La normativa antiriciclaggio al cospetto della Costituzione
Il tema assegnatomi è molto ampio e cercherò di circoscriverlo quanto più possibile. Sono però necessarie alcune considerazioni di carattere generale.
La pressione della criminalità organizzata e la diffusa incuria per le prescrizioni normative che purtroppo caratterizzano il nostro Paese spiegano l’attenzione del legislatore nei confronti della prevenzione e della repressione degli illeciti, soprattutto quando si tratta di illeciti che presuppongono un contatto con la pubblica amministrazione. La necessità di un rigore specifico è dunque connessa a un contesto che non è possibile definire emergenziale, perché è ormai strutturale.
Nondimeno, non pochi interventi legislativi preventivi e repressivi sollecitano vari interrogativi. Si possono ricordare, ad esempio: la disciplina dell’iscrizione nel casellario informatico Anac ai sensi dell’art. 80 del d.lgs. n. 50 del 2016 (Codice dei contratti pubblici); la disciplina dell’informativa interdittiva antimafia ex art. 91 del d.lgs. n. 159 del 2011; la previsione di sanzioni interdittive nella disciplina della responsabilità amministrativa degli enti che sia connessa a una fattispecie di reato, di cui al d.lgs. n. 231 del 2011; le varie previsioni – preventive o sanzionatorie – della cd. legge Severino; il reato di traffico di influenze illecite previsto dall’art. 346-bis c.p., fino al cd. “Daspo a vita” per i corrotti ai sensi dell’art. 317-bis c.p. introdotto dalla l. n. 3 del 2019 (cd. “Legge spazzacorrotti”).
Si tratta di interventi normativi assolutamente comprensibili a causa delle segnalate condizioni oggettive, sia del nostro ordinamento sia dei rapporti sociali. Nondimeno, tali interventi, pur se comprensibili nella loro eziologia, sono sovente mal calibrati e talvolta anche male applicati nella prassi amministrativa e giurisprudenziale. Tutto ciò porta talora – se mi è consentita la metafora – a “gettare via il bambino con l’acqua sporca”, nel senso che simili interventi normativi, in primo luogo, non si sono dimostrati capaci di contrastare efficacemente il fenomeno corruttivo; in secondo luogo, hanno travolto indifferentemente, assieme agli operatori economici oggettivamente inaffidabili e moralmente indegni, anche coloro che si sono trovati a fronteggiare addebiti di inadempimenti meramente formali e addirittura incolpevoli; infine, e, soprattutto, talora sono stati costruiti con grave pregiudizio dei princìpi fondamentali dello Stato di diritto, quali la certezza giuridica e la riserva di legge, quest’ultima soprattutto per quanto riguarda il profilo della determinatezza delle fattispecie sanzionatorie.
Si deve insistere sui princìpi della certezza del diritto e della riserva di legge, perché essi sono fondativi dello Stato di diritto. Anzi, è possibile affermare che lo stesso Stato moderno nasce proprio per garantire la certezza del diritto. L’atto di nascita dello Stato moderno è tutto legato allo scopo di assicurare ai cittadini la sicurezza fisica uscendo dalla stagione terribile delle guerre civili e di religione. E cos’è la certezza del diritto se non la proiezione in termini giuridico-normativi della sicurezza fisica? Lo Stato moderno nasce proprio con questa funzione: garantire la sicurezza fisica monopolizzando l’uso legittimo della forza (l’aveva ricordato già nel 1919 Max Weber) e al contempo garantendo la certezza del diritto e, quindi, la sicurezza e la prevedibilità quanto alle conseguenze giuridiche delle proprie azioni.
Per quanto concerne specificamente le attività notarili si registra un fenomeno che è in linea con la poc’anzi accennata tendenza generale del nostro ordinamento. Soprattutto si deve registrare la novellazione del d.lgs. n. 231 del 2007 a opera del d.lgs. n. 90 del 2017, intesa a introdurre dei princìpi di rigore non sempre irreprensibili nel modo in cui sono stati concepiti e costruiti.
Anzi, in verità, la novellazione del d.lgs. n. 231 del 2007 ha aggrovigliato numerosi nodi problematici. Di seguito se ne elencheranno solamente sei, nel tentativo di semplificare il più possibile.
1. La questione del rispetto della delega da parte del d.lgs. n. 90 del 2017.
2. La questione del minimo e del massimo delle sanzioni previste con la novellazione, con particolare riferimento all’art. 58 del testo novellato del d.lgs. n. 231 del 2007.
3. La questione del pagamento in misura ridotta delle sanzioni e dei connessi poteri della pubblica amministrazione.
4. Le conseguenze della mancata segnalazione delle operazioni che sono soltanto sospette.
5. Il tema della determinatezza delle fattispecie sanzionatorie, che dal punto di vista dei ricordati princìpi generali è forse quello di maggiore spessore.
6. Il tema del potere sanzionatorio per come affidato a un’amministrazione attiva qual è il Mef e non a un soggetto terzo quale potrebbe essere un’Autorità indipendente.
Tutti questi nodi problematici meriterebbero ampi svolgimenti, ma in questa sede ci si dovrà necessariamente limitare a brevi osservazioni su alcuni profili di particolare interesse.
Rispetto al primo punto (osservanza della legge di delegazione) va ricordato che, come noto, l’art. 58 del d. lgs. n. 231 del 2007 prevede delle sanzioni amministrative che vanno da un minimo di 30.000 sino a un milione di euro. La legge di delegazione n. 170 del 2016, tuttavia, operava una differenziazione tra i soggetti obbligati agli adempimenti previsti (adempimenti definiti più nel dettaglio dal decreto legislativo, ma già anticipati dalla stessa legge di delegazione), in particolare distinguendo tra gli enti creditizi e finanziari e gli altri soggetti obbligati. Il decreto legislativo, invece, questa distinzione non la fa, sicché c’è da chiedersi se non siano stati violati l’art. 76 della Costituzione, che impegna il Governo a rispettare in sede di decretazione legislativa delegata la legge di delegazione, in una con l’art. 3 della Costituzione, che obbliga il legislatore non solo a trattare in modo eguale fattispecie eguali, ma anche a trattare in modo diverso fattispecie diverse. E in questo caso la diversità - giuridicamente rilevante - dei vari obbligati è del tutto evidente; evidentemente diverse sono le capacità economiche degli obbligati; evidentemente diversa è la disponibilità degli strumenti di controllo, a seconda che si tratti di notai o di enti creditizi e finanziari.
Con riferimento alla seconda questione (quella della forbice edittale), va detto che si tratta di una forbice assai elevata, prossima a un fattore 30. La giurisprudenza costituzionale (per tutte segnalo, per semplicità, la sentenza n. 115 del 2019) dice cose molto importanti sul tema della misura delle sanzioni: la prima è che il legislatore gode di un’ampia discrezionalità nel determinarne la misura; la seconda, però, è che tale discrezionalità può essere censurata quando le sanzioni sono determinate in modo manifestamente arbitrario o irragionevole.
Una precisazione, fondamentale, è doverosa: quando si parla di sanzioni ci si riferisce indifferentemente – per certi profili – alle sanzioni amministrative e a quelle penali. A queste due categorie di sanzioni non si applicano sempre i medesimi princìpi, tuttavia per molti aspetti il loro trattamento giuridico deve essere identico. Infatti, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, sin dal caso Engel (non a caso si parla appunto di “criteri “Engel”), ha affermato che alcune sanzioni amministrative che hanno determinate caratteristiche (tra le quali la particolare gravità; il particolare pregiudizio per il sanzionato; il loro fondamento in un apprezzamento moralmente negativo di colui che ha commesso la violazione sanzionata; l’importanza della sanzione per rapporto all’interesse pubblico perseguito, etc.) sono perfettamente equiparabili alle sanzioni penali, perché sebbene formalmente amministrative hanno una sostanziale natura penale. È per questo che, stando alla giurisprudenza CEDU, ormai seguita anche da quella nazionale, il sindacato di manifesta arbitrarietà e irragionevolezza si estende all’intero esercizio del potere sanzionatorio del legislatore, quale che sia la formale qualificazione della sanzione prevista.
Orbene: nel caso che sto esaminando, abbiamo una singolare combinazione fra la notevole ampiezza della cornice edittale e l’assenza di criteri univoci di qualificazione delle fattispecie sanzionate. Ciò comporta il grave rischio di affidare all’amministrazione un potere eccessivamente ampio e di aprire le porte a quella manifesta arbitrarietà e irragionevolezza che la giurisprudenza costituzionale considera viziante. Spetterà ovviamente alla Corte costituzionale, eventualmente adita da un giudice che sia convinto della loro non manifesta infondatezza, vagliare questi dubbi di costituzionalità, ma non posso, qui, non segnalarli.
In relazione al terzo punto (pagamento in misura ridotta), va ricordato che l’art. 68 del d.lgs. n. 231 del 2007 stabilisce la possibilità per il destinatario della sanzione di chiedere al Mef il pagamento della sanzione in misura ridotta. Il Mef provvede sulla richiesta, ma l’art. 68 del d.lgs. n. 231 del 2007 non stabilisce i criteri cui il Ministero si deve attenere nell’accoglimento o nel rigetto dell’istanza. Sembra, dunque, che ci sia una violazione di quel principio della riserva di legge e, più ampiamente, di quel principio di legalità cui sopra si accennava, ossia del principio in forza del quale qualunque atto amministrativo deve avere il proprio fondamento, formale e sostanziale, nella legge. Un principio, questo, che è consustanziale allo Stato di diritto, ma che comunque, nella nostra Costituzione, si desume dagli artt. 3 e 23 Cost.
Per quanto riguarda il quarto punto (conseguenze della mancata segnalazione delle operazioni sospette di cui all’art. 65, comma 9, del d.lgs. n. 231 del 2007), va messo in evidenza un problema di ragionevolezza nell’equiparazione tra le sanzioni irrogate al soggetto obbligato che abbia avuto conoscenza di alcune infrazioni e abbia omesso di comunicarle al Mef e, invece, le sanzioni irrogate al soggetto che abbia semplicemente avuto a che fare con delle operazioni di cui si poteva soltanto sospettare l’illiceità.
La quinta problematica che si è segnalata – molto delicata – è quella dell’indeterminatezza dell’impianto sanzionatorio. L’art. 58, comma 2, del d.lgs. n. 231 del 2007 stabilisce che “Salvo che il fatto costituisca reato e salvo quanto previsto dall'articolo 62, commi 1 e 5, nelle ipotesi di violazioni gravi, ripetute o sistematiche ovvero plurime, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 30.000 euro a 300.000 euro”. La formula utilizzata, “violazioni gravi, ripetute o sistematiche ovvero plurime” è di sicuro eccessivamente ampia. Certo, è vero che si tratta di una formula che ricorda quella che troviamo nella direttiva del 20 maggio 2015, ma è chiaro che quando si opera la trasposizione di una direttiva nell’ordinamento interno e intervengono prima la legge di delegazione e poi il decreto legislativo delegato, è compito in particolare del legislatore delegato rendere più precise le determinazioni della direttiva. La direttiva è tale proprio perché lascia margini di “riempimento” e di precisazione agli Stati membri, margini che sussistono addirittura a fronte di direttive auto-applicative. Il margine di apprezzamento in capo agli Stati, anzi, serve proprio a realizzare quel principio di certezza di cui prima s’è detto e a soddisfare l’esigenza di essere precisi e di consentire ai cittadini di sapere quali sono le possibili conseguenze giuridiche dei loro comportamenti.
Il d.lgs. n. 90 del 2017, che ha novellato il d.lgs. n. 231 del 2007, non sembra abbia assolto a tale funzione. E l’importante principio di determinatezza, che, alla luce dei ricordati “criteri Engel” elaborati dalla CEDU, vale tanto per le sanzioni penali che per quelle amministrative, non sembra essere stato soddisfatto. Occorre poi considerare che questi dubbi si potrebbero aggravare in ragione di una prassi applicativa non sorvegliata: ovviamente, l’incostituzionalità di una norma non dipende dalla relativa prassi applicativa, ma quando ci si trova di fronte a previsioni normative molto ampie tale prassi applicativa offre importanti indicazioni sulla stessa interpretazione della norma di legge e funge da indicatore di quanto gli eventuali dubbi di legittimità costituzionale possano essere non solo astratti, ma concreti.
Infine, con riferimento al sesto punto, relativo all’affidamento del potere sanzionatorio al Mef e non a un soggetto terzo (come un’Autorità amministrativa indipendente), non mi sembra che problemi di legittimità costituzionale in senso stretto siano ravvisabili, ma non si può tacere che sembrano sussistere serie ragioni di inopportunità. Il nostro ordinamento ha riconosciuto poteri (anche sanzionatori) molto consistenti, talora anche eccessivi, alle Autorità amministrative indipendenti, sicché non è dato intendere bene perché in questo caso il potere sanzionatorio sia stato affidato a un’amministrazione attiva, operativa, qual è il Mef.
Un’osservazione conclusiva. Il legislatore ha scelto, da un lato, di inasprire le sanzioni per far fronte al problema della corruzione e delle diffuse violazioni della legge; dall’altro di sostituire le sanzioni formalmente penali con sanzioni amministrative ovvero di affiancare alle sanzioni penali quelle amministrative, ma questa seconda scelta, come innanzi evidenziato, è relativamente indifferente, se è vero - come è vero - che vi sono sanzioni amministrative che hanno la sostanza della sanzione penale, in forza dei già citati “criteri Engel”.
Tali scelte del legislatore non appaiono sempre oculate e probabilmente occorrerebbe un ripensamento, guidato da una maggiore attenzione per il rispetto dei princìpi fondamentali sopra ricordati. In altri termini: la lotta alla corruzione, che è sacrosanta e doverosa, si può e si deve fare nel rispetto dei princìpi dello Stato di diritto. Da questo punto di vista i notai, lungi dall’essere i soggetti cui prevalentemente indirizzare l’apparato sanzionatorio delle norme del novellato d.lgs. n. 231 del 2007 che si sono commentate, dovrebbero essere lo strumento, il braccio armato dello Stato nella lotta ai fenomeni corruttivi. Per farlo, però, essi dovrebbero avere a disposizione un apparato normativo che non si esponga ai dubbi di costituzionalità segnalati, che sia ben funzionante e che sappia dare proprio ai notai un quadro degli adempimenti cui sono tenuti e delle sanzioni cui vanno incontro nelle ipotesi in cui non li onorino che sia ragionevole, stabile e preciso. Non sempre, sinora, il legislatore è riuscito a farlo.