L’apparato sanzionatorio: un sistema da migliorare
Alessandra Pesaresi, Avvocato presso il Foro di Rimini
Marco Krogh, Notaio in Mugnano di Napoli
Quando si parla di sistema sanzionatorio antiriciclaggio ci si riferisce a due gruppi distinti di norme: i) un primo gruppo, che possiamo definire di “norme sostanziali”, riguarda l’individuazione delle fattispecie punibili e la misura delle sanzioni applicabili; ii) un secondo gruppo di norme riguarda, invece, le procedure per accertare le eventuali violazioni e le procedure per l’applicazione delle sanzioni.
Entrambi i gruppi di norme, a nostro giudizio, presentano criticità che necessiterebbero di revisione e correzioni.
Va, innanzitutto, ricordato, che il sistema antiriciclaggio si fonda su una pluralità di livelli normativi: si parte dalle raccomandazioni del Gafi, si passa alle direttive europee, poi ai decreti legislativi di recepimento delle direttive europee ed infine alle norme secondarie e sub-secondarie, rappresentate da circolari e regole tecniche.
Le criticità nascono spesso dal passaggio da un livello ad un altro, non sempre improntato a criteri di ragionevolezza.
È stata recentemente mossa una critica, da parte del legislatore del dl semplificazioni (d.l. n. 76 del 2020 conv. in l. n. 120 del 2020), al metodo del c.d. goldplating di imporre oneri ulteriori e non necessari nel recepimento delle direttive europee. Si è ravvisata la necessità di un lavoro di revisione in un’ottica di semplificazione, fermo restando l’assoluto rispetto degli standard e delle regole imposte dal diritto europeo (sub art. 27 della Relazione illustrativa).
Criticità si riscontrano anche nel passaggio tra il decreto legislativo di recepimento della direttiva e la circolare ministeriale che regola la procedura di applicazione delle sanzioni (Mef: Prot: DT 54071 – 06 luglio 2017): si ravvisano sovrapposizioni tra il dettato legislativo e le indicazioni vincolanti contenute nella circolare che hanno reso il sistema non solo confuso ma esposto ad ulteriori criticità con l’aggravante, in questo passaggio, che si rischia di violare il principio di legalità che riserva esclusivamente al legislatore la determinazione delle fattispecie sanzionabili e la misura delle relative sanzioni.
Vediamo, in sintesi, quali sono le maggiori criticità che presenta l’attuale sistema, relativamente sia al primo che al secondo gruppo di norme.
Riguardo alle “norme sostanziali” sono principalmente due le critiche che è possibile muovere al sistema:
– innanzitutto, la insufficiente determinatezza delle fattispecie che danno luogo a sanzione;
– in secondo luogo, l’eccessivo range tra il minimo ed il massimo delle sanzioni applicabili che, di fatto, lascia una discrezionalità che può sfociare nell’arbitrio all’organo che deve applicare la sanzione, soprattutto nei casi in cui l’esercizio della discrezionalità non è accompagnato da una congrua motivazione.
Ci troviamo di fronte ad un sistema che presenta un’inaccettabile incertezza non solo su cosa sia sanzionabile, ma anche su quale sia la sanzione applicabile. Sotto questo aspetto, mi sembra, che il sistema antiriciclaggio metta in discussione il principio di legalità che trova il suo “link” nell’art. 25 della costituzione.
Verosimilmente le criticità evidenziate sono legate al modo di essere del sistema antiriciclaggio stesso che attualmente si fonda non più su un approccio rule based, ma su un approccio risk based. Ciò significa che il destinatario degli obblighi antiriciclaggio non deve conformare la sua condotta nell’assolvimento degli obblighi antiriciclaggio a schemi fissi che valgono per tutti i clienti ed operazioni, ma deve assolvere i relativi obblighi basandosi su schemi flessibili, sui rischi effettivi presenti e, quindi, decidere, discrezionalmente l’intensità dell’adeguata verifica e quali dati ed informazioni acquisire e verificare, di volta in volta. Questa è una discrezionalità riconosciuta e voluta dal legislatore e gli Ordini professionali, denominati “organismi di autoregolamentazione”, devono fornire indicazioni su come debba essere esercitata questa discrezionalità attraverso l’emanazione di regole tecniche che diventano esse stesse parte del sistema.
Quindi, un quadro normativo, quello presente nel d.lgs. n. 231 del 2007, che fa da cornice al sistema e va completato con le regole tecniche di pertinenza degli Ordini professionali. In assenza di regole tecniche specifiche le relative disposizioni non è previsto che possano essere completate di volta in volta né da chi è chiamato ad accertare eventuali violazioni, né da chi deve applicare le sanzioni.
Allo stato attuale, al contrario, questa discrezionalità accompagnata spesso da disposizioni incomplete (o da completare) si sta dimostrando un boomerang in sede di accertamento ed in sede di applicazione delle sanzioni. Ci troviamo di fronte ad accertamenti e contestazioni che mettono in discussione ciò che il professionista, nell’ambito della discrezionalità riconosciutagli dal legislatore, ha ritenuto di acquisire e su come ha inteso svolgere l’adeguata verifica all’interno delle norme e delle regole tecniche esistenti.
Quella del quantum sanzionatorio e delle modalità interpretative ed applicative in concreto della normativa in generale e delle contestazioni e sanzioni in particolare, è una tematica di fortissimo impatto nella vita professionale di ciascuno dei soggetti coinvolti, il che, a ben pensare, rischia di frustrare in qualche maniera il principio cardine dell’impianto di prevenzione e contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo per come modificato dalla III direttiva, che trova il proprio fondamento su una collaborazione attiva a tutto tondo da parte dei soggetti destinatari della norma. Tali soggetti – ed i professionisti in particolare ai quali sono applicabili sanzioni analoghe a quelle dei grandi intermediari in assenza di medesime strutture, possibilità e altrettanto specifiche indicazioni operative – potrebbero infatti giungere a rispettare le previsioni normative più per timore che per spirito di collaborazione e vera convinzione nel sistema ormai mondiale di prevenzione e contrasto. E se ciò veramente accadesse ci si potrebbe trovare innanzi ad uno scenario di formale perfetta conformità, accanto ad una sostanziale vacuità o pochezza di contenuti utili al suindicato fine.
Può verificarsi, in concreto: i) che il professionista ritenga di dover acquisire determinati dati ed informazioni; ii) che, invece, l’organo accertatore ritenga che il professionista avrebbe dovuto acquisire ulteriori o diversi dati ed informazioni; iii) che il Ministero nell’applicare la sanzione, a sua volta, riqualifichi i fatti e ritenga diversamente dal professionista e dall’organo accertatore che i dati ed informazioni da acquisire dovevano essere diversi o avere una diversa rilevanza. Infine, c’è l’Autorità giudiziaria che potrebbe essere di avviso diverso dal professionista, dall’organo accertatore e dal Ministero e, quindi, qualificare diversamente la discrezionalità esercitata dal professionista ed applicare o non applicare una sanzione, il tutto in assenza di parametri certi ai quali il professionista dovrebbe conformare la propria condotta.
Tutto ciò non è teoria ma è ciò che può verificarsi e si è verificato in concreto. Un esempio pratico può chiarire il pensiero appena esposto. Un collega ha svolto l’adeguata verifica ritenendo sufficienti i dati e le informazioni acquisiti. In sede di verifica la GdF ha ritenuto insufficienti i dati e le informazioni acquisiti, ma ha ritenuto le omissioni “lievi” e, quindi ha minacciato l’applicazione di una sanzione pari ad euro 2.500; il Ministero nell’applicare la sanzione ha ritenuto, al contrario, gravi le omissioni di ulteriori dati ed informazioni e quindi molto negligente la discrezionalità esercitata dal collega ed ha inflitto una sanzione di euro 120.000. Ora deciderà il Tribunale che potrà riqualificare i fatti contestati. In buona sostanza, in quattro giudizi ci troviamo o ci possiamo trovare di fronte a quattro diverse valutazioni dell’esercizio della discrezionalità demandata al professionista nell’assolvimento dell’adeguata verifica, in totale assenza, come detto, di parametri certi di giudizio ai quali il professionista dovrebbe conformare il proprio comportamento. A ciò si aggiunga che in più occasioni, sulla base di un errato salto logico, il ritenuto esercizio negligente dell’adeguata verifica si trasforma nella contestazione di omessa segnalazione.
In altri casi la mancata dimostrazione da parte del professionista, mediante l’esibizione di moduli, di aver eseguito l’analisi del rischio effettivo si traduce nella contestazione di omessa adeguata verifica, trascurando che nessuna norma impone di compilare modulistica, nessuna norma obbliga alla conservazione di modulistica comprovante l’analisi del rischio e nessuna norma prevede sanzioni per il caso di omessa analisi del rischio. In astratto, il professionista potrebbe aver acquisito tutti i dati necessari per la verifica adeguata del cliente e dell’operazione anche senza aver svolto un’analisi del rischio o assumendo come presupposto logico della propria azione che quella determinata prestazione rientrasse in un criterio ordinario di svolgimento dell’adeguata verifica: nell’art. 56 del d.lgs. n. 231 del 2007 non c’è nessuna traccia di sanzioni applicabili per una presunta omessa “analisi del rischio” e nell’art. 57 non c’è nessuna traccia su presunti obblighi di conservazione di moduli comprovanti lo svolgimento dell’ “analisi del rischio”; le omissioni che danno luogo a sanzione sono tassativamente indicate nell’art. 56 del d.lgs. n. 231 del 2007: i) omessa acquisizione e verifica dei dati identificativi e delle informazioni sul cliente, sul titolare effettivo, sull'esecutore; ii) omessa acquisizione dei dati sullo scopo e sulla natura del rapporto continuativo o della prestazione professionale. Esclusivamente queste omissioni sono passibili di sanzione e si tratta di una precisa ed insindacabile scelta del legislatore.
Le ipotesi a carico dei professionisti, che maggiormente vengono in evidenza sono dunque orientativamente di due tipologie:
– ex art. 58 d.lgs. n. 231 del 2007, omissione di segnalazione di operazione sospetta per non aver correttamente valutato il rischio oggettivo e/o soggettivo (più spesso sia oggettivo che soggettivo) relativo alla posizione e non aver identificato conseguentemente i pertinenti indici di anomalia;
– ex art. 56 d.lgs. n. 231 del 2007, incompleta esecuzione degli obblighi di adeguata verifica, per omessa o non corretta valutazione del rischio.
Nella prima delle due ipotesi, la contestazione con cui ci si deve confrontare con maggior frequenza è quella per la quale viene indicato sostanzialmente che il soggetto obbligato sia incorso in un’omissione di segnalazione di operazione sospetta, per non aver correttamente valutato il rischio (oggettivo e/o soggettivo appunto). In buona sostanza, la linea generalmente tenuta dal Ministero è quella per la quale il soggetto obbligato, ove avesse correttamente valutato il rischio, avrebbe conseguentemente applicato obblighi rafforzati di adeguata verifica della clientela accorgendosi dunque, all’esito delle valutazioni, di un’anomalia ed avrebbe così potuto ben ottemperare agli obblighi di segnalazione.
Il tutto in via presuntiva, secondo un giudizio ex post, maturato sovente anche con l’utilizzo di banche dati di esclusiva pertinenza dei Corpi coinvolti nell’attività di verifica, ed a partire dall’evidenziazione in sede ispettiva di uno o più indici di anomalia nei casi esaminati.
Il Ministero indica inoltre, con frequenza, che le considerazioni del tipo sopra riportate appaiono tra l’altro suffragate dallo ius superveniens di cui all’art. 58, comma 5, del novellato d.lgs. n. 231 del 2007, che prevede e disciplina proprio le ipotesi in cui si rilevi l’esistenza di un nesso di stretta e diretta conseguenzialità tra l’inadempimento o l’insufficiente adempimento degli obblighi di adeguata verifica e l’inadempimento dell’obbligo di segnalazione delle operazioni sospette compiute dal cliente non adeguatamente verificato stabilendo, in tali ipotesi, la punibilità della (sola) violazione dell’obbligo di segnalazione.
L’art. 58, comma 5 citato, indica tuttavia che «Ai soggetti obbligati che, con una o più azioni od omissioni, commettono, anche in tempi diversi, una o più violazioni della stessa o di diverse norme previste dal presente decreto in materia di adeguata verifica della clientela e di conservazione da cui derivi, come conseguenza immediata e diretta, l'inosservanza dell'obbligo di segnalazione di operazione sospetta, si applicano unicamente le sanzioni previste dal presente articolo» (i.e per omissione di segnalazione di operazione sospetta).
Ciò pare dunque significare almeno due cose:
– che nei casi in cui l’inosservanza degli obblighi di segnalazione di operazione sospetta derivi, come conseguenza immediata e diretta dalla commissione di una o più violazioni della stessa o di diverse norme previste dal decreto antiriciclaggio in materia di adeguata verifica della clientela (e di conservazione), dunque sia invocato il principio di assorbimento di cui all’art. 58, comma 5 del d.lgs. n. 231 del 2007, le predette commissioni di una o più violazioni debbano essere verificate e conclamate, i.e. contestate in sede di accertamento e contestazione ad opera della Guardia di Finanza (cfr. art. 9, comma 5, lett. a, d.lgs. n. 231 del 2007) e non fatte emergere solamente in sede di irrogazione della sanzione;
– che, affinché possano dirsi “commesse” una o più violazioni degli obblighi di adeguata verifica della clientela, dovranno essere individuati come violati obblighi la cui violazione, appunto, è espressamente sanzionata e la profilatura del rischio, quale obbligo prodromico all’individuazione della tipologia di adeguata verifica da applicare nel caso concreto, non è sanzionato di per sé nell’ambito dell’art. 56 del d.lgs. n. 231 del 2007 come sopra anticipato.
Anche nella seconda delle due ipotesi indicate, spesso si evidenziano contestazioni che hanno a che fare con la valutazione del rischio che è e resta di certo un argomento centrale, il nucleo dell’antiriciclaggio applicato, in particolare dalla IV direttiva in avanti. Tuttavia, le carenze individuate nel concreto sono di rado documentali e legate all’adeguata verifica; sono piuttosto relative all’assenza di tracciamento scritto del profilo logico valutativo seguito dal soggetto obbligato per giungere all’applicazione di una determinata tipologia di adeguata verifica (i. e. ordinaria, piuttosto che rafforzata o semplificata), che avrebbe potuto condurre all’acquisizione di un differente e più corposo corredo documentale e/o dichiarativo da parte del cliente o esecutore. Spesso, detti rilievi giungono sino ad escludere, in via presuntiva, in assenza della indicata traccia documentale, che sia stata effettuata l’attività di valutazione del profilo di rischio, con ciò giungendo ad un’ulteriore e separata conclusione, se possibile ancor più grave della stessa contestazione, vale a dire che lo Studio sia privo di struttura e presidi adeguati relativi all’antiriciclaggio. Non rare sono infatti le descrizioni in atti dell’attività dei professionisti in materia come superficiale o gravemente superficiale per questi motivi.
Se tuttavia ci si sposta tra gli intermediari – incomparabilmente più strutturati ed attrezzati sia per quanto attiene ai presidi antiriciclaggio, sia in relazione all’attività di valutazione del rischio, in termini di storicità dell’attività e previsioni normative a supporto, budget da investire, numerosità dei dipendenti e professionalità specifica degli stessi e così via – solitamente in sede ispettiva viene verificato che ci siano previsioni specifiche relative alla valutazione del rischio, in policy e regolamenti interni; che tutti i rischi siano stati mappati e siano gestiti; si verifica, magari a campione, che nelle singole posizioni siano state rispettate le disposizioni interne; raramente si entra nel merito della correttezza o meno della valutazione di uno specifico rischio, ciò anche perché la valutazione di un rischio che non sia valorizzabile numericamente, dunque calcolabile sulla base di specifici parametri (com’è per numerose delle ipotesi di cui all’art. 17, comma 3 del d.lgs. n. 231 del 2007) è di per sé judgemental, dunque soggettiva e la valorizzazione è pertanto dipendente da chi effettua l’analisi. Ciò significa che ciò che per un soggetto è valutato correttamente, per un altro può non esserlo e questo non dovrebbe essere il solo parametro di individuazione di un inadempimento normativo e della relativa contestazione ed irrogazione di sanzione.
Per questo motivo riteniamo importante giungere ad una chiarezza applicativa che consenta a ciascun professionista di sapere a quali adempimenti sia effettivamente tenuto e che possa legittimamente confidare di non essere sanzionato operando in conformità delle disposizioni normative e delle regole tecniche via via vigenti.
Il secondo aspetto riguarda la misura delle sanzioni applicabili. A nostro giudizio, la forbice tra il minimo ed il massimo è eccessivamente elevata; il caso appena esposto lo dimostra, si passa dalla contestazione di una sanzione di 2.500 euro all’applicazione in concreto di una sanzione di 120.000 euro sulla base di una mera diversa interpretazione degli stessi fatti acquisiti e non sulla base di un’ulteriore attività istruttoria da parte del Ministero o della GdF.
Assistiamo, tuttora, all’irrogazione di sanzioni a professionisti che appaiono in modo manifesto assolutamente sproporzionate rispetto sia alla capacità finanziaria dei destinatari degli obblighi antiriciclaggio, sia alla gravità delle violazioni contestate che riguardano sempre e solo casi di negligenza e mai comportamenti dolosi che, altrimenti, darebbero luogo non a sanzioni amministrative antiriciclaggio ma a contestazione di reati.
Giova ricordare che l’art. 67 del d.lgs. n. 231 del 2007 detta i criteri che devono essere osservati per l’applicazione delle sanzioni e prevede espressamente che il Ministero dell'economia e delle finanze deve considerare ogni circostanza rilevante e, in particolare, deve tener conto del fatto che il destinatario della sanzione sia una persona fisica o giuridica. La norma in questo caso non lascia discrezionalità affermando che il Ministero deve e non che può e ciò si traduce in un obbligo di motivazione sul punto. I criteri indicati sono i seguenti:
a) la gravità e durata della violazione;
b) il grado di responsabilità della persona fisica o giuridica;
c) la capacità finanziaria della persona fisica o giuridica responsabile;
d) l'entità del vantaggio ottenuto o delle perdite evitate per effetto della violazione, nella misura in cui siano determinabili;
e) l'entità del pregiudizio cagionato a terzi per effetto della violazione, nella misura in cui sia determinabile;
f) il livello di cooperazione con le autorità di cui all'articolo 21, comma 2, lettera a, prestato della persona fisica o giuridica responsabile;
g) l'adozione di adeguate procedure di valutazione e mitigazione del rischio di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo, commisurate alla natura dell'attività svolta e alle dimensioni dei soggetti obbligati;
h) le precedenti violazioni delle disposizioni di cui al presente decreto.
A nostro giudizio, il Ministero dà poco rilievo ai criteri contenuti nell’art. 67 e, soprattutto, non da il necessario risalto al principio fondamentale che nell’applicazione della sanzione si debba tener conto del fatto che il destinatario sia una persona fisica o giuridica obbligando, di conseguenza, il Ministero, nella determinazione della sanzione da applicare, a prendere in considerazione la diversa capacità finanziaria dell’uno e dell’altro, nell’ovvio presupposto che un professionista non può essere paragonato ad un ente creditizio o ad un qualsiasi altro istituto finanziario. Non ci sembra che sia conforme alla legge applicare la sanzione amministrativa senza prendere in considerazione la capacità finanziaria del destinatario della sanzione e senza dar conto, in modo motivato, di come si sia tenuto conto di ciò e di tutti gli altri criteri puntualmente dettati dal legislatore per la determinazione di una equa e proporzionata sanzione.
Nella circolare del Mef che riguarda la procedura di applicazione delle sanzioni, peraltro, manca del tutto ogni riferimento ad un obbligo a carico dell’organo giudicante di acquisire i dati e le informazioni necessari per applicare detti criteri, così come manca qualunque indicazione sul giudizio di valutazione e comparazione delle circostanze attenuanti e/o aggravanti, lievi e/o gravi, che accompagnano la violazione al fine di qualificare la violazione lieve, grave o non qualificata. Va ricordato che il Ministero laddove ritenga che dai documenti acquisiti non ci siano tutti gli elementi per accertare i fatti contestati ovvero per determinare la sanzione in modo equo e proporzionato, secondo i criteri indicati ha l’obbligo di acquisire d’ufficio gli ulteriori dati ed informazioni esercitando i poteri riconosciutigli dal 3 comma dell’art. 5 che espressamente dispone:
«Fermi restando le attribuzioni e i poteri ispettivi e di controllo delle autorità di cui all'articolo 21, comma 2, lettera a, ai sensi del presente decreto, il Ministero dell'economia e delle finanze, effettua proprie ispezioni, presso i soggetti obbligati, al fine di acquisire elementi utili allo svolgimento dei procedimenti rientranti nelle proprie competenze istituzionali in materia di prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo. Nell'ambito dell'ispezione, gli ispettori chiedono o rilevano ogni notizia o risultanza esistente presso i soggetti ispezionati».
Le indicazioni presenti nella circolare sembrano dettate in modo unidirezionale, dettano criteri esclusivamente per la qualificazione della violazione come grave o molto grave, nessuna indicazione per i casi in cui siano contemporaneamente presenti circostanze attenuanti ed aggravanti e, quindi, come debba svolgersi il giudizio di comparazione tra le une e le altre, quando sia possibile ritenere le une prevalenti rispetto alle altre o equivalenti.
Tutto ciò si traduce nella determinazione di sanzioni che di fatto disattendono il preciso disposto dell’art. 67 o che, in carenza di una compiuta motivazione, non consentono al soggetto sanzionato la verifica dell’uso legittimo della discrezionalità concessa dal legislatore al Ministero nella determinazione della sanzione.
Ancora, dal punto di vista applicativo, l’utilizzo dei criteri di “qualificazione” della violazione a fini sanzionatori vengono utilizzati in maniera che, anche in questo caso, non sia di fatto possibile conoscere a priori, quando si possa o meno incorrere in una ipotesi qualificata, dunque grave.
Le ipotesi base sembrano di fatto essere state depennate. Il legislatore indica alcuni criteri specifici ai fini dell’individuazione e della graduazione della gravità della violazione riscontrata.
Tuttavia, spesso il Ministero si avvale delle medesime argomentazioni, per sostanziare sia la pretesa esistenza di omissioni o comunque di violazioni di obblighi, sia la loro gravità, con il rischio dunque di giungere al paradosso per il quale una fattispecie base di fatto non è più configurabile.
La nostra proposta è, quindi, nella direzione di una revisione non solo delle norme di recepimento della direttiva, ma anche della circolare del Ministero che di fatto si pone come documento centrale e vincolante nell’applicazione e nella determinazione della misura delle sanzioni, mettendo in discussione il principio di legalità.
Si propone, in concreto, una modifica della circolare recante istruzioni operative relative al procedimento sanzionatorio, prot. DT 54071 del 6 luglio 2017, introducendo nella parte relativa alla determinazione della sanzione da applicare:
i) l’espressa previsione della motivazione dei criteri presi in esame per la determinazione della sanzione, in ottemperanza al disposto dell’art. 67 del d.lgs. n. 231 del 2007;
ii) l’introduzione di un obbligo di motivazione del giudizio di comparazione delle circostanze attenuanti ed aggravanti che qualificano la violazione;
iii) la previsione che il criterio previsto dal legislatore della capacità finanziaria, per le persone fisiche si traduce nell’obbligo di tener conto del fatturato del professionista e che la misura della sanzione non dovrebbe mai superare il 10 dieci per cento della media del fatturato imponibile dell’anno in cui è stata commessa la violazione e dei due anni precedenti, misura ritenuta “efficace, proporzionata e dissuasiva” dall’art. 59, coma 3, lett. a, della IV direttiva.
Sul piano delle norme procedurali, come già in altre occasioni lamentato, ci troviamo di fronte ad una procedura priva della necessaria terzietà, le violazioni sono accertate dallo stesso ministero che deve applicare la sanzione ed, anche la Commissione consultiva (istituita con d.P.R. 14 maggio 2007, n. 114) che svolge attività istruttoria e di consulenza obbligatoria per l'adozione dei decreti di determinazione ed irrogazione delle sanzioni è nominata dal Ministero dell’economia e delle finanze ed in questa commissione non sono mai stati chiamati a partecipare rappresentanti dei professionisti, nonostante gli Ordini professionali facciano parte del sistema di contrasto al riciclaggio a pieno titolo come parte attiva e non sono come destinatari dei relativi obblighi.
Sarebbe, inoltre, auspicabile una maggiore partecipazione degli Ordini professionali alle attività di accertamento ed ai procedimenti istruttori e sarebbe auspicabile l’introduzione generalizzata dell’oblazione non solo in un’ottica deflazionistica della giustizia, che è argomento ai primi posti nell’agenda del Governo, ma anche per evitare procedimenti a carico di professionisti che si trascinano per anni e che diventano essi stessi una vera e propria sanzione. Ricordo che nel recepimento della IV direttiva fu espresso parere favorevole dalla Commissione legislativa del Senato sull’introduzione dell’oblazione generalizzata che tuttavia fu bocciata dal Ministero.