Giuffré Editore

Riflessioni sullo stato dell’arte. Inquadrare il punto di partenza

Cesare Licini

Notaio in Pesaro


L’infiltrazione della malavita nella società legale obbliga ormai a parlare di un “terziario della criminalità” contiguo al terziario dell’economia, una “contro-società” che si mimetizza con la gente comune usando le stesse vie legali dei mercati globali; le strutture della pubblica amministrazione non bastano più a vigilare la massa delle quotidiane attività economiche, e per questo alcune responsabilità di ordine pubblico sono delegate agli operatori della società civile[[1]], che surrogano le tradizionali forze statuali come allerta precoci di eventuali “ingressi silenti” (early warning system), ma al prezzo di una maggiore intrusione degli apparati di controllo.  

Questo modello di prevenzione spiega il coinvolgimento dei notai capillarmente presenti sul territorio (i gate-keepers) quali “sensori avanzati” nella vigilanza AML, che monitorano le migliaia di operazioni che passano negli uffici.

In questo modello, il notaio, pubblico ufficiale, servitore e leale interprete dell’ordinamento giuridico e della tracciabilità delle transazioni, può e vuole svolgere un ruolo cardinale nell’assicurazione della legalità. I notai sono consapevoli della chiamata chiara a collaborare con lo Stato e sono schierati nella parte pubblica del progetto, perché sono lo Stato, non controparti; per questo desiderano essere considerati “colleghi” in un esercito comune che protegge la legalità, l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica dei circuiti economici e giuridici. E a maggior ragione, perché l’ordine e la sicurezza pubblica, sia economica che criminale [[2]], sono un bisogno collettivo che prevale sulle libertà economiche ove è in ballo la certezza dei diritti e dei contratti, che è un bene pubblico troppo importante per lasciarlo alla libera contesa fra privati portatori di interessi privatistici/egoistici, ancor più pericoloso se il campo di gioco fosse quello digitale on-line senza intermediazioni terze: lo Stato essere disintermediato e non po’ rinunciare alla sua funzione di garanzia, che comporterebbe la sua abdicazione all’essenziale funzione di controllo e garanzia rispetto alle infiltrazioni malavitose.

Ma questo dell’AML è comunque un innaturale coinvolgimento, che pretende almeno la consapevolezza che il tema è un campo di vera tensione che ha come termini, da un lato, le irrinunziabili istanze della lotta contro il moderno crimine, pervasivo, sofisticato e tecnologico; e dall’altro, la pretesa che questo obiettivo non costi troppa interferenza nella sfera professionale, perché quelle istanze sono vere norme in bianco che saranno riempite ex post dalla sensibilità e dalla ponderatezza – ma in sostanza, dalla discrezionalità – dell’autorità di vigilanza che ha il potere di applicarle[[3]]. 

Per questo, alla luce di ciò che è diventato il sistema AML, soprattutto nella dimensione delle sanzioni, così elevate che sembrano rivelare un pregiudizio negativo nei confronti delle entità obbligate, ci dice che forse è tempo di chiedere serenamente qualche revisione della normativa antiriciclaggio, che elimini veri e propri errori nelle scelte, anche sotto il profilo che il versante delle pretese dei controllori nei confronti degli obbligati, non indulga ad aspettative e pretese innaturali o impraticabili. 

Cosa delicatissima, perché riguarda la ricostruzione di personalità economico-patrimoniali realizzate con “strategie di sommersione” attentamente nascoste dietro prestanome, scatole societarie, interposizioni fiduciarie, contrattuali, indirette, sparse per il mondo, o attraverso catene partecipative create per simulare un’apparenza innocua, e frazionate in modo da ridurne i singoli componenti ad elementi semplici e “asintomatici”.

Va bene insomma pretendere un’azione responsabile, naturalmente; ma è altrettanto forte il bisogno del limite alla “quantità di dovuto”; gli operatori hanno diritto a non essere di fatto illimitatamente responsabili; e lo hanno ancor più davanti a sanzioni pecuniarie rovinose, il cui eccesso di misura non dà nulla all’efficienza della norma.

L’apparato normativo AML è modellato con un metodo pragmatico di stampo anglosassone, ma mantiene il tratto originario della direttiva 91/308/CEE, rivolta al solo sistema bancario e finanziario al fine di prevenire il riciclaggio. 

Questo è diventato il “peccato originale”. Perché dopo che in forza delle direttive 2005/60/CE e 2006/70/CE prima, e della direttiva (UE) 2015/849 oggi, oltre al sistema finanziario, molte altre professionalità sono tenute all’osservanza degli obblighi tuttora impiantati nella originaria direttiva 91/308/CEE, quell’impalcatura non ha mai registrato le diversità dei nuovi soggetti obbligati. Soprattutto per quanto riguarda il peso degli obblighi e delle reazioni, che resta tarato sulla scala dimensionale extra-large dei primi e una volta unici obbligati, le banche, unici oggi a poterle sopportare. 

È giusto che lo Stato ci impieghi come check-point sulle porte della legalità, che identifichiamo gli attori e cogliamo “segnali di allerta”. Ma indulgere a modelli di supplenza di funzioni di polizia economico-finanziaria, e a obiettivi fuori dalle nostre attitudini, dalla nostra cultura e dalla nostra portata, privi come siamo, di mezzi, poteri e vocazioni autoritativi, ci renderà solo un’occasione buttata via, e il progetto non se lo può permettere. 

Noi serviamo, solo se siamo usati secondo un modello efficiente. Modello efficiente è chiederci di ricostruire l’assetto proprietario o il sistema di governance di una società interrogando i registri, è chiederci di alimentare «magazzini della trasparenza documentale» a disposizione delle forze dell’ordine. Ma scoprire chi sono i malfattori, che non hanno bisogno di essere intestati delle cose, per possederle, non è compito nostro.

La tipizzazione preventiva della fattispecie sarebbe stata confortante, ma tutti siamo stati d’accordo che così si sarebbe scritto il “manuale del riciclatore”, e invece bisogna modulare i nostri controlli caso per caso e con un processo permanente. 

Con questo metodo però, l’obbligo di controllo è potenzialmente senza fine, perché diventa una “norma aperta” che dà mandato alle autorità di controllo, di riempirla secondo la propria sensibilità, che è naturalmente discrezionale ed espansionista; ma dopotutto i professionisti, i notai, non sono detectives o poliziotti o P.M. o indovini, e tuttavia vengono reclutati per fronteggiare un fenomeno tendenzialmente a-sintomatico e silente. 

Ma così la direttiva, muovendo in quella logica particolare che è la logica del sospetto e non di una certezza, sposta lo stesso tradizionale fulcro dell’azione del notaio, che passa, dall’abitudine ad elementi certi ed oggettivi, a sentinella avanzata per l’avvistamento di un ambito sfumato ed intuitivo, da esso pretendendo un’azione inquirente per la quale non hanno né la vocazione, né l’autorità simbolica, né i mezzi. 

Qui vorrei aprire un discorso a mio avviso molto delicato. Io non sono favorevole al proliferare di un approccio sempre più analitico e raffinato – cioè apparentemente migliore – perché questa è diventata ormai una “disciplina specialistica” di cui dobbiamo dire chiaramente del pericolo di derive verso il coinvolgimento in responsabilità concorsuale nel reato presupposto o di favoreggiamento, perché la quantità di informazioni e materiali riduce lo “strato” protettivo costituito da concreti margini di errore e di ignoranza scusabili. Gli indicatori sono di tipo soggettivistico, o connessi a percezioni di tipo economico-patrimoniale quasi sempre fuori dalla nostra portata reale. Ma più si dettagliano, più si rivolteranno contro di noi. Bisogna insomma evitare con ragionevolezza un corto-circuito fra doveri impossibili da attuare, e deduzioni di responsabilità per omissione di quei doveri. Cosa delicatissima, perché riguarda la ricostruzione delle personalità sociali ed economico-patrimoniali e della loro documentazione giustificativa. E non dimentichiamo l’invisibile responsabilità per “auto-riciclaggio” che si salda naturalmente con il grande filone della lotta all’evasione fiscale, portando l’attenzione sull’ ”autoimpiego fiscale”, insidiosissimo per un notaio in buona fede perché è un altro rischio a-sintomatico e perciò praticamente invisibile, tanto più che le nostre sono singole operazioni-spot isolate.

In questo scivoloso scenario, il rischio è che nel corso di indagini antiriciclaggio, l’elemento psicologico nella condotta dell’autore del reato, che connota il dolo specifico, contamini il professionista. In questa luce, è assai delicato il pericolo che nel corso delle indagini al professionista venga addebitato un elemento soggettivo rilevante, sulla base di una deriva interpretativa che, invece di ricercare rigorosamente l’atteggiamento psicologico al fine di provare il dolo, parta dalla non-necessarietà di una consapevolezza completa delle circostanze oggettive della provenienza delittuosa, per arrivare a riscontrare forme di dolo eventuale, trasformando in accettazione consapevole del rischio sull’origine illecita del bene (e conseguente imputabilità), la mera negligenza in verifiche che nemmeno rientrano nella nostra specializzazione, sulla base di modelli di sintomaticità, disponibili ma non utilizzati. Condizione che si aggrava, con indici di sospetto sempre più dettagliati senza perdere la loro volatilità. 

Quindi resta immanente il rischio che il sistema, dalla parte del versante delle pretese dei controllori nei nostri confronti, indulga a modalità di maggiore coinvolgimento ma praeter legem, con aspettative e pretese innaturali o impraticabili nei nostri confronti. Qual è il limite del percorso dovuto? Chiudiamo pure anche un occhio sul fatto che i professionisti affrontano la sospettabilità di un comportamento in modo ovviamente unitario e complessivo, e con pragmatismo coerente con le premesse delle direttive; ma qui comincia la deriva inaccettabile, perché le Autorità, a partire dal Mef, dimenticano le premesse epistemologiche, e adottano un formalistico metodo pseudo-geometrico che del fascino della geometria ha solo la forma, spacchettano a tavolino il comportamento unitario, in tante sub-condotte sempre più minute, quante se ne possono titolare con quel minimo di diversità che basti a farle assurgere ad altrettante autonome fattispecie di violazione;  poi le dotano di altrettante sanzioni. 

Sembra un processo pianificato di investimento, dove le “risorse di produzione” sono le sanzioni nella logica economica del risultato/obiettivo, che si esplica sui risultati che “a priori” si decide di raggiungere. In questo modello organizzativo si dimentica l’obiettivo originario della normativa, che la lotta al riciclaggio adotti misure efficaci, proporzionate e dissuasive (non: letali), perché il sistema è “ri-assegnato” ad un obiettivo “altro”, artificiale, che è quello del miglior sfruttamento pecuniario possibile dell’occasione, ottimizzando i risultati di cassa a prescindere dal peso del comportamento criticato e dalla dimensione organizzativa, dalla natura di persona fisica o giuridica, dal reddito e dalla capacità finanziaria dell’obbligato, che invece sono tutte prescrizioni contenute nella direttiva e nella stessa legge delega nazionale n. 170 del 2016. Si valutano economicamente le regole, misurandone la capacità di produrre valore, senza considerazione etica dei risultati economici, mentre è completamente dimenticato il mandato della direttiva Ue e della delega, di tenere conto nello stabilire il tipo e il livello di sanzione, di tutte le circostanze pertinenti, esemplificandone alcune (art. 60, comma 4, dir.), raccomandando di graduare le sanzioni tenendo conto se l’obbligato sia persona fisica o giuridica, delle sue dimensioni e della sua complessità organizzativa, nonché della sua capacità finanziarie, e in funzione di ciò, delle differenze tra enti creditizi e finanziari e altri soggetti. Fra l’altro, fra “tutte le circostanze pertinenti” ci sono per logica anche le esimenti e le attenuanti, completamente assenti nella circolare. Il mandato primario, cioè, è ad operare caso per caso, concretamente. La declinazione ministeriale è il contrario: a fronte di condotte riferite a circostanze materiali sfuggenti come un sospetto, si prendono in considerazione solo astratte tipizzazioni formalistico-oggettive: uno per tutti, il criterio-invenzione del “sub-intervallo”, irreperibile nella normativa primaria e fuori da ogni delega. E dov’è che si adempie all’invito alla moderazione dell’art. 60 dir., affinché gli Stati membri non applichino la norma alle decisioni che impongono misure di natura investigativa?

Insomma, la circolare del Mef DT54071 del 6 luglio 2017 tipizzando istruzioni operative sul calcolo del nuovo regime sanzionatorio dell'antiriciclaggio, cade   nelle tecniche con cui le circolari fiscali danno la caccia agli evasori (che noi non siamo), nello stile ad es. dell’art. 21 comma 1 T.U.R. per decostruire un atto che contiene più disposizioni, escludendone la necessaria derivazione l’una dall’altra per loro intrinseca natura, allo scopo di considerare ciascuna di esse come autonoma e di sottoporla ad imposta come se fosse un atto distinto. Però sono tecniche inadatte ad un mondo fattuale – l‘operazione sospetta – opaco, intuitivo, incerto, incompleto, al fine del riscontro della sussistenza di (presunti) parametri legislativi che caratterizzerebbero la violazione “qualificata” ex art. 58, comma 2, d.lgs. n. 231 del 2007, rispetto alla fattispecie “base”, a causa della presenza, alternativa o cumulativa, di ulteriori elementi costitutivi del fatto materiale, consistenti nel carattere “grave”, “ripetuto”, “sistematico”, “plurimo” della condotta che dà luogo alla violazione. Ma che certi criteri abbiano natura autonoma e indipendente rispetto ad altri, è un metodo non consentito dalla norma primaria per moltiplicare le tipizzazioni, mentre il secondo comma dell’art. 58 si riferisce a quei criteri con un “anche tenuto conto” che è una indicazione per sollecitare un prisma soggettivo valutativo più ampio e che in primo luogo imporrebbe una presunzione di buona fede invece del tutto assente, non per moltiplicare, delle violazioni autonome: cioè sollecitazione a proporzionalità, ragionevolezza, non manifesta irragionevolezza, invece del tutto assenti. E quindi le seguenti lettere a), b), c), d) sono anch’esse spunti di valutazione, non nuove fattispecie autonome l’una all’altra.

Insomma, mentre dal sistema “direttiva europea/legge delega nazionale/legge delegata” è chiara la consapevolezza di quanto sia sdrucciolevole il terreno del sospetto e quanto quindi occorrano prudenza e gradualità nelle sanzioni, da tarare sull'entità e sulla tipologia concreta e unica delle violazioni, e sulla complessa singolarità dell’autore della condotta, il Mef traduce e tradisce tutto, in una gelida, meccanica, preventiva e prevenuta griglia excel dove incastrare a forza situazioni enucleate arbitrariamente e senza la sensibilità che invece pretende la normativa primaria. 

Un approccio corretto per determinare le operazioni di calcolo della sanzione al fine di quantificarne l’ammontare complessivo, dovrebbe ispirarsi ai principi della “diminuente processuale” che si rifà ai concetti penalistici della continuazione: dove la violazione più grave attrae a sè le “violazioni satellite”, in quanto connotate dall’essere parte integrante di un’unica condotta complessiva[[4]].

Già tutte queste “distrazioni” delegittimano l’intero impianto sanzionatorio, perché in concreto, scritta così, altro non è che una norma di rango secondario priva di delega di rango legislativo, ovvero poteri amministrativi non previsti da alcuna legge, e gli obiettivi strategici non sono più coerenti al progetto antiriciclaggio, perché la ragionevolezza come proporzionalità e congruità “tra il mezzo ed il fine” è dimenticata[[5]].

Il che evoca un altro principio generale violato, il “principio di precauzione”.

Il principio di precauzione può essere invocato come limite a un processo potenzialmente senza limite, perché non si possono determinare con sufficiente certezza le ricadute negative nei confronti di chi è obbligato, a causa dell’incertezza della valutazione e della gestione del rischio, se l’estensione degli obblighi non tiene conto delle normali condizioni di operatività della professione, dell’organizzazione, delle particolarità e dimensioni dello studio, della stessa cultura del professionista. 

Ma potersi fermare è un diritto, una volta giunti al punto in cui si superino ragionevolezza, proporzionalità e sostenibilità rispetto alle forze del professionista, senza temere di essere accusati di negligenza, visto che non siamo banche con migliaia di dipendenti. 

Senza capisaldi chiari si innesca (l’esperienza lo dimostra) un fraintendimento, per cui finisce che la forza pubblica si aspetta che l’operatore debba puntare direttamente all’identificazione del vertice criminale, che invece è funzione non traslabile degli inquirenti, perché come si è constatato, l’involuzione ha favorito un'implicita regola, di fatto sbagliata, che la qualità della vigilanza si valuterà a posteriori

Virtuosità pertanto astratta, che fatalmente porta l’asticella ad un’altezza irraggiungibile in concreto, ma dalla cui altezza verrà (è stata) misurata e sanzionata la correttezza dell’azione effettiva, senza mitigazione per il fatto che quando tutto è ancora ignoto e oscuro, diligenza e adeguatezza vedono molto meno di quanto, col senno di poi, sembrerà ovvio, lontanissimo dallo sfuggente terreno criminale familiare a riciclatori razionalmente pericolosi che sanno come ingannare. 

Non si può accettare – naturalmente, nei ragionevoli margini di errore e ignoranza scusabili – di trovarsi alla mercè di derive verso pregiudizio di negligenza, se non addirittura di dolo eventuale.

Il sistema perciò non soddisfa il principio, di rango costituzionale ed eurounitario, del carattere ragionevole e proporzionale che deve connotare l’ingerenza nella libertà dell’operatore antiriciclaggio, vessato da punizioni di cui non è data alcuna dimostrata coerenza con gli scopi; mentre il principio esige che le disposizioni normative siano adeguate e congruenti anche quantitativamente rispetto al pubblico interesse perseguito[[6]]. Misure che comportano l’uso della forza, a cui può essere ricondotto il prelievo forzoso di denaro sanzionatorio, dovranno essere proporzionate e non eccedenti un uso ragionevole della forza stessa, poiché[[7]] il principio di ragionevolezza e proporzionalità è esattamente la barriera al potere esecutivo al rispetto delle regole fondanti costituzionali ed europee.

La Costituzione non enuncia espressamente il principio di ragionevolezza, ma la Corte costituzionale lo estrae dall’art. 3 Cost. come sinonimo di uguaglianza sostanziale anche nella produzione normativa secondaria. Banche e notai non sono similari, pe dire. La ragionevolezza diventa allora “congruità e logicità del bilanciamento degli interessi” del potere impiegato dalla amministrazione al fine di raggiungere l’interesse pubblico in una determinata vicenda, cioè canone di giustizia sostanziale. Lo stesso nel Trattato di Lisbona, e nell’art. 41 della Carta di Nizza, dove il principio di ragionevolezza e quello di proporzionalità attengono rispettivamente alla “qualità” e alla “quantità” del potere utilizzato, nell’effettivo bilanciamento degli interessi, attento al minor sacrifico per il privato. Nella descritta opacità del mondo in cui gli operatori sono chiamati a contribuire con due diligence e SOS, che infatti è incentrata su sospetti, si impone ancora di più al legislatore di avere un’attitudine misurata nel fissare sanzioni, specie se formali. Se così non è, l’illimitata espansione rende “tiranna” la pretesa sanzionatoria, nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette.

Nessun dubbio che il legislatore agisca per uno scopo legittimo, non in contrasto con i principi costituzionali. Ma nel caso AML, la compressione – indiscutibile – che sacrifica un diritto fondamentale, nelle attuali declinazioni non produce benefici ad altri interessi, perché non dà incremento del contrapposto interesse alla salvaguardia dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini.

Bisogna tornare alla ragionevolezza, che significa valutazione prudenziale. Lo strumento è il c.d. “test di proporzionalità eurounitaria”, perché il d.lgs. è recepimento di una direttiva e quindi importa nell’ordinamento nazionale anche i “principi generali comunitari” che danno il paradigma di legittimità dell’estensione di qualsiasi normativa (art. 36 T.F.U.E.). Il test è una vera e propria norma giuridica con effetto-ghigliottina, perché tollera solo le misure strettamente necessarie al raggiungimento dell’obiettivo perseguito, e disattiva la parte delle norme nazionali che eccede la misura, rispetto ai canoni di necessità, ragionevolezza, sostenibilità e proporzionalità, intesi come effettiva capacità di servire per il raggiungimento dell’obiettivo.

Per concludere: il notaio è e rimane un professionista con vocazione e specializzazione civilistiche incentrate su certezze documentali di nette architetture giuridiche, lontanissimo dallo sfuggente terreno criminale familiare a gente che sa come ingannarci. Chiediamo solo di non trovarci – naturalmente, nei ragionevoli margini scusabili – alla mercè di derive verso forme che possono finire in un latente pregiudizio di negligenza e inversione dell’onere della prova; soprattutto dove emergesse ex post che gli atti notarili sono stati usati come segmenti di operazioni criminose che in quel momento non si potevano vedere, mentre le sanzioni sono, semplicemente, inique.


NOTE

[1] È l’opzione per “strumenti di controllo attenuati” (soft tools of governance).

[2] Embedded liberalism – liberalismo tutelato dallo Stato. Altra applicazione di questo modello è l’obbligo di comunicazione da parte degli operatori (intermediari, professionisti e contribuenti) all’Agenzia delle entrate, dei c.d. “meccanismi transfrontalieri”, ossia schemi di pianificazione fiscale aggressiva, di cui al decreto legislativo del 30 luglio 2020, n. 100 di recepimento direttiva “DAC 6 ((Directive Administrative Cooperation)”.

[3] Perché è stato obiettato (R. IANNUZZIin ilsussidiario.net, 10 agosto 2013) che «non è assolutamente accettabile – né in punto di diritto né in ambito di diritto naturale – che un corpo dello Stato, dunque lo Stato, si arroghi il diritto di penetrare dentro la sfera della coscienza, fra un professionista e un cittadino suo cliente, toccando, comunque, un ordine umano e naturale». Lo stesso presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali ha stigmatizzato che sono «strappi forti al concetto di cittadino» le richieste sempre più massicce da parte delle strutture pubbliche che combattono la lotta all’illecito, di poter accedere ai dati personali dei cittadini e ad informazioni, indipendentemente da ogni indagine nei confronti degli interessati. 

[4]  Come asseverato da Cass., sez. un., 26 luglio 2018, n. 35852.

[5] Le misure dovrebbero essere dissuasive ma proporzionate alla capacità economica, mentre – non entro nei numeri – ma già due violazioni schizzano ad un primo subintervallo da 30 a 100.000, e una multa di 1.000.000 di euro a un professionista è letale, mentre una multa di 5.000.000 per una banca è «just the price for doing business» come disse per multe miliardarie, il Ceo di JPMorgan.

[6] Commissione c. Alrosa, causa C-441/07 P, sentenza 29 giugno 2010, Raccolta p. I-5949.

[7] CGUE, Causa C-434/09, sentenza 5 maggio 2011.