Giuffré Editore

Vizi del titolo edilizio e incidenza sull’attività notarile

Salvatore Monticelli

Ordinario di Diritto privato, Università di Foggia


L’ordinanza di rimessione alle Sezioni unite n. 20061/2018 e i principi di diritto espressi dalla sentenza del 22 marzo 2019, n. 8230

Il tema assegnatomi, come d’altra parte l’intero Convegno, ruota attorno alla recente decisione delle sezioni unite del 22 marzo 2019, n. 8230, sulla annosa questione della natura controversa – io la definii “equivoca”[[1]] – della nullità del contratto traslativo di diritti reali immobiliari per violazione delle norme in materia urbanistica ed edilizia, contemplata dall’art. 46 T.U. in materia edilizia di cui   al d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e dagli artt. 17, e 40, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47.

Come è noto la sentenza è stata chiamata a risolvere il contrasto giurisprudenziale insorto nella stessa Corte a partire dall’ottobre del 2013.

Il Collegio remittente, con ordinanza interlocutoria n. 20061/2018, del 9 gennaio 2018, della seconda sezione civile della Corte di Cassazione, ha infatti rimesso al vaglio della interpretazione nomofilattica delle Sezioni Unite, in via prioritaria, la dibattuta questione della natura “formale” o “sostanziale” della nullità contemplata nelle predette disposizioni, nonché, quella ulteriore, ed alla prima strettamente collegata, della esigenza di una chiara definizione del perimetro di irregolarità urbanistica rilevante ai fini della declaratoria della nullità suddetta. 

Evidenzia il Collegio remittente che dall’accoglimento dell’una o dell’altra opzione interpretativa discendano rilevanti ricadute applicative di ordine pratico di cui non si può non tenere conto ai fini di un equo bilanciamento degli interessi in gioco.

Dando qui per scontata la conoscenza dei termini del dibattito, dottrinale e giurisprudenziale, intorno alla natura della nullità in questione, di cui si fa solo un breve riassunto in nota[[2]], le Sezioni Unite, con la citata decisione, a soluzione del contrasto, hanno affermato i seguenti principi di diritto: 

«La  nullità comminata dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 46, e dalla l. n. 47 del 1985, artt. 17 e 40, va ricondotta nell'ambito dell'art. 1418 c.c., comma 3, di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un'unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell'immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell'immobile». 

«In presenza nell'atto della dichiarazione dell'alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all'immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato»[[3]].  


In particolare l’affermata natura “formale” e, perciò, “testuale” della nullità urbanistica contemplata dall’art. 46 T.U. in materia edilizia e gli ulteriori argomenti a sostegno 

Va subito detto che la sentenza del 22 marzo 2019, n. 8230, pur apprezzabile in ordine all’approdo ermeneutico cui giunge circa la natura “testuale” della nullità di che trattasi, non trae da tale condivisibile scelta ermeneutica conseguenze appieno coerenti, giacché, in certa misura, come si vedrà, contraddice, con successive puntualizzazioni, le premesse qualificatorie da cui muove. Lascia così aperto il problema, succedaneo rispetto a quello qualificatorio, ma certamente più rilevante, in ragione delle ricadute pratiche che comporta, della necessità di dare certezza alle parti ed agli operatori del diritto, anzitutto ai notai stante la previsione dell’art. 47 d.P.R. n. 380 del 2001, circa la validità o meno degli atti traslativi di beni immobili realizzati in difformità dal titolo edilizio. 

Nel procedere ad esplicitare le ragioni del giudizio anche critico su espresso, è utile preliminarmente riportare i più significativi passaggi argomentativi delle Sezioni Unite in ordine ai canoni interpretativi seguiti nella lettura della norma che dispone la c.d. nullità edilizia e, di conseguenza, quanto alla natura della nullità di che trattasi. 

La Corte, riassunte in breve le ragioni addotte a sostegno della tesi cd. sostanzialistica, correttamente sancisce che detta teoria, pur mossa da un intento commendevole, non può tuttavia prescindere dagli specifici dati normativi di riferimento, ed al cui esame non può essere qui avallata[4].  Ed infatti, precisa che «che il principio generale di nullità riferita agli immobili non in regola urbanisticamente che la giurisprudenza c.d. sostanzialista ritiene di poter desumere da tale contesto normativo, sottolineando l'intenzione del legislatore di renderli tout court incommerciabili, costituisca un'opzione esegetica che ne trascende il significato letterale e che non è, dunque, ossequiosa del fondamentale canone di cui all'art. 12 preleggi, comma 1, che impone all'interprete di attribuire alla legge il senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la loro connessione. La lettera della norma costituisce, infatti, un limite invalicabile dell'interpretazione, che è uno strumento percettivo e recettivo e non anche correttivo o sostitutivo della voluntas legis»[[5]]. A ciò la Corte aggiunge che «La tesi della nullità generalizzata non è neppure in linea col criterio di interpretazione teleologica, di cui all'ultima parte dell'art. 12, comma 1, citato, che non consente all'interprete di modificare il significato tecnico giuridico proprio delle espressioni che la compongono, ove ritenga che l'effetto che ne deriva sia inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma è intesa e ciò in quanto la finalità di una norma va, proprio al contrario, individuata in esito all'esegesi del testo oggetto di esame e non già, o al più in via complementare, in funzione dalle finalità ispiratrici del più ampio complesso normativo in cui quel testo è inserito»[[6]]. Sulla base di tale condivisibile impostazione metodologica la Corte, peraltro, opportunamente rileva che il legislatore ben avrebbe potuto sancire l’incommerciabilità degli immobili abusivi «il che non è stato fatto»[[7]], e, pertanto, conclude affermando che «la nullità comminata dalle disposizioni in esame non può esser sussunta nell'orbita della nullità c.d. virtuale di cui all'art. 1418 c.c., comma 1, che presupporrebbe l'esistenza di una norma imperativa ed il generale divieto di stipulazione di atti aventi ad oggetto immobili abusivi al fine di renderli giuridicamente non utilizzabili, e tale divieto, proprio come registra l'ordinanza di rimessione, non trova riscontro in seno allo jus positum, che, piuttosto, enuncia specifiche ipotesi di nullità. Nè la conclusione può fondarsi nella previsione della conferma degli atti nulli, mediante la redazione di un atto aggiuntivo, contemplata per l'ipotesi in cui la mancata indicazione dei prescritti elementi non sia dipesa dalla insussistenza del permesso di costruire al tempo in cui gli atti medesimi sono stati stipulati (di cui si è detto ai p.p. 3.2. e 3.3.), in quanto tale conferma e l'atto aggiuntivo che la contiene presuppongono, bensì, che il titolo e la documentazione sussistano, ma, di per sè, non implicano che l'edificio oggetto del negozio ne rispecchi fedelmente il contenuto»[[8]]. Su queste premesse conclude affermando «che si è in presenza di una nullità che va ricondotta nell'ambito dell'art. 1418 c.c., comma 3, secondo quanto ritenuto dalla teoria c.d. formale, con la precisazione essa ne costituisce una specifica declinazione, e va definita “testuale” (secondo una qualificazione pure datane in qualche decisione), essendo volta a colpire gli atti in essa menzionati».

La decisione, salvo quanto si dirà innanzi, è, in ordine all’aspetto qualificatorio della nullità di che trattasi, ed all’iter argomentativo in virtù del quale perviene a tale qualificazione, appieno condivisibile; tuttavia sembra opportuno aggiungere, ad ulteriore supporto del decisivo passaggio che esclude la nullità virtuale per l’insussistenza di una norma imperativa ed un generale divieto di stipulazione di atti aventi ad oggetto immobili abusivi al fine di renderli giuridicamente non commerciabili, che, come è noto, il disposto del comma 1, dell’art. 1418 c.c., enuncia un principio generale rivolto a disciplinare quei casi in cui alla violazione di precetti imperativi, contenuti in una norma proibitiva[[9]] o forse precettiva[[10]], specie nella misura in cui questa sia convertibile in un divieto, non si accompagna la previsione espressa della nullità. Ma, come già in altra sede ho sottolineato[[11]], nel caso di specie l’ipotizzata nullità virtuale dovrebbe trarre fondamento in una disposizione  proibitiva, di natura imperativa, non esplicita, giacché, come opportunamente rilevano prima il Collegio remittente, poi le Sezioni Unite, si registra l’assenza di «un solido riscontro nella lettera della legge»; manca cioè qualsivoglia appiglio testuale da cui poter desumere la sussistenza non solo della nullità in questione ma anche di un divieto della stipulazione di atti traslativi di beni immobili abusivi. 

In altri termini, ci si troverebbe di fronte ad una supposta nullità virtuale, desumibile da una norma proibitiva-imperativa anch’essa virtuale, perché conseguente ad un divieto non esplicito o meglio criptico quale sarebbe quello asseritamente desumibile dagli artt. 17 e 40, l. n. 47 del 1985. 

È allora di tutta evidenza l’erroneità di una tale opzione interpretativa giacché essa si pone in palese distonia con il dettato dell’art. 1418, comma 1, c.c., nonché con i principi generali del nostro sistema giuridico in tema di autonomia privata.

Un’ulteriore puntualizzazione va fatta: la Corte riconduce la nullità in questione nell’alveo dell’art. 1418, comma 3, c.c., qualificandola nullità testuale; ebbene la correttezza della qualificazione, che accomuna tutte le ipotesi di nullità tipiche contenute nei commi II e III dell’art. 1418 c.c., non consente l’enucleazione di un terzium genus, come invece da qualcuno è stato ipotizzato[[12]], tra nullità virtuale/sostanziale e nullità formale, in quanto quest’ultima necessariamente appartiene al novero delle nullità testuali rappresentandone una possibile declinazione.


Le puntualizzazioni in chiosa al principio di diritto circa la natura della nullità in questione ed il successivo cortocircuito logico/argomentativo della Corte: si riaffaccia una prospettiva cd. sostanzialistica

Venendo, quindi, agli aspetti di dissonanza rispetto all’arresto delle Sezioni Unite, essi si rinvengono nella puntualizzazione contenuta in limine al principio di diritto sopra riportato circa la natura della nullità in questione. Ed infatti, la Corte precisa che non basta, ai fini della validità dell’atto, che esso contenga la dichiarazione prescritta dalla normazione in esame, ma è necessario che il titolo edilizio indicato nel rogito «deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell'immobile», con l’ulteriore precisazione, che sembrerebbe voler circoscrivere la perentorietà della puntualizzazione innanzi riportata, che se gli estremi del titolo edilizio sono reali e riferibili all’immobile, «il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato».

A queste conclusioni, che finiscono per aggiungere al dato formale della dichiarazione, richiesta ai fini della validità dalle norme, un dato sostanziale e dirimente circa la rispondenza al vero dell’oggetto della stessa in relazione all’immobile, che le predette norme non menzionano, la Corte giunge sulla base dei seguenti passaggi argomentativi: si afferma che in base all’ «analisi congiunta del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 46, commi 1 e 4, (ma il discorso vale in riferimento alle analoghe disposizioni della l. n. 47 del 1985, art. 17, commi 1 e 4, nonché mutatis mutandis della medesima l. n. 47 del 1985, art. 40, commi 2, e 3), emerge che, a fronte del comma 1, che sanziona con la nullità specifici atti carenti della dovuta dichiarazione, il comma 4, ne prevede, come si è detto, la possibilità di "conferma", id est di convalida, nella sola ipotesi in cui la mancata indicazione dei prescritti elementi non sia dipesa dalla insussistenza del titolo abilitativo. Il dettato normativo indica, quindi, che il titolo deve realmente esistere e, quale corollario a valle, che l'informazione che lo riguarda, oggetto della dichiarazione, deve esser veritiera: ipotizzare, infatti, la validità del contratto in presenza di una dichiarazione dell'alienante che fosse mendace, e cioè attestasse la presenza di un titolo abilitativo invece inesistente, svuoterebbe di significato i termini in cui è ammessa la previsione di conferma e finirebbe col tenere in non cale la finalità di limite delle transazioni aventi ad oggetto gli immobili abusivi che la norma, pur senza ritenerli tout court incommerciabili, senz'altro persegue, mediante la comminatoria di nullità di alcuni atti che li riguardano. Se ciò è vero, ne consegue che la dichiarazione mendace va assimilata alla mancanza di dichiarazione, e che l'indicazione degli estremi dei titoli abilitativi in seno agli atti dispositivi previsti dalla norma non ne costituisce un requisito meramente formale, …, essa rileva piuttosto, …, quale veicolo per la comunicazione di notizie e per la conoscenza di documenti, o in altri termini, essa ha valenza essenzialmente informativa nei confronti della parte acquirente, e, poiché la presenza o la mancanza del titolo abilitativo non possono essere affermate in astratto, ma devono esserlo in relazione al bene che costituisce l'immobile contemplato nell'atto (cfr. Cass. n. 20258 del 2009 cit.), la dichiarazione oltre che vera, deve esser riferibile, proprio, a detto immobile».

Le argomentazioni riportate, invero, non convincono e, peraltro, da esse nascono o, meglio, si ripropongono taluni dei problemi interpretativi per la cui risoluzione l’ordinanza di rimessione ha invocato l’intervento delle Sezioni unite.

Anzitutto merita confutazione l’argomento che desume la necessità di una dichiarazione veritiera dal dettato del 4 comma dell’art. 46 che consente la conferma, con valenza recuperatoria dell’atto[[13]] (non di convalida, come, invece, afferma la Corte), «Se la mancata indicazione in atto degli estremi non sia dipesa dalla insussistenza del permesso di costruire al tempo in cui gli atti medesimi sono stati stipulati». 

Giova ricordare che tale ragionamento, invero, era stato proposto proprio da taluni sostenitori della tesi c.d. sostanzialista, che le Sezioni Unite ritengono di non dover seguire per quanto esposto innanzi. Esso si basa, essenzialmente, su una argomentazione a contrario: ed infatti, si desume che la norma esprima un principio generale della nullità (di carattere sostanziale) degli atti di trasferimento di immobili non in regola con la normativa urbanistica, non già da una enunciazione espressa in tal senso, bensì argomentando a contrario dalla constatazione che è consentito il recupero dell’atto nullo, attraverso una successiva dichiarazione di conferma, solo nel caso in cui l’immobile sia dotato di un titolo edilizio, seppur carente sotto il profilo della menzione nel documento negoziale di tale titolo. 

Come a dire: poiché solo l’atto di trasferimento dell’immobile per il quale esista il titolo edilizio è confermabile, laddove, invece, esso non esiste l’atto traslativo non è confermabile e, quindi, è vietato.

Non v’è chi non veda le fortissime somiglianze con l’argomento posto, o meglio, riproposto, dalle Sezioni Unite a giustificazione della insufficienza, ai fini della validità dell’atto traslativo, della mera dichiarazione relativa al titolo edilizio qualora essa non esista realmente e non sia «riferibile proprio a quell’immobile». 

L’unica differenza realmente percepibile tra le due impostazioni risiede nella misura della regolarità urbanistica richiesta, giacché le Sezioni Unite in proposito specificano che se gli estremi del titolo edilizio sono reali e riferibili all’immobile, «il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato».

Si tratta dunque di una scelta di minor rigore, se si vuole una soluzione salomonica, che pur avendo il pregio di non subordinare la validità dell’atto alla corrispondenza dello stato di fatto rispetto al titolo edilizio (come voleva, invece, la teoria cd. sostanzialista), il che certamente, risolve un rilevante problema pratico/operativo, comunque, sotto il profilo eminentemente interpretativo, pretende di fare dire alla norma ciò che, in realtà, non dice, ossia che «la dichiarazione mendace va assimilata alla mancanza di dichiarazione». 

La norma, infatti, sancisce solo che è la “mancanza di dichiarazione” che può essere corretta, in via suppletiva o rimediale, dalla successiva conferma, anche unilaterale. 

Della inesistenza della concessione, a fronte di una dichiarazione falsa, invece nulla è detto, se non implicitamente che l’atto non è suscettibile di conferma ed è, perciò, insanabile. 

In sostanza l’esistenza della concessione è presupposto esplicitamente elevato dalla norma a condizione necessaria solo per poter confermare l’atto, ossia perché l’atto sia recuperato al sistema, nel limitato caso in cui la dichiarazione non sia stata resa, ma non condiziona la validità del negozio qualora gli estremi della concessione, sia pur falsamente, siano stati però dichiarati, rispettando, così, la prescrizione formale. 

Come opportunamente evidenziato in una risalente sentenza della Cassazione, dalla lettera della legge emerge un quadro ove «l’irregolarità del bene non rileva di per sé, ma solo in quanto preclude la conferma dell’atto. Simmetricamente, la regolarità del bene sotto il profilo urbanistico non rileva in sé, ma solo in quanto consente la conferma dell’atto»[[14]].

Sono fatte salve, ovviamente, le conseguenze penali che da tale falsa dichiarazione conseguono nonché, sotto il profilo civilistico, il diritto per l’acquirente di tutelare variamente la propria posizione. Egli, infatti, potrà scegliere di invocare ed ottenere la risoluzione del vincolo contrattuale ai sensi dell’art. 1489 c.c., oltre al risarcimento del danno. 

In sostanza la tesi delle Sezioni Unite, nel prospettare che le norme citate, pur esprimendo una nullità formale e, dunque testuale, attesterebbero la sussistenza di una necessaria corrispondenza del requisito sostanziale (sia pure limitato alla sola esistenza ed alla riferibilità del titolo edilizio all’immobile ma non alla conformità dello stato di fatto rispetto all’assentito) al dato dichiarato, sembra dia per dimostrato proprio ciò che si deve dimostrare, ossia che l’esclusione dell’operatività della nullità in questione sia stata subordinata dal legislatore non solo al rispetto del mero requisito formale – la dichiarazione in atto – ma anche alla sussistenza della corrispondenza al vero di quanto dichiarato, che ne diventerebbe la necessaria premessa. 

Quanto innanzi, poiché non è affatto enunciato nelle disposizioni in questione, come pur riconosce esplicitamente la Corte, dovrebbe ritenersi che emerga implicitamente dalla lettera della legge, il che, invero, non è per nulla ovvio e scontato, specie in materia di nullità e di interpretazione di norme imperative, ed è comunque proprio ciò che si deve dimostrare, in quanto  equivarrebbe ad effettuare, come si è condivisibilmente detto, una   interpretazione sovra letterale[[15]] del dettato normativo[[16]], dando per scontato che ad esso vada aggiunta una frase del tipo: «nel presupposto della  veridicità della dichiarazione  stessa».

Aggiungasi che la disciplina in oggetto si avvale dello strumento della nullità civilistica quale sanzione civile indiretta; rimedio, dunque, che ha una finalità suppletiva dell’inidoneità dell’ordinamento a garantire, attraverso gli strumenti più consoni propri del diritto amministrativo e del diritto penale, l’effettività della lotta al dilagare dell’abusivismo edilizio. Se questo, come sembra, è il contesto in cui collocare il rimedio civilistico di che trattasi, ne consegue che l’interprete è tenuto ad osservare un particolare rigore nella applicazione della norma, rispettandone il dato letterale che, già di per sé, esprime una risposta eccezionale e asistematica ad una esigenza che dovrebbe trovare in altri settori dell’ordinamento i propri rimedi.    


Le puntualizzazioni della Corte e le ricadute sull’equo contemperamento degli interessi in gioco ed in particolare sull’acquirente dell’immobile 

Le Sezioni Unite, quale ulteriore argomento a sostegno del legame necessario tra la dichiarazione resa in atto e l’effettiva esistenza e riferibilità all’immobile del titolo menzionato, affermano pure che «l'indicazione degli estremi dei titoli abilitativi in seno agli atti dispositivi previsti dalla norma non ne costituisce un requisito meramente formale, …, essa rileva piuttosto, …, quale veicolo per la comunicazione di notizie e per la conoscenza di documenti, o in altri termini, essa ha valenza essenzialmente informativa nei confronti della parte acquirente, e, poiché la presenza o la mancanza del titolo abilitativo non possono essere affermate in astratto, ma devono esserlo in relazione al bene che costituisce l'immobile contemplato nell'atto, la dichiarazione oltre che vera, deve esser riferibile, proprio, a detto immobile»[[17]]. 

Questa argomentazione, a mio parere, pur condivisibile quanto alle finalità cui risponde la dichiarazione richiesta dalla norma non lo è se la si vuole usare a sostegno della tesi della nullità dell’atto contenente una dichiarazione mendace. Infatti, nel nostro ordinamento laddove la forma sia imposta dal legislatore con una funzione informativa, e, dunque, non permea la struttura del negozio, il rimedio, in mancanza di una previsione espressa di nullità per l’inosservanza, è normalmente il risarcimento del danno. Da ciò consegue che alcun argomento può fondatamente trarsi dalla valenza informativa della dichiarazione in questione a sostegno della tesi della nullità dell’atto rispettoso del requisito formale, ma contenente una dichiarazione mendace, giacché la norma nulla dice al riguardo e, nel contempo, secondo i principi generali, ad una dichiarazione mendace consegue la lesione dell’affidamento del destinatario della dichiarazione stessa e, dunque, l’insorgere di una pretesa risarcitoria nei confronti dell’autore del mendacio, non già la nullità del negozio.  

Detta nullità, peraltro, ben lungi dal tutelare l’acquirente, rischia di recargli un grave pregiudizio. 

Ed infatti, proprio la previsione legislativa, ai fini della validità dell’atto traslativo, della necessità di una dichiarazione o allegazione circa la regolarità edilizia del bene, enfatizza l’esigenza di tutela della buona fede dell’acquirente che, proprio in ragione della esistenza della suddetta dichiarazione o allegazione, è portato a confidare, in assoluta buona fede, sulla regolarità edilizia del cespite acquistato. 

Considerazione questa che non può non pesare sul piatto della bilancia della più opportuna valutazione degli interessi in gioco. 

L’acquirente, infatti, una volta che sia stata dichiarata la nullità del contratto, in base ad esempio all’azione esercitata da un terzo che vi abbia interesse o conseguente ad un rilievo officioso o, perfino, alla spregiudicata iniziativa processuale della stessa parte venditrice, non solo resta esposto, come evidenzia la Corte remittente, alla perdita dell’immobile, ma rischia, altresì, di vedersi eccepire la prescrizione del diritto ad ottenere la ripetizione dell’importo versato per l’acquisto, qualora la nullità sia dichiarata trascorsi dieci anni dalla stipulazione e, quindi, detta azione di ripetizione si sia oramai prescritta. Né può fondatamente sostenersi che il decorso della prescrizione incomincerebbe dalla declaratoria di nullità per la ovvia considerazione che la sentenza di nullità ha efficacia dichiarativa di un vizio dell’atto sussistente fin dalla sua stipulazione, quindi è da tale data, e non da quella successiva in cui venga accertata la nullità, che inesorabilmente incomincia a decorrere la prescrizione. 

Non va trascurata, peraltro, la non banale circostanza della incertezza, fattuale se non giuridica, in cui si verrebbe a trovare l’acquirente in ordine al materiale recupero dal venditore delle somme a questi versate, in assoluta buona fede, per l’acquisto del cespite, anche nell’ipotesi in cui non sia ancora maturata la prescrizione del diritto alla ripetizione. Con l’aggravante, ai fini della dovuta considerazione dell’equo contemperamento degli interessi in gioco, che il venditore, per di più, all’esito della declaratoria di nullità avrebbe anche diritto a riottenere l’immobile, senza nessun aggravio economico, almeno laddove sia maturata la prescrizione del diritto di ripetizione del prezzo.

Né vale obiettare a quanto innanzi prospettato che le incerte dinamiche restitutorie possono conseguire non solo dalla declaratoria di nullità ma anche dall’azione di risoluzione del contratto relativo all’immobile rivelatosi poi abusivo, invocata dall’acquirente ai sensi dell’art. 1489 c.c.: infatti, in tale ipotesi poiché l’esercizio dell’azione dipende da una scelta di cui solo l’acquirente è titolare ed arbitro va da sé che egli stesso potrà valutare i rischi ad essa sottesi e, dunque, decidere liberamente se valga la pena correrli. 

D’altra parte non vale neppure obiettare che la buona fede «potrebbe essere assente ben potendo profilarsi un’intesa tra alienante ed acquirente»[[18]]. 

Al riguardo merita anzitutto considerare che l’acquirente difficilmente si presterà scientemente ad un’intesa di tal genere assumendosi il rischio, specie nella ricorrenza di rilevanti abusi, di perdere il bene all’esito di una successiva ordinanza di demolizione. 

A tale preliminare considerazione va poi aggiunto che contemplando le norme in questione la comminatoria di una nullità assoluta e non di una nullità a legittimazione circoscritta al solo acquirente, è piuttosto improbabile che l’acquirente addivenga con consapevolezza alla stipulazione di un contratto, rispetto al quale si assumerà anche il rischio di una successiva declaratoria di nullità che potrà essere fatta valere per sempre (fatti salvi gli effetti dell’usucapione) dallo stesso venditore nonché da chiunque vi abbia interesse. 

Un contratto da cui consegua, in definitiva, un acquisto del tutto precario del bene esponendo, così, l’acquirente ai rischi di perderlo unitamente agli esborsi effettuati. 

Neppure vale obiettare che, in ogni caso, si tratterebbe di un affidamento non incolpevole dell’acquirente in quanto questi, proprio in conseguenza della dichiarazione o allegazione effettuata dal venditore, e delle necessarie informazioni ricevute dal notaio in ordine alle conseguenze circa la nullità del contratto conseguente ad un titolo edilizio eventualmente inidoneo[[19]], ben dovrebbe diligentemente effettuare gli opportuni riscontri del caso in ordine alla corrispondenza della situazione di fatto a quanto dichiarato e/o allegato. Tale considerazione, infatti, non apporta alcun argomento decisivo al fine di fondare la rilevanza di per sé del difetto di regolarità sostanziale del bene sotto il profilo urbanistico, giocando un ruolo solo sotto il profilo risarcitorio, ex art. 1227 c.c., invocabile dall’acquirente che – accortosi successivamente all’acquisto della difformità urbanistica del cespite – agisca per la risoluzione del contratto per inadempimento del venditore. 

In definitiva, in uno scenario emergente da casi come quelli qui delineati, l’accedere all’ipotesi di una nullità dell’atto di trasferimento dell’immobile in conseguenza di una dichiarazione mendace, comporta sacrificare integralmente ad una supposta esigenza prioritaria del contrasto all’abusivismo, peraltro, si ribadisce, non chiaramente ricavabile dalla lettera della legge, le esigenze di tutela dell’acquirente, specie se in buona fede, che peraltro non ha commesso l’abuso edilizio, rischiando, il che è paradossale, perfino di avvantaggiare il venditore dell’immobile che, probabilmente, è l’autore dell’abuso edilizio nonché, senz’altro, è autore della mendace dichiarazione circa l’esistenza dello strumento concessorio. 

Considerazione questa certamente avvalorata dal fatto che la disciplina in oggetto testualmente trova applicazione per gli atti traslativi di beni immobili e non per gli atti ad efficacia meramente obbligatoria, come il contratto preliminare; ciò comporta che la dichiarazione inerente al titolo edilizio ben può mancare nel preliminare di vendita senza che possa dubitarsi della validità dello stesso. Sempreché, ovviamente, un preliminare ci sia. Di conseguenza non può escludersi che, in pratica, la parte acquirente acquisisca contezza del titolo edilizio indicato nell’atto solo al momento del rogito e non prima. Di qui l’obiettiva difficoltà per l’acquirente di fare le verifiche del caso in ordine all’inerenza del titolo al cespite acquistato.


Segue: le incertezze operative ed il riproporsi della questione relativa alla tipologia d’abuso in ordine alla validità dell’atto traslativo 

Se le considerazioni fin qui svolte convincono, si delinea un quadro non proprio lusinghiero in ordine alla coerenza argomentativa tra il corretto enunciato generale secondo cui «le norme che, ponendo limiti all'autonomia privata e divieti alla libera circolazione dei beni, sanciscono la nullità degli atti debbono ritenersi di stretta interpretazione, sicché esse non possono essere applicate, estensivamente o per analogia, ad ipotesi diverse da quelle espressamente previste» e le puntualizzazioni successivamente contenute nell’arresto delle sezioni unite relativamente alla esistenza e, soprattutto, riferibilità all’immobile del titolo edilizio, oggetto della dichiarazione prescritta dalle norme in esame, nonché in ordine alle conseguenze che da tale puntualizzazioni derivano. 

Tuttavia, il quadro acquista linee ancora più fosche se si riflette sulle incertezze operative che le predette puntualizzazioni comportano.

Alla disamina va premessa una considerazione generale: l’operatore del diritto, nell’attività ermeneutica che è chiamato a svolgere in relazione all’applicazione della norma al caso concreto, deve partire dal precetto normativo. Di esso è chiamato a delinearne la portata, il grado di cogenza, l’ambito di applicazione, le conseguenze per l’inosservanza, l’eventuale derogabilità. Ebbene, nella fattispecie in esame il precetto normativo non menziona altro se non la necessità della «dichiarazione relativa al titolo edilizio» ai fini della validità dell’atto. Le Sezioni Unite aggiungono, nel principio di diritto affermato, che il «titolo …, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell'immobile».

È evidente che tale puntualizzazione estende, per l’operatore, l’attività ermeneutica dal precetto normativo – che prescrive la mera indicazione del titolo edilizio – alla puntualizzazione dello stesso – la riferibilità del titolo indicato all’immobile – secondo l’indicazione nomofilattica della Cassazione. Ciò sposta l’oggetto dell’interpretazione dal dato normativo alla portata del principio di diritto affermato dalle sezioni unite.

Tutto ciò, invero, è foriero, come si accennava, di non poche incertezze alle quali le Sezioni Unite non danno risposte.  

Ed infatti, la Corte non chiarisce cosa si intende per titolo «riferibile a quell’immobile». 

Sorge immediata la domanda se nel valutare la cd. riferibilità bisognerà fare riferimento al fabbricato, tout court, o specificamente al cespite che ne è parte ed è oggetto della compravendita. 

Va da sé che potrebbe prospettarsi l’ipotesi che per il fabbricato sia stato sì rilasciato un titolo edilizio ma poi lo stesso sia stato realizzato in difformità, ed il bene compravenduto sia proprio la porzione di fabbricato difforme. 

È il caso, ad esempio, di un fabbricato multipiano il cui titolo edilizio contempli che il primo e secondo piano siano civili abitazioni, mentre il piano terra sia un porticato. Quest’ultimo, invece, sia stato realizzato in difformità e, quindi, anch’esso sia stato chiuso ed adibito a civile abitazione ed il rogito abbia ad oggetto proprio la vendita del piano terra. 

In casi come questi, ma se ne potrebbero ipotizzare tanti altri, c’è da chiedersi se il titolo relativo all’intero fabbricato può considerarsi esistente e riferibile all’immobile oggetto del rogito. 

Riterrei, peraltro, che è evidente che la risposta non potrà che essere la stessa sia nel caso prospettato che in quello diverso in cui oggetto della vendita sia, per rimanere all’esempio, la vendita dell’intera palazzina ricomprendente anche il primo piano realizzato in totale difformità. 

Ebbene, probabilmente se si dà maggior peso alla ulteriore specificazione contenuta nel principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite – secondo cui «in presenza nell'atto della dichiarazione dell'alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all'immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato» – la risposta potrà essere positiva e la vendita dovrà considerarsi valida; tuttavia è innegabile che residui un comprensibile dubbio per l’operatore del diritto[[20]]. Dal che ne consegue una rilevante incertezza operativa, considerate le gravi conseguenze cui andrebbe incontro il notaio sia ai sensi dell’art. 47 del d.P.R. n. 380 del 2001 che sotto il profilo della responsabilità civile professionale, nell’ipotesi in cui l’atto sia ritenuto affetto da nullità in quanto il titolo edilizio, seppur esistente, non sia ritenuto riferibile all’immobile compravenduto. 

Va da sé che qualora si propenda per un’interpretazione restrittiva della puntualizzazione fatta dalle Sezioni Unite, il notaio, laddove possa ravvisare dall’esame del titolo edilizio una difformità tra l’assentito ed il realizzato, oggetto della vendita, dovrà rifiutarsi di stipulare il contratto.  

Tutto ciò finisce, così, per riproporre la questione annosa del discrimen, ai fini della validità dell’atto, tra abuso primario (relativo a beni immobili edificati o resi abitabili in assenza di concessione e alienati in modo autonomo rispetto all’immobile principale, regolarmente assentito, di cui in ipotesi facevano parte) e abuso secondario (ricorrente nell’ipotesi in cui solo una parte di unità immobiliare già esistente abbia subito modifica o mutamento di destinazione d’uso). 

Differenze che si collocano su un confine incerto e scivoloso, spesso un vero e proprio ginepraio[[21]], che, come giustamente sottolineava il Collegio remittente, «se sul piano teorico possono considerarsi sufficientemente nitide, nella loro applicazione in una fattispecie concreta possono implicare non pochi margini di opinabilità». 

Un quadro dalle tinte fosche aggravato, peraltro, dal disposto del comma 5-bis, dell’art. 46, del d.P.R. n. 380 del 2001[[22]], inspiegabilmente non considerato dalla Cassazione, non solo per il Giudice, investito della controversia relativa alla validità del titolo con il quale si è trasferito l’immobile asseritamente abusivo, ma, anche, per il notaio rogante e, per quanto si è detto, per la parte acquirente che dalla nullità dell’atto riceve i maggiori pregiudizi[[23]].


La riproponibilità dell’iter argomentativo delle Sezioni unite con riferimento alla nullità in tema di conformità catastale: una questione analoga 

Una considerazione, infine, va fatta e riguarda l’ulteriore questione, per molti aspetti analoga, della nullità prevista dall’art. 29, comma 1-bis, della l. n. 52 del 1985, come integrato dall’art. 8, comma 1-bis, del d.l. 24 aprile 2017, n. 50, inserito in sede di conversione dalla legge 21 giugno 2017, n. 96, in vigore dal 24 giugno 2017. 

Come è noto, nell’art. 29 della legge n. 52 del 1985, è stato inserito, dopo il comma 1-bis (che prevede «Gli atti pubblici e le scritture private autenticate tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento di comunione di diritti reali su fabbricati già esistenti, ad esclusione dei diritti reali di garanzia, devono contenere, per le unità immobiliari urbane, a pena di nullità, oltre all'identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie, sulla base delle disposizioni vigenti in materia catastale … Prima della stipula dei predetti atti il notaio individua gli intestatari catastali e verifica la loro conformità con le risultanze dei Registri immobiliari»), il nuovo comma 1-ter. Esso prescrive che «Se la mancanza del riferimento alle planimetrie depositate in catasto o della dichiarazione, resa dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie, ovvero dell’attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato non siano dipese dall’inesistenza delle planimetrie o dalla loro difformità dallo stato di fatto, l’atto può essere confermato anche da una sola delle parti mediante atto successivo, redatto nella stessa forma del precedente, che contenga gli elementi omessi ».

Evidenti sono le somiglianze con la previsione contenuta nell’art. 46 T.U. in materia edilizia di cui al d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e negli artt. 17, e 40, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47. 

In entrambe le disposizioni, infatti, la nullità consegue all’assenza dell’osservanza di un onere formale ma detta nullità è sanabile laddove il titolo (ex art. 46, comma 4, T.U. in materia edilizia) e le planimetrie esistano (ex art. 29, comma 1-ter, cit.). 

Anche per l’ipotesi della nullità derivante dalla cd. assenza di dichiarazione di conformità catastale[[24]] si pone, dunque, il problema se il contratto sia nullo nel caso in cui pur essendo presenti nell’atto le dichiarazioni e menzioni richieste, e dunque sia stata appieno rispettata la prescrizione formale, le stesse siano mendaci od inesatte. 

Le Sezioni Unite non affrontano il problema, tuttavia, alla luce dell’arresto in commento, sembra difficile non ritenere insufficiente il mero rispetto dell’onere formale qualora esso non corrisponda alla reale situazione di fatto, e ciò benché tale corrispondenza non sia affatto richiesta dalla norma e la si venga a desumere (come fanno le sezioni unite a proposito dell’art. 46 del T.U. in materia edilizia) solo a contrario dalla possibilità della sanatoria dell’atto a condizione che le planimetrie esistano e siano conformi allo stato di fatto. 

È del tutto evidente che, ancora una volta, un’interpretazione siffatta certamente non giova alla certa e sicura circolazione dei diritti reali immobiliari e, peraltro, per la nullità in questione, aggrava ulteriormente l’operato del notaio considerato che il comma 1-ter citato espressamente evoca per la validità della conferma la «conformità allo stato di fatto». Dunque, sembra difficile che possa trovare applicazione a tale ipotesi di nullità, la puntualizzazione, pur contenuta nella decisione delle Sezioni Unite, secondo cui «il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato».  


Conclusioni 

In definitiva, alla luce di tutto quanto innanzi esposto ritengo che la sentenza delle Sezioni Unite non abbia sostanzialmente sufficientemente fugato il quadro d’incertezza ben delineato nell’ordinanza di remissione. Le puntualizzazioni della Corte in ordine alla “esistenza” e “riferibilità” del titolo all’immobile, per la estrema genericità che le connota e per le conseguenti incertezze che ne derivano in ordine alla tipologia di abuso idoneo a mettere in discussione la validità dell’atto traslativo, sono destinate ad alimentare dubbi interpretativi che la stessa ordinanza di rimessione intendeva, una volta per tutte, superare. Tutto ciò certamente non tranquillizza gli operatori del diritto, e la pur apprezzabile interpretazione fornita dalla Corte in ordine alla natura della nullità in questione rappresenta un risultato monco, solo apparentemente risolutivo, ma che, in realtà, non va al di là di un esercizio ermeneutico che, a mio parere, si traduce in un’occasione mancata. D’altra parte non la prima volta che le Sezioni unite lascino, all’esito, delle pronunce emesse, una situazione di diritto incerta e confusa[[25]], che, nel caso di specie, alimenta legittime preoccupazioni in un campo – quello della circolazione dei diritti reali su beni immobili – ove il confine giuridico della commerciabilità deve essere certo, rispondendo esso ad un indubbio e preminente interesse di carattere generale alla certezza del traffico giuridico.

[1] S. MONTICELLI, Sulla natura “equivoca” della nullità degli atti traslativi di immobili abusivi, in Jus civ., 2019, 1, 27 e ss.

[2] Volendo, molto per grandi linee, riassumere i termini del dibattito, può dirsi che si fronteggiano due diverse chiavi di lettura delle disposizioni di cui agli artt. 17 e 40, comma 2, della l. n. 47 del 1985: precisamente una teoria c.d. della nullità formale e/o documentale, seguita dalla giurisprudenza più risalente della Cassazione e da una parte della dottrina, secondo la quale dato euristico preminente, nell’interpretazione della norma, va attribuito al dato letterale e, quindi, al requisito formale che, se rispettato, esclude l’operatività della nullità del contratto. E così, è ritenuto sufficiente ad escludere l’effetto dirimente la menzione in atto della avvenuta costruzione in data anteriore al 1 settembre 1967 o degli estremi del provvedimento autorizzativo; ciò indipendentemente dalla circostanza che la costruzione sia avvenuta effettivamente in data anteriore al 1 settembre 1967 o in base a regolare provvedimento autorizzativo. In altri termini, secondo questa impostazione, si è ritenuto che la presenza in atto della citata menzione sia di per sé sufficiente ad assicurarne la validità, anche se, per avventura, tale menzione non fosse veritiera, non corrispondendo ad essa una conforme realtà fattuale o giuridica. 

In sostanza l’atto è e rimane valido per il solo fatto che sia osservato il requisito formale, ossia vi siano menzionati un provvedimento autorizzativo o la avvenuta costruzione anteriormente al 1 settembre 1967 anche se si tratta di dichiarazione falsa ed anche se il provvedimento citato non esiste o l’edificio è stato costruito dopo il 1967 in assenza di provvedimento autorizzativo o in difformità di esso. 

A tale impostazione ha fatto seguito un diverso orientamento, che diremo sostanzialista, maturato nella giurisprudenza della Cassazione nel 2013, con le sentenze gemelle della II sezione n. 23591 e 28194, decise nella medesima udienza del 18 giugno 2013. Secondo la Corte l’articolo 40 della l. n. 47 del 1985 esprimerebbe, nel suo dettato certamente non limpido, il «principio generale della nullità (di carattere sostanziale) degli atti di trasferimento di immobili non in regola con la normativa urbanistica, cui si aggiunge una nullità (di carattere formale) per gli atti di trasferimento di immobili in regola con la normativa urbanistica o per i quali è in corso la regolarizzazione, ove tali circostanze non risultino dagli atti stessi». Tale prospettiva interpretativa trarrebbe fondamento nella clausola di salvaguardia o, se si preferisce, di “sanatoria” della nullità, contenuta nello stesso articolo 40, comma 3, l. n. 47 del 1985. La norma, infatti, prevede la possibilità che l’atto nullo venga confermato mediante un atto successivo contenente le menzioni omesse, ma solo nell’ipotesi in cui la mancanza delle dichiarazioni non sia dipesa dall’insussistenza della licenza o della concessione o dell’inesistenza della domanda di concessione in sanatoria al tempo della stipula del contratto. 

Per maggiori approfondimenti in ordine alle varie posizioni assunte da dottrina e giurisprudenza relativamente alla nullità in questione sia dato rinviare a S. MONTICELLI, Sulla natura “equivoca” della nullità degli atti traslativi di immobili abusivi, cit., 33 e ss.

[3] Per completezza va detto che, nelle more della redazione di questo scritto, le Sezioni unite, con sentenza del 7 ottobre 2019, n. 25021, sono tornate sul tema in questione sia pure con riferimento agli atti di scioglimento della comunione ordinaria ma, anche, ereditaria. Questa la massima: «Quando sia proposta domanda di scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria che sia), il giudice non può disporre la divisione che abbia ad oggetto un fabbricato abusivo o parti di esso, in assenza della dichiarazione circa gli estremi della concessione edilizia e degli atti ad essa equipollenti, come richiesti dall'art. 46 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e dall'art. 40, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, costituendo la regolarità edilizia del fabbricato condizione dell'azione exart. 713 c.c., sotto il profilo della "possibilità giuridica", e non potendo la pronuncia del giudice realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello che è consentito alle parti nell'ambito della loro autonomia negoziale. La mancanza della documentazione attestante la regolarità edilizia dell'edificio e il mancato esame di essa da parte del giudice sono rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio».

[4] Capo 6.3.

[5] Capo 6.5.

[6] Capo 6.5.

[7] Capo 6.6.

[8] Capo 6.7.

[9] G.B. FERRI, Ordine pubblico, buon costume e la teoria del contratto, Milano, 1970, 160, evidenzia: «Essendo principio fondamentale dell’ordinamento quello della libera autonomia contrattuale, e ponendosi le norme imperative … come un limite funzionale, risulta evidente che esse non possono che consistere se non in un divieto: sono, cioè, necessariamente proibitive, non già precettive od ordinative».

[10] Sottolinea G. MASTROPASQUA, Art. 1418, comma 1. c.c.: La norma imperativa come norma inderogabile, in Jus civ., 2013, 12, 881, sulla scia di G. VILLA, Contratto e violazione di norme imperative, Milano, 1993, 85, che è possibile convertire una norma precettiva (un comando di fare) in un divieto (inteso genericamente quale obbligo di non fare).

[11] S. MONTICELLI, Sulla natura “equivoca” della nullità degli atti traslativi di immobili abusivi, cit., 33 e ss.

[12] Cfr., ad esempio, G. RIZZI, Considerazioni sulla nullità degli atti negoziali per violazione delle norme in materia urbanistica ed edilizia alla luce della sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione, in www.federnotizie.it, che espressamente sostiene che le sez. un. farebbero riferimento al «concetto di “nullità testuale” proprio per distinguerla sia dalla cd. “nullità formale” che dalla cd. “nullità sostanziale”». In termini, già in precedenza, ID., La nullità degli atti negoziali per violazione delle norme in materia urbanistica ed edilizia, in Federnotizie del 2 agosto 2018, https://www.federnotizie.it/la-nullita-degli-atti-negoziali-per-violazione-delle-norme-in-materia-urbanistica-ed-edilizia; ID., Circolazione degli immobili e normativa edilizia, in Notariato, 5, 2015, 483; analogamente C. NATOLI, Sulla natura giuridica della c.d. nullità urbanistica, in Nuova giur. civ. comm., 2018, 12, 1743 e ss.; ID., La natura “testuale” della nullità urbanistica, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 4, 717 e ss.

[13] Come ebbi ad osservare nel saggio La recuperabilita` del contratto nullo, in Notariato, 2009, 2, se riferito al contratto nullo il termine “recupero”, benché atecnico, generico e polisenso, senz’altro induce, sul piano descrittivo, l’idea del superamento di una condizione di negatività dell’atto di autonomia privata. In altre parole il termine recupero suggerisce un approdo del contratto nullo nel sistema giuridico e, così, per usare una metafora ispirata dal termine, il superamento delle acque infide e delle nebbie dell’irrilevanza giuridica. Sul tema cfr., anche, MANTOVANI, Le nullità e il contratto nullo, in ROPPO (diretto da), GENTILI (a cura di), Trattato del contratto, Milano, 2006, 139.


[14] Cass., 15 giugno 2000, n. 8147, in Contratti, 2001, 13, con nota di ANGIULI; in Riv. not., 2001, 142, con nota di CASU.

[15] Sul punto, con molta chiarezza, Cass., 5 luglio 2013, n. 16876, in Mass. Giust. civ., 2013, ove si legge: «pur ritenendo interessante la tesi della c.d. nullità sostanziale, i canoni normativi dell’interpretazione della legge non consentono di attribuire al testo normativo un significato che prescinda o superi le espressioni formali in cui si articola ... e non può non essere considerato il fatto che i casi di nullità previsti dalla norma indicata sono tassativi e non estensibili per analogia e la nullità prevista dall’art. 40 cit. è costituita unicamente dalla mancata indicazione degli estremi della licenza edilizia, ovvero dell’inizio della costruzione prima del 1967».

[16] P. ZANELLI, Il condono edilizio: vecchie e nuove nullità, in Contr. impr., 1995, 1236 e ss., che evidenzia: «Mi sembra che nel tentativo di metter ordine nella confusa materia ci si sia arrogati un compito che non ci compete, che non è solo quello di tecnico dell'edilizia ma anche quello di supplente del legislatore, col creare precetti anche laddove il legislatore invece non li ha posti, e, per di piú non sempre con un corretto uso dei principi generali e delle regole relative alle fonti del diritto. Insomma una tendenza, che a volte si riscontra negli interpreti, un poco autolesionistica».

[17] Capo 7.1.

[18] A. CATAUDELLA, Nullità formali e nullità sostanziali nella normativa sul condono edilizio, in Quadrimestre, 1986, 498.

[19] È noto che tra i doveri gravanti sul notaio vi sia quello di informazione e chiarimento alle parti in ordine alle conseguenze dell’atto che le stesse si accingono a stipulare. Con riferimento all’ipotesi in questione il notaio sarà, dunque, tenuto ad informare l’acquirente delle possibili conseguenze dell’eventuale scoperta di abusi edilizi successivamente al perfezionamento dell’acquisto.

[20] C. NATOLI, La natura “testuale” della nullità urbanistica, cit., 727, evidenzia che «una volta negata l’esistenza di un’ulteriore nullità virtuale, in ipotesi di difformità sostanziali dal titolo edilizio, il notaio resterebbe obbligato ad un controllo di carattere eminentemente formale, tale da imporgli un’analisi della situazione fattuale che sarà, tuttavia, esclusivamente ancorata alle evidenze che possano emergere dalla documentazione, sotto forma di dichiarazioni e/o allegati che la parte produrrà ai fini del rogito. Solo se dall’esame di tali elementi risulti riconoscibile la sussistenza di anomalie, precipuamente, il notaio dovrà procedere ad ulteriori indagini e, ove accertasse abusi, richiederne la sanatoria, prima della stipula». 

[21] Il punto è molto efficacemente evidenziato da F. MAGLIULO, Le menzioni urbanistiche negli atti traslativi: quale nullità?, in Notariato, 3, 2019, 273 e ss., che opportunamente sottolinea che la decisione delle sezioni unite, con le puntualizzazioni, di cui si è detto innanzi, non chiarisce in modo esaustivo quali sono le irregolarità urbanistiche che sono in grado di determinare la nullità dell’atto traslativo. Ad esempio con riferimento alla totale difformità del cespite realizzato rispetto al titolo edilizio si è evidenziato, G. RIZZI, Considerazioni sulla nullità degli atti negoziali per violazione delle norme in materia urbanistica ed edilizia alla luce della sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione, in www.federnotizie.it, «che la fattispecie della totale difformità va equiparata, a tutti gli effetti, a quella dell’assenza del titolo edilizio (tant’è che le due fattispecie sono assoggettate alle stesse sanzioni amministrative e penali) in quanto nessuna differenza vi sarebbe tra il caso della costruzione realizzata senza alcun provvedimento abilitativo e quello della costruzione eseguita in totale difformità e cioè senza alcun collegamento tra quanto realizzato e quanto in concreto assentito dal Comune». Sul punto, però, vedi anche F. MAGLIULO, Le menzioni urbanistiche negli atti traslativi: quale nullità?, cit, che evidenzia che «l’espressione “difformità sostanziale” pur non essendo puntualmente coincidente con quella inerente alla “totale difformità”, allude tuttavia ad una difformità significativa, che ben potrebbe comprendere anche quella totale».

[22] Come è noto dalla lettura della norma in combinato disposto con l’art. 23, comma 1, e con l’art. 10, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001, si ricava che devono essere indicati in atto, a pena di nullità, anche gli estremi del titolo abilitativo edilizio (permesso di costruire, o Scia), relativo a «interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni».

[23] Va considerato, infatti, che, come si è opportunamente evidenziato (A. MARRESE, Qualità del bene immobile e validità del contratto, in Pers. e mercato, 2014, 172) «un confine normativo all’area della incommerciabilità deve essere certo, se non si vuole rischiare di ledere irragionevolmente l’interesse (anche questo di carattere generale) alla certa e sicura circolazione dei diritti reali immobiliari». Sul punto, cfr., anche E. BANCHERI, Trasferimenti immobiliari, irregolarità urbanistica, rimedi civilistici: il dibattito dottrinale e l’evoluzione della giurisprudenza, in Nuova giur. civ. comm., 2015, II, 213, che evidenzia che il distinguo tra abusi primari e secondari è rilevante giacché «Si vuole evitare che il rimedio della nullità venga applicato sic et simpliciter in presenza di qualunque irregolarità o abuso urbanistico. Un’interpretazione troppo rigorosa, senza correttivi dell’impostazione sostanzialistica, infatti, comporterebbe il blocco dell’attività del commercio immobiliare e dell’edilizia» (op. ult. cit., nota 14).

[24] G. PETRELLI, Conformità catastale e pubblicità immobiliare, Milano, 2010, 56, sostiene che la nullità in questione non sia né formale né sostanziale, bensì abbia natura cd. documentale in quanto essa non riguarderebbe il negozio traslativo, bensì unicamente il “documento autentico”, e l’effetto di tale nullità si esaurirebbe sostanzialmente nel privare il medesimo documento dell’attributo dell’autenticità. Invero, la predetta qualificazione non sposta i termini del problema relativi alla difformità del dichiarato rispetto alla situazione di fatto, come sopra evidenziati.

[25] Emblematica è, ad esempio, la recente sentenza delle sezioni unite n. 22437/2018, in tema di claims made.