Giuffré Editore

Tradurre, interpretare, classificare: ermeneutica[1]

Relazione tenutasi nell'ambito del convegno telematico "Opzioni legislative e linguaggio giuridico nel contesto europeo", online dal 19 giugno 2020 al 31 dicembre 2020 

Maurizio Ferraris, Ordinario di Filosofia teoretica, Università di Torino


Ermeneutica, cioè “interpretazione”

«‘T’amo molto e per il tuo bene desidero ci si metta d’accordo di andare molto cauti’. La parola era tanto prudente, ch’era difficile di crederla detta per amore altrui e un po’ più franca avrebbe dovuto suonare così: ‘Mi piaci molto, ma nella mia vita non potrai essere giammai più importante di un giocattolo. Ho altri doveri io, la mia carriera, la mia famiglia». L’inizio di Senilità (1898) di Italo Svevo ci ricorda quanto importante, e soprattutto usuale, sia interpretare i discorsi, e quanto gravi possano risultare i fraintendimenti. Ma non si interpretano solo discorsi. Si interpretano segnali stradali, articoli di legge libri, opere d’arte, momenti della vita quotidiana (una bicicletta mi viene incontro, e mi sforzo di capire le intenzioni: dove girerà? Non sempre riesce), gesti (alzare un braccio significa chiamare il taxi, ma anche sapere una risposta, fare una domanda, essere nazisti, fingere di essere nazisti). E persino  – ed è comunissimo – espressioni involontarie del corpo (rossori, imbarazzi, colpi di tosse.

L’esigenza dell’interpretare dipende dai caratteri specifici della comunicazione umana. Nel parlare, infatti, si usano eufemismi: la fidanzata di Lello Arena (nel film Scusate il ritardo di Massimo Troisi), gli diceva: “Come sei strano visto da vicino”, ma intendeva – conclude con un poco di ermeneutica l’interessato – “Come sei brutto”. O dissimulazioni, come discorsi di Norpois, l’ambasciatore, nella Recherche di Proust, bravissimo nell’evitare di dire esplicitamente “no”, e nel rifiutare con gentilezza. E poi allusioni, esplicite (“si è fatto tardi”) o implicite (il mio interlocutore guarda di sfuggita l’orologio, e io capisco l’antifona), o ancora minacce più o meno velate: «Se il signor Hitler non farà la guerra, non ci sarà la guerra. Nessuno qui vuole la guerra», disse una volta Winston Churchill alla Camera dei Comuni. In taluni casi, abbiamo a che fare con strategie sistematiche: “Sono stato frainteso”, dice il politico, che però voleva dire esattamente quello che ha detto, e spera che tutti quelli che avevano orecchi per intendere abbiano inteso. L’elenco è lunghissimo, e comprende anche le scuse non richieste, come quando Giuda dice “Son forse io, signore?” O le pedanterie, perché in certi casi (come quando si spiegano le barzellette) l’interpretazione non è gradita. Certe volte non sono necessarie nemmeno parole, come nelle finte tra il calciatore che si accinge a tirare il rigore e il portiere che deve pararlo: uno finge di voler tirare a sinistra, l’altro capisce che allora tirerà a destra, ma capisce anche che questo è quanto vuole dargli a intendere, e quindi si prepara a parare un tiro a sinistra. Di questo passo, si può persino diventare sinceri. E con questa sommaria fenomenologia della vita sociale, dove gli atti e le parole servono sia a dire sia a nascondere, vorremmo suggerire tre punti.

Primo, che l’ermeneutica è il contrario (o il riflesso speculare) della retorica. Quest’ultima insegna come costruire discorsi comunicativamente efficaci, cioè buoni per far capire, ma anche, come abbiamo visto, per nascondere, per dire e non dire. L’ermeneutica, invece, serve per decostruire, per smontare, per passare da ciò che viene detto, dalle parole e dai gesti, al significato che volevano esprimere, che non sempre, di nuovo, corrisponde con il significato esplicito. È su questa base che si è giustificata, all’inizio dell’Ottocento, l’universalizzazione dell’ermeneutica, non più ridotta – come nella tradizione – alla interpretazione di testi (Omero, la Bibbia, i codici giuridici), ma ogni tipo di espressione, dalle parole profferite intenzionalmente ai lapsus ai gesti involontari.

La seconda cosa che si sarà capita è che “ermeneutica” è sinonimo “interpretazione” (è una versione di calco greco, che si impone nel Seicento), solo in vesti più pompose. A lungo si è parlato di “interpretazione” (dal latino “interpretatio”) e di “hermeneia” (in greco), poi si è incominciato a parlare di una “ermeneutica” come tecnica specifica: una formulazione più dotta, più o meno come i nomi latini delle piante e i nomi greci delle malattie. Ma resta importante ricordare che “ermeneutica”, “interpretazione” e – almeno per quanto riguarda i testi scritti – “esegesi” sono altrettanti modi per dire la stessa cosa. Come dire che se l’eroe del Borghese gentiluomo di Molière scopre di aver parlato in prosa senza saperlo, noi tutti possiamo scoprire di aver fatto ermeneutica a nostra insaputa.

C’è una terza faccenda, un po’ più complicata, su cui vorremmo richiamare l’attenzione di chi legge: con “interpretazione” si intendono molte cose, anzi francamente troppe. Questo, probabilmente, è l’aspetto più interessante e problematico dell’ermeneutica, ed è su questa molteplicità di sensi che si organizzerà il mio discorso. In concreto, procederemo prima con una presentazione dei diversi sensi dell’ermeneutica, e poi con un esame un po’ più particolareggiato del loro valore.


I sette sensi dell’ermeneutica

Eccoci dunque al nostro elenco.

Espressione. E' il senso più antico, e il meno usuale, perchè sembra contraddire il principio secondo cui l'ermeneutica costituisce l'inverso speculare della retorica. Non rientra fra le accezioni comuni, ma è importante elencarlo per ragioni storiche e, vedremo, teoriche: l'idea, che troviamo in Aristotele, è che nell'anima, gli uomini e gli animali hanno delle idee, che vengono espresse (e questa espressione sarebbe per l'appunto l'hermeneia) attraverso parole o suoni che le simboleggiano, e che a loro volta (nel caso degli uomini) possono essere rappresentati da lettere dell'alfabeto.

Esecuzione. Nel linguaggio ordinario, è comune dire che Lawrence Olivier interpreta Shakespeare, che Glenn Gould interpreta Bach ecc. Se ci facciamo caso, questo senso non è poi così diverso da (1), e ci rivela come il valore originario dell’ermeneutica come “espressione” si sia mantenuto nel senso comune, sebbene in una accezione più ristretta, giacché riguarda l’attività professionale di certe persone, e non una dotazione naturale di persone e animali. L’idea è che ci sono, per esempio dei segni di inchiostro su un libro o in uno spartito, che vanno espressi in parole, suoni e anche gesti e atteggiamenti. E visto che questa attività non è neutrale, le interpretazioni possono risultare molto diverse senza che muti l’identità di ciò che viene eseguito.

Traduzione. Questo è un senso comunissimo: quando uno pensa a “interpretazione”, la prima cosa che gli viene in mente è la traduzione; si sa benissimo che un interprete è chi traduce da una lingua all’altra. Se ci facciamo caso, è qui che osserviamo lo spostamento dalla funzione “espressiva” di (1) e (2) a una funzione maggiormente ricettiva (ossia all'idea dell'ermeneutica come inverso della retorica). C’è una espressione in una lingua che va colta nel suo significato (e non semplicemente nel seguito delle parole che la compongono, anche in sintagmi molto brevi) e poi va trasformata in una espressione corrispondente in un’altra lingua. È in questo senso che, per esempio, “Good morning”,Guten Morgen”, “bonjour”, “buenas dias”, si    traducono con “buongiorno” o al massimo con “buondì”, e mai con “buon mattino”.

Chiarimento. Anche questa è una accezione molto intuitiva. Immaginiamo di trovarci di fronte a un testo scritto in geroglifici. Chi ci capisce qualcosa? È necessario che un egittologo, che conosce sia gli ideogrammi egiziani, sia la lingua copta in cui sono scritti, chiarisca il contenuto. Questa funzione sembra molto vicina a quella dell’interprete. Ma adesso immaginiamo un altro caso, di un testo scritto in italiano. A un certo punto, dopo molte pagine che non pongono alcun problema, si incontra un passo oscuro. Anche in questo caso ci vorrà un interprete, e spesso sarà un interprete professionale, per esempio un giudice capace di dare un significato preciso, e adatto al contesto, di un testo di legge che spesso contiene delle espressioni volutamente vaghe (e dunque in parte oscure), proprio per adattarsi a più circostanze non necessariamente previste dalla legge.

Comprensione. Con l’idea della interpretazione come “comprensione”, entriamo nella sfera dell’uso (e anche un po’ dell’abuso) filosofico del termine, a partire dall’inizio dell’Ottocento, con il filosofo tedesco Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher (1768-1834; cfr. Schleiermacher 1805-1833). Se nella interpretazione come “chiarimento” l’assunto di fondo è che l’interpretazione si esercita solo sulle cose oscure, mentre le cose chiare non ne abbisognano, qui invece si sostiene che ogni testo e ogni discorso deve essere interpretato, e che dunque l'ermeneutica costituisce un fenomeno universale. La ragione di fondo va cercata nel fatto che i teorici della universalizzazione dell’ermeneutica erano convinti che ogni uomo è un mistero per gli altri uomini, che nessuno potrà mai scavare sino in fondo nell'anima del suo interlocutore, e che dunque tutto, in un certo senso,oscuro e va chiarito, con un processo di esplicitazione che può grave andare all'infinito.Interessante osservare che in questa accezione l'interpretazione si dirige elettivamente all'anima degli altri, e non a quello di cui parlano.Eppure, se l'assunto di fondo vero, anche di cui gli altri parlano va interpretato: idealmente,se uno mi dice qualcosa di perfettamente chiaro, come l'intercity per Milano parte alle 12.15, anche in questo caso io avrei ragione di interpretare(perchè me lo ha detto? Sarà sincero?).

Demistificazione. Anche questo è un senso filosofico, che deriva dal precedente, e che si è imposto nella seconda metà dell’Ottocento, con Friedrich Nietzsche (1844-1900), Sigmund Freud (1856-1939) e Karl Marx (1818-1883) (cfr. Ricoeur 1965). L’idea è che non solo gli altri sono misteri per noi, ma sono dei misteri per se stessi, e quindi dicono o fanno cose per ragioni profonde che non corrispondono a quelle esplicite. Il presidente del consiglio che asserisce di lavorare fino a tardi per il bene della nazione un po'ci crede, un po'sa che lo fa anche per il bene della sua azienda.Di fronte a queste mistificazioni, esistono dei demistificatori di professione (psicoanalisti,analisti di mercato, critici della cultura, critici della ideologia),che si applicano a un'opera di smascheramento.

Totalizzazione. Quest’ultima accezione si presenta alla fine dell’Ottocento con Nietzsche e ha tenuto banco in molti settori della filosofia del Novecento. Sfrutta e porta alle estreme conseguenze i due sensi precedenti, concludendo che se gli altri sono dei misteri per noi e per se stessi, e noi per noi stessi, allora ogni discorso, fosse pure 2 + 2 = 4, richiede interpretazione. Insomma, non ci sono fatti, solo interpretazioni. Ovviamente, dire che non ci sono fatti ma solo interpretazioni o è un fatto o è una interpretazione. Se è un fatto, allora non è vero che non ci siano fatti, ma solo interpretazioni. Se è una interpretazione, allora potrebbero benissimo esserci dei fatti e non solo delle interpretazioni. La proposizione è contraddittoria, ma è culturalmente interessante, per ragioni che cercherò di chiarire alla fine di questo saggio.

Che questi sette sensi non si equivalgano, lo si può dimostrare con un semplice esperimento mentale. Poniamo che Schroeder e Chirac si incontrino. Gli viene chiesto (in tedesco a uno, in francese all'altro) se abbisognino di un interprete. I due, secondo il senso 1 (espressione), dovrebbero rispondere che non ne hanno bisogno, perchè il solo fatto di parlare dimostra che sanno interpretare.L'equivoco si rimedierebbe attraverso una interpretazione nel senso 4 (chiarimento),e verrebbe convocato un interprete nel senso3 (interpretazione come interpretariato),che sa sia il francese sia il tedesco. Se però questi credesse di essere un interprete anche nel senso 2 (esecuzione),dovrebbe esigere un applauso alla fine della sua prestazione, e, forse, per farlo, eserciterebbe - con zelo inopportune - l'interpretazione nel senso 5 (comprensione), per esempio dicendo a Chirac: "Lo so che lei non ha molta stima di questo uomo, ma deve capirlo, perchè fa il suo lavoro,che non è poi molto diverso da quello che fa lei", o addirittura nel senso 6 (demistificazione), poniamo, dicendo a Schroeder: "Non creda a una parola di quello che le sta dicendo costui; e, per dirla tutta, son fatti vostri e io me ne infischio". Se poi vigesse davvero l'interpretazione nel senso 7 (totalizzazione), non si capisce perchè i due si sarebbero incontrati, né di che cosa parlino. Cerchiamo allora di dipanare la matassa.


Espressione

Il professor Canapia si presenta a un convegno. Non si è preparato e a dire il vero ha compiuto una vera e propria malefatta, nel senso che si è fatto scrivere l’intervento da un suo allievo. Le bugie hanno le gambe corte, e tutti si accorgono della truffa, visto che legge senza espressione, come se pensasse per la prima volta quello che sta dicendo, e non lo capisse nemmeno troppo bene. In stazione, sente l’annuncio degli orari di un treno eseguito da un computer, e capisce che la sua lettura era più o meno come quella della voce sintetizzata al computer, metallica e, per l’appunto, inespressiva. L’espressione, dunque, richiede un minimo di interpretazione, il che nella fattispecie significa che le parole devono ricevere un senso e una intonazione che dimostrino che sono state capite quantomeno da chi le profferisce. Di questa circostanza abbiamo due versioni, una mitologica, connessa al dio (o semidio) Hermes, l’equivalente greco del Mercurio romano, e una scientifica, dovuta ad Aristotele (384-322 a. C.).

Incominciamo con il mito. Per i Greci, Hermes era il messaggero degli dei. Una sorta di postino (i suoi simboli, per esempio il cappello alato, si trovano su molte poste e ferrovie), e un eroe della scienza della comunicazione. Infatti, secondo Platone, tipici rappresentanti di questa categoria sono i poeti, che trasmettono agli uomini i messaggi degli dei. L'ingeneroso giudizio di Platone dovuto alla sua antipatia nei confronti della categoria: l'idea, infatti, è che i poeti non capiscono quello che trasmettono, o almeno non lo capiscono necessariamente, perchè sono degli invasati che - come i medium di una seduta spiritica e i profeti ebraici - danno voce a messaggi altrui ("cantami o diva"). Non è affatto sicuro, anzi, probabilmente non è così, che "hermeneia" derivi da Hermes, dio degli incroci, protettore dei ladri e, per l'appunto, messaggero degli dei; i più ritengono che derivi dall'equivalente del latino "sermo", "discorso", e probabilmente è Hermes ad aver preso il suo nome da "sermo", in qualche modo, sarebbe, nella mitologia, il primo dei Grandi Comunicatori che hanno deliziato e afflitto la storia occidentale.

Dal mito passiamo alla scienza. Nel trattato Dell’espressione, che da questo punto di vista risulta strettamente connesso alla psicologia esposta nel De anima, Aristotele sostiene che nella mente degli uomini e almeno di certi animali superiori ci siano delle idee o dei significati, impressi come lettere sulla mente concepita come una tavoletta di cera, e che si esprimono attraverso dei suoni, che simboleggiano le idee, e (nel caso degli uomini) attraverso delle lettere scritte che simboleggiano i suoni. Molti autori moderni hanno messo in discussione questa teoria del significato, che sembra un po’ ingenua, perché vede nelle parole il semplice rivestimento sensibile di idee che ne sarebbero indipendenti. Per esempio, ci sono significati impossibili senza il linguaggio, come, poniamo “oggi è il 30 settembre 2004”, oppure “la seduta è tolta”. Qui il linguaggio non si limita a dare una veste sensibile alle idee, ma piuttosto crea delle cose che non ci sarebbero senza di esso. Tuttavia, chiunque abbia cercato l’espressione giusta senza riuscirci sarà stato portato a condividere, almeno in quella circostanza, la teoria del linguaggio e dell’espressione esposta da Aristotele: quando ci manca la parola giusta, abbiamo infatti la penosa sensazione di non trovare l’abito con cui vestire le nostre idee e farle uscire da noi. In altre occasioni, troviamo una parola, ma ci sembra solo parzialmente adatta. Sembrerebbe dunque che nell’esprimere si compiano delle scelte, più o meno felici, proprio come più o meno riuscite sono le interpretazioni che si danno di un testo o di un discorso proferito da altri.


Esecuzione

Con questo, si viene al secondo tra i sensi enumerati nel secondo paragrafo. Infatti, che cosa si esprime, quando si esprime? E, soprattutto, se quello che esprimiamo non è un contenuto mentale che ha bisogno di essere portato all’esterno, ma dei segni che sono già fuori, su un foglio di carta, si può ancora parlare di “espressione”? In fondo, che cosa aggiungiamo, se non dei semplici suoni, o un senso che ricostruiamo mentalmente? Malgrado le apparenze, si aggiunge un bel po’ di cose, come possiamo verificare attraverso questi due esempi tratti da Madame Bovary di Gustave Flaubert.

Il primo è nelle primissime pagine. Charles Bovary, un ragazzo di campagna goffo e impacciato, entra in collegio. E la sua inadeguatezza, il riso che suscita tra I compagni, si condensano nella descrizione del suo berretto: «Si trattava di uno di quegli ibridi copricapi che assommano in sé i caratteri del berretto di pelliccia, del ciapska, della bombetta, della calotta di lontra e del berretto di cotone, uno di quei poveri oggetti, insomma, la cui muta laidezza possiede l’espressività profonda del volto di un imbecille. Era ovoidale e rinforzato da stecche di balena; il bordo prendeva a girare con tre salsicciotti; poi, separate da un nastro rosso, vi si alternavano losanghe di velluto e di coniglio; ecco poi alla sommità una specie di sacchetto terminante in un poligono di cartone ricoperto da un complesso ricamo; e di lì, in fondo a un esilissimo cordino, pendeva una ghianda di fili d’oro. Era nuovo; la visiera brillava». Agli antipodi di questo berretto parlante e minuziosamente descritto, troviamo un altro luogo del romanzo, quando Emma Bovary che cede alle avances di Rodolfo: “ella si abbandonò”, scrive Flaubert, e non aggiunge altro, proprio come Manzoni sunteggia tutta la relazione tra la monaca di Monza ed Egidio nella frase “la scellerata rispose”. Dove il marchese di Sade avrebbe iniziato una descrizione di cento pagine, o un libro intero, Flaubert e Manzoni se la cavano con tre parole. Qui c’è davvero molto da aggiungere, anche se, paradossalmente, non sembra così tanto di più di quanto viene richiesto dal berretto di Charles, che racchiude e anticipa tutta una vita.

Dunque già un testo letterario, nella semplice lettura, richiede un gran numero di integrazioni, anche se spesso non ce ne accorgiamo (anzi, il testo è tanto più riuscito quanto più riesce ad essere ellittico pur restando comprensibile). Nessuno ci ha mai detto di che colore fossero gli occhi di Lucia Mondella, forse perché li teneva sempre bassi, come suggeriva malevolo Niccolò Tommaseo. Il colore lo aggiungiamo noi, e in taluni casi aggiungiamo ben di più: anche una semplice frase come «quando chiuse la porta, si accorse che la chiave era rimasta dentro» racchiude un piccolo dramma pieno di elementi impliciti (l’eroe è rimasto chiuso fuori, ma non sta scritto da nessuna parte). Di qui il più breve romanzo della letteratura mondiale, scritto dal guatemalteco Augusto Monterroso (1921-2003): “Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì”.

Questi problemi crescono esponenzialmente nel passaggio da un medium espressivo all'altro, come nella esecuzione musicale. Qui i vuoti da riempire sono, se non molto più numerosi, almeno ben più vistosi. Una composizione consiste in una serie di segni scritti, ma si realizza come una successione di suoni. Ora, è vero che ognuno dà gli occhi che vuole a Lucia, ma è anche vero che nessuno esibisce pubblicamente questo contenuto mentale. Mentre nella esecuzione musicale è proprio questo che avviene:il solista o il direttore devono manifestare un contenuto pubblico, che può essere condiviso o meno. Se poi si tratta di un'opera lirica (e questo è un problema che vale anche per il teatro,ovviamente) sono costretti a dare colori, vestiti e arredi alla scena,in parte completando le indicazioni del librettista,in parte integrando con la loro fantasia.

Oltre ai problemi di indeterminazione che abbiamo sottolineato a proposito delle opere letterarie, sorgono in modo più perentorio dei problemi di identità. Si può dire che un’opera esiste indipendentemente dalla sua esecuzione? In che cosa consiste l’identità dell’opera quando passa da una esecuzione all’altra? Se ambiento l’Aida in circo equestre, si tratta di una interpretazione o di una aberrazione? Se riduco l’Anello dei Nibelunghi a una rappresentazione di un’ora, si tratta ancora dell’opera di Wagner, o non è un’altra cosa? Nel rispondere a questi interrogativi ci si misura anche con dei problemi di vaghezza: “Allegro con moto” in che misura si differenzia da “andante con brio”? Non c’è una misura esatta, più o meno come nelle ricette di cucina: che cosa vorrà dire esattamente “quanto basta”? quanto è grande una “noce di burro”?

Il più ovvio rimedio alla indeterminatezza sta nel riconoscere l’intenzione dell’autore. Quando qualcuno mi chiama al telefono, mi scrive un messaggio di e.mail o mi spedisce una lettera, immagino che il contenuto rappresenti quello che mi voleva dire. Ma la cosa non è così semplice come pare. Certo, se il messaggio è “ti amo”, o “arrivo alle 19.30” molto probabilmente l’autore intende dirmi che mi ama o che arriva alle 19.30. Poniamo tuttavia che il messaggio sia più sibillino. Un magistrato chiede a un imputato: “Lei ha mai preso tangenti?” e l’imputato risponde: “Ma per carità!”; a giusto titolo il magistrato incalza: “Per carità sì o per carità no?”, e l’imputato ammette che il senso era “per carità sì”, cioè che ha preso tangenti. L’espressione viene disambiguata, e siamo tutti contenti. Immaginiamo tuttavia di trovarci tra le mani il verbale, dopo la morte, e senza che il magistrato abbia chiesto precisazioni. Potremo certo sapere (non dal verbale ma dalla storia) se l’imputato abbia preso tangenti, ma non potremo mai sapere se in quel preciso momento avesse inteso dire che le aveva prese. Questa è indubbiamente una difficoltà che si frappone al riconoscimento della intenzione dell’autore, e che la rende meno scontata di quanto non sembri a prima vista. Per esempio: quando Cesare varca il Rubicone e dice “il dado è tratto”, che cosa intende dire, esattamente? Probabilmente, che ha preso una decisione che si riferisce alla sua condotta politica (questo lo deduciamo dal contesto, ma potrebbe non essere così); ma di che si tratta? Della decisione di marciare su Roma? Di por fine al consolato? Di diventare imperatore? Non lo sappiamo, e certo non sembra una buona idea spiegare l’Iliade ricorrendo alle intenzioni di Omero, che forse non è mai esistito.

È in base a queste considerazioni che si è recuperata l’intenzione dell’opera: ossia ciò che l’opera, prescindendo dalla psicologia dell’autore, significa. Ovviamente, è difficile trovare una intenzione del genere in un sms che recita “ti amo”, visto che l’espressione non avrebbe senso prescindendo dalla intenzione di un autore che si rivolge a noi (immaginiamo di leggere “ti amo” su un muro, senza firma e senza destinatario). In generale, si tratta di un ripiego: nel momento in cui non siamo in grado di stabilire l’intenzione dell’autore, allora ricorriamo all’opera. Supponiamo – taluni non lo esclusero – che l’autore delle opere di Shakespeare sia Bacone. Probabilmente molto cambierebbe, ma non lo sappiamo, per cui ci esercitiamo a leggerle prescindendo dalla psicologia dell’autore, anche perché, nel frattempo, siamo distratti dalla psicologia dei personaggi, e tanto ci basta. Qui sembrerebbe che l’intenzione dell’opera sia semplicemente un surrogato che sposta l’intenzione dell’autore nella intenzione di personaggi di finzione. Tuttavia, prendiamo un messaggio poco più lungo di “Ti amo”. Per esempio “a vista pagare questo assegno bancario”, seguito dalla indicazione di una somma e da una firma. Tutto sommato, l’intenzione dell’autore ci interessa ben poco. Certo, sarebbe un peccato se non ci fosse, se gli fosse stata estorta e poi l’assegno ci fosse stato girato in cambio di contanti. Ma sarebbe un peccato ancora maggiore se l’autore avesse avuto tutte le migliori intenzioni del mondo, però l’assegno non fosse stato coperto. E adesso prendiamo una frase come “è vietato calpestare le aiuole”. Anche in questo caso, si postula un autore abbastanza fittizio, chiamato “il legislatore”, ma nel non calpestare le aiuole non ci sembra di penetrare l’intima psicologia del legislatore, riteniamo piuttosto di ottemperare a intenzioni che stanno nell’opera, ossia nel cartello.

I moderni (o più esattamente i postmoderni) si sono inventati anche l’intenzione del lettore, spesso sulla base di indicazioni di poetica come quella enunciata dal poeta e letterato francese Paul Valéry (1871-1945): “i miei testi avranno il senso che si vorrà”. Intanto, è utile precisare che Valéry si riferiva a certi suoi testi, probabilmente ai versi, meno sicuramente ai saggi, e certamente non agli assegni o al testamento. Enunciata in questi termini, la legge è solo una estensione di quanto detto a proposito di espressioni volutamente sibilline come “ma per carità”, e in effetti c’è un gran gusto a scovare i molti sensi di un testo poetico. Tuttavia, è facile immaginare che se davvero questi sensi non avessero alcuna corrispondenza con l’autore, o peggio ancora con l’opera, ci si chiede che diavolo facciamo quando leggiamo una poesia o un’opera letteraria in genere. Possiamo constatarlo facilmente con un esempio. Le opere dello scrittore boemo Franz Kafka (1883-1924) descrivono spesso stati angosciosi e inquietudini teologiche, ed è un vero piacere cercare di scovare tutti questi sensi, se non altro per sedare l’ansia che ci procurano. Tuttavia, è frustrante apprendere, dalla testimonianza del suo amico Max Brod (1884-1968), che quando Kafka leggeva Il Processo ai suoi amici, tutti – lui per primo – si facevano delle matte risate. Ci sentiamo presi in giro e non sappiamo più come trattare quello che leggiamo.


Traduzione

C’è di peggio. Provate a tradurre un testo dal bulgaro disponendo soltanto di un vocabolario, oppure usando un traduttore automatico di quelli che si trovano in rete. Vi renderete subito conto che la traduzione non è mai trasportare una parola in un’altra lingua, ma dire pressappoco la stessa cosa, decifrando intenzioni, oggetti, contesti, e non solo sostituendo parole. Infatti anche a il traduttore umano va incontro a delle difficoltà, come dimostra l’ovvia considerazione che ci sono traduzioni migliori e peggiori, così come traduzioni sbagliate. Restando agli aspetti macroscopici, si possono riconoscere due difficoltà maggiori.

La prima è stata sottolineata dal filosofo francese Jacques Derrida (n.1930;cfr. Derrida 1978): per capire sino in fondo una espressione, avremmo bisogno di possedere pienamente non solo l'intenzione di chi scrive, ma anche il contesto in cui ha luogo. Ma questo può anche non avvenire mai, giacchè non potremo mai determinare, sino in fondo e con una certezza assoluta, quale sia il contesto in cui si inserisce un messaggio scritto o orale. Si tratta di una difficoltà particolarmente acuta nel caso dei messaggi scritti. Mentre in un contesto orale i gesti, l'espressione e le circostanze di chi parla, nonchè la possibilità di fare domande, aiutano a precisare il senso, la scrittura può essere letta in assenza dello scrittore: anche il conto della spesa, che apparentemente mi ricorda, me presente, le compere da fare, ma che domani potrà restare sul tavolo di cucina, e magari (poniamo che io sia un autore famoso)venire studiato e classificato da un filologo.Derrida fa un esempio a proposito di Nietzsche:c'è un frammento postumo in cui si legge "ho dimenticato l'ombrello". E' una pagina di diario? Un promemoria? Una considerazione sulla storia della metafisica? Non potremo mai saperlo e, conoscendo le bizzarrie di Nietzsche, non possiamo escludere alcuna possibilità. Nessuno ha il sapere assoluto, e persino la nota della spesa potrebbe celare delle implicazioni inconsce,in fondo Freud ha fatto una letturapsicoanalitica di un registro contabile di Leonardo da Vinci.

Un altro problema riguarda quello che il filosofo americano Willard van Orman Quine (1908-2000) (cfr. Quine 1960) ha chiamato “traduzione radicale”. Qui non è questione di domandarsi se conosciamo pienamente il contesto del messaggio, bensì di esaminare la condizione in cui ci si trova se non si possiede in alcun modo il contesto, e cioè si ignora completamente la lingua del nostro interlocutore. Immaginiamo un etnologo in una tribù a lui ignota in tutto e per tutto. Ogni volta che si vede un coniglio, i nativi dicono “gavagai”. Ora, come si fa a stabilire che la parola significhi “coniglio” e non un frammento temporale del coniglio, una sua parte spaziale, l’essenza della coniglità, un passaggio di coniglio ecc. Detto per inciso, sembra che qualcosa del genere sia avvenuta per davvero: “canguro” traduce la risposta “kangaroo” che James Cook ebbe dai nativi quando chiese come si chiamava l’animale in questione, e questi gli risposero, “non lo so”, cioè, nella loro lingua, kangaroo.

Questi due filosofi esagerano? Solo fino a un certo punto, perché effettivamente si possono dare casi-limite come quello dell’ombrello di Nietzsche o di gavagai. Normalmente, però – ed è una circostanza che non si deve trascurare, a meno di voler trasformare la vita in un rebus – le cose vanno molto più lisce. È a questa circostanza che si richiama un terzo filosofo, il discepolo di Quine Donald Davidson (1917-2003) (cfr. Davidson 1984), quando sostiene che le nostre interpretazioni linguistiche non possono prescindere da un principio di carità interpretativa che massimizzi la coerenza delle credenze del parlante e la loro corrispondenza ai fatti. Cioè, in parole povere, è buona norma assumere che il nostro interlocutore sappia quel che dice e non voglia ingannarci. Il che, obiettivamente, è ciò che accade il più delle volte. I vantaggi di un simile atteggiamento fiduciario sono almeno due: non solo sembra aderire alla nostra più normale esperienza, ma soprattutto ci semplifica la vita. Non è bello e non è utile leggere il giornale pensando che le notizie che riportano siano in realtà messaggi segreti che si scambiano gli extraterresti, e, soprattutto, un atteggiamento così sospettoso ci rende indecifrabili anche le notizie più normali. Nella tradizione dell'ermeneutica, questo principio veniva chiamato "presupposto della perfezione": l'idea di fondo è che per capire un testo o un discorso bisogna partire dall'idea che abbia un senso compiuto, e che solo nel momento in cui i nostri tentativi venissero completamente frustrati si dovrà ammettere che questo senso non c'è.

L’insegnamento positivo che può venire da queste difficoltà è dato dalla teoria del “circolo ermeneutico” (Gadamer 1960). Qui l’assunto di base è che (proprio come nella ipotesi della traduzione radicale) se non abbiamo nulla in comune con il testo che leggiamo o il discorso che ascoltiamo, difficilmente possiamo capirlo. Prima di comprendere un testo o un discorso sussiste dunque una “precomprensione” o un “orizzonte di attesa”; per esempio, in forma minimale, che si tratti di un testo o di un discorso e non di un arabesco che accidentalmente può ricordare una scrittura. Il decodificatore che cerca di decifrare un messaggio in codice deve necessariamente presupporre di avere a che fare con un testo e non con delle interferenze nel sistema radiofonico. Ma anche un testo in italiano di non immediata comprensione (poniamo che qualche parola sia cancellata, o che sia scritto da uno che non padroneggia la lingua) può essere compreso solo a condizione che si presupponga un qualche senso. Generalizzando questa considerazione, il filosofo tedesco Martin Heidegger (1889 – 1976) ha sostenuto (Heidegger 1927) che non solo la comprensione di messaggi, ma l’intero rapporto dell’uomo con il mondo è caratterizzato da un circolo ermeneutico: banalmente, se non sapessimo a cosa servono i cacciavite potremmo essere tentati di usarli per pulirci le orecchie, e un cane probabilmente non ha una idea chiara di che cosa possa essere un museo. La considerazione è sostanzialmente vera, anche se esagerata (rientra in quella iperbole totalizzante dell’ermeneutica di cui parleremo nel § 8), perché un cane non sa che cosa sia una sedia, eppure ci si può accucciare sopra.


Chiarificazione

Ritorniamo al campo più circoscritto della interpretazione di testi e di messaggi. Prendiamo questo brano da Agosto, moglie mia non ti conosco (1930) di Achille Campanile (1899-1977):

«Ella, indicando dalla finestra il boschetto, disse ai visitatori: 

‘Là, dove. sono quegli alberi, papà fa il porco’. Tutti si guardarono in faccia sorpresi e imbarazzati. Pavoni scosse il capo, con profonda tristezza. La fanciulla si avvicinò a lui e, abbracciandolo, disse: ‘È vero papà, che fai il porco laggiù? Me l’ha detto anche il giardiniere’. ‘Sì, cara, sì’ disse Pavoni, carezzandole il capo.

Si vedeva che soffriva atrocemente.

‘Fa il porco e il villano’ spiegò la ragazza agli ospiti, guardando con tenerezza il genitore.

È chiaro che porco va inteso parco e villano villino»

La ragazza era stata vittima di un precettore perverso che le aveva insegnato «le principali parole della lingua italiana in forma errata». Noi ci divertiamo, perché è facile sostituire “parco” a “porco” e “villino” a “villano”. Ma non sempre è così, e in tal caso davvero è necessaria una interpretazione. È il senso che prevaleva sino alla fine del Settecento, cioè prima della universalizzazione dell’ermeneutica di cui si è detto: le cose del tutto chiare non hanno bisogno di essere interpretate, quelle completamente oscure non meritano di essere interpretate, e dunque l’interpretazione interviene solo quando, in un contesto trasparente, troviamo qualche punto opaco Come lo si chiarifica?

Sin dall’epoca alessandrina, i due modi fondamentali di chiarificazione sono stati il metodo allegorico e quello storico-grammaticale. L’allegoria suppone che ciò che non ci appare immediatamente evidente sia il simbolo di qualcosa di più comprensibile e sensato. Se uno legge, poniamo, che “Dio è fuoco”, uno potrebbe sorprendersi, visto che pensava che fosse spirito e che non aveva mai creduto di trovare Dio in un accendino; a questo punto, il metodo allegorico spiegherebbe che l’espressione è una metafora per indicare il carattere potente e spirituale di Dio. In altri termini, il metodo allegorico consiste nel trovare delle metafore sotto il senso letterale. Questo metodo si può complicare e arricchire attraverso una stratificazione di sensi (Lubac, de, 1959). Ne abbiamo una versione molto famosa nella lettera in cui Dante chiarisce a Can Grande della Scala questa stratificazione di significati. Si prenda, ad esempio, una frase della Bibbia come: «Durante l’esodo di Israele dall’Egitto, la casa di Giacobbe si staccò da un popolo straniero, la Giudea divenne un santuario e Israele il suo dominio». Ora, osserva Dante, «Se osserviamo solamente il significato letterale, questi versi appaiono riferiti all’esodo del popolo di Israele dall’Egitto, al tempo di Mosè; ma se osserviamo il significato allegorico, il significato    si sposta sulla nostra redenzione ad opera di Cristo. Se guardiamo al senso morale, cogliamo la conversione dell’anima dal lutto miserabile del peccato alla Grazia; il senso anagogico indica, infine, la liberazione dell'anima santa dalla servitù di questa corruzione terrena, verso la libertàdella gloria eterna».

Il metodo storico-grammaticale, invece, consiste nel ricondurre l’espressione oscura al senso che poteva avere nell’epoca in cui è stato scritto il testo, o a cognizioni storiche d’altro tipo che potrebbero essere ignote al lettore. Per restare all’esempio di “Dio è fuoco”, l’ermeneutica storico-grammaticale potrebbe ricordare che Dio si è manifestato a Mosè in un roveto ardente. Oppure potrebbe sottolineare che l’ebraico ruah indica sia “spirito” sia “fiamma”, e che dunque dire “spirito” e dire “fuoco” sono espressioni equivalenti.

Non si tratta di una pratica ristretta alla interpretazione di testi antichi, come potrebbero far supporre gli esempi proposti sin qui. Per esempio, uno psicoanalista adopera in modo combinato entrambi i metodi: quello allegorico, quando interpreta un sogno, e quello storico-grammaticale, quando inserisce le affermazioni del paziente in quello che sa della sua vita. Tutte queste regole di chiarificazione hanno ovviamente dei limiti. Il limite del metodo storico-grammaticale sta nel fatto che potremmo non disporre di strumenti sufficienti per conoscere la realtà indicata dal testo.E'sulla base di questa considerazione che il cardinale Roberto Bellarmino (1542 - 1621) contesta la pretesa dei protestanti di accostarsi alla Bibbia senza la mediazione della Chiesa.Il suo discorso suonava infatti così: sono passati così tanti secoli che noi non siamo più in grado, con il solo ausilio delle nostre conoscenze storiche e linguistiche di interpretare correttamente i libri sacri. Per cui la sola via attraverso cui possiamo accostarli consiste nel fidarsi delle interpretazioni più antiche,fornite dai Padri della Chiesa e trasmesse dalla tradizione apostolica, cioè da Roma. Poteva sembrare un discorso brutale e conservatore, di fatto lo era, ma non risultava privo di argomenti.

Il metodo allegorico, al contrario, ha la caratteristica di non avere mai fine. E la pretesa di interpretare secondo lo spirito invece che secondo la lettera può provocare molti effetti indesiderati. Il filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) suggeriva di interpretare Immanuel Kant (1724-1804) secondo lo spirito, ma quest'ultimo si riconobbe tanto poco in quelle interpretazioni che pubblicò una pubblica sconfessione di Fichte che si concludeva citando il proverbio: "dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io". E l'argentino Jorge-Luis Borges (1899-1986) ha scritto una bellissima novella sullo smodato proliferare di metafore, cioè di sensi sovrapposti al significato letterale, nel poema islandese l'Edda: l'aria è "la casa del vento"; le aringhe sono "frecce del mare", la barba è "il bosco della mascella", ma a loro volta la casa e il vento, le frecce e il mare, il bosco e la mascella possono essere denotate con altre metafore, così che da una sola parola uno può ricavare un libro sterminato.


Comprensione

Se alla domanda “come sta? Rispondo “bene, grazie”, non c’è bisogno di interpretazione. Se invece rispondo “potrebbe andar meglio”, allora c’è già qualcosa da interpretare, e nella fattispecie sembra manifestarsi l’esigenza di comprendere la psicologia di chi dice “potrebbe andar meglio”. Il problema consiste però nel determinare il significato di “comprendere”, che può essere:

  Capire (ed è il senso ovvio). Ma in questo caso sembrerebbe che non ci sia bisogno di ermeneutica. Il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein (1889- 1951) ha sottolineato, a questo proposito (Wittgenstein 1953), che, per esempio, la comprensione di un ordine – poniamo, “apri la porta” – non richiede interpretazione. Ci sarebbe insomma un grado zero della comunicazione che risulta immune dall’interpretazione. Viceversa, un teorico dell’universalità dell’ermeneutica come il tedesco Hans Georg Gadamer (1900-2002) (Gadamer 1960) ha sostenuto che in ogni applicazione di una regola c’è un elemento di interpretazione. Probabilmente il conflitto tra la versione di Wittgenstein e quella di Gadamer sta nei diversi esempi che hanno in mente. Il primo, infatti, pensa per l’appunto alla esecuzione di ordini o regole elementari; il secondo invece alla applicazione di leggi, che effettivamente richiedono un intervento interpretativo del giudice. In questo senso, la differenza tra i due livelli si può spiegare con quanto si è detto al § 6 a proposito della chiarificazione: l’applicazione di regole semplici non necessita di chiarificazione, e dunque non abbisogna di interpretazione, mentre una legge o una regola complessa può richiederla.

   Immedesimarsi, trasporsi, mettersi nei panni altrui. Si tratta di una accezione molto specifica introdotta dal filosofo tedesco Wilhelm Dilthey (1833-1911), nel quadro di una contrapposizione tra le scienze naturali e quelle storico- sociali (Dilthey 1905-1911). L’idea di fondo è che mentre le leggi di natura possono essere spiegate in base a princìpi esclusivamente causali, i processi storici, sociali e psicologici richiedono l’intervento di princìpi finali e, dunque, abbisognano di una immedesimazione. In breve, per spiegare le cause di un tumore, io non devo immedesimarmi nelle cellule; per comprendere Waterloo, devo almeno in parte mettermi nei panni di Napoleone e dei suoi avversari, capire quali fossero i loro moventi e i loro obiettivi. La differenza tra un neuroscienziato e uno psicoanalista può risultare da questo punto di vista  illuminante. Il primo studia il cervello umano così come studierebbe il cervello di un castoro, mentre il secondo deve immedesimarsi nel paziente, e dunque appare improbabile sia che uno psicoanalista curi un castoro, sia che un castoro faccia lo psicoanalista.

La sovrapposizione di questi due sensi,la semplice comprensione e l'immedesimazione,ha prodotto l'idea che anche le scienze naturali richiedano l'intervento di un atto di comprensione, per esempio volto a spiegare che le stesse indagini sulla natura sono determinate dagli interessi psicologici e vitali dei ricercatori. Ed è a questo punto che la comprensione trapassa in un altro livello, quello della demistificazione.


Demistificazione

A Buenos Aires c’è un quartiere abitato da moltissimi psicoanalisti, e perciò chiamato “Barrio Freud” (quartiere Freud). Nei negozi o nei bar interpretano come nel loro studio? È lecito dubitarne. Si demistifica o si smaschera solo in certe circostanze, ed è bene ricordarselo: l’interpretazione come smascheramento o demistificazione è una estremizzazione del comprendere. All’origine c’è un principio che definisce l’esatta interpretazione come “comprendere l’autore innanzitutto altrettanto bene, e poi anche meglio di quanto si sia inteso lui stesso” (cfr. AA.VV. 1988) Sembra un proposito un po’ paradossale, perché l’idea ingenua è che le persone conoscano se stesse meglio degli altri, ma il solo fatto che i poeti ringrazino i critici per le loro interpretazioni, e soprattutto che molte persone vadano dallo psicoanalista, dimostra che le cose non stanno necessariamente così. E questo non vale solo per i critici letterari e per gli psicoanalisti. Lo storico che a distanza di secoli ricostruisce un evento è, da un certo punto di vista, in una situazione privilegiata rispetto a coloro che vivevano quell’evento, perché dispone di un contesto più ampio di loro, quello che popolarmente si chiama “senno di poi”; quel senno che possono avere anche i filosofi che a distanza di secoli leggono filosofi più antichi, e che si esercitano in una ricostruzione razionale di argomentazioni che nella prima formulazione non erano così chiare. Questa è, per così dire, una situazione normale, valida per tutti i tempi. Ma, per l’appunto, a partire dall’Ottocento è stata enfatizzata dall’idea che il pensiero debba esercitare una attività critica, e smascherare gli inganni che gli uomini o la stessa società possono fare a se stessi e agli altri (Habermas 1968).

Il paradigma degli autoingranni individuali è fornito dalla psicoanalisi: ci tormentiamo per motivi che non riusciamo a capire, o dandoci dei motivi che non sono veri. Il compito dello psicoanalista consiste per l’appunto nel rimettere il paziente in contatto con le sue motivazioni profonde, vincendo le resistenze, le rimozioni e i mascheramenti che gli impediscono di riconoscerle. Qualche volta ci si riesce, ma purtroppo, spiega Freud, capire perché facciamo qualcosa non equivale alla guarigione dalle proprie ossessioni. Il paradigma degli inganni collettivi, invece, è dato dalla critica della ideologia, che c’è sempre stata, ma fiorisce in modo molto rigoglioso nell’Ottocento grazie a Marx. Alla base, c’è una considerazione abbastanza ovvia: ci sono ricchi e poveri. Gli uni e gli altri sono convinti di fare uno scambio: il povero produce un oggetto, poniamo del carbone, e il ricco lo compra e lo rivende ad altri. Ma proprio qui è l’equivoco, perché questa spiegazione nasconde il fatto che il povero, in realtà, non vende un oggetto, bensì ore di lavoro, e il ricco dunque guadagna molto di più di quanto non creda non solo il povero, ma lui stesso, convinto che il suo benessere dipenda dalla parsimonia, dalla bontà dei suoi principi, dalla benedizione divina. Visto che il ricco è sinceramente convinto che le cose stiano così (probabilmente disprezza i nobili fannulloni), e lo scrive sui suoi giornali, romanzi, prediche, sarà utile una critica dell’ideologia che avvisi ricchi e poveri dell’inganno di cui sono preda, sebbene in modi e con conseguenze diverse.

Se si dà il giusto peso all’interpretazione come smascheramento, per esempio invitando a considerare che un giornalista difficilmente scriverà contro il proprio editore, e forse lo farà in buona fede, allora avremo trovato uno strumento indispensabile per una filosofia della comunicazione. Se viceversa si sostiene che i quark sono il frutto delle ambizioni degli scienziati, allora si entra nella dimensione totalizzante dell’ermeneutica, cioè nella tesi – francamente aberrante e inutile – secondo cui non ci sono fatti, ma solo interpretazioni.


Non ci sono fatti, solo interpretazioni?

«Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: ‘ci sono soltanto fatti’, direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni. Noi non possiamo constatare alcun fatto ‘in sé’; è forse un’assurdità volere qualcosa del genere» (Nietzsche 1886- 1887). La frase di Nietzsche è abbastanza facile da smascherare, a sua volta. Proviamo a sostituire “fatti” con “gatti”, e guardate cosa ne viene fuori: «Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: ‘ci sono soltanto gatti’, direi: no, proprio i gatti non ci sono, bensì solo interpretazioni. Noi non possiamo constatare alcun gatto ‘in sé’; è forse un’assurdità volere qualcosa del genere». Non funziona proprio. Si provi a mettere in tribunale, al posto di “La legge è uguale per tutti”, “Non ci sono fatti, solo interpretazioni”: ti sale un brivido per la schiena, se sei innocente. Infine, ammesso che ci siano interpretazioni (e non c’è dubbio che ce ne siano), sarà ancora da vedere se queste interpretazioni siano infinite. E chiaramente non è così.

Nella migliore delle ipotesi, per ciò che attiene al problema della comunicazione, si può immaginare una distinzione tra “interpretazione” e “uso” (Eco, 1990). Posso leggere gli Esercizi spirituali di Ignazio da Loyola come se li avesse scritti Sade. Ma è importante che io lo sappia (e questo dimostra che ci sono fatti, non solo interpretazioni). Posso anche fraintendere completamente un discorso o un testo, ma questo non significa che non esistono fatti, solo interpretazioni, bensì che errare è umano (e perseverare diabolico).


Interpretare e decidere

Nel 1819 un sacerdote cattolico, Francesco Zamboni, scrisse un Saggio di una memoria sopra la necessità di prevenir gl'incauti contro gli artifici di alcuni professori d'Ermeneutica. Esagerava? Indubbiamente sì. Ma non è meno certo che anche Nietzsche esagerava e che, dovendo scegliere, probabilmente ha più ragione lo Zamboni. Non che un po' di interpretazione, in un senso minimale, non ci sia anche quando qualcuno ci dice "buongiorno", ma si può esser certi che un ben diverso sforzo ermeneutico si darebbe nel caso in cui, a dirci "buongiorno" fosse un indio del Mato Grosso o il ficus che sta nel nostro ufficio. La morale che si potrebbe trarre - non solo per una filosofia della comunicazione - è la seguente. E' ovvio che si interpreta sempre, perchè la comprensione richiede uno sforzo da parte nostra,ma non è affatto ovvio che si interpreta tanto, o così tanto come si è sostenuto negli ultimi due secoli. Soprattutto, non si interpreta all'infinito: prima o poi, si dovrà prendere una decisione, dettata certo da interpretazioni, ma che non ne ammetterà altre.



RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

[1] Per non appesantire il testo, ho ridotto i riferimenti bibliografici all’essenziale. Per ulteriori approfondimenti, mi permetto di rinviare a Ferraris 1988 e 1998.


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