 pr.), chi ha scritto un testamento, ma non intenda far conoscere le sue disposizioni, può presentarlo chiuso a sette testimoni, perché lo sigillino, lo sottoscrivano e dichiarino che quello è il suo testamento, sottoscrivendo anch’egli alla presenza dei medesimi. Nella Francia del sud per la validità del testamento mistico alcune coutumes locali prevedevano un numero inferiore di testi (due quelle di Montpellier e di Tolosa), mentre era di regola il notaio, assistito dai testi, a ricevere il testamento chiuso e a redigere il relativo verbale. Cfr. H. REGNAULT, Les ordonnances civiles du Chancelier Daguesseau, II. Les testaments et l’ordonnance de 1735, Paris, 1965, 37 ss.
[19] Tale è, secondo la già citata costituzione imperiale (C. 6, 23, 21, 4), la dichiarazione orale delle ultime volontà fatta alla presenza di sette testimoni. Alcune consuetudini locali delle città francesi meridionali avevano ridotto questo numero (a due quelle di Montpellier e di Tolosa): H. Regnault, Les testaments et l’ordonnance de 1735, cit., 127 nt. 1.
[20] Ibid., 127 nt. 5.
[21] Ibid., 111 ss.
[22] F. TREGGIARI, Minister ultimae voluntatis …, cit., 280 ss.
[23] H. REGNAULT, Les testaments et l’ordonnance de 1735, cit., 32, 104 ss.
[24] «Si quelcun délaissoit plusieurs légatz pour estre distribuez á la discrétion de ses exécuteurs, et selon qu’ilz sçauroient de son intention, sans aultrement déclarer personne, telz légatz seront vaillables, et seront creuz lesdictz exécuteurs par leur serment, et en debvront faire le délivrance où il appertiendra»: Chartes générales, 1619, cap. XXXII, art. 7, in CH. FAIDER, Coutumes du pays et comté de Hainaut, II, Bruxelles, 1871, 183. La norma è riportata anche da PH.-A. MERLIN, Légataire, in Répertoire universel et raisonné de jurisprudence, IX, Paris, 1828 (V ed.), 171.
[25] PH.-A. MERLIN, Légataire, cit., 171 ss. (§ II, n. XVIII bis). L’ipotesi attorno alla quale Merlin raccoglie e discute esempi di sentenze è quella del testatore che abbia ordinato al proprio erede di consegnare ad una persona di fiducia una determinata somma di denaro perché venga impiegata allo scopo o trasmessa ai soggetti segretamente indicati dal testatore al fiduciario, senza che quest’ultimo sia tenuto a rivelare il segreto e a rendere conto dell’uso della somma (numerose pagine sono in particolare impegnate dal caso giudiziario originato dal testamento del 27 agosto 1807 di Jean Mérendol, di cui dopo si dirà). Tra i casi considerati validi era anche quello del legato fiduciario fatto nominalmente a favore di un incapace di ricevere, quando capace fosse il soggetto a cui il legato era destinato. Su quest’ultimo punto cfr. anche A. DURANTON, Cours de droit civil français suivant le Code civil, t. IX, Paris, 1834, 390 ss. (n. 408).
[26] «Tous ces arrêts sont antérieurs à l'ordonnance du mois d'août 1735; et nos livres ne nous en offrent aucun autre qui, depuis cette loi, ait jugé de même»: PH.-A. MERLIN, Légataire, cit., 181.
[27] F. LAURENT, Principes de droit civil, XIII, Bruxelles-Paris, 1878 (III ed.), 107 ss.: «Il est arrivé que le testateur, en remettant son testament à une personne de confiance, lui a donné un mandat verbal sur les circonstances dans lesquelles le testament devait recevoir son exécution. Les tribunaux ont toujours rejeté ce mandat verbal. [...] La raison en est que la volonté du testateur ne peut se manifester valablement que par écrit dans l’une des formes déterminées par la loi».
[28] In PH.-A. MERLIN, Légataire, cit., 179 ss. e in H. Regnault, Les testaments et l’ordonnance de 1735, cit., 278, è riportato questo testo legislativo del 23 dicembre 1744 relativo all’Alsazia e più in particolare alla città di Strasburgo, secondo cui «La prohibition portée par le lois romaines d’instituer pour héritiers des personnes incertes ou d’en laisser le choix à un tiers sera observée dans notre ville de Strasbourg ainsi que dans le reste de la province d’Alsace; et en conséquence, déclarons nulles et de nul effet les institutions faites par mari ou femme en faveur de ceux qui se trouveront être les héritiers légitimes ou testamentaires du survivant».
[29] C. AUBRY – C. RAU, Cours de droit civil français, t. X, Paris, 1918 (V ed.), §§ 655 e 656, 557. Il trattato di Charles Aubry (1803-1883) e di Charles Rau (1803-1877), entrambi professori a Strasburgo e poi giudici della Cour de cassation, apparve per la prima volta tra il 1837 e il 1847.
[30] Ivi, 558.
[31] C. AUBRY – C. RAU, Cours de droit civil français, cit., t. VII, §§ 655 e 656, 557-559 e nt. 5-6, con richiamo a numerose sentenze. Cfr. anche E. AUDOUIN, Des dispositions en faveur de personnes incertaines en droit romain et en droit français, Paris, 1890, 50 ss.: «Il arrivait fréquentement qu’un testateur, après avoir institué un héritier déterminée, le chargeât par son testament de restituer tout ou partie de l’hérédité à une personne non désignée au testament, mais convenue en secret entre l’héritier et lui. Dans notre droit civil français, la plupart des interprètes considèrent une telle disposition comme nulle, parce que, disent-ils, le testament exige la désignation du légataire; or, ici, le légataire désigné n’a de tel que le nom; le véritable légataire est celui qui doit bénéficier en définitive de la disposition, et celui-ci n’étant pas designé au testament, le legs est nul comme fait en faveur de personnes incertaines».
[32] G. BAUDRY – LACANTINERIE – M. COLIN, Traité théorique et pratique de droit civil. Des donations entre vifs et des testaments, I, Paris, 1893, 160 ss. (nn. 363-367).
[33] Cfr. ad es. J. GRENIER, Traité des donations, des testamens et de toutes autres dispositions gratuites, suivant les principes du Code Napoléon, II, Paris, 1812 (II ed.), 191-194 (n. 513).
[34] A Lione, 13 febbraio 1836, in Recueil général des lois et des arrêts, An. 1837, II Partie, 263-264.
[35] Cass., 12 agosto 1811, Laugier c. les héritiers Merendol, in Recueil général des lois et des arrêts, t. XI (An. 1811), I Partie, Jurisprudence de la Cour de cassation, 357-361; massimata, si legge in Codice civile annotato delle disposizioni legislative e delle decisioni di giurisprudenza di Francia da G.B. Sirey, delle disposizioni legislative e delle massime delle corti supreme delle Due Sicilie da A. Lanzellotti, col confronto delle leggi romane di O. Taglioni, III, Napoli 1824, sub art. 902, n. 6, 59.
[36] A partire dalla IV edizione (1812): PH.-A.MERLIN, Légataire, cit., 173-184, § XVIII bis. Il caso Merendol-Laugier è ripreso e commentato anche da altri autori, tra cui J. GRENIER, Traité des donations, II, cit., 188 ss. (n. 513) (solidale con la decisione di prima istanza del Tribunale di Marsiglia).
[37] Art. 902: «Toutes personnes peuvent disposer et recevoir soit par donation entre vifs, soit par testament, excepté celles que la loi en déclare incapables».
[38] «Tous les livres sont pleins d’arrets qui ont consacré cette noble et bienfaisante jurisprudence. […] Quel est le motif, en effet, de cette nullité prononcée par l’arrêt? C’est la disposition par laquelle le testateur à chargé le sieur Laugier d’exécuter les intentions qu’il lui avait fait connaître. Mais dans quelle loi la Cour d’Aix a-t-elle trouvé qu’une disposition de ce genre fût nulle? Ce n’est pas assurément dans l’ancienne jurisprudence. On vient de voir la preuve que l’ancienne jurisprudence avait toujours consacré au contraire cette espèce de disposition. Est-ce fans le Code? Mais aucun article du Code ne prononce une nullité semblable. […] et il est évident que, sur ce point, le Code s’en est rapporté à la jurisprudence qui existait déja, et qui était d’ailleurs trop honorable, trop sage, trop morale, pour n’ètre pas adoptée aussi par les tribunaux actuels. La Cour d’appel observe, dans ses motifs, que ce mode de disposer n’était autorisé par aucune loi ancienne. C’est vrai. Nous n’avions aucune ordonnance de nos rois qui l’eût établi; mais les arrêts en tenaient lieu; et personne n’ignore que sous l’ancien régime la sagesse de nos Cours souveraines suppléait sur beaucoup de matières à l’insuffisance ou au défaut de nos ordonnances» (dal parere riportato in Cass. 12 agosto 1811, in Recueil, cit. 358 e 360).
[39] Ibid., 360. Il richiamo qui è ad un’altra fonte romana assai richiamata in materia di fiducie, la l. Theopompus (D. 33, 4, 14), su cui cfr. F. TREGGIARI, Minister ultimae voluntatis …, cit., 135-141.
[40] Nel triangolo costituito dai tre divieti (della disposizione orale, della disposizione a favore di persona incerta e della disposizione rimessa all’arbitrio del terzo) finì anche la fiducia del signor Albert-Maurice Lépine, che nel suo testamento olografo del 10 marzo 1821 aveva ordinato un legato a favore del proprio esecutore testamentario «pour par lui en disposer selon mes volontés à lui connues, sans rendre aucun compte, dont je le dispense» e che la Cassazione dichiarò nullo perché fatto a vantaggio di persona incerta: Cass., 8 agosto 1826, Legrand-Masse c. héritiers Lépine, in Journal du Palais. Recueil le plus ancien et le plus complet de la jurisprudence français, t. 20 (1826), Paris, 1840 (III ed.), 787-789; e anche in Jurisprudence générale Dalloz, s.v. Dispositions entre-vifs et testamentaires, t. 16, I parte, Paris, 1856, 153 nt. 1 (n. 326).
[41] «En ces provinces où le droi écrit s’observe, les peres et meres s’instituent bien souvent héritiers l’un l’autre, à la charge de remettre leur hoirie à l’un de leurs enfans communs tel qu’ils voudront choisir»: C. Henrys, Œuvres, t. I, Paris, 1772 (VI ed.), 736 (livre III, quest. XXII De l’institution d’un l’héritier fiduciaire […]). Nelle Observations che seguono, richiamando l’opinione del Cuiacio, il commentatore giudica «sage et judicieuse» questa prassi testamentaria, «pour maintenir les enfans dans le respect et l’obéissance envers le survivant, par l’espérance que chacun des enfans peut avoir d’être choisi, s’il fait son devoir». Cfr. H. REGNAULT, Les testaments et l’ordonnance de 1735, cit., 259 e 358 ss.; H. VIVÈS, De la faculté d’élire dans l’ancien droit et sous le code civil, Paris, 1908.
[42] H. REGNAULT, Les testaments et l’ordonnance de 1735, cit., 273 ss.
[43] Successivo al decreto 7-11 marzo 1793, che aveva abolito la facoltà di disporre in linea diretta, imponendo a tutti i discendenti «un droit égal sur le partage des biens de leurs ascendants» (Recueil général annoté des lois, décrets, ordonnances […] depuis le mois de juin 1789 jusq’au mois d’aout 1830, t. IV, Paris, 1835, 127-128), il decreto 6-10 gennaio 1794 (ivi, t. V, Paris, 1839, 73-87), annullò tutti i testamenti il cui autore fosse morto dopo il 14 luglio 1789, nonché (art. 1) «[…] toutes dispositions à cause de mort, dont l’auteur est encore vivant ou n’est décédé que le 14 juillet 1789 ou depuis […] quand même elles auraient été faites antérieurement», concedendo all’erede decaduto appena 1/10 o 1/6 dei beni del de cuius a seconda che questi avesse o no figli. Ridotta in questi termini la quota disponibile, la stessa legge regolò la successione intestata improntandola alla più rigorosa eguaglianza tra i figli e al vantaggio per la generazione più giovane, favorendo il maggior frazionamento possibile dei patrimoni. Sul droit intermédiaire delle successioni cfr. PH. SAGNAC, La législation civile de la révolution française (1789-1804), Paris, 1898, 213-243; A. DEJACE, Les règles de la dévolution successorale sous la Révolution (1789-1804), Bruxelles, 1957. Più in sintesi: A. CAVANNA, Storia del diritto moderno in Europa. Le fonti e il pensiero giuridico, II, Milano, 2005, 448 ss.; C. GHISALBERTI, Unità nazionale e unificazione giuridica in Italia, Roma-Bari, 1997, 91 ss.
[44] Art. 23: «Dans le cas où un époux décédé avant ou depuis le 14 juillet 1789, aurait conféré au conjoint survivant la faculté d’élire un ou plusieurs héritiers dans ses biens, l’élection […] demeure nulle et de nul effet […]». La retroattività introdotta da questa legge fu eliminata tre anni più tardi dalla legge 18 piovoso anno V (8 febbraio 1797), che considerando la difficoltà dei tribunali di pronunciarsi sui numerosi reclami contro le nuove leggi successorie, decise di restituire validità ed efficacia sia (art. 4) agli atti di ultima volontà fatti prima della pubblicazione della legge 17 nevoso anno II, sia (art. 7) alle nomine dell’erede o del legatario, che erano state annullate dagli artt. 23 e 26 di quella stessa legge a decorrere dal 14 luglio 1789, sempre che l’istituzione dell’erede o la nomina del legatario fossero state fatte con atto di data certa anteriore alla pubblicazione della legge 17 nevoso anno II. La faculté d’élire fu in seguito implicitamente ripristinata dalla legge del 17 maggio 1826, che apportò, come si vedrà più avanti, importanti eccezioni al divieto delle sostituzioni stabilito nell’art. 896 del Code civil. Tornò ad essere vietata con l’abolizione definitiva dei fedecommessi in Francia, avvenuta con legge del 7 maggio 1849.
[45] Cfr. PH.-A. MERLIN, Fiduciaire (héritier), in Repertoire, cit., VI, Paris, 1827 (V ed.), 678 : «Mais y aurait-il fiducie, si l’institué avait le pouvoir d’élire entre les appelés ? Non. […] L’art. 19 de la loi du 9 fructidor an 2 confirme expressément cette décision».
[46] «Il n’est rien dit sur la faculté d’élire. Est elle abolie ou non par le project de loi? et en faudrait-il pas une explication à ce sujet?», si legge tra le Observations de la section de legislation du Tribunat del 10 germinale anno XI (31 marzo 1803), in J.-G. LOCRé, La législation civile, commerciale et criminelle de la France, ou commentaire et complément des Codes français, t. XI, Paris, 1827, 5, 334, n. 81.
[47] Cfr. J.-G. LOCRé, La législation civile, cit., t. XI, 5, sub art. 895: «Le testateur dispose. L’ancienne faculté d’élire qui engendrait tant de procès, est exclue». Concordi con questa interpretazione furono molti commentatori del codice civile: vedi per tutti C. DEMOLOMBE, Traité des donations entre-vifs et des testaments, t. I [Cours de Code Napoléon, XVIII], Paris, 1861, § 106, 115 ss.
[48] Su cui cfr. F. TREGGIARI, Minister ultimae voluntatis …, cit., 317 ss. e 366 ss.
[49] C. AUBRY – C. RAU, Cours de droit civil français d’après la méthode de Zachariae, t. VII, IV ed., Paris, 1875, §§ 655 e 656, 70 nt. 2. L’argomento era stato espresso già nel corso dei lavori preparatori del codice civile da Hippolyte François Jaubert nel suo Rapport al Tribunato nella seduta del 9 floreale anno XI (29 aprile 1803; cfr. J.-G. LOCRé, La législation civile, cit., t. XI, 437, n. 6: «Ainsi le project ne s’expliquant pas sur l’ancienne faculté d’élire, le silence de la loi suffit pour avertir que cette faculté ne peut plus être conférée / Heureuse interdiction! que de procès prévenus! que d’actes immoraux épargnés à un grand nombre de ceux que l’exercice de cette faculté d’élire aurait pu intéresser!») ed era esteso anche ad altri istituti successori non menzionati dal codice, come le sostituzioni pupillare e quasi-pupillare, regolate dal diritto romano e in uso nei pays de droit écrit ma poi espressamente abolite anch’esse dalla legge 17 nevoso anno II (art. 64): «abolition [...] maintenue, par cela même que le Code civil ne les a pas rétablies»: C. AUBRY – C. RAU, Cours de droit civil français …, cit., t. VII, § 693, nt. 3, con rinvio a PH.-A. MERLIN, Substitution directe, in Répertoire universel, cit., t. XIII, Paris, 1815, 61 (§ 2, n. 16, in fine).
[50] R.-T. TROPLONG, Des donations entre-vifs et des testaments ou commentaire du titre II du livre III du Code Napoléon, III ed., Paris, 1872, t. I, 181 ss. (n. 154); v. pure 521 ss. (n. 548: faculté d’èlire e persona incerta; nn. 549-553: faculté d’èlire e disposizioni segrete rimesse a personne de confiance).
[51] Proprio per questa ragione C. DEMOLOMBE, Traité des donations, cit., t. I, § 106, 116 ss., auspicava una maggiore severità nella repressione della faculté d’élire, nei testamenti troppo spesso collegata ad una sostituzione proibita, dissimulata sotto forma di incarico imposto al successore di trasmettere i beni ad una persona da scegliere entro una certa categoria. Una sostituzione con facoltà di scelta è, per Demolombe, una sostituzione «avec un vice de plus, et, pour ainsi dire, avec une circonstance aggravante!»; trascurare di considerare la sintomaticità di questa combinazione sarebbe equivalso a sottrarre all’applicazione dell’art. 896 «un grand nombre des substitutions véritables [...]; la faculté d’élire étant effectivament une des clauses très-usitées en matière de substitution» (117 ss.).
[52] Répertoire méthodique et alphabétique de législation de doctrine et de jurisprudence [= Jurisprudence générale Dalloz], t. XLI, Paris, 1856, s.v. Substitution, sect. 2, art. 1, § 1, 11-17 (spec. nn. 42-45). Oltre alle sentenze che si sta per ricordare, e dello stesso tenore, sono anche le sentenze delle corti d’appello di Limoges 1 luglio 1817, Montpellier 22 aprile 1831, e Bordeaux 10 maggio 1834.
[53] Cit. in Ph.-A. MERLIN, Fiduciaire (héritier), cit., 678.
[54] La si legge in Jurisprudence de la Cour de Cassation, ou notices des Arrêts les plus importans, depui 1791, époque de l’institution de la Cour, jusqu’à l’an 10 (...) par J.-B. Sirey, Avocat à la Cour de Cassation, II ed., Paris 1809, c. 99.
[55] «qui est la marque la plus assurée qui distingue le dépôt fiduciaire, d’avec une institution véritable»: così Cl. Henrys, Œuvres, III, Paris, 1772 (VI ed.), 71 (livre V, chap. III, quest. XIV Institution fiduciaire), secondo il paradigma di hereditas fiduciaria che emergeva dalle fonti romane e in particolare dal celebre caso dell’eredità di Seius Saturninus contenuto in D. 36, 1 48 (46), su cui cfr. F. TREGGIARI, Minister ultimae voluntatis …, cit., 116-118. Sulla sentenza della Cassazione francese del 18 frimaio anno V cfr. anche Ph.-A. Merlin, Fiduciaire (héritier), cit., 678.
[56] Journal du Palais. Recueil le plus ancien et le plus complet de la jurisprudence français, t. VII, Juillet 1808-1809, Paris, 1838 (XIII ed.), 94-96; Jurisprudence générale Dalloz, s.v. Substitution, cit., 13-14 e nt. 2.
[57] La definizione di héritier fiduciaire come «gardien de l’hérédité» ricorre più volte nell’opera di Claude Henrys: cfr. ad es. C. HENRYS, Œuvres, t. III, Paris, 1772 (VI ed.), 25 (livre V, chap. I quest. VI Du fideicommis tacite).
[58] Corte d’appello di Tolosa, 18 maggio 1824, in Jurisprudence générale Dalloz, s.v. Substitution, cit., 15b, nt. 1.
[59] Il richiamo è qui, attraverso PH.-A. MERLIN, Fiduciaire (héritier), cit., 677, all’opinione dell’avvocato lionese Claude Henrys (1615-1662), punto di riferimento della letteratura giuridica francese di antico regime in materia di fiducia testamentaria. Quanto all’institution à charge d’élire e più in genere all’institution fiduciaire cfr. C. HENRYS, Œuvres, t. I, cit., 736-750 (livre III, quest. XXII-XXIV); t. III, Paris, 1772, 69 ss. (livre V, chap. III, quest. XIV: Si la mere instituée par le pere, à la charge de remettre l’hoirie à l’un des enfans, est censée vraie héritiere, ou si elle n’est que fiduciaire et gardienne).
[60] Recueil général des lois et des arrêts en matière civile, criminelle, commerciale et de droit public […] par J.-B Sirey, Ire Partie, Jurisprudence de la Cour de Cassation, t. VIII, 1808, 105-108. Nella sentenza della corte d’appello di Tolosa, 18 maggio 1824, cit., 16a, in nota, si dice, con riferimento a Cass., 23 novembre 1807, che «dans l’espèce de ce […] arrét le testateur avait clairement manifesté l’intention de ne faire qu’ne simple fiducie, et non une institution d’héritier, dans la personne de son frère».
[61] In passato questa fonte romana era già stata valorizzata da Gérauld de Maynard (1537-1607), giudice del Parlamento di Tolosa e tra i primi a raccogliere sistematicamente la giurisprudenza della principale corte sovrana dei pays de droit écrit: cfr. G. De MAYNARD, Notables et singulières questions du droict éscrit decises ou prejugées par arrêts memorables de la Court Souveraine du Parlement de Tholose, Paris, 1608 (III ed.), 504-505 (liv. 5, chap. 85).
[62] In Jurisprudence générale Dalloz, s.v. Substitution, cit., 13-14.
[63] Cfr. F. TREGGIARI, Minister ultimae voluntatis …, cit., 113-115.
[64] Sulle numerose questioni di diritto transitorio cui dette luogo la disposizione retroattiva dell’art. 2 del decreto 25 ottobre-14 novembre 1792 v. PH.-A. MERLIN, Substitution fidéicommissaire, in Répertoire universel, t. XIII, Paris, 1815 (IV ed.), 75 ss. (sect. I, § XIII, nn. III ss.); CHABOT DE L’ALLIER, Questions transitoires sur le Code civil, Dijon, 1829, 252 ss., s.v. Substitution. Sulla diffusione delle sostituzioni fedecommissarie nei pays de droit écrit e nella maggior parte dei pays coutumiers e sulle consuetudini che avevano invece già vietato o limitato la facoltà di sostituire cfr. ancora PH.-A. MERLIN, Substitution fidéicommissaire, cit., 68-73 (sect. I, §§ I-XII) ; C. DEMOLOMBE, Traité des donations, cit., t. I, § 60, 56 ss.
[65] Ordonnance sur le substitutions (1747), art. 30 e seguenti. La limitazione a due gradi di sostituzione, istituzione non compresa, rimontava già all’ordonnance d’Orleans del 31 gennaio 1560 (art. 59) ed era stata in seguito replicata nell’ordonnance de Moulins del febbraio 1566 (art. 57). Già dal maggio 1553 un editto di Enrico II aveva imposto la pubblicazione di ogni sostituzione alla pubblica udienza e la successiva registrazione. L’ordonnance del 1747, unificando sul territorio nazionale le regole giurisprudenziali in materia di fedecommessi (senza, però, anche superare la molteplicità delle coutumes), rinnovò l’obbligo della pubblicazione e della registrazione (per l’art. 33, in difetto di pubblicazione e registrazione, la sostituzione non era opponibile al creditore o al terzo acquirente, ancorché fossero a conoscenza della sostituzione), dichiarando inefficaci gli atti dispositivi compiuti dal gravato in pregiudizio dei successivi istituiti. Sulla sequenza e gli effetti delle ordinanze regie in materia di sostituzioni cfr. E.M. SAINT-LÉON, Des substitutions fidéicommissaires en droit romain et dans l’ancien droit français, Paris, 1886, 320-336; Ph.-A. Merlin, Substitution fidéicommissaire, cit., 99 ss. (sect. VII, § III).
[66] P.A. FENET, Recueil complet des travaux préparatoires du code civil, Osnabrück, 1968 (rist. anast. dell’ed. 1827), t. XII, 268-273 e 275-281; J.-G. LOCRé, La législation civile, cit., t. XI, 92 ss. (processi verbali delle sedute del Consiglio di Stato relativamente al titolo Des donations entre-vifs et des testaments) e 358-361, n. 4 (Exposé de motifs fatta da Félix-Julien-Jean BIGOT-PREAMENEU il 2 floreale anno XI [22 aprile 1803]).
[67] Art. 899: «Il en sera de même de [= sera valable] la disposition entre vifs ou testamentaire par laquelle l’usufruit sera donné à l’un, et la nue-proprieté à l’autre».
[68] «Il n’est donc pas besoin de rétablir aucune substitution fidéicommissaire, pour que le père puisse assurer à ses petits-enfants la propriété de la portion disponible; il lui est libre se ne donner à son enfant que l’usufruit»: così alla seduta del 14 piovoso anno XI [3 febbraio 1803] del Consiglio di Stato BIGOT-PREAMENEU, che per questa stessa ragione aveva anche proposto di sopprimere gli artt. 1048 e 1049. Opinione ribadita da JAUBERT nel suo Rapport fatto al Tribunato alla seduta del 9 floreale anno XI (29 aprile 1803) e da Guillaume-Jean Favard alla seduta del Corpo legislativo del successivo 13 floreale (3 maggio 1803): cfr. J.-G. LOCRé, La législation civile, cit., t. XI, 115, 437 n. 5 e 492 n. 2. La doppia liberalità di usufrutto e nuda proprietà come lecito aggiramento del divieto delle sostituzioni (pur con lo svantaggio di operare a beneficio di un solo grado e di permettere di gratificare solo i figli già concepiti al tempo della liberalità) sarà riconosciuta dalla dottrina: «Si la personne gratifiée de l’usufruit est beaucoup plus âgée que celle gratifiée de la nue-propriété, le résultat obtenu sera très voisin de celui produit par une substitution» (P. BOUZAT, De la nature juridique des droits du grevé et de l’appelé dans les substitutions permises et des droits des légataires dans le legs conditionnels alternatifs, Paris, 1931, 31 nt. 15). La questione della validità di questa specie implicita di sostituzione, ottenuta attraverso il ricongiungimento, alla morte dell’usufruttuario, del diritto di godimento del bene con la nuda proprietà (assegnati rispettivamente al primo e al secondo grado generazionale), era stata già discussa dalla giurisprudenza francese durante il droit intermédiaire. Cfr. ad esempio Cass. 14 pratile anno 8, su ricorso di Barbe Van-Marke, in Jurisprudence de la Cour de Cassation, ou notices des Arrêts les plus importans, depui 1791, époque de l’institution de la Cour, jusqu’à l’an 10 [...] par J.-B. Sirey, Avocat à la Cour de Cassation, II ed., Paris, 1809, 299-301, nonché in Recueil général des lois et des arrêts avec notes et commentaires [...] revue et completé par L.-M. Devilleneuve [...] et A.-A. Carette, Ire serie, 1791-1830, vol. I, 1791-an XII, Paris, 1840, II, 324 e, massimata, in Codice civile annotato delle disposizioni legislative, cit., sub art. 896, n. 22, 24). In questione era qui un testamento congiuntivo fatto il 30 gennaio 1776. La successione si era aperta nel 1779, ma era retroattivamente da regolare col nuovo regime abolitivo delle sostituzioni adottato con le leggi del 25 ottobre-14 novembre 1792. Ci si chiedeva se le disposizioni del testamento del 1776, favorendo la riunione nel secondo grado di proprietà e usufrutto, avessero realizzato «une véritable substitution abolie par les nouvelles lois». La Cassazione decise di no, perché i nipoti erano stati istituti eredi della nuda proprietà direttamente dal testatore e non per l’interposizione del figlio. Il testamento del 1776, pertanto, conteneva non una sostituzione, ma due istituzioni dirette, una relativa all’usufrutto (al figlio), una relativa alla nuda proprietà (ai nipoti). Nello stesso senso, in regime di art. 899 cod. nap., v. Cass. 7 novembre 1911, in Dalloz, Jurisprudence générale. Recueil périodique et critique de jurisprudence, de législation et de doctrine, 1915, I, 85-87. Una pronuncia che invece riconobbe una sostituzione proibita nella disposizione con cui il testatore aveva legato al nipote, celibe, l’usufrutto dei suoi beni e la proprietà ai figli nascituri di questo è quella della Corte d’appello di Parigi 1° dicembre 1807, Dela chaussée c. la dame Lafeuilland, in Recueil general des lois et des arrêts, avec notes et commentaries […] par L.-M. Devilleneuve […] et A.A. Carette, I serie, 1791-1830, vol. II, anno XIII-1808, Paris, 1840, II, 308 (in nota richiami ad altra giurisprudenza; la sentenza parigina è discussa da C. AUBRY – C. RAU, Cours de droit civil français, cit., t. VII, § 694, 303, nt. 6).
[69] F.-J.-J. BIGOT-PREAMENEU, Exposé des motifs, seduta del 2 floreale anno XI (22 aprile 1803), in J.-G. Locré, La législation civile, cit., t. XI, 361: «Ce sont tous ces motifs qui ont déterminé à confirmer l’abolition des substitutions, déjà prononcée par la loi d’octobre 1792»; H.F. JAUBERT, Rapport al Tribunato, seduta del 9 floreale anno XI (29 aprile 1803), in J.-G. LOCRé, La législation civile, cit., t. XI, 436 ss., n. 5: «Les substitutions étaient déjè réprouvées depuis 1792; elles seront à jamais prohibées. Ainsi le voulaient l’intérêt du commerce, celui de l’agricolture, et le besoin de tarir une trop abondante source de procès».
[70] Lo spiega bene C.-B.-M. TOULLIER, Le droit civil français suivant l’ordre du Code, vol. III, Paris, 1845 (VI ed.), 7: delle due parti di cui è formata una disposizione fedecommissaria, l’istituzione e la sostituzione, «l’une ne constitue pas plus que l’autre la disposition du testateur [...]. Qui peut, dans le concours du donataire et du substitué, dire quel est celui que le donateur a voulu préférer à l’autre? Quel est celui qui, dans son intention, l’aurait emporté, s’il s’était cru forcé de choisir? Dans cette incertitude, le législateur, ne pouvant connaitre suffisamment la volonté du donateur, a déclaré la disposition nulle et comme non avenue». Sempre dal punto di vista della volontà del testatore, la soluzione della doppia nullità, che investiva «l’ensemble du “montage” constitutif de substitution», trovava fondamento anche in un’altra ragione: se il legislatore avesse lasciato sussistere la disposizione principale, il gravato non si sarebbe sentito moralmente obbligato a rispettare la volontà del defunto: così G. GOUBEAUX, Donations et testaments. Dispositions générales. Substitutions prohibées. Art. 896 à 899, in Juris-Classeur Periodique, 2004, n. 57.
[71] Chiarissimo sul punto PH.-A. MERLIN, Institution contractuelle, in Répertoire universel, t. 8, Paris, 1827 (V ed.) 351 ss. (§ V): «L’art. 896 du Code civil n’a prohibé les substitution fidéicommissaires, a l’exemple de l’art. 1er de la loi du 14 novembre 1792, que parce qu’elles entravaient la circulation des propriétés [...]. Ils n’ont donc entendu prohiber que les substitutions dont l’effet, si elles avaient lieu, ne devrait s’ouvrir qu’un certain temps [...]; ils n’ont [...] pas entendu prohiber les dispositions qui [...] doivent avoir leur effet immédiatament après que le donataire, le légataire ou l’institué a recueilli la donation, le legs ou l’Institution dont elles ne sont qu’un retranchement. [... L’art. 896] ne considère pas comme substitution tout ce que le lois romaines qualifiaient de fidéicommis [...]. [...] il est dans l’intention du Code de laisser subsister ces charges, c’est que, par l’art. 1121, il est dit qu’on peut stipuler au profit d’un tiers, lorsque telle est la condition d’une stipulation que l’on fait à un autre». Cfr. anche C. DEMOLOMBE, Traité des donations, cit., t. I, § 99 ss. e 103, 107 ss. L’enorme diffusione della sostituzione fedecommissaria nell’Ancien régime corrispondeva, com’è noto, alla pratica di assicurare la conservazione dei beni all’interno della famiglia, realizzata attraverso il congegno della doppia obbligazione di conservare e di restituire imposta al primo gratificato e ai beneficiari ulteriori. Anche la tecnica della doppia liberalità sotto condizione risolutiva e sotto condizione sospensiva avrebbe consentito di gratificare più soggetti successivamente. Ma diversi ostacoli la rendevano poco competitiva rispetto alla sostituzione fedecommissaria: l’istituzione di erede non poteva essere fatta sotto condizione risolutiva (cfr. J.-M. RICARD, Traité des dispositions conditionelles et onéreuses, nel tomo II del suo Traité des donations entre-vifs et testamentaires, Riom, 1783, 97 ss.) né, dopo l’Ordonnance del 1737, a vantaggio di beneficiari non ancora nati (cfr. PH.-A. MERLIN, Institution d’héritier, in Répertoire universel, cit., t. XV, Bruxelles, 1826, 350 ss.); d’altro canto, se i legati potevano essere fatti sotto condizione risolutiva e a vantaggio di persone future, questo rimedio si mostrava inadatto ad assicurare la conservazione dei beni nella famiglia oltre la seconda generazione (cfr. CL. WITZ, La fiducie en droit privé français, Paris, 1981, 35).
[72] «Si la transmission au bénéficiaire au second degré doit avoir lieu à un autre moment que celui du dècés du premier gratifié, comme une certain durée après la première disposition, l’accession à la majorité du second bénéficiaire ou le mariage de celui-ci, il n’y a pas substitution, mais une simple fidéicommis»: G. GOUBEAUX, Donations et testaments, cit., nn. 48-49, che impiega la stessa espressione (simple fidéicommis) per caratterizzare sia le sostituzioni lecite sia la specie originaria di fideicommissum, a cui i romani facevano ricorso per ovviare alle incapacità di ricevere per testamento (cfr. n. 2). Tra i motivi che caratterizzano le sostituzioni «buone», quest’autore ripete (n. 2) l’esempio, che ha anch’esso la sua matrice nelle fonti romane (cfr. F. TREGGIARI, Minister ultimae voluntatis …, cit., 86 ss., 547), del padre che attraverso il fedecommesso restitutorio intenda proteggere i nipoti dalla prodigalità dei figli. Cfr. ancora C. AUBRY – C. RAU, Cours de droit civil français, cit., t. VII, § 693, 299: «Les fidéicommis purs et simples, et même les fidéicommis conditionnels ou à terme, dans lesquels la charge de rendre n’est pas reportée au décès du grevé, sont également autorisés, comme ne constituant que de simples dispositions modales» (con richiamo anche qui all’art. 1121 cod. nap., che disciplina il contratto a favore di terzo); e C.-B.-M. TOULLIER, Le droit civil français suivant l’ordre du Code, t. V, Paris, 1824, 23 (n. 23). PH.-A. MERLIN, Substitution fidéicommissaire, cit., 152 (sect. X, § III), intende il fidéicommis simple come quello che contiene un solo grado di sostituzione; così pure J.-B. DENISART, Collection de décisions nouvelles et de notions relatives a la jurisprudence actuelle, Paris, 1766 (V ed.), t. III, s.v. Substitution, 122. Questa voce di Jean-Baptiste Denisart (1713-1765) è riferita alla disciplina introdotta in Francia con l’ordonnance del 1747; sull’héritier fiduciaire v. 128.
[73] Nello spirito dei redattori del codice civile questi due casi di eccezione al divieto delle sostituzioni fedecommissarie erano stati concepiti come contromisure a protezione degli interessi familiari minacciati dalla prodigalità di uno dei suoi membri: così BIGOT-PRÉAMENEAU alla seduta del Corpo legislativo del 2 floreale anno XI (22 aprile 1803) e JAUBERT nel suo Rapporto al Tribunato del 9 floreale anno XI (29 aprile 1803), in P.A. FENET, Recueil complet des travaux préparatoires, cit., t. XII, 564-566 e 613 ss.
[74] Art. 898: «La disposition par laquelle un tiers serait appelé à recueillir le don, l’hérédité ou le legs, dans le cas où donataire, l’héritier institué ou le légataire ne le recueillerait pas, ne sera pas regardée comme une substitution et sera valable». La ragione della validità risiedeva appunto nella mancanza di un ordine successivo, per la ricorrenza del quale non basta che il diritto dell’appelé sia subordinato al precedente del grevé, ma è necessario pure che il grevé tragga profitto dalla liberalità prima dell’appelé. Nella sostituzione volgare, invece, beneficiando della liberalità solo uno dei due gratificati in mancanza dell’altro, non si realizza alcuna sostituzione proibita, ma solo una modalità particolare d’individuazione del gratificato, a cui il disponente trasmette i beni direttamente. Cfr. M. PLANIOL – G. RIPERT, Traité pratique de droit civil français, t. V, Paris, 1933, 293, n. 283.
[75] C.-B.-M. TOULLIER, Le droit civil français suivant l’ordre du Code, t. V, cit., 24 :«la disposition par laquelle un testateur donnerait à Pierre le fonds Cornélien, à la charge de le rendre à Paul, sans ajouter en quel terms, ne serai pas aujourd’hui une substitution prohibée, mais un fidéicommis pur et simple; […] Pierre n’est ici appelé que pour prêter son ministère» (cfr. anche 33). J. GRENIER, Traité des donations, des testamens, et de toutes autres dispositions gratuites, suivant les principes du Code Napoleon, I, Paris, 1812 (II ed.), 116: «supposon que le disposant fasse un héritier […] avec condition ou stipulation qu'il sera laissé à un tiers désigné et appelé aussitôt que la disposition aura son effet, […] il est alors évident qu’il n’y a pas de substitution fidéicommissaire. La raison en est simple, c’est que les appelés ne le sont point ordine successivo. Le seul ordre de vocation est un ordre conjonctif».
[76] Il punto di vista degli interpreti del codice è qui in perfetta linea con quello dei giuristi di antico regime. Basti leggere le pagine di Jean-Marie Ricard (1622-1678): J.-M. RICARD, Traité des donations entre-vifs et testamentaires, t. II, Paris, 1754, III. Traité des substitutions directes et fidéicommissaires, II parte, cap. X, n. 5, 444: «Que si le fideicommis est pure et simple, sans designation de temps et de condition, le fideicommissaire en peut poursuivre la restitution incontinent après le décès du testateur; celui qui est chargé n'étant en ce cas presumé avoir été nommé, que pour prêter son ministere, et faciliter l’execution de la disposition». –
[77] C.-B.-M. TOULLIER, Le droit civil français, t. V, cit., 27. C. AUBRY – C. RAU, Cours de droit civil français, cit., t. VII, § 694, 301 ss. nt. 2. Ancora oggi, superate le ragioni politiche del divieto delle sostituzioni (cfr. J. CARBONNIER – P. CATALA – B. De SAINT – AFFRIQUE – P. MORIN, Des libéralités: un offre de loi, Paris, 2003, 82), sono le espressioni inequivoche del testamento a far distinguere «l’obligation de conserver et de rendre» dalla «simple recommandation» (cfr. ad es. Cass. 1er civ. 19 marzo 1963 e Cass. 1er civ. 18 ottobre 1960, cit. in G. GOUBEAUX, Donations et testaments, cit., nn. 32-33), in linea con la tendenza ad interpretare i casi dubbi in un senso che ne assicuri piuttosto l’efficacia.
[78] «Néanmoins, les biens libres formant la dotation d’un titre héréditaire que l’Empereur aura érigé en faveur d’un prince ou d’un chef de famille, pourront être transmis héréditairement, ainsi qu’il est réglé par l’acte impérial du 30 mai 1806, et par le sénatus-consulte du 14 août suivant».
[79] I 39 maggiorascati ancora esistenti in Francia nel 1904 furono estinti l’anno seguente per riscatto dal governo, d’intesa con la maggioranza dei beneficiari: cfr. M. PLANIOL – G. RIPERT, Traité pratique de droit civil français, cit., t. V, 296 ss. nt. 4 (n. 284) e bibliografia.
[80] Art. 911: «Toute disposition au profit d'un incapable sera nulle, soit qu'on la déguise sous la forme d'un contrat onéreux, soit qu'on la fasse sous le nom de personnes interposées. / Seront réputées personnes interposées les père et mère, les enfants et descendants, et l'époux de la personne incapable».
[81] C.-B.-M. TOULLIER, Le droit civil français, t. V, cit., 33 ss. Il riferimento espresso alla donazione nel testo dell’art. 1121 («On peut pareillement stipuler au profit d’un tiers, lorsque telle est la condition d’une stipulation que l’on fait pour soi-même ou d’une donation que l’on fait à un autre. Celui qui a fait cette stipulation, ne peut plus la révoquer, lorsque le tiers a déclaré vouloir en profiter») rendeva plausibile l’applicazione di questo schema anche alle fiducie testamentarie. Cfr. sul punto anche C. DEMOLOMBE, Traité des donations, cit., t. I, § 100, 107 ss.: «je donne ma ferme à Primus, à la charge par lui d’en rendre la moitié à Secundus. Cette liberalité, cette espèce de fidéicommis, est évidemment permise, d’après l’article 1121; donc, elle ne peut pas tre prohibée par l’article 896». Richiama l’art. 1121 a riprova della liceità, per il Code civil, dei fedecommessi fiduciari, PH.-A. MERLIN, Institution contractuelle, cit., 353, specificando che la validità ed obbligatorietà per il donatario della condizione che il donante gli ha imposto a vantaggio di un terzo non accettante sfugge al divieto dell’art. 900, che dichiara non scritte tutte le condizioni contrarie alle leggi, per la ragione che la condizione, di cui parla l’art. 1121, non è una vera condizione, ma un onere.
[82] Philippe Antoine Merlin de Douai (1754-1838), già avvocato presso il parlamento di Fiandra, deputato agli Stati Generali e poi alla Costituente e alla Convenzione, fu ministro della giustizia, membro del Direttorio e sotto Napoleone Procuratore generale imperiale e Consigliere di Stato. Tra i più eminenti giuristi dell’età rivoluzionaria e napoleonica, fu autore, fra l’altro, della Dichiarazione premessa alla Costituzione dell’anno III, del codice di procedura penale rivoluzionario (1795) e del Répertoire universel et raisonné de jurisprudence, che in 13 volumi, ordinati alfabeticamente per materie, fotografa la prassi forense della Francia dal tramonto dell’antico regime all’alba della codificazione. Per un sintetico profilo cfr. A. CAVANNA, Storia del diritto moderno in Europa, II, cit., 511 ss.
[83] Ph.-A. MERLIN, Fiduciaire (héritier), cit., 677.
[84] Ph.-A. MERLIN, Fiduciaire (héritier), cit., 675, con ampia rassegna di fonti romane dell’età classica (D. 22, 1, 3, 3; D. 36, 1, 48 (46); D. 36, 1, 80 (78), 12; D. 31, 43, 2; D. 33, 1, 21, 2; per le quali rinvio a F. TREGGIARI, Minister ultimae voluntatis …, cit., parte I, cap. II) e di pronunce delle corti di antico regime.
[85] C. DEMOLOMBE, Traité des donations, cit., t. I, 113 ss. (n. 105).
[86] R.-T. TROPLONG, Des donations, cit., 138-140 (nn. 109-110). Il paradigma romano del legatario fiduciario-minister è individuato da Troplong, come da Demolombe (op. cit., 114) nel passo di Marcello riportato in D. 31, 17 pr. (cfr. ivi, 124 ss., n. 94; su questa fonte romana cfr. F. TREGGIARI, Minister ultimae voluntatis …, cit., 119-129). In tema v. anche M. LUPOI, I trust nel diritto civile, cit., 181-187.
[87] G. ARGOU, Institution au droit français, t. 1, Paris, 1730, 355.
[88] J.-J.-F. ROLLAND De VILLARGUES, Des substitutions prohibées par le Code civil, Paris, 1821 (II ed.), 209 (n. 135): «pour qu’une institution soit réputée fiduciaire, il n’est pas necessaire que celui auquel l’hérédité doit être rendu, soit l’enfant du testateur […]; ni même que l’institué ou grevé soit parent du testateur […]; ni que celui auquel l’hérèdité doit être rendu, soit un enfant en bas âge, et tel qu’il ait besoin d’un tuteur […]; ni que l’institué soit chargé de rendre l’hérédité entière […]; ni enfin, que la restitution soit faite avant la majorité, quoiqu cette circonstance forme seule une présomption de fiducie».
[89] J.-N. Guyot, Fiduciaire, in Répertoire universel et raisonné de jurisprudence civile, criminelle, canonique et bénéficiale, t. 7, Paris, 1784, 363 ss.; J.-M. RICARD, Traité des substitutions directes et fidéicommissaires, cit., 467 ss. ; Cl. HENRYS, Œuvres, cit., t. I, livre III, chap. III, quest. XXII, 737; CL.-FR. THEVENOT D’ESSAULE DE SAVIGNY, Traité des substitutions fidéicommissaires [...] avec notes sur l’ordonnances de 1747, Paris, 1778, 177 ss. (n. 541): «Le grevé est héritier fiduciaire, quand il paroit que la restitution du fidéicommis n’a été differée par le testateur que pour l’avantage du substitué, et non pour rendre le fidéicommis conditionnel; en telle sorte que le testateur ait entendu confier l’administration au grevé dans l’intervalle, pour ainsi dire, à titre de tutele» (segue citazione e commento di D. 36, 1, 48 [46]). Il diritto francese si è in seguito dotato di una disciplina analoga prima con la legge 6 aprile 1910, poi con la legge 14 dicembre 1964, che all’art. 389 del codice civile ha aggiunto il seguente alinea: «Ne sont pas soumis à l’administration légale, les biens qui auraient été donnés ou légués au mineur sous la condition qu’ils seraient administrés par un tiers. Ce tiers administrateur aura les pouvoirs qui lui auront été conférés par la donation ou le testament; à défaut, ceux d’un administrateur légal sous contrôle judiciaire». Cfr. Cl. WITZ, La fiducie, cit., 69.
[90] Cl. HENRYS, Œuvres, t. I, cit., livre III, chap. III, quest. XXII-XXIII-XXIV.
[91] Così la sentenza 23 novembre 1807 della Cassazione francese, prima esaminata. Cfr. J.-J.-F. ROLLAND De VILLARGUES, Des substitutions prohibées, cit., 211 (n. 137).
[92] Cfr. J.-N. GUYOT, Fidéicommis, in Répertoire universel, cit., t. 7, 362; G. ARGOU, Institution au droit français, t. 1, cit., 355: «quand le testateur a institué un heritier fiduciaire, il y a deux personnes qui ne sont comtées pour rien dans la computation des degrez, sçavoir, l’heritier fiduciaire, et le veritable heritier, ce qui est observé par tout le roïaune avec juste raison».
[93] Cfr. Supplément au dictionnaire universel françois et latin, vulgairement appelé dictionnaire de Trévoux, t. I, Nancy, 1752, 1101 (s.v. Fiducie).
[94] Com’è noto, i paesi di droit écrit avevano conservato il principio romano secondo cui l’istituzione d’erede è caput et fundamentum totius testamenti, mentre in quelli di coutumes vigeva l’opposto brocardo institution d’héritier n’a lieu. Nella prassi, però, i due sistemi giuridici si erano in più punti compenetrati: i paesi di droit écrit conoscevano testamenti validi privi di istituzione di erede e in quelli in cui imperavano le coutumes l’istituzione di erede non mancava di produrre effetti, in analogia con la nozione di legato, preparando così la fusione dell’istituzione di erede e del legato universale che verrà sancita dal codice napoleonico. Più in dettaglio, un gruppo di coutumes (Borgogna, Bordeaux e alcune coutumes del centro della Francia), in controtendenza rispetto al principio generale, richiedeva l’istituzione di erede per la validità del testamento. Accanto ad esso, vi erano altri testi consuetudinari (Verdun, Metz, Tournai) che attribuivano effetti all’istituzione di erede. In un altro e ben più numeroso gruppo di coutumes (Audenarde, Auvergne, Auxerre, Bar, Calais, Cambrai, Châlons, Courtrai, Dourdan, Étampes, Gand, Grand-Perche, Gorze, Liège, Lille, Mantes e Meulan, Meaux, Metz, Montargis, Montfort-l’Amaury, Orléans, Péronne, Montdidier e Roye, Reims, Rousselare, Sedan, Sens, Valois, Vitry-le-François) vigeva invece la regola «En pays coutumier, institution d’héritier n’a lieu», il significato più ovvio della quale era che l’istituzione di erede non costituiva requisito di validità del testamento e che pertanto, ove vi fosse inclusa, non ne inficiava la validità, reputandosi per lo più che producesse effetti come legato universale. Infine, un terzo, ma esiguo gruppo di coutumes (Troyes, Bourbonnais, Montargis, Vitry), seppure non in forza di esplicite norme restrittive, ma per costante interpretazione, negava ogni effetto all’istituzione di erede, con la conseguenza che il testamento che la contenesse era nullo e la successione si apriva a beneficio degli eredi di sangue.
[95] Code civil, art. 1002: «Les dispositions testamentaires sont ou universelles, ou a titre particulier. Chacune de ces dispositions, soit qu’elle ait èté faite sous la dénomination d’institution d’héritier, soit qu’elle ait été faite sous la dénomination de legs, produira son effet suivant les règles ci-après établies pour les legs universels, pour les legs à titre universel et pour les legs particuliers». Con il legs universel il testatore attribuisce ad una o più persone l’universalità dei suoi beni (art. 1003); con il legs à titre universel solo una quota della disponibile (art. 1010).
[96] Per C. AUBRY – C. RAU, Cours de droit civil français, t. XI, Paris, 1919, 208 (§ 694), successore fiduciario è l’«instituée [...] pour la forme seulement, [...] chargée de tenir en dépôt la succession ou les biens légués, et de les administrer jusq’au moment où elle devra en faire la remise au véritable légataire».
[97] «De ce que l’héritier fiduciaire n’a pas la propriété des biens, il suit qu’en cas de prédécès de la personne à qui la remise en devait être faite, c’est l’héritier du disposant qui les recouvre (L. 46, ff., Ad S.C. Treb.). Du même principe il suit encore qu’il ne doit point de son chef les droits d’enregistrement pour la mutation opérée par le décès de l’instituant. Il les payera comme détenteur de la succession; mais ses avances lui seront remboursées par le véritable appelé, qui ne sera point assujetti à un nouveau droit lorsque les biens lui seront restituées»: Jurisprudence générale Dalloz, s.v. Substitution, cit., 12 (sect. 2, art. 1, § 1, n. 38).
[98] Ph.-A. MERLIN, Fiduciaire (héritier), cit., 675.
[99] J.-J.-F. ROLLAND DE VILLARGUES, Des substitutions prohibées, cit., 211 (n. 138).
[100] C. DEMOLOMBE, Traité des donations, cit., t. I, 113 ss. (n. 105); G. BAUDRY-LACANTINERIE – M. COLIN, Traité théorique et pratique de droit civil, t. 11, Paris, 1905, 490 (n. 3050).
[101] E. SAINTESPÈS-LESCOT, Des donations entre-vifs et des testaments, t. I, Des substitutions prohibées et de la capacité de disposer ou de recevoir, Paris, 1849, 150 (n. 94).
[102] Cfr. F. TREGGIARI, ‘Fiducialitas’. Tecniche e tutele della fiducia, cit., 45 ss. Sulle diverse possibili caratterizzazioni (formale, fittizia, reale) dell’interposizione fiduciaria cfr. A. AMBROSINI, Disposizioni di ultima volontà fiduciarie nel diritto civile moderno, Roma, 1917, 82-87.
[103] J.-J.-F. ROLLAND DE VILLARGUES, Des substitutions prohibées, cit., 208 (n. 134).
[104] C. DEMOLOMBE, Traité des donations, cit., t. I, 114.
[105] J.-J.-F. ROLLAND DE VILLARGUES, Des substitutions prohibées, cit., 209 (n. 135); Jurisprudence générale Dalloz, s.v. Substitution, cit., 12 (sect. 2, art. 1, § 1, n. 40). C. AUBRY – C. RAU, Cours de droit civil français, t. XI, cit., 208 (§ 694), che ritengono «indicative plutòt qu’esclusive d’une simple fiducie» anche la circostanza che il gravato di restituzione sia autorizzato a trattenere una parte soltanto dei beni o dei frutti. Lo schema di riconoscimento tipico della fiducia è ricordato ancora oggi da G. GOUBEAUX, Donations et testaments, cit., n. 15.
[106] C. HENRYS, Œuvres, t. I, cit., 738 (livre III, chap. III, quest. XXII).
[107] J.B. DENISART, Collection de décisions nouvelles, cit., t. II, Paris, 1755 (V ed.), s.v. Fidéicommis, 357.
[108] PH.-A. MERLIN, Fidéicommis tacite, in Répertoire universel et raisonné de jurisprudence, V, Paris 1812 (IV ed.), 210. Cfr. anche J.-N. GUYOT, Répertoire universel et raisonné de jurisprudence civile, criminelle, canonique et bénéficiale, t. 7, Paris, 1784, s.v. Fidéicommis tacite; C.-J. DE FERRIERE, Dictionnaire de droit et de pratique contenant l’explication des termes de droit, d’ordonnances, de coutumes et de pratique, Paris, 1762, t. I, s.v. Fidéicommis tacite, 914-915.
[109] Si veda a questo riguardo Cass. 13 agosto 1810, in Recueil général des lois et des arrêts, en matière civile, criminelle, commerciale et de droit public, depuis l’avènement de Napolèon, par J.-B. Sirey ..., t. XI (an 1811), I. Jurisprudence de la Cour de cassation, Paris s.d., 31-32 e in Recueil général des lois et des arrêts avec notes et commentaires ... revue et completé par L.-M. Devilleneuve ... et A.-A. Carette, Ire serie, 1791-1830, vol. III, 1808-1811, Paris 1841, I, 228. Su questa sentenza cfr. PH.-A. MERLIN, Fidéicommis tacite, cit., 213 ss.
[110] A. BERGIER, note a J.-M. RICARD, Traité des donations entre-vifs et testamentaires, cit., tome I, 146, nt. 4 sub n. 592.
[111] P. SIOUX, Des charges secrètes dans les dispositions de dernière volonté, Paris, 1909, 19, riporta la sentenza del parlamento di Parigi dell’11 febbraio 1716.
[112] Secondo G. CASSIANI INGONI, Giurisprudenza forense unita al diritto patrio, III, Modena, 1833, 39-40, la prima parte di questa norma poneva senz’altro fine alle dispute sull’efficacia della nomina dell’erede o del legatario rimessa dal testatore alla fiducia o all’arbitrio di una terza persona: «La saggezza di questa disposizione non ha bisogno di encomi: […] cosa avverrebbe se morisse questo fiduciario prima di render noto il volere del trapassante testatore, se prendesse equivoco, se il tradisse memoria? Se fossero due i fiduciari, e deponessero cose contrarie, a chi dei due si presterebbe fede? […] Quanti dubbi, quante liti!». Dubbi esprime invece sull’efficacia dell’eccezione prevista dalla seconda parte della norma per il caso che la fiducia fosse dichiarata dal testatore in un foglio sottoscritto: «benché simili fogli non siano molto in uso fra noi, […] non consiglierei testatore alcuno a disporre in tal guisa per la somma facilità, segnatamente che si possa smarrire simile foglio volante, e che possa falsificarsi la firma del disponente, e sostituirsi al reale un apocrifo scritto».
[113] L.S. BERTOLOTTI, Instituzioni del dritto civile universale esatte al jus regio, alle decisioni dei Supremi Magistrati, ed agli usi e consuetudini della curia di Piemonte, I, Torino, 1815, 513-536.
[114] Senato di Piemonte, 20 agosto 1743 (ref. Celebrino), Valperga c. Opera Pia Valperga, in Pratica legale secondo la ragion comune, gli usi del foro e le costituzioni di S.S.R.M., parte II, tomo IV. Delle ultime volontà, Torino, 1785, 152-168. Sulle molteplici finalità che la fiducia è chiamata a soddisfare cfr. Senato di Piemonte, 21 maggio 1798 (rel. Langusco), inedita, in Archivio di Stato di Torino, Decisioni del Senato, 1795-1800.
[115] Cfr. ad es. Senato di Piemonte, 11 maggio 1767 (rel. Damilani), Mansuino ed altri c. Minetti ed altri, in Pratica legale, cit., II, t. IV, 170-176; Collezione progressiva, cit., t. I, 584-587; 9 febbraio 1764 (ref. Lombardi), Creditori Fabre e Carlo Fabre c. Rolfo, in Collezione progressiva, cit., t. I, 588-616; Pratica legale, cit., II, t. IV, 168-169; 5 gennaio 1784 (rel. Lombardi), Conte Giacinto Canale di Cumiana c. Sacro Ordine di Malta (inedita), in Archivio di Stato di Torino, Decisioni del Senato, vol. 41 (1784-1789), n. 1, 16.
[116] Cfr. Tribunale di Alessandria, 31 dicembre 1836, Burgonzio c. Burgonzio; e successivo Senato di Casale, 2 dicembre 1839 (rel. Causa), in Giurisprudenza del codice civile e delle altre leggi dei Regj Stati ossia collezione metodica e progressiva delle decisioni e sentenze pronunciate dai supremi Magistrati sì dello Stato che stranieri […] compilata dall’avvocato Cristoforo Mantelli, II, Alessandria, 1839, 152-158 (con nota alle 158-160)
[117] Cfr. Senato di Genova, 23 giugno 1818 (rel. Solari), Rastromb c. Poggi, in Giurisprudenza dell’Ecc.mo R. Senato di Genova, ossia collezione delle sentenze pronunciate dal R. Senato di Genova sovra i punti più importanti di diritto civile e commerciale, e di procedura compilata dagli avvocati Francesco Magioncalda, Luigi Casanova, Niccolò Gervasoni, II, 1818-1819 (Genova, 1827), 194-197 (con note); Senato di Casale, 14 gennaio 1843 (rel. Perzolio), Coscia e Muratore c. Gatti, in Giurisprudenza del codice civile […] Mantelli, IX, Alessandria, 1844, 349-354 (con nota alle 354-358); Rota Romana, 6 marzo 1843 (rel. Bofondi), Santacroce c. Boncompagni-Ludovisi, in Giornale del foro, II, 1842, 257-277.
[118] Cfr. Tribunale di Acqui, 24 ottobre 1831, Gaffoglio c. Gaffoglio, cit. da Senato di Torino, 4 aprile 1834 (ref. Quigini-Puliga), in Giurisprudenza del codice civile […] Mantelli, II, Alessandria, 1839, 145-152, che la riforma.
[119] Cfr. la Nota che segue la sentenza del Senato di Casale, 14 gennaio 1843, cit. 354-358.
[120] A Torino, 28 giugno 1864 (est. Broceri), Chiaro c. Perazzoli, in «La giurisprudenza», I, 1864, 291-292; «Gazzetta dei tribunali», XVI, 1864, 629-630; Cass. Milano, 7 aprile 1865 (rel. D’Agliano), Chiaro-Vicari c. Perazzoli, in «La giurisprudenza», II, 1865, 172; «Giurisprudenza italiana», XVII, 1865, 244-245.
[121] Sulle ragioni che rendevano inassimilabile l’erede fiduciario al tutore (un’equivalenza indotta anche dal testo di D. 36, 1, 48 [46]) cfr. già PH.-A. MERLIN, Fiduciaire (héritier), cit., 677.
[122] Secondo T. CUTURI, Dei fidecommessi e delle sostituzioni nel diritto civile italiano, Città di Castello, 1889, 145 ss., questa norma ebbe generale osservanza, non riportando i repertori forensi locali alcuna traccia di controversie in materia.
[123] Cfr. Motivi dei Codici per gli Stati Sardi, II, Genova, 1856, 125-132; Codice civile per gli Stati di S.M. il Re di Sardegna coi commenti dell’avvocato Vincenzo Pastore, VII, cit., 33-37; E. GIANTURCO, Delle fiducie nel diritto civile italiano, Napoli, 1882, 26-33; T. CUTURI, De fidecommessi, cit., 132-136, 148 ss.; C. LANDOLFI, Le fiducie testamentarie, Napoli, 1919, 39-54.
[124] Codice civile per gli Stati di S.M. il Re di Sardegna, artt. 879-885. Al divieto della sostituzione fedecommissaria facevano eccezione i maggiorascati e i fedecommessi permessi da legge speciale (art. 879). La nullità della sostituzione non pregiudicava la validità dell’istituzione d’erede o del legato a cui era aggiunta (art. 880).
[125] Codice civile per gli Stati di S.M. il Re di Sardegna, art. 807: «È nulla ogni disposizione fatta a favore di persona che sia incerta in modo da non poter divenir certa. / È parimenti nulla ogni disposizione fatta a favore di persona incerta da nominarsi da un terzo. / Non è però vietata la disposizione a titolo particolare in favore di persona da scegliersi da un terzo fra più persone determinate dal testatore […]»
[126] Motivi dei Codici per gli Stati Sardi, cit., 131: «Espone un Membro, che questa discussione stessa dimostra non potersi dare una disposizione che non abbia inconvenienti, se vogliono mantenersi in qualche modo le fiducie, ed opina quindi di proscriverle per intiero anche in quanto alla instituzione dell’erede nominato nel testamento. In tale sorta di disposizione si ha un erede che lo è, e non lo è, e si apre una larga via alle frodi. L’erede nominato non essendo quello che fu voluto dal testatore, e l’indicazione dell’altro erede rimanendo commessa alla volontà ed alla fede del primo, la migliore via è quella di annullare questa sorta d’istituzioni. I testatori, essendone diffidati dalla legge, si varranno di altri mezzi che non presentino tanti inconvenienti».
[127] «I legislatori che miravano a togliere una delle più scandalose sorgenti di liti che ci fossero in fatto di successioni testamentarie, ed anche un poco a sradicare costumi inveterati, spiegarono molto rigore. Ma la loro profonda onestà ripugnava dal respingere e ad un tempo condannare una delle più nobili azioni di cui possa l’uomo vantarsi, quella di restituire, a causa di onore, una ricchezza che niuno potrebbe togliergli»: L. BORSARI, Commentario del codice civile italiano, III, 1, Torino, 1874, 491.
[128] Il testo finale dell’art. 809 passò con il voto contrario del relatore, che aveva proposto di riformulare la norma sostituendo al divieto di prova il divieto di azione, mantenendo valida l’istituzione o il legato, considerando come non apposta qualunque espressione di fiducia contenuta nel testamento e ristabilendo l’efficacia della dichiarazione tra il dichiarante e la persona da questi dichiarata. Cfr. Motivi dei Codici per gli Stati Sardi, cit., 132.
[129] Cfr. Cass. Torino 14 luglio 1875, Dassi c. Rossi, in «Annali della giurisprudenza italiana», IX, 1875, 1, 484-486 e in «Monitore dei tribunali», XVI, 1875, 1051-1053, con nota.
[130] J. KRAINZ, System des österreichischen allgemeinen Privatrechts, II, Wien, 1899-1900 (III ed.), 548 e nt. 11a.
[131] Cfr. Supremo Tribunale di Terza Istanza di Milano, 8 luglio 1863 (est. Volpi), Lazzarini c. Invernizzi e altri, in «Monitore dei tribunali», IV, 1863, 745-750, spec. 748a e 750a.
[132] Cfr. App. Venezia, 5 gennaio 1872, Municipio di Verona c. Menegazzoli, in «Monitore dei Tribunali», XIII, 1872, 252-254; «La Giurisprudenza», IX, 1872, 287: «L’erede gravato dal testatore per fiduciario, diretto, verbale incarico, dell’onore di dare ad un terzo una cosa di compendio dell’eredità, è tenuto ad adempiere l’incarico appena che il terzo onorato ne abbia avuto notizia per comunicazione datagli da esso erede (§§ 863, 1019, 1022 cod. civ. austriaco)». Questa sentenza fu annullata da Cass. Firenze, 18 novembre 1872 (est. Paoli), in «Giurisprudenza italiana», XXIV, 1872, 682-683, con rinvio alla Corte d’appello di Lucca, perché il lascito non era stato disposto nell’osservanza delle forme prescritte dal codice civile austriaco per le disposizioni scritte e per quelle nuncupative.
[133] Cfr. J. UNGER, Das österreichische Erbrecht (= System des österreichischen allgemeinen Privatrechts, VI Band), Leipzig, 1894 (IV ed.), 92 e 213. L’ipotesi della sostituzione rimessa alla volontà dell’erede fiduciario veniva desunta dal riferimento del § 904 al caso che il contraente avesse riservato al proprio arbitrio la determinazione del tempo relativo all’adempimento della obbligazione (la norma prevedeva per un tale caso l’intervento equitativo del giudice). Il testo del § 614 del codice austriaco era invece (ed è ancora) il seguente (qui e altrove cito dal testo del Codice civile generale austriaco in vigore nelle province del Regno Lombardo-veneto): «La sostituzione espressa dubbiosamente deve interpretarsi in guisa che limiti nel minor modo all’erede la libertà di disporre della proprietà». Il tenore di questa norma aveva fatto ritenere ad Unger che la sostituzione «espressa dubbiosamente» («zweifelhaft ausgedrückt»: un’espressione vicina al fenomeno della fiducia semi-segreta) fosse ammessa dal codice. La clausola prevista da quella stessa norma a tutela dell’erede sospetto di essere gravato gli aveva fatto però ritenere che, nel dubbio, la sostituzione tacita non avrebbe potuto essere presunta.
[134] Una panoramica in B. BRUGI, Fedecommesso (diritto romano, intermedio, odierno), in Il Digesto italiano, XI, 1, Torino, 1895, 654 ss.
[135] Il testamento orale (§§ 584-590) poteva consistere nella dichiarazione verbale raccolta dalla memoria dei testimoni presenti (testamento nuncupativo puro) o nella successiva redazione in iscritto di quanto udito da essi (testamento ‘nuncupativo scritto’ ). «Non è veramente necessario – si legge nella seconda parte del § 585 – ma cauto che per soccorrere alla memoria i testimoni, o tutti insieme o ciascuno da sé, mettano eglino stessi o facciano mettere in iscritto al più presto possibile la dichiarazione del testatore». In entrambi i casi, perché valesse, la disposizione nuncupativa, ad istanza di qualunque interessato, doveva essere confermata dalla «concorde giurata deposizione dei tre testimoni, od almeno degli altri due quando uno di essi non possa più essere sentito» (§ 586). Non potevano fare da testimoni, fra gli altri, i membri di un ordine religioso, le donne (§ 591) e coloro che non professavano religione cristiana, questi ultimi relativamente alle disposizioni di ultima volontà di un cristiano (§ 593). Sul testamento orale in diritto austriaco cfr. A. ASCONA, Teoria delle forme interne ed esterne delle dichiarazioni delle ultime volontà secondo i principj generali del Codice civile universale austriaco, Milano, 1822, 18 ss. e 20 ss.; L. PFAFF – F. HOFMANN, Commentar zum österreichischen allgemeinen bürgerlichen Gesetzbuche, Wien, 1877, II, 92 ss., 164 ss. (§§ 564, 582-585); Id., Zur Geschichte der mündlichen Testamente, Separat-Abdruck aus den Excursen über österreichisches allgemeines bürgerliches Recht, II, Wien, 1884, 109-113; J. UNGER, Das österreichische Erbrecht, cit., 45 ss., 50 nt. 11; J. KRAINZ, System des österreichischen allgemeinen Privatrechts, cit., II, 520 ss.; H. KRASNOPOLSKI, Österreichisches Erbrecht, Wien, 1914, 63 ss.; C.F. MÜHLENBRUCH, Ausführliche Erläuterung der Pandekten nach Hellfeld, 35. Theil, Erlangen, 1843 (II ed.), 6. Dall’equivalenza della forma scritta ed orale di testare conseguiva che se il testatore, per sua maggiore sicurezza, avesse dichiarato in entrambi i modi le sue ultime volontà, il testamento scritto, se invalido, poteva valere come orale, se di quest’ultimo erano stati osservati i requisiti (J. UNGER, op. cit., 50 nt. 12; H. KRASNOPOLSKI, op. cit., 68 ss.). Alla più ampia autonomia che il codice austriaco garantiva al privato nell’ambito del negozio testamentario sono da ascrivere anche le disposizioni che ammettevano la donazione mortis causa (§§ 603 e 956: valeva come legato, se ne avesse avuto la forma), la rinunzia preventiva all’eredità, produttiva di effetti anche per i discendenti (§ 551), e persino l’apposizione di un termine all’istituzione di erede (§ 708, che parificava l’erede e il legatario a «tempo determinato» all’erede e al legatario gravati di fedecommesso).
[136] L. PFAFF – F. HOFMANN, Commentar, cit., 164 e nt. 8 (§ 582).
[137] Cfr. F. MAGLIANO – F. CARRILLO, Comentarj sulla prima parte del Codice per lo Regno delle Due Sicilie, III, Napoli, 1820, 661-670, con numerose citazioni dei giuristi d’oltralpe (Henrys, Ricard, Thevenot-Dessaules, Merlin, Rolland de Villargues, Toullier).
[138] App. Catania, 13 agosto 1870 (est. Gallo), Trovato c. Rossi, in «La legge», XI, 1871, 337-338, con nota adesiva di Emidio Pacifici Mazzoni; e in «Gazzetta dei tribunali», XXIII, 1871, 108: «Le nostre leggi del 1819 ed il codice francese nulla avevano disposto intorno all’oretenus, e però questo silenzio non sarebbe un ragionevole motivo per concludere che fosse stato vietato, conforme è la giurisprudenza delle Corti di Francia e di Sicilia (Corte reale di Parigi, 30 marzo 1818; Gran Corte civile di Palermo, decis. 7 marzo e 7 luglio 1831, causa Naselli e Marro)». Una fattispecie simile era stata decisa dal Senato di Piemonte il 12 marzo 1842 (rel. Roggero), Anselmi c. Olivero, in «Diario forense ossia Gazzetta dei tribunali», XXXX, Torino, 1842, 133-144. Qui la fiducia, volta all’istituzione di una cappellania laicale, era stata manifestata esplicitamente solo nel testamento (16 aprile 1837) della nipote erede, che aveva ordinato l’istituzione di una cappellania laicale per «adempire alla fiduciaria obbligazione» ingiuntale dallo zio materno.
[139] App. Napoli, 25 gennaio 1865 (rel. Cassini), Cassa ecclesiastica c. Marino, in «Giurisprudenza italiana», XVII, 1865, 2, 55-60. La successione risaliva a due testamenti redatti rispettivamente nel 1835 e nel 1839.
[140] Legge 21 maggio 1819. Anche il codice albertino, nella sua ultima norma (art. 2415), aveva espressamente abrogato il diritto previgente «in tutte le materie che formano l’oggetto del presente Codice»; formula analoga adotterà il codice civile italiano del 1865 (art. 48 disp. trans.). Il riferimento alle «materie» poteva far discutere se una fattispecie non direttamente regolata dal codice potesse trovare disciplina nel diritto anteriore e in particolare nelle leggi romane. La Corte di appello di Perugia (sentenza del 4 maggio 1863, Vargas c. Furchi, inedita, in Archivio di Stato di Perugia, Archivio giudiziario, Corte d’Appello, Sentenze civili, vol. 2, 1862-1863, n. 142, fogli 1043-1059), considerando che il codice civile albertino, in vigore dal 1° gennaio 1861 nelle provincie dell’ex Stato Pontificio, non conteneva una norma di divieto per la fiducia espressa, ritenne che si dovesse ricercare nelle leggi anteriori la disciplina del caso omesso, osservando un criterio dettato dalle stesse fonti romane: C. 7, 62, 32, 5 («Quidquid autem hac lege specialiter non videtur expressum, id veterum legum constitutionumque regulis omnes relictum intelligant») e D. 1, 3, 26 («Non est novum, ut priores leges ad posteriores trahantur»). Interessanti gli spunti offerti da M. LUPOI, l trust nel diritto civile, cit., 197 ss., 203.
[141] Per una rassegna di decisioni di area piemontese cfr. Pratica legale secondo la ragion comune, gli usi del foro e le costituzioni di S.S.R.M., parte II, tomo IV. Delle ultime volontà, tit. XIII. Delle fiducie, o sia disposizioni fiduciarie, Torino, 1875, 150-179.
[142] Cfr. Commissione reale per la riforma dei Codici. Sottocommissione per il codice civile, Codice civile. Terzo libro. Successioni e donazioni. Progetto e relazione, Roma, 1936, 50.
[143] Cfr. Cassazione di Roma, 17 giugno 1877 (est. Auriti), Caporali c. Franzoni, in Monitore dei tribunali, XVIII, 1877, 900-902; Tribunale di Roma, 17 agosto 1881 (est. Petrignani), Antinori e Boreani, Zambelischi, Ambrosini, Lulani, in Temi romana, I, 1881, 422-432; App. Lucca 12 giugno 1875 (est. Bartalini), Violante c. Conti e S. Congregazione de’ Riti, in Annali della Giur. it., IX, 1875, 2, 416-422; Cassazione di Roma, 2 maggio 1881 (est. Auriti), Ceccarini c. Tosti, in Foro it., VI, 1881, I, 415-419 (con nota di C.F. Gabba).
[144] Per più di un autore, a cominciare da V. SCIALOJA, nota a App. Genova, 10 maggio 1898 (est. Bolognini), Maino c. Cereseto, in Foro it., XXIII, 1898, I, 1107-1110, seguito da altri (cfr. A. AMBROSINI, Disposizioni di ultima volontà fiduciarie, cit., 104-111; V. POLACCO, Delle successioni, I, Milano-Roma, 1937 [II ed.], 299) le norme messe transitoriamente in vigore nelle ex province pontificie dovevano assumersi come «interpretazione autentica» dell’art. 809 del codice albertino, nel segno della nullità delle disposizioni fiduciarie; tesi criticata da C. GANGI, Casi ed effetti delle obbligazioni naturali, in Riv. dir. comm., XXVI, 1928, I, 128-156, 152.
[145] Corte d’appello di Catania, 22 dicembre 1882 (est. Ratti), Tirendi c. Fiorini, in Foro it., VIII, 1883, 1, 431-435 (con nota di G. BACCELLI); in Monitore dei tribunali, XXIII, 1883, 492-494 (pubblicata con data 31 gennaio 1883); Annali Giur. it.», XVII, 1883, II, 145-146; Cassazione di Palermo, 21 agosto 1886 (est. Semmola), Tirendi c. Fiorini, in Foro it., XII, 1887, I, 555-559 (in nota la requisitoria contraria dell’Avvocato generale Sangiorgi); Monitore dei tribunali, XXVIII, 1887, 833-834.
[146] Vero scopo del divieto di prova sancito dall’art. 829, secondo G. MIRABELLI, Del diritto dei terzi secondo il codice civile italiano, II, Torino, 1891, 176.
[147] Cass. Torino, 4 (3) dicembre 1867 (est. Valperga), Alleori utrinque, in Annali Giur. it., I, 1866-67, 1, 415-418; Giur. it., XIX, 1867, 1, 768-773; Giurisprudenza degli Stati Sardi, VII, 1855, 2, 85-88; La legge, VIII, 1868, 431-434; Gazzetta dei tribunali, XIX, 1867, 495-500; La giurisprudenza, V, 1868, 85-88; App. Bologna, 13 giugno 1868 (est. Taveggi) (giudizio di rinvio), Alleori utrinque, in Gazzetta dei tribunali, XXI, 1869, 349-351.
[148] App. Brescia, 23 novembre 1871 (est. Barbieri), Lanzeni c. Ferrario, in Annali Giur. it, VI, 1872, 2, 333-336; Monitore dei tribunali, XIII, 1872, 361-363; La giurisprudenza, IV, 1872, 288.
[149] App. Genova, 26 novembre 1860 (est. Murialdo), Figari c. Sanfront e Rempicci, in Giurisprudenza del Regno, XIII, 1862, 593-595; Gazzetta dei tribunali, XIII, 1861, 803-805 (con nota); Cass. Milano, 31 maggio 1861 (rel. Valperga), Figari c. Sanfront e Rempicci, in Giurisprudenza del Regno, XIII, 1862, I, 596-603; Collezione delle sentenze della Corte di Cassazione del Regno, 1861, 74-79.
[150] Cass. Torino, 18 giugno 1881 (est. Talice), Baglioni Vinasco c. Corna-Pellegrini don Giacomo, in Annali Giur. it, XV, 1881, 1, 321-323; Monitore dei tribunali, XXII, 1881, 694-695; Giur. it, XXXIII, 1881, I, 1, 519-521; La legge, XXI, 1881, II, 119-121 e 369-370; La giurisprudenza, XVIII, 1881, 577-579; Rep. Foro it., VI, 1881, voce Successione legittima e testamentaria, nn. 90-92. Su questa sentenza cfr. M. Graziadei, La fiducia nella tarda età moderna. Le «confidenze» tra vincolo di coscienza e disciplina politica dei soggetti e dei beni, in La fiducia secondo i linguaggi del potere, cit., 235-254, 251.
[151] App. Napoli, 9 dicembre 1872 (est. Collenza), Montefusco c. Pisano, in Giur. it., XXIV, 1872, 2, 835-840; La legge, XIII, 1873, I, 517-520 (con nota di E. GALLUPPI); Cass. Napoli, 13 febbraio 1873, Amelio c. Allegrante (est. Lomonaco), in Annali Giur. it., VII, 1873, 1, 195-196; App. Napoli, 16 maggio 1873, Maresca c. Iasimone (est. Colleura), in Giur. it., XXV, 1873, 2, 385-386; Cass. Napoli, 4 giugno 1868 (est. Valentini), De Juliis c. Sorrentino, in Giur. it., XX, 1868, 1, c. 615 ss.; La legge, VIII, 1868, 830-831.
[152] App. Napoli, 9 dicembre 1872, cit., 838.
[153] Critica la sentenza della corte lucchese C. GANGI, Intorno ad un caso di adempimento di fiducia testamentaria, in La corte d’appello, XIII, n. 11, novembre 1912, 321-329, secondo cui l’art. 829, escludendo qualsiasi prova, aveva implicitamente escluso «anche qualunque efficacia giuridica alla dichiarazione del fiduciario, ossia alla confessione». Gangi scrisse la sua nota appena a seguito del largo pronunciamento della dottrina civilistica italiana sul caso Mendola-Cafisi (Tribunale di Girgenti, sentenza 11 luglio 1991, di cui dopo si dirà), che vide convergere numerosi giuristi sulla tesi dell’assoluta inefficacia della dichiarazione del fiduciario.
[154] App. Venezia, 6 agosto 1909, in Temi veneta, 1910, 136 (secondo grado dopo Trib. Rovigo, 27 maggio 1908); Cass. Firenze, 18 luglio 1910 (est. Solimene), Andreoli e Ferrareto c. Congregazione di Carità di Adria, in Giur. it., LXII, 1910, I, 1, 1216-1218 (con nota); App. Lucca, 11 maggio 1911 (est. Babbini) (giudizio di rinvio), Andreoli e Ferraretto c. Congregazione di carità di Adria, in Foro it., XXXVI, 1911, 1286-1289 (con nota).
[155] App. Genova, 3 agosto 1867 (est. Grondona), Ramella c. Novaro e Gavino, in Gazzetta dei tribunali, XX, 1868, 249.
[156] E. PACIFICI MAZZONI, Codice civile italiano commentato con la legge romana, le sentenze dei dottori e la giurisprudenza. Trattato delle successioni, II. Delle successioni testamentarie, Firenze, 1879 (II ed.), tit. II, cap. V, sez. I (n. 103), 201-203: «Se il fiduciario, senza proposito, abbia incidentalmente confessata in giudizio la fiducia? o se la dichiarazione risulti da risposte da lui date a interrogatori o a giuramenti deferitigli? o in fine, se chiamato in giudizio per dichiarare la fiducia, vi fa la richiesta dichiarazione, anziché chiedere di essere assolto dal giudizio? In questi ed altri simili casi avrà effetto la fiducia? Il relatore della Commissione compilatrice del Codice Albertino parmi inclinasse per la negativa […]. Ma il suo avviso […] non parmi che possa seguirsi. […] Ciò che la legge vieta è la chiamata del fiduciario in giudizio, per costringerlo a dichiarare la volontà confidatagli dal testatore. Ma quando egli, anziché valersi del diritto di rifiuto, dichiara in qualsiasi maniera la fiducia ricevuta, non deve essere ammesso a negare valore ed effetto ad una obbligazione naturale o ad un dovere di onore e coscienza, volontariamente assunto verso il testatore. […] Se dopo avere il fiduciario dichiarata la volontà confidatagli dal testatore, si rifiutasse ad eseguirla, potrà esservi costretto? Parmi più probabile la soluzione affermativa».
[157] È quanto sostiene, ad esempio, App. Brescia, 23 novembre 1871, cit., 335-336. La nova causa di acquisto dell’eredità da parte del beneficiario, ossia l’autonomo atto di liberalità verso quest’ultimo compiuto dal successore fiduciario, era il corollario dell’assunto che l’istituzione dell’erede fiduciario fosse «vera istituzione d’erede fatta non alterius sed sui gratia», similmente all’istituzione d’erede nella «fiducia mista», in cui il titolo di erede «sta da sé» perché connesso ad un incarico fiduciario limitato a solo parte del lascito. Questa tesi si poggiava sul contenuto del controverso capoverso proposto nelle prime formulazioni dell’art. 809 del codice albertino, secondo cui il fiduciario dichiarante non era esonerato, riguardo ai terzi, dagli obblighi contratti in qualità di erede o legatario. Il capoverso, però, come sappiamo, era stato soppresso, riabilitando così l’opinione tradizionale che riconduceva al testamento la causa di acquisto del beneficiario.
[158] E. PACIFICI MAZZONI, Codice civile italiano commentato, II, cit., tit. II, cap. V, sez. I (n. 105), 206-207. Al contrario, per C. LOSANA, Successioni testamentarie, in Dig. it., XXII, parte IV, Torino, 1896, 191-211, 195 (§ 503), «la dismissione […] a favore di terza persona dei beni ricevuti, e sia pure per dichiarato ossequio alle intenzioni del defunto, non può avere altro carattere che quello d’una trasmissione di proprietà, a titolo gratuito, dal successore scritto nel terzo, il quale non viene a sottentrare recta via al defunto, ma è semplice avente causa del successore scritto, che continua giuridicamente a rivestire la qualità che le tavole testamentarie gli attribuiscono». Sarà questa l’opinione che raccoglierà infine maggiore consenso.
[159] Cass. Torino, 19 dicembre 1872 (est. Pescatore), Missaglia c. Crosta, in La giurisprudenza, X, 1873, 145-146. Qui l’incarico fiduciario era stato rimesso da un marito alla moglie a mezzo di semplici autografi ed era stato successivamente rivelato dalla moglie nel proprio testamento: ciò era bastato, per i giudici, a trasformare l’obbligazione naturale in civile.
[160] Cass. Firenze, 11 luglio 1881 (est. Corvi), Mandil-Sbrojavacca c. Linda Bellina, in Foro it., VI, 1881, 924 ss.
[161] Rota romana, 27 aprile 1862, in Annali Giur. it., XIV, 1862, 2, c. 255: «Se il testatore nell’istituire un erede fiduciario indica in genere la sua volontà, non è attendibile una spiegazione di fiducia che presenti in ispecie qualche intenzione diversa da quella accennata nel testamento».
[162] Cfr. L. BORSARI, Commentario del codice civile italiano, III, 1, cit., 492-494 (§ 1780).
[163] C. LOSANA, Successioni testamentarie, cit., 193 (§ 498); E. CIMBALI, La dottrina delle fiducie nel codice civile italiano, in Il Filangieri, VIII, 1883, 412-428, 424: «Il divieto della legge per provare che la persona designata nel testamento non sia l’erede o il legatario vero del testatore […] serve a rendere estremamente accorti i testatori quanto alla scelta dei fiduciarii, perché questi, posti tra il dovere e il guadagno, non preferiscano questo a quello, sapendo di andare impunito il loro atto, per quanto immorale, altrettanto legale».
[164] Rimbalza di commento in commento, dalla letteratura giuridica francese (Ph.-A. MERLIN, Légataire, cit., 172 [§ II, n. XVIII]) a quella italiana (E. GIANTURCO, Delle fiducie, cit., 23; C. LOSANA, Successioni testamentarie, cit., 192) un appassionato brano tratto dalle note di Antoine Bergier al Traité des donations di Jean-Marie Ricard: «ecarté le danger de fraude […], le secret du testateur, qui presque toujours est celui de sa conscience dans ces dispositions mystérieuses, doit être sacré. La charité chrétienne et l’humanité exigent cette condescendance. Si l’on forçait les testateurs, auxquels le remords commande quelquefois des dispositions que l’honneur défend d’avouer, à consigner leur propre turpitude dans leurs testaments, combien n’en verrait-on pas qui, manquant de courage pour sacrifier le soin de leur mémoire à l’interêt de leur salut, aimeraient mieux mourir injuste que déshonorés? Quis dis-je? Ce sacrifice de la réputation me peut pas être condamné: il est contre la nature. Dispenser les héritiers d’être fidèles aux dispositions dont le testateur n’a confié le secret qu’an son confessuer ou à un ami prudent, ce serait donc dispenser le testateur d’être juste».
[165] P. BONFANTE, Mandato «post mortem», in Annali Giur. it., LV, 1903, 161-169, c. 169 (con riferimento però alla pretesa prevalenza dell’erede scritto sui congiunti non eredi relativamente ai funerali e alla salma del defunto).
[166] L. BORSARI, Commentario del codice civile italiano, III, 1, cit., 491.
[167] E. GIANTURCO, Delle fiducie nel diritto civile italiano, Napoli, 1882 (da cui si cita); rist. nel 1884 con qualche modifiche in appendice alla seconda edizione italiana dei Principes de droit civil di François Laurent (F. LAURENT, Principii del diritto civile, XIV, Milano, 1884, 596-655, Appendice V) e poi in E. GIANTURCO, Opere giuridiche, I, Roma, 1947, 20-64. Cfr. anche ID., Di una proposta revisione della dottrina delle fiducie, in Il Filangieri, VIII, 1883, I, 260-267 e Di un principio fondamentale nelle disposizioni fiduciarie, ivi, 429-431 (Opere giuridiche, cit., I. 65-72), scritti in polemica con Enrico Cimbali). Per un profilo del giurista lucano cfr. F. TREGGIARI, Emanuele Gianturco, in ALPA – MACARIO (a cura di), Diritto civile del Novecento: Scuole, luoghi, figure di giuristi, Milano, 2019, 297-304.
[168] «A mio avviso bisognerebbe farla finita con un istituto, di cui non si sente il bisogno nella presente nostra vita giuridica, e che può essere un mezzo facile e sicuro per abusare dell’altrui buona fede […]. La legge dovrebbe dichiarare assolutamente nulla la fiducia, quando apparisse dal testamento stesso; così come nel caso, che la disposizione è fatta in favore di persona incerta da nominarsi da un terzo. Quando la fiducia non apparisse dal testamento, dovrebbe vietare non solo la prova, ma eziandio lo sperimento di ogni azione diretta a dimostrarla e privare d’ogni efficacia la dichiarazione del fiduciario, che per adempire l’incarico affidatogli, dovrebbe trasmettere l’eredità o il legato nella forma ordinaria delle donazioni. Sarebbe tuttavia lecita in ogni caso la dimostrazione di una fiducia ordinata per interposta persona in favore d’incapaci. Questo, a mio avviso, è il compito dei futuri riformatori del nostro diritto civile»: E. GIANTURCO, Delle fiducie …, cit., 62.
[169] Come riteneva F. SERAFINI, Nuovi studii sulle disposizioni d’ultima volontà rimesse all’arbitrio di una terza persona secondo il diritto romano e il codice civile italiano con riguardo alla recente opera di Arndts, in Archivio giuridico, IV, 1869, 166-185, 177.
[170] Molti altri autori sfumavano questa differenza: «benché la espressione testuale si riferisca alla prova, nondimeno è manifesto che dalla legge è negata ogni azione per costringere l’erede e il legatario nominali o fiduciari a dichiarare la volontà affidata loro dal testatore»: E. PACIFICI MAZZONI, Codice civile italiano commentato, cit., II, tit. II, cap. V, sez. I (n. 102), 195 ss., 209; F. RICCI, Corso teorico-pratico di diritto civile, III, Torino, 1886 (II ed.), 418 (n. 309); D. SALVIOLI, Della fiducia testamentaria secondo il codice civile italiano, in La legge, XXIX, 1891, 1, 104-108, 105. Che il divieto di prova potesse valere come divieto di azione davano del resto esempio gli artt. 189 e 193 del codice Pisanelli, che vietavano le «indagini» sulla paternità: cfr. A. AMBROSINI, Disposizioni di ultima volontà fiduciarie, cit., 100 in nota e 127-129.
[171] La costruzione di Gianturco non aveva precedenti, pur essendo buona parte dei giuristi italiani d’accordo sull’ammissibilità della successione testamentaria a titolo di fiducia dichiarata. Tra le voci contrarie, quella di G. BUNIVA, Delle successioni legittime e testamentarie secondo il codice civile del Regno d’Italia, Torino, 1870 (II ed.), 243 ss.: «se si considerino i termini indistinti della legge, che non ammette alcuna prova, […] non si potrà esitare nel concludere che inefficace debbe essere davanti ai Tribunali qualunque dichiarazione di un erede o legatario il quale asserisca dover restituire ad un terzo la cosa lasciatagli»; inammissibile era, di conseguenza, il giuramento decisorio diretto a provare la fiducia, mentre doveva ritenersi irripetibile, perché adempimento di un’obbligazione naturale, la cosa rimessa o la somma pagata dal fiduciario al terzo in esecuzione della fiducia.
[172] «Risulta […] chiarissimamente […] che l’articolo proposto dalla Sezione di grazia e giustizia fu respinto appunto per riconoscere la obbligazione naturale del fiduciario, e dichiarare implicitamente, che essa potesse essere valido fondamento di una novazione, che avesse efficacia civile. […] Questo principio è più volte ripetuto nelle surriferite discussioni: e nonostante la soppressione del primo alinea dello art. 809, rimane fermo, che la spontanea dichiarazione di fiducia è pienamente valida nei rapporti, che corrono fra il fiduciario e l’erede vero»: E. GIANTURCO, Delle fiducie …, cit., 40 ss.
[173] E. GIANTURCO, Delle fiducie …, cit., 41. Per Gianturco la confessione valeva a provare l’esistenza di una fiducia, quando era a svantaggio degli interessi del fiduciario (45).
[174] Ivi, 45, 53, 55. In questo stesso senso si era già pronunciata Cass. Napoli, 28 gennaio 1873 (est. Rossi), Lasteria c. Gagliano, in Annali Giur. it., VII, 1873, 1, 193-195; Giur. it., XXV, 1873, 1, c. 62: se l’erede fiduciario dichiara la fiducia, «la disposizione deve essere eseguita come ogni altra, perché si considera che la nomina sia stata fatta dal testatore direttamente». Analogo l’avviso di G. LOMONACO, Le instituzioni fiduciarie nel codice civile italiano, in F. LAURENT, Principii di diritto civile, XIV, cit., 578-586 (Appendice III), 581: «se il fiduciario manifesta la fiducia […] è indubitato che il terzo a cui si riferisce la dichiarazione sarà vero erede, vero legatario».
[175] «Anche le incoerenze di un sistema legislativo sono leggi», scrive E. GIANTURCO, Delle fiducie …, cit., 44. I lavori preparatori dell’art. 809 del codice albertino, del resto, non brillavano per chiarezza. Per Gabba, «non si ha forse punto della patria legislazione, in cui i motivi della legge abbiano minore autorità»: C.F. GABBA, nota a App. Firenze, 26 gennaio 1893 (est. Sarti), Vanni c. Vanni-Nencioni, in Foro it., XVIII, 1893, I, 796-801, 801 (poi, col titolo La fiducia nel diritto civile italiano, in ID., Questioni di diritto civile, Torino, 1898, II, 34-44). «Piena la mente della vecchia dottrina» era l’opera gianturchiana per E. CIMBALI, rec. a E. GIANTURCO, Delle fiducie …, cit., 142-144, 143.
[176] Qualificare la dichiarazione del fiduciario come confessione ed escludere questa dal novero delle prove era servito a Gianturco a circoscrivere il divieto dell’art. 829; attribuire natura di obbligazione civile alla dichiarazione-confessione del fiduciario (renitente però ad adempierla) era servito a renderla irrevocabile (art. 1360 c.c. 1865: «La confessione giuridiziale o stragiudiziale non […] può rivocarsi […]»). Su quest’ultimo punto cfr. C.F. GABBA, nota a App. Firenze, 26 gennaio 1893, cit., c. 797.
[177] C.F. GABBA, nota a App. Firenze, 26 gennaio 1893, cit., c. 799. Cfr. inoltre E. CIMBALI, La dottrina delle fiducie nel codice civile italiano, in Il Filangieri, VIII, 1883, 412-428; T. CUTURI, Dei fidecommessi, cit., 162-170; C. LOSANA, Successioni testamentarie, cit., 196-199; A. AMBROSINI, Disposizioni di ultima volontà fiduciarie nel diritto civile moderno, Roma, 1917, spec. 77-82, 98-103, 111 ss., 118-121, 128, 130-139; F. FILOMUSI GUELFI, Diritto ereditario, II. Successioni testamentarie, Roma, 1917, 143-172, 150-157; F. Ricci, Corso teorico-pratico di diritto civile, III, cit., 420 (n. 310); V. POLACCO, Delle successioni, I, Milano-Roma, 1937 (II ed.), 298; C. GANGI, Intorno ad un caso di adempimento, cit.; ID., Casi ed effetti delle obbligazioni naturali, cit., 151 ss. («quest’articolo [809] non vieta soltanto la prova della fiducia, ma dichiara nulla la fiducia stessa, in guisa che neanche la confessione del fiduciario o l’esecuzione spontanea della fiducia può dare efficacia alla medesima e quindi fare acquistare la qualità di erede o di legatario alla persona indicata al fiduciario dal testatore né far sorgere un’obbligazione civile del fiduciario alla trasmissione dei beni»); L. VALLETTI, la fiducia testamentaria nella legislazione italiana, Tesi di laurea, Pinerolo, 1913, spec. 62-72; C. LANDOLFI, La fiducia testamentaria, Napoli, 1919, passim.
[178] R. DE RUGGIERO, L’illiceità della fiducia testamentaria, in Riv. dir. civ., V, 1913, 433-470, 436; V. POLACCO, Delle successioni, I, Milano-Roma, 1937 (II ed.), 297.
[179] La sentenza del Tribunale di Girgenti, 11 luglio 1911 (est. Brancato), Cafisi c. Mendola, si legge, massimata, in Riv. dir. civ., IV, 1912, 93-99 (con nota di A. ASCOLI) e, nel suo testo integrale, in Giur. it., LXIV, 1912, I, 2, 94-109 (con nota di L. COVIELLO); in La legge, LII, 1912, 566-578 (con nota di G. VENEZIAN); in Dir. giur., 1912, II, 139 (con nota di B. BRUGI); in Foro siciliano, 1912, I, 122, con nota redazionale adesiva e in Foro it., XXXVII, 1912, 1, 715-732 (con «note illustrative» del giudice estensore della sentenza, F. BRANCATO) e 1293-1311 (con nota, questa volta contraria, di V. DE PIRRO); in Il diritto ecclesiastico, 1912, 478-486.
[180] L. COVIELLO, Della fiducia nel diritto civile odierno, in Giur. it., LXIV, 1912, I, 2, c. 95.
[181] C.F. Gabba, nota a App. Firenze, 26 gennaio 1893, cit., c. 800.
[182] Nella biblioteca dell’Istituto giuridico «Antonio Cicu» di Bologna sono consultabili: la comparsa conclusionale di F. SCADUTO, Tribunale civile di Girgenti. In difesa di Mendola Micciché Giuseppina coerede di Mendola Girolama (convenuta) contro Eredi Stefano Cafisi (attrici). In decisione: 13 giugno 1913, Napoli, 1911 (166 a stampa); il Quistionario (con esposizione dei fatti e delle deduzioni e controdeduzioni sottoposto pei pareri), redatto dal medesimo Scaduto (22 a stampa); i pareri, anch’essi a stampa, di Gian Pietro Chironi, Leonardo Coviello, Alfredo Ascoli, Bartolomeo Dusi, Giovanni Lomonaco, Vincenzo Simoncelli, Luigi Tartufari, Paolo Emilio Bensa, Vito De Pirro, Giacomo Venezian, Carlo Manenti, Giovanni Abate Longo, Biagio Brugi e Pasquale Coppa-Zuccari. Questi invece gli articoli e le note seguiti alla pubblicazione della sentenza: L. COVIELLO, Della fiducia nel diritto civile odierno (nota a Trib. Girgenti, 11 luglio 1911, Cafisi c. Mendola), in Giur. it., LXIV, 1912, I, 2, 94-109 (riproduce il parere pro veritate); A. ASCOLI, nota alla stessa sentenza, in Riv. dir. civ., IV, 1912, 93-99 (testo diverso dal parere pro veritate); C. MANENTI, Della fiducia o sostituzione fiduciaria e della dichiarazione spontaneamente fattane dal fiduciario secondo il diritto italiano, in Studi senesi, XXVIII, 1912, 280-343 (riproduce il parere pro veritate); V. DE PIRRO, (Efficacia giuridica della spontanea dichiarazione di fiducia), nota alla stessa sentenza, in Foro it., XXXVII, 1912, 1299-1311 (testo diverso dal parere pro veritate, ma comunque dissenziente rispetto dalle tesi assunte nella sentenza); G. VENEZIAN, Nullità assoluta della dichiarazione di fiducia testamentaria nel diritto civile italiano, nota alla stessa sentenza, in La legge, LII, 1912, 567-577 (riproduce il parere pro veritate); B. BRUGI, nota alla stessa sentenza, in Dir. giur., XXVII, 1912, II, 139-148 (altro testo rispetto al parere pro veritate); F. Brancato, nota dell’estensore alla stessa sentenza, in Foro it., XXXVII, 1912, I, 715-732; G. ABATE LONGO, La sostituzione fiduciaria rievocata in un caso recente, Catania, 1912 (22); P. COPPA ZUCCARI, La fiducia testamentaria nel diritto vigente, Palermo, 1912 (57); B. DUSI, La dichiarazione di fiducia nel diritto italiano, in «Il diritto ecclesiastico», 1912, 517-528, quindi in ID., Scritti giuridici, II, Torino, 1956, 585-597. Il parere di G.P. CHIRONI è pubblicato, col titolo Della istituzione fiduciaria, in ID., Studi e questioni di diritto civile, IV, Torino, 1915, 285-296. Il parere di V. SIMONCELLI è pubblicato nei suoi Scritti giuridici, II, Roma, 1938, 563-569. Collegato al caso giudiziario di Girgenti è inoltre lo studio di R. DE RUGGIERO, L’illiceità della fiducia testamentaria, cit. Di poco successive sono le già citate monografie di L. VALLETTI, La fiducia testamentaria nella legislazione italiana, cit.; A. AMBROSINI, Disposizioni di ultima volontà fiduciarie, I. Concetto e origini delle fiducie, Napoli, 1915; II. Diritto germanico, canonico e comune, Roma, 1917 (anche in «Annali del Seminario giuridico della R. Università di Palermo», I, 1916, 117-383); [III.] Disposizioni di ultima volontà fiduciarie nel diritto civile moderno, Roma, 1917; C. LANDOLFI, Le fiducie testamentarie, cit.
[183] Si ricorderà che questa correzione era stata più volte proposta già in seno alla Sezione di grazia e giustizia del Consiglio di Stato piemontese durante i lavori preparatori dell’art. 809 del codice civile albertino (cfr. Motivi dei Codici per gli Stati Sardi, II, cit., 127, 131, 132) e che numerosi interpreti dell’art. 829 del codice Pisanelli la ritenevano acquisita per via interpretativa.
[184] Sulle differenze fra vecchio e nuovo diritto delle fiducie testamentarie (per ricordare alcuni titoli della letteratura meno recente) cfr. G. MIRABELLI, Le disposizioni fiduciarie nell’art. 627 c.c. (Contributo allo studio dell’interposizione di persona), in Riv. trim. dir. proc. civ., IX, 1955, 1057-1097; M. Costanza, La disposizione fiduciaria, in BIANCA (a cura di), Le successioni testamentarie, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, Torino, 1983, 16 ss.
[185] Così M. LUPOI, I trust nel diritto civile, cit., 195 e 199 ss.
[186] G.P. CHIRONI, Istituzione di erede fiduciario. Validità, in Questioni di diritto civile, Torino, 1890, 395-397 (Quest. XX), 397. In questa breve nota Chironi commentava negativamente la sentenza della Cassazione di Palermo del 21 agosto 1886, che, come si ricorderà (cfr. sopra, nt. 144), aveva ‘promosso’ ad erede fiduciario un esecutore testamentario per metterlo al riparo dalle pretese degli eredi legittimi.
[187] M. LUPOI, I trust nel diritto civile, cit., 202 ss.